Italia

Enciclopedia Dantesca (1970)

Italia

Adolfo Cecilia
Filippo Brancucci

L'I. che, sulla scorta di Virgilio e della tradizione classica, D. chiama anche Ausonia (Pd VIII 61; Mn II XI 8), Hesperia (Mn II III 12; Ep VI 12), Latium (VE I X 6, XIV 2, XVI 6; Ep VII 5), terra latina (If XXVII 26-27, XXVIII 71), è ovviamente la regione che egli meglio conobbe. Osservò la geografia dell'I. su carte del suo tempo; visitò molti luoghi, certamente però non tutti quelli che alcuni autori, sovente sulla base di fragili argomentazioni, sostengono che egli abbia visto.

L'I. è per D. fondamentalmente una regione naturale e una regione linguistica; sull'importanza del volgare italiano e sul suo valore unificante egli torna più volte: così in VE I XVI 4 inter quae nunc potest illud discerni vulgare quod superius venabamur, quod in qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla; in Cv I X 5 e 12, XI 1-2, XII 5, XIII 12. In quanto regione naturale, D. ne circoscrive bene i confini geografici, definendo l'I. il bel paese là dove 'l sì suona (If XXXIII 80), ove cioè è diffusa una lingua comune.

La concezione dantesca dell'I, intesa come regione linguistica appare ancora più marcata in VE I VIII 8-9 Qui autem si dicunta praedictis finibus [Januensium] orientalem tenent, videlicet usque ad promuntorium illud Ytaliae, qua sinus Adriatici maris incipit, et Siciliam. Sed loquentes oil quodam modo septentrionales sunt respectu istorum. Nam ab oriente Alamannos habent et a septentrione et occidente an[glico rive] gallico mari vallati sunt, et montibus Aragoniae terminati; a meridie quoque Provincialibus et Apenini devexione clauduntur. I confini del sì sono quindi i ‛ fines ' Januensium e la ‛ devexio ' Apenini, due limiti continentali che segnano l'inizio e una parte della cerchia alpina: la ‛ devexio ' Apenini (v.) può infatti essere intesa come il ‛ declivo ' (o l'‛ arco ') delle Pennine, più estese di quanto non siano in realtà, che segna una parte del confine meridionale della lingua d'oil, anche se in realtà, pur sulla scorta della tradizione orosiana, questo tratto alpino è a sud-est più che a sud della regione francese; ma tenuto anche conto del quodam modo precedente, si può accettare, pur approssimata, tale linea come limite meridionale. Che D. consideri la catena alpina, se non proprio lo spartiacque alpino, come linea di separazione dell'I. dal resto d'Europa (cfr. Orosio, citato dal Casella: " cuius ea pars, qua continenti terrae communis et contigua est, Alpium obicibus obstruitur ") Si ricava anche dal fatto che egli considera le regioni che hanno come centri maggiori Trento, Torino e Alessandria (VE I XV 8) zone periferiche della diffusione del sì, e dall'accenno a l'Alpe che serra Lamagna / sovra Tiralli (If XX 62-63). Il confine terrestre a oriente è nella zona bagnata dalle acque del Carnaro ch'Italia chiude e suoi termini bagna (If IX 114), probabilmente tra la foce dell'Arsa e la parte più meridionale del Canale della Morlacca, mentre quello terrestre a occidente può forse essere posto presso Turbìa (v. TURBIE, La), citata come limite estremo della Riviera Ligure (Pg III 49), in accordo con i ‛ fines ' Januensium. Gli altri limiti del sì, sempre nel passo citato del De vulg. Eloq., sono la Sicilia e il promuntorium illud, che è stato di volta in volta identificato con il Capo Promontore, o con la penisola istriana in genere, o con il Capo d'Otranto, e che, in accordo con il Casella, può essere identificato con il vertice di quel corno d'Ausonia che s'imborga / di Bari e di Gaeta e di Catona (Pd VIII 61-62), al limite tra Tirreno e Adriatico. I mari che bagnano le coste d'I. sono infatti per D. il Tirreno e l'Adriatico (come per Orosio; cfr. Casella, p. 68), ai quali mandano le acque rispettivamente la parte ‛ destra ' e la parte ‛ sinistra ' d'I., separate dall'Appennino (VE I X 6), lo dosso d'Italia di Pg XXX 86, del quale fanno parte monti molto elevati, i sassi di Pd XXI 106. A questo proposito si può osservare che le voci ‛ sinistra ' e ‛ destra ' applicate alla topografia dell'I. indicano, sia pure approssimativamente, il settentrione e il mezzogiorno, secondo l'orientamento di carte medievali orientate per l'osservatore con l'oriente verso l'alto (e Benvenuto, nel commento a Pd VIII 61 ss.: " Et ad intelligendam istam literam oportet prius scire quod Italia, regina regnorum, est longa et stricta in modum navis et, tota insula, praeterquam ex una parte. Nam a meridie per longum habet mare tyrrhenum, a septentrione mare adriaticum, ab oriente pharum messanense, ab occidente autem clauditur altis montibus, qui dividunt eam a Gallia et Germania: et ut cito dicam, est similis tibiae hominis cum tota coxa et pede ").

D. non nomina mai lo Jonio, ma, anche per questo sulla scorta di Orosio, estende l'Adriatico fino alle coste orientali della Sicilia; del resto, posto il promuntorium nello stretto di Messina, non si può giungere che a questa conseguente conclusione.

Fondamentale per conoscere l'I. di D. è la divisione dialetto-logica che egli fa in VE I X 7; per tale divisione, oltre a rinviare alle singole voci, si può osservare: che D. distingue le varie regioni come unità etniche, formatesi in antico e poi, in alcuni casi, parzialmente modificate da vicende politiche; che egli divide l'I. fondamentalmente in due parti, il regno angioino di Napoli, limitato dai corsi del Tronto e del Garigliano, e il resto d'I.; che c'è una certa analogia tra l'aggregazione del Friuli e dell'Istria, estreme regioni orientali, alla ‛ sinistra ' d'I., e quella della Sardegna e della Sicilia alla ‛ destra ' d'I.; che, mentre prende in esame tutto il territorio della regione italiana, ivi comprese le isole maggiori, non considera come regione dialettologica la Corsica (v.), forse implicitamente legandola alla Sardegna. Altre considerazioni circa i dialetti d'I. sono in Cv I V 9, VI 8, XI 21.

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Storia. - D., pur avendo una chiara concezione dell'I. dal punto di vista geografico (vivesse in Italia, Pg XIII 96) e linguistico, non la considera un'entità politica a sé. Nel suo convincimento della necessità di una monarchia universale, le assegna solo un posto preminente nel Sacro Romano Impero (Mn II VI 10) del quale è 'l giardin (Pg VI 105), e Roma la capitale naturale.

Della storia dell'I. antica D. ha vaghe notizie (Cv III XI 3); la sua conoscenza è soprattutto legata alla leggenda: l'umile Italia (If I 106) è infatti la terra in cui sbarcò Enea, obbedendo ai voleri divini (Cv IV V 6, If II 19-21), com'è narrato da Virgilio e confermato da Livio (Mn II III 6), per la realizzazione del piano provvidenziale di Dio (Cv IV V 9). È il luogo dal quale il romanus populus subiciendo sibi orbem de iure ad Imperium venit (Mn II VI 11); è la sede naturale dell'aquila donde Costantino l'ha allontanata contr'al corso del ciel (Pd VI 2). Fra l'I. romana e quella a lui coeva D. non avverte soluzione di continuità. L'aquila che con Tito a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico (vv. 92-93) e con il cui aiuto Carlomagno soccorse la Chiesa contro il dente longobardo (vv. 94-96), consacrandone l'autorità, mediante la ‛ traslatio imperii a Graecis in Francos ' operata dal papa (Mn III X 18), è la stessa aquila di cui al presente si appropriano o a cui si oppongono rispettivamente i ghibellini e i guelfi, cagion di tutti vostri mali (v. 99). L'origine prima dei mali dell'I. è da ricercare per D. nella donazione di Costantino (Mn III X 1; If XIX 115-117 Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!; cfr. Pd XX 55-60), che ha permesso il costituirsi del potere temporale dei papi, i cui malefici effetti si avvertono non solo nella vita politica ma anche in quella spirituale d'I. (Pd XXVII 22-27). Essendo infatti giunta la spada / col pasturale, ne consegue che la Chiesa di Roma, / per confondere in sé due reggimenti, / cade nel fango (Pg XVI 109-110, 127-129). In reazione a questa confusione fra potere spirituale e temporale è sorta un'ansia di redenzione e di purezza evangelica, testimoniata all'epoca di D. dall'affermarsi di numerose correnti religiose, talvolta sconfinanti nell'eresia. L'influenza politica del papa, inoltre, rappresenta il più sensibile ostacolo all'affermazione dell'autorità imperiale nella penisola, vista da D. come l'unico rimedio a tutti questi mali. Infatti al presente la serva Italia è fiera... fatta fella / per non esser corretta da li sproni (VI 76, 94-95), mentre le discordie civili per cui le città d'Italia tutte piene / son di tiranni la dilaniano (vv. 124-425; cfr. Cv IV IX 10, Ep VI 3).

Il sanamento di questa situazione potrebbe venire, secondo D., soltanto dagl'imperatori Rodolfo (che potea / sanar le piaghe c'hanno Italia morta, Pg VII 94-95) o Alberto d'Asburgo (VI 97); ma essi, memori del triste esito delle campagne italiane dei predecessori, preferiscono operare nell'ambito dei loro paesi d'oltralpe. Il loro assenteismo crea così le condizioni favorevoli affinché, mentre lungo le coste si sviluppano le città marinare, nell'I. settentrionale e centrale si rafforzino i comuni, i quali, favoriti dapprima anche dalle concessioni fatte loro dagl'imperatori per averli alleati nella lotta contro il Papato, ben presto si erano rivelati un elemento di corrosione nel Sacro Romano Impero. Già Federico I Barbarossa aveva dovuto, dopo lunghe e sanguinose campagne italiane, rinunciare a un ambizioso piano di restaurazione dell'autorità imperiale in Italia. A D. tuttavia era sfuggito quel sintomo di coscienza autonomistica presente nella lotta comune delle città contro l'imperatore; coerentemente con il suo ideale politico, egli è favorevole allo Svevo (Pg XVIII 119 buon Barbarossa).

La fine della dinastia sveva per opera di Carlo I d'Angiò (Carlo venne in Italia e, per ammenda, / vittima fé di Curradino, Pg XX 67-68) fa sì che il dominatore della politica italiana nello scorcio del sec. XIII sia, con alterne vicende, questo francese, al quale i papi Urbano IV e quindi Clemente IV hanno offerto la corona di re di Sicilia in cambio di protezione. Contemporaneamente in molti comuni dell'I. centro-settentrionale il potere passa nelle mani di uomini usciti da vecchie famiglie nobiliari. Essi hanno già l'energia e la spregiudicatezza degli uomini nuovi del Rinascimento, ma il loro mondo non è compreso da D. che li accusa di aver deviato dai veri ideali di cortesia, lo qual vocabulo se oggi si togliesse da le corti, massimamente d'Italia, non sarebbe altro a dire che turpezza (Cv II X 8).

I della Torre e quindi i Visconti signoreggiano a Milano, gli Estensi a Ferrara, i Bonacolsi a Mantova, gli Scaligeri a Verona, i da Camino a Treviso, i Montefeltro a Urbino. Anche in Romagna, la terra che non è, e non fu mai, / sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni (If XXVII 37-38) domina una serie di minuscole signorie: a Faenza i Manfredi, a Ravenna i da Polenta, a Rimini i Malatesta. Quasi tutte queste famiglie, ricordate da D. nelle sue opere (cfr. alle singole voci), offrirono ospitalità al poeta negli anni dolorosi del suo esilio.

Lo sviluppo delle signorie e le lotte fra le varie città-stato, quali quelle sostenute da Firenze per il proprio predominio in Toscana, generano una situazione di continua tensione, spesso aggravata dall'intervento papale. Invano infatti papa Gregorio X (1271-1276) tenta di riportare la pace in I. fra i partiti avversi e, preoccupato anche dalle ambizioni di Carlo I d'Angiò divenuto, col favore dei papi precedenti, arbitro della politica italiana, appoggia la candidatura all'Impero di Rodolfo d'Asburgo. Dei successori di Gregorio, Innocenzo V nel suo breve pontificato (1276) si occupa principalmente di questioni religiose, e Adriano V (Pg XIX 99 ss.), pontefice per circa un mese, non ha il tempo di lasciare un'impronta politica; Giovanni XXI (1276-1277), notevolissima personalità nel campo culturale (è il Pietro Spano di Pd XII 134-135), tenta di comporre le divergenze fra Rodolfo d'Asburgo e Carlo d'Angiò, senza tuttavia approdare a nulla di concreto. Il suo successore, Niccolò III (1277-1280), figliuol de l'orsa, / cupido ... per avanzar li orsatti (If XIX 70-71), è ancora più apertamente ostile al re Carlo I, al quale nega la conferma del titolo di senatore di Roma (v. 99). Frattanto nell'alta I. si rialzano le sorti dei ghibellini che avevano perso di prestigio dopo la caduta di Manfredi (1266); Asti, Milano sono rette da signorie ghibelline, in Romagna Guido da Montefeltro (Cv IV XXVIII 8, If XXVII 67 ss.) diventa l'animatore della lotta contro i guelfi. Tuttavia, mentre sembra che la situazione del Mediterraneo orientale e del regno d'I. volga a sfavore di Carlo I d'Angiò, l'elezione di un papa francese, Martino IV (1281-1285), decisamente propenso al re, gli permette di rianimare le forze guelfe in Italia. Senonché la mala segnoria dell'angioino provoca la guerra del Vespro e il conseguente intervento aragonese (Pd VIII 73-75, Pg VII 112-123, Cv IV VI 20). La guerra si protrae per un ventennio (1283-1302) e, nonostante il più o meno dichiarato appoggio agli Angioini da parte dei papi Onorio IV (1285-1287), Niccolò IV (1287-1293), Celestino V (1294) e Bonifacio VIII (1295-1303), volge a sfavore dei Francesi (Pg XX 79). La pace di Caltabellotta, quindi, segna la fine di quell'unificazione del mezzogiorno faticosamente realizzata dai normanni Roberto il Guiscardo (If XXVIII 14, Pd XVIII 48), Ruggero II, Guglielmo il Buono (Pd XX 62): dal 1302 infatti gli Aragonesi manterranno il predominio sulla Sicilia, mentre il resto dell'I. meridionale sarà sottoposto ancora per oltre un secolo agli Angioini. D. non ci sembra particolarmente consapevole della portata di questo avvenimento: ne dà notizia, ma non vi si sofferma in modo specifico: è un problema che in fondo non lo tocca, e semmai nella sua ostilità per gli Angioini si compiace che una dinastia, idealmente discendente dalla sveva, occupi ancora il trono di Federico II (Pg III 116). I poli dell'interesse dantesco restano fondamentalmente il Papato e l'Impero, che alla fine del XIII secolo sono ormai in piena crisi. Si ha, in effetti, con Bonifacio VIII un tentativo di restaurazione di quella teocrazia che era stata l'ideale del papato medievale; con la proclamazione del Giubileo egli dà la dimostrazione al mondo, e forse a sé stesso, di quanto sia forte ancora l'ascendente della Chiesa sugli animi. Ma quando trasporta questo ideale sul piano politico, e sotto questa prospettiva possiamo considerare la sua azione nei confronti dei comuni toscani, particolarmente Firenze, nonché le varie lotte che lo opposero ai regnanti europei, la sua azione fallisce. D. non coglie la complessa personalità di questo pontefice che è troppo inserito nella sua vita per poter essere giudicato in modo obbiettivo e distaccato; per D. Bonifacio sarà principalmente un simoniaco (If XIX 52-57), colui che è intervenuto in Firenze in favore dei Neri inviando Carlo di Valois (VE II VI 5, Pg XX 70-78); soltanto la sua qualità di vicario di Cristo suscita il rispetto del poeta (Pg XX 87). La morte di Bonifacio (1303) lascia il Papato in balia di violente lotte interne alla curia e di forti polemiche nei riguardi dell'operato del Caetani, per cui i papi successivi riterranno opportuno allontanarsi da Roma e quindi porsi sotto la protezione e nell'ambito della monarchia francese, onde il severo giudizio di D. sul Guasco Clemente V (1305-1314) pastor sanza legge (If XIX 83, Pd XVII 82, XXX 143-144) e sul ‛ Caorsino ' Giovanni XXII (1316-1334; Pd XXVII 58). Anche l'Impero, su cui si erano nei decenni precedenti incentrate le speranze del ghibellinismo italiano e di D. in particolare (sotto questo prospetto si può considerare indicativa la composizione della Monarchia), ha attraversato un lungo periodo di crisi: in effetti dopo la fine della dinastia sveva c'è stata una lunga vacanza del trono: sia Rodolfo che Alberto d'Asburgo e Adolfo di Nassau non hanno ottenuto la consacrazione papale e d'altro canto la loro sfera di azione si è circoscritta nell'ambito della politica germanica. Quindi, quando il nuovo imperatore Enrico VII decide la sua discesa in I. per prendere la corona a Roma (1310), le speranze di una riscossa ghibellina si riaccendono, e D. stesso nelle epistole V, VI e VII esorta le città e i principi ad accogliere il restauratore della pace, l'Hesperiae domitor. Ma l'impresa di Enrico si svolge tra gravi ostacoli: a drizzare Italia / verrà in prima ch'ella sia disposta (Pd XXX 137-138), la resistenza dei comuni guelfi non viene domata, gli ‛ scelleratissimi Fiorentini ' si chiudono entro le loro mura, l'accesso stesso a Roma è contrastato dalle truppe angioine: l'incoronazione di Enrico ha luogo ugualmente, ma non in S. Pietro, bensì a S. Giovanni in Laterano (1312). Infine la morte dell'imperatore a Buonconvento (1313) pone fine a un'impresa destinata a fallire e con essa alle speranze dei ghibellini. D. stesso non mostrerà più interesse per le vicende dell'Impero che si circoscriverà nel suo ambito germanico, mentre l'I. resterà ancor più abbandonata alle sue lotte particolaristiche. D. quindi è sopravvissuto al tramonto dei due grandi organismi che hanno dato il carattere al Medioevo italiano, ha visto l'affermarsi di nuovi germi vitali che determineranno una nuova epoca, ma li ha osservati deprecandoli, senza comprendere quanto di costruttivo ci fosse in essi.

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