Italia

Dizionario di Storia (2010)

Italia


Stato dell’Europa meridionale, corrispondente a una delle regioni naturali europee meglio individuate, data la nettezza dei confini marittimi e di quello terrestre, ossia la catena alpina, con la quale confina con l’Europa centrale. Il nome latino Italia è di origine osca (Viteliu). Gli antichi lo derivavano da quello di un principe enotrio, Italo, o lo mettevano in relazione con il latino vitulus («vitello»). Secondo studiosi moderni, Italia significherebbe «terra degli itali» e gli itali sarebbero stati una popolazione italica che aveva per totem il vitello. Il nome designò dapprima (Ecateo) l’estremità meridionale della Calabria; più tardi (Erodoto) si estese fino a Metaponto e Taranto; poi, nel 3° sec. a.C., alla Campania; poco dopo, a tutta la penisola a S dei fiumi Arno ed Esino e infine alla catena alpina (Polibio e Catone). La sanzione ufficiale del nome si ebbe con Ottaviano nel 42 a.C.; l’unione amministrativa delle isole con Diocleziano. Il significato geografico della denominazione è da allora sempre rimasto in uso, al di là delle vicende storico-politiche.

Figura 1

I popoli dell’Italia preromana

Dopo la conquista romana della zona cisalpina occupata dai galli, alla metà del 2° sec. a.C., Catone identificava l’I. con l’attuale penisola, interpretando la diffusa consapevolezza di un concetto geografico ereditato dai precedenti contatti con le genti di lingua osca e che si andava arricchendo di contenuti politici con l’ormai avvenuta espansione di Roma. Prima della dominazione romana le principali popolazioni dell’I. erano: i latini (nella parte settentrionale del Lazio antico) e i falisci (fra i monti Cimini e il Tevere); i volsci, gli equi, gli ernici (nella parte orientale e meridionale del Lazio); i sabini (nella zona di Terni e Rieti), gli umbri (nell’Umbria orientale e in parte della Romagna), i marsi e i peligni (intorno al Fucino), i picenti e i pretuzi (tra il Foglia e il Pescara), i vestini e i marrucini (sulle due sponde del Pescara); i campani (nella Campania), i sanniti (nelle zone appenniniche interne della Campania, del Molise e dell’Abruzzo meridionale), i frentani (sulle coste del Molise e dell’Abruzzo meridionale), i lucani (nella Lucania), i bruzi (nell’od. Calabria); gli iapigi (nella moderna Puglia), divisi in dauni al Nord, peucezi al Centro e messapi, sallentini, calabri al Sud; gli etruschi; i greci (Magna Grecia e Sicilia); i liguri (sulla costa tirrenica a settentrione dell’Arno e nell’interno fino alla confluenza del Po con il Ticino); i veneti (fra il Tagliamento, le Alpi, il Po e l’Adriatico); i galli (fra i liguri e i veneti), distinti in insubri, cenomani, lingoni, boi, senoni; i siculi e i sicani (in Sicilia, dove, nella punta occidentale, erano elimi e fenici); i corsi (Corsica e Sardegna settentrionale); i sardi. Gli etruschi, tra l’8° e il 7° sec. a.C., avevano esteso il loro dominio dall’Etruria alla Valle Padana, al Lazio, alla Campania. Ma presto avevano perso l’area padana, invasa dai celti (5° sec.), che dalla Lombardia, attraverso l’Emilia, si spinsero sino alle Marche; poi la Campania (5° sec.) e il Lazio settentrionale (4° sec.). Le stirpi sabelliche, discendendo alla fine del 5° sec. nell’I. meridionale, si sovrapposero a stirpi preesistenti, ausoni ed enotri. Questi due ultimi, con i siculi, appartenevano allo stesso gruppo dei latini.

L’unificazione romana

Le tappe principali dell’assoggettamento di questi popoli (➔ Roma) furono la conquista del primato nel Lazio, durante l’età regia e il primo periodo repubblicano, la lotta con gli equi, i volsci e gli etruschi meridionali, nel 5° sec. a.C., la distruzione di Veio (396), la ripresa dopo la catastrofe gallica che portò a un’estensione dal Cimino a Terracina (390), la prima guerra sannitica (343-341), la guerra latina e lo scioglimento della lega (338), le altre guerre sannitiche, la vittoria sulle coalizioni e la guerra di Pirro al principio del 3° secolo. Così Roma, nella prima metà del 3° sec., ebbe l’egemonia sulla penisola dall’Arno e dall’Esino allo stretto di Messina. Le popolazioni dei territori conquistati furono legate a Roma mediante una variegata serie di trattati, concedenti raramente la parità e assai diversi l’uno dall’altro quanto a godimento di diritti giuridici e politici. In tal modo i romani dominarono una popolazione che era circa il doppio della loro. Nel 2° sec. a.C. i federati italici iniziarono a chiedere la cittadinanza romana, che ottennero nell’89 a.C. dopo un’aspra lotta (guerra sociale). Augusto divise poi l’I. in 11 regioni. Lo sviluppo dell’impero coincise con la progressiva attenuazione della preminenza dell’Italia. Gli stessi imperatori furono sempre più spesso scelti tra i provinciali. L’Editto di Caracalla (212 d.C.), concedendo agli abitanti dell’impero la cittadinanza romana, sanzionò la definitiva parificazione dell’I. alle altre province. Con Diocleziano l’I. fu una delle 12 diocesi dell’impero. Con Costantino perse la capitale dell’impero. Subito dopo, aggregata in una sola prefettura con l’Africa, restò priva anche dell’autonomia amministrativa. Il declino divenne inarrestabile nel 5° secolo. Roma fu a più riprese saccheggiata dai barbari e nel 476 Odoacre, re degli eruli, depose Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente, e inviò le insegne imperiali a Zenone, imperatore romano d’Oriente. In cambio Zenone gli conferì il titolo di patricius, in forza del quale Odoacre governò l’I. fino all’arrivo degli ostrogoti di Teodorico. Teodorico in tre anni di guerra vinse ed eliminò Odoacre, costituendo nel 493 il regno ostrogoto, che durò fino al 553.

Dal regno ostrogoto alla presenza bizantina

La formale dipendenza dall’imperatore d’Oriente non impedì a Teodorico di attuare una politica di fatto autonoma da Bisanzio e volta a realizzare una convivenza il più possibile pacifica con l’elemento romano. Gli ostrogoti, stanziati in I. con una forma di colonizzazione, la hospitalitas, in base alla quale i romani dovevano dare ai barbari un terzo delle loro terre e dei loro prodotti, conservarono integra la loro struttura di governo militare, ma rispettarono l’amministrazione civile romana. Teodorico scelse collaboratori romani di notevole livello sociale e culturale, quali Cassiodoro, Boezio, Fausto, e mantenne un buon rapporto con il clero cristiano. L’I. visse un periodo di ripresa economica e recuperò prestigio politico e militare. Dopo la morte di Teodorico si ebbe una fase di torbidi che favorirono il disegno di Bisanzio di riconquistare l’I. e ricostituire l’unità dell’impero. Nel 535-553 si combatté la devastante guerra gotico-bizantina, che si concluse con la sconfitta dei goti. Nel 554 Giustiniano emanò la Pragmatica sanctio che reintegrò l’I. nell’organizzazione imperiale d’Oriente, riducendola a una semplice provincia nella quale, di fatto, si creò un vuoto di potere che facilitò lo sviluppo del potere politico del papa.

La dominazione longobarda

Nel 569 si spezzò l’unità politica della penisola che si sarebbe poi ricostituita solo con il Risorgimento e l’unità d’Italia. L’I. fu invasa dai longobardi, che s’insediarono in quasi tutto il Settentrione, stabilendovi la capitale a Pavia, in Toscana intorno a Lucca, nell’Umbria intorno a Spoleto e nel Beneventano. Il resto della penisola rimase sotto il controllo dei bizantini, con capitale Ravenna. Alla fine del 7° sec. si concluse la conversione dei longobardi dall’arianesimo al cattolicesimo, iniziata da Gregorio I, ma nel 726-728 il tentativo del re longobardo Liutprando di sfruttare l’indebolimento bizantino per estendere i domini longobardi si scontrò con l’opposizione del papa Gregorio II che ormai esercitava, di fatto, un potere sostitutivo di quello di Bisanzio. Liutprando rinunciò infine alle sue mire e donò al pontefice il castello di Sutri. Il re Astolfo (749-756) riprese l’offensiva longobarda contro i bizantini, che persero l’esarcato nel 750, e contro il papa, ma Stefano II chiamò in suo aiuto Pipino il Breve, già riconosciuto legittimo re dei franchi dal suo predecessore Zaccaria, e gli conferì il titolo di patrizio dei romani. Pipino sconfisse Astolfo e donò il territorio dell’esarcato e del ducato romano al papa, segnando una tappa importante nel processo di costruzione del Patrimonio di s. Pietro, dal quale si sviluppò poi lo Stato della Chiesa. Desiderio (756-774) tentò invano di rompere l’alleanza tra il regno dei franchi e la Chiesa e di evitare un nuovo intervento militare franco in Italia. Infine nel 774 Carlomagno, re dei franchi, scese ancora in Italia e sconfisse Desiderio, re dei longobardi, e conquistò il loro regno.

L’egemonia dei franchi e il regno italico

Nel 774-800 si ebbe la progressiva sostituzione dei franchi ai longobardi nelle strutture politico-amministrative del regno. Il territorio italiano sottoposto alla dominazione franca fu organizzato in contee, progressivamente concesse a personalità franche legate al sovrano da un vincolo di vassallaggio. Il 25 dicembre 800 Carlomagno re dei franchi, già insignito del titolo di patricius romanorum, difensore di Roma e del papato, fu incoronato imperatore da papa Leone III. Carlomagno considerava la corona imperiale quale riconoscimento dell’estensione della propria dignità regia su più Stati, e come il simbolo di un potere del quale la religione costituiva una componente, secondo il modello del rex et sacerdos. Per il papato invece l’impero era una diretta filiazione della Chiesa con compiti politici e militari, e a essa subordinato. Nel 9° sec. il tentativo dei franchi di estendere la propria egemonia nell’I. meridionale longobarda incontrò seri ostacoli. Il principato di Benevento oppose un’efficace resistenza agli attacchi di Carlomagno e del figlio Pipino, riuscendo a conservare una sostanziale indipendenza. La penisola rimase quindi divisa in tre grandi zone di influenza: quella del regno italico inserito nella compagine imperiale carolingia; quella comprendente la Calabria, parte della Puglia, la Sicilia, la Sardegna e Venezia in mano ai bizantini; quella comprendente l’esarcato caduto sotto l’influenza dell’arcivescovo di Ravenna e i vecchi territori bizantini dell’Umbria, del Lazio e della parte nord della Campania sotto controllo del papa. A queste si aggiungeva il principato di Benevento, dal quale si divisero ben presto quello di Salerno e poi la contea di Capua. Tra 823 e 844, il regno italico fu retto da Lotario, nipote di Carlomagno. Lotario ebbe anche la corona imperiale e fu a lungo in lotta con i fratelli per la divisione dell’impero. Diverse famiglie aristocratiche in gara fra loro, soprattutto quelle che esercitavano funzioni pubbliche nelle marche di confine, del Friuli, della Tuscia, di Ivrea e di Spoleto, acquisirono possedimenti molto vasti. Nell’827, anche approfittando delle lotte intestine dei potentati longobardi, i saraceni intrapresero la conquista della Sicilia, cacciandone progressivamente i bizantini. Chiamati spesso come mercenari dai potentati meridionali in lotta fra loro, i saraceni si insediarono stabilmente a Bari, Taranto, Reggio; nell’846 una banda saracena giunse fino a Roma mettendo a sacco le basiliche degli apostoli. Nell’844 il regno passò a Ludovico II, figlio di Lotario, che nell’850 fu incoronato anche imperatore. Ludovico II ricostruì le strutture amministrative del regno italico e affermò la sua autorità in Roma e nel Meridione, dove s’impegnò a cacciare i saraceni e a stabilire un’egemonia sui potentati locali. A partire da lui la dignità imperiale si legò indissolubilmente con la corona italica. Alla sua morte senza successori diretti, il papato, ormai fortemente interessato nelle questioni del regno, l’aristocrazia comitale, rafforzatasi nel processo di fusione tra le strutture agrarie italiche e le consuetudini feudo-vassallatiche importate da oltralpe, e l’episcopato italico, appoggiatosi sulle già vivaci forze cittadine della regione padana, cercarono di assicurare al regno un sovrano. Nell’888 venne deposto Carlo il Grosso, ultimo re carolingio. Berengario I marchese del Friuli, Guido e Lamberto di Spoleto, poi ancora Berengario si avvicendarono sul trono e combatterono fra loro, arrivando anche al titolo imperiale, ma senza mai riuscire a costituire un organismo politicamente e territorialmente compatto e senza garantire veramente l’autorità del potere pubblico. Per di più, mentre la crisi del potere pubblico avanzava, la Chiesa stessa fu sempre più invischiata nei contrasti tra fazioni di potenti famiglie locali che miravano al controllo del trono pontificio, e dunque anche di Roma e delle terre circonvicine.

Figura 2

L’Italia nel Sacro romano impero

Nel 10° sec. la crisi di autorità dei poteri di matrice carolingia si accompagnava a un accentuato ricambio sociale nella feudalità. Si affermarono nuove dinastie come i Canossa, le giurisdizioni subirono un accentuato riassetto territoriale, riprese l’influenza bizantina sull’Italia meridionale, attraendo nella sua orbita il principato di Benevento. La Chiesa, sospinta da vescovi quali Attone di Vercelli e Raterio di Verona, si orientò verso una dimensione maggiormente spirituale. Nel 951-952 Ottone re di Germania scese in I. e si fece proclamare re d’I. a Pavia; nel 962 fu incoronato dal papa come imperatore Ottone I, unendo così la corona d’I. a quella del Sacro romano impero germanico. Consolidata la sua autorità in Germania e nell’I. regia, Ottone si volse anche verso l’I. meridionale, ma senza grandi successi. Nel 982 suo figlio Ottone II fu sconfitto a Stilo dai saraceni. Nel 983 gli succedette il figlio Ottone III, che l’educazione classica ricevuta dalla madre Teofano e dal precettore Gerberto di Aurillac (futuro papa Silvestro II) spingeva a quella renovatio imperii che, nell’intento di restaurare l’autorità della Roma cristiana e imperiale, lo indusse a trasferire direttamente a Roma la capitale del suo impero sostanzialmente germanico, con l’unico risultato di un più sistematico assoggettamento dell’organismo ecclesiastico alla volontà imperiale e di un più scoperto rafforzamento dei vescovi a danno della feudalità laica. Nel 1004 Arduino d’Ivrea, postosi dopo la morte di Ottone III (1002) alla guida della feudalità laica in rivolta contro il potere dei vescovi-conti, fu sconfitto dall’imperatore Enrico II. Fallì così l’ultimo tentativo di ricostituire un regno italico indipendente. A partire dall’anno Mille la storia italiana divenne ancor più complessa. La crescita demografica favorì un rigoglioso sviluppo urbano in tutta la penisola. Significativo fu l’arretramento dei saraceni dal Mediterraneo sotto l’energica offensiva di città marinare come Amalfi, Napoli, Gaeta, Pisa, Genova, Venezia. Nel Settentrione l’impetuoso movimento cittadino s’impose approfittando anche dello scontro tra gerarchie ecclesiastiche e autorità imperiale che si andava profilando. Nel 1037 la Constitutio de feudis, emanata dall’imperatore Corrado II, assicurò ai piccoli feudatari l’ereditarietà dei loro benefici e la protezione imperiale. Fu un colpo inferto alla grande gerarchia ecclesiastica, da cui l’imperatore si andava distaccando. Le popolazioni cittadine ne approfittarono per allargare e consolidare le loro autonomie. In questo contesto nell’area lombarda crebbe progressivamente la forza politica di Milano a scapito di altre città e soprattutto di Pavia.

I normanni in Italia meridionale

In questo panorama, movimentato dalla crescita di città alla ricerca dell’affermazione della propria autonomia amministrativa e in prospettiva politica segnato profondamente dallo scontro tra papato e impero, fu facilitato, a partire dal 1016, anche l’insediamento progressivo nell’I. meridionale di nuclei di popolazione normanna provenienti dalla Francia. Nel 1059, col Concordato di Melfi, il papa concesse tutta l’I. meridionale in vassallaggio ai normanni avendone in cambio l’assistenza militare nella lotta contro l’imperatore, ma istituzionalizzando la presenza in I. di un soggetto politico che non intendeva essere un semplice braccio secolare della Chiesa. Forti della legittimazione papale, i normanni ripresero, infatti, con rinnovato vigore la conquista militare di tutto il Meridione, dandole anche un colorito religioso contro i musulmani della Sicilia e gli ultimi baluardi bizantini. Nel 1098 Urbano II concesse al conte Ruggero diritti che furono poi ampliati da Pasquale II e da Eugenio III e che ne fecero una sorta di legato apostolico nei riguardi della Chiesa siciliana.

Conflitti religiosi e netta separazione tra Chiesa e impero

Nel nuovo millennio cominciarono a prendere corpo i primi movimenti religiosi che si ribellavano contro i vescovi indegni e simoniaci, denunciavano la mondanizzazione della Chiesa, anelavano a un rinnovamento sociale. In I. il movimento riformatore irradiatosi da Cluny raggiunse una particolare intensità. Nella lotta per le investiture, con il motivo religioso (la ribellione dei fedeli) si intrecciava quindi anche la ribellione politico-sociale dei ceti inferiori contro i propri signori. Incoraggiata dai consensi che le giungevano da ogni parte, rafforzata dall’imponente afflusso di nuove e impetuose energie religiose, la Chiesa, da Leone IX a Stefano IX, a Niccolò II, sempre sotto la spinta dell’instancabile azione del monaco Ildebrando (poi papa Gregorio VII), con un crescendo di disposizioni disciplinari, decreti, formulazioni teoriche, dapprima portò un duro attacco alla corruzione interna e alla pesante tutela dell’impero, poi passò risolutamente all’offensiva con l’esplicita proclamazione dell’assoluta separazione dello spirituale dal temporale, della Chiesa dall’impero. Alla fine dell’11° sec. nell’I. settentrionale lo scontro tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV coinvolse non soltanto la feudalità laica ed ecclesiastica, ma anche il popolo delle città e delle campagne. Papa e imperatore facevano a gara nella concessione di privilegi e di diplomi alle città per averle al proprio fianco nella lotta. La spaccatura verificatasi in seno all’episcopato italiano (e anche tedesco) si concretizzò in uno scisma tra Gregorio VII e Urbano II, da un lato, e Clemente III (Guiberto da Correggio, eletto pontefice romano da Enrico IV), dall’altro.

Il sorgere dei comuni e la discesa di Barbarossa

Tra la fine dell’11° e l’inizio del 12° sec. si ebbe la nascita dei comuni: nell’I. settentrionale le città consolidarono la propria autonomia, avviandosi a diventare veri e propri Stati, allargandosi nel contado e assorbendolo nella loro economia, nella rete dei loro interessi mercantili e artigiani, mentre dall’affrancamento dei servi nelle campagne sorgevano i comuni rurali. Genova e Pisa estesero la propria influenza nel Mediterraneo, quasi ad aprire le strade che furono poco dopo battute dalle crociate. Nel 1154 il nuovo re di Germania, Federico I di Svevia, detto il Barbarossa, scese in I. allo scopo di riaffermare la sua autorità sul regno, piegando prima di tutto le città che tendevano a sfuggire al potere imperiale. L’imperatore riportò tuttavia successi solo parziali. Col giuramento di Pontida (1167) si coalizzarono contro di lui tutte le città minacciate nella loro autonomia, raccoltesi nella Lega veronese e nella Lega lombarda. Con esse si allearono il papa e i normanni del regno di Sicilia, l’uno e gli altri ugualmente avversi al disegno imperiale del Barbarossa. Sconfitto a Legnano (1176), Federico I rinunciò alle sue pretese di supremazia sulla Chiesa e con la Pace di Costanza (1183) riconobbe, sostanzialmente, le autonomie cittadine.

L’Italia dei comuni e di Federico II

Nel 1186 vi fu il matrimonio tra Costanza d’Altavilla e il figlio di Barbarossa, Enrico VI, che, incoronato re d’I., alla morte del re normanno Guglielmo II nel 1194 assunse anche la corona del regno normanno. Con questa unione, sia pure personale, delle due corone, si creò una situazione estremamente pericolosa per le città italiane e specialmente per la Chiesa e il suo Stato patrimoniale, praticamente accerchiato dalla potenza sveva. La morte di Enrico VI (1197) fece fallire, per il momento, la minaccia contro le autonomie locali e l’indipendenza del papato. Anzi, anche il regno di Sicilia, durante la minore età di Federico II di Svevia (figlio di Enrico VI), passò sotto il dominio della Chiesa. Tuttavia Federico II, pupillo di papa Innocenzo III (1198-1216) e da questi erroneamente ritenuto uno strumento docile e malleabile nelle mani della Chiesa, facendo del regno di Sicilia la solida base da cui muovere, concentrò tutte le sue energie e i suoi sforzi contro i comuni e contro la Chiesa loro alleata. Nel 13° sec. i comuni, retti da amministrazioni sempre più articolate, tendevano a espandersi non soltanto nel contado, ma anche nella regione circostante. L’evoluzione sociale ed economica produceva una più netta contrapposizione di ceti e un attivo e differenziato processo associativo. Alle associazioni degli aristocratici, o consorterie, si contrapponevano quelle dei mercanti, con propri magistrati e consoli che si affiancavano, quando addirittura non si contrapponevano, ai consoli del comune. Per effetto della grande asprezza della lotta politica al posto dei consoli e dei podestà indigeni cominciò a subentrare il podestà di origine forestiera, che dava una maggiore garanzia di amministrazione equa e imparziale, al di sopra delle fazioni. Nelle sue funzioni, sempre più incisive, si può scorgere talvolta l’anticipazione del signore che successivamente trasformò il comune in signoria. Su questa situazione fluida caddero l’azione di Federico II e il suo proposito di ricondurre le città autonome del Settentrione sotto l’autorità regia e imperiale. Le sue esitazioni nel dar seguito ai numerosi impegni contratti col papa per essere riconosciuto nei suoi diritti ereditari a Palermo e in Germania, fra cui la crociata, inasprivano nel contempo i suoi rapporti con la Santa Sede. Mentre era in Terrasanta a trattare un accordo con il sultano, il regno di Sicilia fu invaso. Tornato in I. Federico riassunse il controllo dell’intero regno meridionale e nel 1231 le Costituzioni di Melfi sancirono una minuziosa riorganizzazione che assicurava il più rigoroso accentramento del potere regio.

Il conflitto tra Chiesa e impero

Nella lotta dell’imperatore contro papato e città, queste ultime non offrivano un fronte compatto: alcune, governate da consorterie filoimperiali, si proclamarono ghibelline; a esse si unirono potenti signori della Valle Padana, come Oberto Pelavicino ed Ezzelino da Romano, a capo, sotto titoli diversi, di un buon numero di città. Il papato al contrario impiegò nella difesa della sua indipendenza politica e religiosa ogni sua arma, temporale e spirituale. Chiesa e impero diedero così una più precisa formulazione dottrinaria alle rispettive teorie sulla natura della sovranità: il primato dell’imperatore si richiamava ai principi del diritto romano, mentre la supremazia del papa era affermata sulla base dell’origine divina della Chiesa, che, perciò, considerava ogni altra autorità terrena come necessaria conseguenza del suo potere spirituale. Al consueto titolo papale di successor Petri, vicarius Petri subentrò dunque quello molto più impegnativo di vicarius Christi. La morte di Federico II (1250) lasciò logora ed esausta l’economia del regno di Sicilia, prostrata l’autorità imperiale. Le due parti dell’I. si andavano differenziando sempre più profondamente. Il Nord procedeva verso la sempre più piena autonomia politica cittadina e aristocratico-borghese, mentre il Mezzogiorno si piegava sotto l’amministrazione regia che, se pacificava politicamente il Paese, manteneva però in piedi la vecchia struttura sociale ed economica, all’interno della quale prosperavano, specie in Sicilia, anche numerosi e importanti centri urbani, ma il cui tratto dominante complessivo era quello di uno Stato feudale, basato economicamente e socialmente su un dominio del baronaggio che in seguito assunse caratteri politici sempre più forti a scapito dello stesso potere regio.

Dai comuni alle signorie

Tra la fine del 13° e gli inizi del 14° sec. si colloca la fase del «comune di popolo». Si diffondeva l’economia dello scambio: accanto a quella del grande mercante comparve la figura del banchiere, con le sue filiali sparse in tutta l’Europa. Le piccole imprese artigiane erano controllate sempre più dagli esponenti della grande finanza, ma nel contempo aspiravano a una più diretta partecipazione al governo dello Stato cittadino. La nuova classe dirigente, sotto la spinta degli accresciuti interessi economici, dava nel frattempo maggiore impulso all’espansione territoriale della città che, anche con la guerra, si avviava a unificare l’intera regione. Gli ordinamenti comunali si rivelavano sempre più inadeguati a conciliare i contrasti interni con l’espansionismo; in alcuni casi, come in quello di Venezia («serrata del Maggior consiglio», 1297), il principio del potere partecipato subì un drastico ridimensionamento, con la limitazione a una ristretta cerchia di gruppi familiari di più antica tradizione del diritto al governo; in altri (varie normative «antimagnatizie» di Bologna, Firenze ecc.), quel ridimensionamento derivò dalla vittoria di una delle parti o di uno dei protagonisti in lotta. Spesso, esponenti dell’aristocrazia feudale, forti del loro prestigio, delle loro capacità militari e dell’abitudine al comando, scaltriti nei problemi cittadini grazie alla loro attività podestarile, si inserirono nelle furibonde lotte cittadine e con metodi molto sbrigativi, alternando astuzia e violenza, riuscirono a impadronirsi del governo. Guelfi o ghibellini, si affermavano sempre facendo leva sulle forze popolari. Era segno dell’aumentata importanza che i ceti minori e medi avevano acquistato: a lungo schiacciati e sacrificati agli interessi dei «grandi», trovavano finalmente il loro capo nella persona del signore che ne interpretava i bisogni, e a lui affidavano la direzione dello Stato, pur di essere lasciati liberi di attendere alle loro attività pratiche. Il signore assicurava protezione e giustizia, una più efficiente e razionale esplicazione dei servizi amministrativi; garantiva ordine e tranquillità all’interno, successi e prestigio all’esterno, favorendo così gli interessi espansionistici dei ceti mercantili e artigiani.

Figura 3

L’Italia meridionale tra angioini e aragonesi

Con la morte di Federico II il partito ghibellino si disgregò. Il partito guelfo trionfava nell’I. centrale e specialmente a Firenze. Nel 1284, nella battaglia della Meloria, Pisa, roccaforte ghibellina, fu sconfitta da Genova. Nel 1266 Carlo d’Angiò, intervenuto su sollecitazione del papa, sconfisse definitivamente gli Svevi a Benevento e trasferì la capitale da Palermo a Napoli, proteggendo il partito guelfo e progettando una politica egemonica nell’intera penisola. Nel 1282 i Vespri siciliani provocarono l’intervento degli Aragonesi, sollecitati dal popolo e dalla nobiltà. E poco dopo gli Aragonesi assunsero il controllo anche della Sardegna. Con la Pace di Caltabellotta (1302) si ruppe l’unità dell’antico Stato normanno: la Sicilia rimase agli Aragonesi e il Napoletano agli Angioini. Nel 14° sec. il regno di Napoli, pur privato della Sicilia, con Roberto d’Angiò (1309-43) alla testa del partito guelfo ebbe grande prestigio, ma poi la crisi economica e l’anarchia dei baroni minarono la forza politica del regno e posero fine alle sue velleità egemoniche. Qualcosa di simile si verificò nel regno di Sicilia, dove l’autorità centrale cadde in balia dell’aristocrazia, che, vero arbitro del governo, condizionò e progressivamente paralizzò tutte le possibilità di movimento della Corona.

I conflitti tra guelfi e ghibellini e il consolidamento delle signorie

Nell’I. centrosettentrionale l’assenza del papato, trasferitosi con Clemente V ad Avignone, favorì nello Stato della Chiesa, nelle Marche e nelle Romagne il sorgere di signorie, come quelle dei Malatesta, dei Da Polenta, degli Ordelaffi, dei Manfredi. Ma soprattutto nella Valle Padana si affermarono le più potenti signorie, dopo le prime apparizioni al tempo di Federico II. A Milano dominavano i Visconti, che avevano prevalso sui Torriani. A Verona si trovano gli Scaligeri, protesi verso l’unificazione di un vasto territorio che comprendeva e oltrepassava il Veneto. A Mantova, dopo i Bonacolsi, si affermarono i Gonzaga, e a Ferrara erano da tempo ben radicati gli Estensi. Si trattava di Stati veri e propri, efficienti nei servizi amministrativi, con un più moderno sistema fiscale, con una numerosa burocrazia controllata e disciplinata dal governo centrale. Consolidato il loro potere, i signori si rendevano del tutto indipendenti dal popolo che li aveva portati al governo e infrangevano gli ultimi vincoli formali facendosi rilasciare dagli imperatori e dai papi i titoli più diversi per consacrare e legittimare il loro pieno potere, e renderlo ereditario. Le signorie iniziarono in tal modo a trasformarsi in principati e alcuni di questi raggiunsero tale potenza da coltivare l’idea di un’egemonia su base non solo regionale ma interregionale. A Verona gli Scaligeri per primi sembrarono riuscire nel tentativo di costruire un organismo statale comprendente tutto il Settentrione con Mastino della Scala, ma la sua fu un’aggregazione troppo improvvisata ed eterogenea per resistere a lungo. I veneziani approfittarono proprio del sopravvenuto crollo scaligero per iniziare la loro penetrazione in terraferma, con l’acquisto di Conegliano e di Treviso. La potenza economico-finanziaria e la compattezza dello Stato milanese alimentò il programma egemonico dei Visconti, che con Matteo, Galeazzo e con l’arcivescovo Giovanni riuscirono a mettere insieme un complesso di città e relativi territori in Lombardia, Piemonte ed Emilia. Quindi, incorporate Genova e Bologna, si protesero verso le Romagne e minacciarono da vicino Firenze. Questa, sotto le apparenze del vecchio comune, era governata da una ristretta oligarchia di ricchi mercanti sulla base organizzativa delle arti maggiori e mirava a espandersi a livello regionale. Di parte guelfa, Firenze fu tuttavia sconfitta nel 1315 a Montecatini dal podestà di Pisa Uguccione della Fagiuola, che aveva scatenato un’offensiva ghibellina contro Lucca e Firenze. Militarmente debole, per la base non popolare del suo governo, Firenze rimase ancora ben lungi dal poter coltivare seriamente idee egemoniche regionali e dovette anzi affidarsi alla protezione di Roberto d’Angiò e, nel 1342, alla tutela di Gualtiero VI di Brienne, duca di Atene. Nel 1378, indebolita finanziariamente dalla guerra degli Otto santi contro il papa, Firenze fu teatro del tumulto dei Ciompi, la rivolta degli operai più miseri non organizzati nelle arti, che, spinti dalle speranze di un rinnovamento sociale, costituirono un governo popolare. Dopo alcuni anni, però, questo esperimento cessò, e il governo della città tornò nelle mani dell’antica classe dirigente. Anche il papato, trasferitosi ad Avignone, visse una fase di grande debolezza. A Roma, nel 1347 il tribuno del popolo Cola di Rienzo attuò una riforma antibaronale, ma ben presto i suoi sogni di restaurazione di un impero nazionale e di una rigenerazione della Chiesa naufragarono. Nel 1357 il cardinale Egidio Albornoz emanò le Costituzioni che furono alla base dell’impianto istituzionale dello Stato pontificio. Nel 1377 il papa ritornò a Roma. L’anno dopo, con la doppia elezione di Urbano VI e di Clemente VII, iniziò lo scisma d’Occidente, che indebolì ulteriormente il papato nell’agone politico italiano.

Formazione degli Stati regionali e loro conflitti

Tra la fine del 14° e la prima metà del 15° sec. nell’I. centrosettentrionale si affermarono grandi organismi statali, che inghiottirono e più o meno assimilarono le città e le piccole signorie vicine. Lo Stato sabaudo, ancora rigido e impacciato data la sua origine feudale, gravitava sempre più verso l’Italia. Lottando, di volta in volta, contro i comuni, gli Angioini, i marchesi del Monferrato, ora appoggiandosi agli imperatori e ai Visconti, ora contrastandoli, i Savoia acquistarono sempre maggiore influenza e potenza nel Piemonte. A suggello dell’aumentato prestigio, Amedeo VIII nel 1416 acquisì il titolo di duca. Tuttavia l’iniziativa più rilevante nella Pianura Padana restò quella dei Visconti, che riuscirono a saldare intorno a Milano un vasto territorio che, oltre alla Lombardia, si estendeva a parte del Piemonte e all’Emilia, e comprese, temporaneamente, anche Genova. Le attività industriali e mercantili e il controllo delle principali vie di comunicazione facevano di Milano uno dei nodi centrali della politica italiana ed europea. Gian Galeazzo nel giro di pochi anni s’impadronì di Verona, di Vicenza, di Padova, e, nonostante una potente lega costituita ai suoi danni da Firenze con molti altri Stati italiani, riuscì ad affermare il suo dominio in tutta l’I. centrosettentrionale. Pagando in moneta sonante, ottenne poi dall’imperatore Venceslao il titolo, ereditario, di duca di Milano, legittimando così la sua signoria, che, come altre, si era mutata in principato assoluto. Alla sua morte però l’edificio da lui costruito si sgretolò. Anche Firenze ottenne risultati decisivi per la sua affermazione come grande potenza regionale. Con la presa di Pisa tutta la vallata dell’Arno divenne suo dominio. Poco dopo acquistò dal governatore francese di Genova il porto di Livorno, essendo divenuto quello di Pisa ormai interrato e inagibile. Venezia raccolse a sua volta le spoglie più ricche dell’eredità di Gian Galeazzo Visconti: Treviso, Verona, Vicenza, Padova. Nel corso del 14° sec. assorbì progressivamente l’intera Istria, a eccezione di Trieste, passata agli Asburgo. Una guerra vinta contro Sigismondo, re di Ungheria e successivamente imperatore, le consentì di estendere il suo dominio nel Friuli, nella Carnia, nel Cadore e nella Dalmazia. Neppure il ritorno in primo piano del ducato di Milano, con Filippo Maria Visconti, arrestò questo processo espansionistico. Alleatasi con Firenze, col papa Martino V e con Amedeo VIII di Savoia, Venezia acquistò Brescia e Bergamo, portando i suoi confini sull’Adda. Le vittorie esterne consolidarono all’interno il potere di quella omogenea aristocrazia di uomini d’affari che da tempo dirigeva la politica veneziana. Il popolo, pur essendo escluso dal governo, era soddisfatto nelle sue necessità essenziali. Per Firenze invece la guerra combattuta contro i Visconti a fianco di Venezia (1423-33) ebbe gravi conseguenze economiche, sociali e politiche. L’oligarchia al potere era indebolita dalle rivalità tra le maggiori famiglie e odiata dal popolo medio e minuto. Nel 1434 Cosimo de’ Medici riuscì infine ad affermare la propria supremazia signorile nella sostanza, anche se non nella forma. La tendenza generale della politica italiana verso la formazione di Stati regionali spinse anche lo Stato pontificio, placandosi ormai lo scisma, a consolidarsi su questa base. Abbandonate le pretese teocratiche, il papato si restrinse al suo particolare Stato romano, ricucito pezzo per pezzo e ora difeso con gli stessi strumenti militari e diplomatici di cui si avvalevano gli altri Stati. Alle dinamiche vicende del quadro statuale dell’I. settentrionale tra 14° e 15° sec. corrispose la crisi del regno di Napoli alle prese con le lotte intestine tra grandi famiglie baronali. Una breve ripresa si ebbe con Ladislao di Durazzo, che riuscì a tenere a bada i baroni e ad affermare anche una sua attiva presenza a Roma, in Toscana e perfino in Dalmazia. Tuttavia con la sua morte, nel 1414, il regno precipitò di nuovo nell’anarchia. Nel 1442, dopo una guerra per la successione al trono che vide coinvolti tutti gli Stati italiani, prevalse Alfonso d’Aragona e la situazione del regno tornò a stabilizzarsi. La Pace di Lodi del 1454 segnò il raggiungimento di un equilibrio politico-militare tra gli Stati italiani che durò mezzo secolo, sancito dalla costituzione della Lega italica (o Santissima lega) alla quale tutti aderirono. La seconda metà del 15° sec. fu contrassegnata da un susseguirsi di congiure e tentativi di sollevazione all’interno di vari Stati, qualche volta in nome di una libertà classicamente vagheggiata. Spesso questi torbidi interni furono sfruttati da forze esterne per riaprire le ostilità (guerra di Ferrara, congiura dei Pazzi a Firenze, congiura dei Baroni a Napoli). Tuttavia il dato storico di fondo rimase quello di una penisola in cui nessuno degli Stati aderenti alla Lega italica riuscì a spezzare l’equilibrio di Lodi e a realizzare una egemonia su scala peninsulare, mentre all’estero si formavano le grandi monarchie nazionali di Francia, Inghilterra, e l’unione di Castiglia e Aragona. Lorenzo il Magnifico fu l’ago della bilancia e l’abilissimo nume tutelare dell’equilibrio interno dello spazio politico italiano, che era percepito come un’entità storica basata sull’interrelazione degli Stati della penisola, ma non sulla loro possibile comunità di intenti e tanto meno su una loro possibile unificazione. Morì due anni prima che la discesa di Carlo VIII mostrasse all’intera Europa come la supremazia culturale, economica e finanziaria dell’I. non fosse sufficiente a garantire la sua indipendenza politica. In effetti, l’I. del Quattrocento, oltre a essere ancora la maggiore potenza finanziaria, commerciale e manifatturiera del continente, fu anche culla di quel grande movimento di cultura che fu l’Umanesimo, che ebbe in Firenze il suo maggiore centro di irradiazione nelle lettere e nelle arti, e che tutta Europa ammirava.

La discesa in Italia di Carlo VIII

Nel 1494 il giovane re di Francia Carlo VIII discese in I. alla testa del suo esercito rivendicando i diritti che la casa d’Angiò continuava a vantare su Napoli contro il sovrano aragonese. A invocare il suo intervento erano stati Ludovico il Moro, reggente dello Stato di Milano per il nipote Gian Galeazzo ma desideroso di cingere la corona ducale in proprio; una fazione di cardinali, con a capo Giuliano Della Rovere, che voleva sbarazzarsi del dispotico e simoniaco Alessandro VI; molti dei potenti baroni napoletani, costretti a prendere la via dell’esilio per la spietata repressione della congiura dei Baroni da parte di Ferdinando I. Anche il più forte Stato italiano del tempo, la Repubblica di Venezia, che temeva la concorrenza commerciale della Puglia aragonese, non era ostile a un intervento francese. Carlo VIII aveva preparato accuratamente la spedizione stipulando nel 1493 i trattati di Barcellona e di Senlis: in cambio di concessioni territoriali al confine catalano, in Artois e in Franca Contea, Carlo VIII aveva ottenuto il favore del re d’Aragona Ferdinando il Cattolico (cugino del re di Napoli) e dell’imperatore Massimiliano I. Avviatosi nel settembre 1494 per il Monginevro, non incontrò alcuna seria resistenza: era alleato dei Savoia e aiutato dalla flotta genovese, mentre quella veneziana rimaneva neutrale. Dopo una fastosa accoglienza a Pavia riservatagli da Ludovico il Moro, il re di Francia prese la strada della Toscana, saccheggiando il territorio e facendo strage tra la popolazione. Spaventato, il signore di Firenze Piero de’ Medici abbandonò l’alleanza napoletana e capitolò, concedendo a Carlo VIII 200.000 fiorini d’oro e, sino alla fine della guerra, le fortezze di Sarzana, Pietrasanta, Pisa e Livorno. L’8 novembre Pisa proclamò la propria indipendenza da Firenze dando il via alla rivolta di una serie di città toscane. Il giorno successivo i fiorentini cacciarono Piero e proclamarono una repubblica tendenzialmente oligarchica. Carlo VIII ebbe ragione in pochi giorni della città e vi fece il suo ingresso il 17 novembre. Mitigate le sue pretese finanziarie, proseguì poi la marcia verso il Sud. A Roma stabilì un’intesa col pontefice Alessandro VI. Il 22 febbraio 1495, mentre Ferdinando II riparava con la famiglia a Ischia, entrò trionfalmente a Napoli ed estese la propria autorità su tutto il regno. Resisi conto dei pericoli di un dominio francese in Italia, il 31 marzo Ludovico il Moro, divenuto duca di Milano, e Venezia stipularono un’alleanza antifrancese, cui si associò anche il papa Alessandro VI. La Lega ottenne anche l’appoggio del re d’Aragona Ferdinando il Cattolico, dell’imperatore Massimiliano e più tardi del re d’Inghilterra Enrico VII. Colto di sorpresa, Carlo VIII lasciò a Napoli un piccolo contingente e si ritirò con il grosso dell’esercito per affrontare le truppe della Lega. L’esito della battaglia di Fornovo (6 luglio), pur non configurandosi come una vera e propria sconfitta, convinse il re di Francia ad abbandonare l’impresa; il giorno dopo le truppe di Ferdinando il Cattolico riportarono a Napoli il re Ferdinando II. Solo in Toscana non si tornò allo status quo. Genova e Lucca avevano comprato da Carlo VIII rispettivamente Sarzana e Pietrasanta e non le restituirono a Firenze. Pisa, aiutata da Venezia e da Lucca, continuò nella sua ribellione fino al 1509. La stessa storia fiorentina non fu più quella di prima. Tra il 1494 e il 1498 fra Girolamo Savonarola governò la Repubblica su basi teocratiche, in un clima di austerità e severità morale. Con la sua condanna al rogo (23 maggio 1498) la Repubblica si avviò a divenire una pura e semplice oligarchia, e rimase, di fatto, vassalla della Francia a motivo delle ingenti somme investite nelle banche che gli stessi fiorentini avevano aperto a Lione.

Le lotte tra Francia e Spagna per il dominio sull’Italia

Nel 1498 la morte di Carlo VIII e l’avvento al trono di Francia di Luigi XII riaprirono il problema italiano. Luigi XII non limitò più le proprie rivendicazioni all’eredità angioina di Napoli ma, quale discendente di Valentina Visconti, pretese anche il ducato di Milano. La duplice impresa fu preparata con grande cura diplomatica: furono stipulati una serie di trattati con il re d’Inghilterra, con i sovrani d’Aragona e di Castiglia, con l’imperatore, con i cantoni svizzeri, con Venezia e con il papa Alessandro VI, che ottenne per il figlio Cesare Borgia il ducato di Valentinois e la mano della sorella del re di Navarra, Carlotta d’Albret. Il 6 ottobre 1499 Luigi XII entrò da trionfatore a Milano, costringendo Ludovico il Moro a rifugiarsi nel Tirolo, presso l’imperatore Massimiliano, suo genero. Cedette quindi Cremona e la Ghiara d’Adda a Venezia, e la contea di Bellinzona agli svizzeri. Alla fine del 1500, per l’impresa contro il regno di Napoli, stipulò con Ferdinando il Cattolico il trattato segreto di Granada, che in cambio dell’alleanza militare prevedeva la spartizione del regno tra Ferdinando il Cattolico, che avrebbe avuto le Puglie e la Calabria, e Luigi XII che, con il titolo di re di Napoli, avrebbe avuto la Campania e gli Abruzzi. All’arrivo delle truppe francesi il re di Napoli, Federico III, venuto a conoscenza dell’accordo del cugino aragonese con Luigi XII, si consegnò prigioniero ai francesi e, in cambio del ducato d’Angiò e di una pensione vitalizia, trasferì tutti i suoi diritti sul trono di Napoli a Luigi XII.  A quel punto l’alleanza tra Francia e Spagna si ruppe per divergenze sulla divisione del regno prevista dall’accordo di Granada. Il conseguente conflitto si concluse con la vittoria delle armi spagnole, guidate da Consalvo de Cordoba. L’armistizio di Lione del marzo 1504 sancì l’esclusiva appartenenza del regno di Napoli alla Spagna, che in I. già possedeva la Sicilia e la Sardegna, e la geografia politica della penisola uscì totalmente stravolta rispetto a dieci anni prima. Spagna e Francia si erano impadronite di due dei maggiori Stati della penisola, per cui questa cessava di essere uno spazio politico autonomo da potenze straniere. Sicuramente tutta la portata di quanto stava avvenendo era colta con chiarezza solo da pochi. Venezia era ancora una potenza internazionale di prima grandezza: le conquiste dell’entroterra si erano accresciute e se l’armata del mare era costantemente impegnata nel compito di sbarrare, o almeno di rallentare, l’avanzata dei turchi del sultano Bayazid II (1481-1512), la recessione economica causata dall’arrivo in Europa delle spezie portate dai portoghesi direttamente dall’India circumnavigando l’Africa era ancora agli inizi. Lo dimostra il fatto stesso che nel 1508 contro di essa il pontefice Giulio II, per fermarne l’avanzata in terraferma, ritenne di dover stringere una lega a Cambrai (10 dicembre 1508), la «santa lega», con l’imperatore, il re di Francia e il re di Spagna, tutti desiderosi di strappare alla Serenissima parti importanti dei suoi domini di terraferma. Meno ricca e potente era la Repubblica di Genova, passata dagli Sforza al dominio francese (1499-1506), ma la sua flotta era pur sempre ricercata dalle potenze straniere e la città era ancora sede di concentrazioni finanziarie che nel corso del sec. 16° si sarebbero rivelate di vitale importanza per le finanze dell’imperatore Carlo V e di Filippo II re di Spagna. Firenze, che nel 1502 creò il gonfalonierato a vita per Pier Soderini e continuava nel suo esperimento repubblicano, rivelava di essere ancora un organismo politico robusto se nel 1509 concludeva vittoriosamente la guerra con Pisa. Il pontefice Alessandro VI alleandosi con Luigi XII ritenne di creare le basi di un forte Stato personale per il figlio Cesare Borgia, che già nell’intervallo tra la conquista francese di Milano e la spedizione contro Napoli si era impadronito di Imola e Forlì, e tra l’ottobre 1500 e l’aprile 1501 acquistò Pesaro, Rimini e Faenza e poi anche Piombino, diverse altre città dell’I. centrale e i ducati di Urbino e di Camerino. Nel 1501 ebbe il titolo di duca di Romagna, concessogli da Alessandro VI, il quale nel frattempo approfittava della guerra di Napoli per impadronirsi nel suo dominio diretto del Lazio di tutte le terre dei Colonna e dei Savelli. Lo Stato di Cesare Borgia crollò rapidamente dopo la sua morte, tuttavia Giuliano Della Rovere, divenuto papa Giulio II (1503-13), ritenne che allo Stato della Chiesa potesse spettare ancora un ruolo di primo piano nell’I. centrale e nella scena politica internazionale, e che avesse la forza per dettar legge a Venezia e allo stesso re di Francia. Nel 1506 riconquistò Perugia e poi sottomise Bologna, ponendo fine alla signoria di Giovanni Bentivoglio. Nel dicembre 1508 strinse la già ricordata Lega di Cambrai con Spagna, Francia, impero e non pochi principi italiani contro Venezia, le cui forze subirono nel 1509 la durissima sconfitta di Agnadello che segnò la fine della sua espansione in terraferma. Nel 1511-13 rimise in discussione le posizioni acquisite dalla Francia con la Lega santa, imperniata all’inizio sull’alleanza tra Spagna e Stato della Chiesa. A Ravenna l’azione militare di Gastone di Foix diede alla Francia la vittoria militare (aprile 1512), ma non quella politica, e quando alle truppe ispano-pontificie si unirono quelle di Massimiliano d’Asburgo e dei cantoni svizzeri, Luigi XII preferì abbandonare il ducato di Milano a Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro, protetto dagli svizzeri, che tuttavia avevano precisi disegni egemonici in proprio. Giulio II ottenne il dominio su Parma e Piacenza, ma il dato di maggior rilievo, oltre alla comparsa del terzo soggetto non italiano, gli svizzeri, era la vittoria e l’aumento di peso della Spagna, che attrasse per la prima volta Firenze nella propria orbita, abbattendo la Repubblica e restaurando la signoria dei Medici. Nel 1515 il nuovo re di Francia, Francesco I di Valois (1515-47), cercò di correre ai ripari. Dopo aver isolato diplomaticamente i cantoni svizzeri, scese di sorpresa nella penisola e nella battaglia di Marignano (13-14 settembre 1515) travolse il loro esercito. Tranne il Canton Ticino, il resto del ducato di Milano tornò in mano francese, fungendo da contraltare alla presenza della Spagna nel Sud della penisola. Con il Trattato di Noyon (1516) il successore di Ferdinando il Cattolico, il futuro imperatore Carlo V, riconobbe esplicitamente il dominio della Francia sul ducato di Milano, mentre con la Pace di Bologna nel 1515 papa Leone X (1513-21) aveva restituito al ducato di Milano, cioè alla Francia, Parma e Piacenza, in cambio del riconoscimento definitivo da parte francese del dominio dei Medici su Firenze e del conferimento del ducato di Urbino a Lorenzo de’ Medici, nipote di Leone X. Ma l’equilibrio tra Francia e Spagna tornò a rompersi nel 1519 quando Carlo d’Asburgo, già in possesso dei domini ereditari dell’avo paterno Massimiliano d’Asburgo, fu eletto anche imperatore. Davanti al soffocante accerchiamento asburgico, Francesco I avviò nel 1521 una nuova offensiva. In I. poteva contare ora sull’alleanza di Venezia, mentre il pontefice Leone X era passato dalla parte di Carlo V. Nell’estate del 1521 un esercito ispano-pontificio prese Milano e restaurò la signoria di Francesco II Sforza e nel febbraio 1525 a Pavia Francesco I fu disastrosamente sconfitto cadendo prigioniero di Carlo V. Nel 1526, una volta tornato libero, Francesco I organizzò contro Carlo V la Lega di Cognac, alla quale parteciparono Venezia, Firenze, il nuovo pontefice Clemente VII (1523-34), anch’egli un Medici, e persino il duca di Milano Francesco II Sforza. Era chiaro che la netta superiorità militare di Carlo V e le sue idee di impero universale preoccupavano ormai non solo il sovrano francese, che si vedeva stretto su tutti i fronti, ma anche ciò che rimaneva del quattrocentesco spazio politico italiano, nel quale si era insediata una grande potenza egemone che poteva schiacciare tutti. Il sacco di Roma però, consumato dai lanzichenecchi al soldo dell’imperatore, dimostrò nel 1527 che la bilancia pendeva ormai irreversibilmente a favore di Carlo V. Clemente VII fu costretto a rinunciare a qualunque mira su Parma, Piacenza e Ferrara. I Medici furono puniti del voltafaccia con la ricostituzione della Repubblica oligarchica (16 maggio 1527); infine la stessa Genova, per volontà di Andrea Doria, lasciò il campo francese e passò in quello imperiale. Nel 1529 il predominio della Spagna sull’I. fu riconosciuto dal pontefice Clemente VII con il Trattato di Barcellona, e da Francesco I con quello di Cambrai e, mentre Carlo III di Savoia si annetteva la contea di Asti, tolta alla Francia, le truppe imperiali e spagnole riconsegnavano ai Medici il dominio di Firenze, ma nel quadro di un rapporto che si configurava, nella sostanza, di forte subordinazione politica. Nel 1530 l’imperatore Carlo V fu incoronato a Bologna e ricevette l’omaggio di tutti i principi italiani e della stessa Repubblica di Venezia, che sgomberò in favore del papa Clemente VII i porti pugliesi e le città romagnole in suo possesso. Nel 1535, alla morte di Francesco II Sforza, Carlo V assunse il controllo diretto del ducato di Milano. L’anno seguente la ripresa delle ostilità da parte della Francia, e in particolare l’alleanza stretta da Francesco I con Solimano il Magnifico, spostarono ancora di più l’asse politico della penisola verso la Spagna. Il nuovo pontefice Paolo III (1534-49) si vide costretto a condannare l’alleanza franco-ottomana e la stessa Venezia comprese che il tradizionale antagonismo con gli Asburgo aveva fatto il suo tempo. Nel 1537 la crisi provocata a Firenze dall’uccisione del duca Alessandro si risolse con il decisivo intervento delle truppe spagnole, che presidiarono poi la città per diversi anni e che imposero al governo del ducato il figlio di Giovanni dalle Bande Nere, Cosimo I, sulla base di un’alleanza che era in realtà una forma mascherata di vassallaggio rispetto alla Spagna. Negli ultimi anni del regno di Carlo V non mancò qualche incrinatura nel predominio spagnolo, vi furono diverse rivolte locali, ma furono eventi che non misero mai minimamente in difficoltà la superpotenza spagnola e furono facilmente repressi. In quegli anni Carlo V incontrava ben altre difficoltà in Germania, con le lacerazioni religiose, politiche e militari prodottevi dalla Riforma protestante.

Tra Riforma cattolica, Riforma protestante e Controriforma

L’I. della fine del 15° sec. e degli inizi del 16° non era stata esente da spinte riformatrici in campo religioso: lo stesso Savonarola non solo resse Firenze in nome di Cristo re e denunciò la simonia e il nepotismo della Chiesa, ma, dopo la sua tragica scomparsa, lasciò dietro di sé un retaggio di aspirazioni, idealità ed esigenze, ben visibili, per es., nella Repubblica di Lucca e che comunque si concretizzarono in quel movimento religioso meno legato alla politica, più aderente al mondo della pietà e della preghiera, che fu denominato «Riforma cattolica». Esso si mosse già prima della Riforma luterana, ma senza investire in modo radicale gli aspetti teologici e dottrinali e puntando a una riforma dei costumi del clero e delle pratiche religiose, nella quale fu impegnata anche una parte dell’apparato ecclesiastico, da un lato col quinto Concilio del Laterano, aperto da Giulio II e proseguito da Leone X, e col Consilium de emendanda ecclesia (1537) della commissione istituita da Paolo III; dall’altro con l’opera meno risonante, più capillare e fattiva, di una serie di nuove congregazioni e nuovi ordini religiosi (tra il 1525 e il 1553 teatini, cappuccini, barnabiti, somaschi, oratoriani). Vi furono anche nuclei collegabili alla Riforma luterana, ma furono veramente pochi: a Napoli con Juan de Valdés e il predicatore Bernardino Ochino, a Ferrara grazie alla duchessa Renata di Francia, a Lucca con Pier Martire Vermigli e Celio Secondo Curione. Nella Repubblica di Venezia si ebbe una diffusione delle nuove idee tanto di tipo aristocratico-colto (Pier Paolo Vergerio), quanto di tipo popolare (gruppi di anabattisti, costituitisi soprattutto tra gli artigiani). Infine, l’antica Chiesa valdese aderì alla Riforma nel 1532. Tuttavia in I. non vi fu mai un vero pericolo di spaccatura nella Chiesa cattolica. Al contrario, quando in Germania lo scontro con la Riforma protestante si radicalizzò e la parola passò alle armi, l’I. divenne la roccaforte della Controriforma e della reazione a Lutero e a Calvino, chiudendo con ciò anche gli spazi della Riforma cattolica e dei gruppi illuminati che la sostenevano. La parola rimase esclusivamente al tribunale dell’Inquisizione e poi alla Controriforma decisa dal Concilio di Trento (1545-63) e da Paolo IV Carafa (1555-59).

Figura 4

La Pace di Cateau-Cambrésis e l’assetto della penisola di fine Cinquecento

Nel 1559 la Pace di Cateau-Cambrésis pose fine al lungo conflitto tra gli Asburgo e la Francia. L’ordinamento territoriale italiano da essa sancito era caratterizzato soprattutto dalla preponderanza spagnola, che si esplicava in un contesto statuale abbastanza frazionato. In esso si distinguevano i possessi diretti della Spagna e il marchesato di Saluzzo appartenente alla Francia (fu ceduto ai Savoia nel 1588), gli Stati vassalli della Spagna, gli Stati autonomi. La Spagna esercitava la diretta sovranità sul ducato di Milano, sui regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, sullo Stato dei presidi (Talamone, Orbetello, Porto Ercole, Porto Santo Stefano e Monte Argentario). Formalmente autonomi ma, di fatto, vassalli della Spagna erano il ducato di Parma e Piacenza, lasciato ai Farnese con l’annesso piccolo ducato di Castro e Ronciglione; il ducato di Mantova in mano ai Gonzaga, che dal 1536 erano anche marchesi del Monferrato; la Repubblica di Lucca; il ducato di Urbino sotto i Della Rovere; quello di Massa e Carrara sotto i Cybo e il minuscolo principato di Piombino in mano agli Appiani. In posizione poco stabile era anche il possesso della casa d’Este, che dominava su Ferrara, feudo pontificio, e su Modena e Reggio, feudi imperiali. Sebbene con un margine di autonomia, soprattutto per i complessi rapporti finanziari che intercorrevano con la Spagna, bisogna considerare tra gli Stati vassalli anche la Repubblica di Genova, che dal 1569 aveva il dominio diretto sulla Corsica, già possesso del banco di San Giorgio. Gli Stati veramente sovrani erano quattro: il ducato di Savoia, la Repubblica di Venezia, il granducato (dal 1569) di Toscana e lo Stato pontificio, che tuttavia non potevano ignorare la predominante influenza della Spagna sulla penisola e la vulnerabilità dei loro confini sia dalla terra sia dal mare. A eccezione di Venezia, gravitavano tutti sul Tirreno che, tramite Genova, la Corsica e la Sardegna, era un mare sotto controllo della flotta spagnola. I possedimenti diretti erano istituzionalmente indipendenti l’uno dall’altro, uniti formalmente solo nella persona del sovrano, ma chiaramente inseriti in un insieme sovranazionale le cui logiche unitarie trascendevano le loro specifiche realtà. A Napoli, a Palermo, a Cagliari governava un viceré, a Milano un governatore. Il viceré siciliano e il governatore milanese trovavano un minimo di controllo nel preesistente apparato istituzionale. Nel regno di Napoli e in quello di Sardegna esisteva un Parlamento, come in Sicilia, ma aveva forza molto minore di quello di quest’ultima. Nel 1563 venne istituito a Madrid un Supremo consiglio d’I. ma, in un breve volgere di tempo, nel governo e nell’amministrazione si ebbe una netta prevalenza dell’elemento spagnolo su quello locale italiano. Il granducato di Toscana, tra gli Stati italiani il più debole ma economicamente forse il più prospero, trovò un’abile guida nel duca e poi granduca Cosimo I (1537-74) dei Medici. Lasciò intatte le antiche magistrature, ma le esautorò progressivamente istituendo organi paralleli, tra cui primeggiò la «Pratica segreta», un consiglio di persone di sua stretta fiducia e autentico organo del suo potere personale. Centralizzò il più possibile l’amministrazione livellando città e contado. Assecondò la trasformazione dell’economia toscana da manifatturiera in agricola. Ingenti capitali furono allora investiti nell’agricoltura, provenienti in gran parte dal rientro in patria delle fortune che un tempo banchieri come i Corsini avevano investito nei mercati e nelle borse di Londra e di Norimberga, e che ora consentirono loro di divenire grandi proprietari terrieri in Toscana. Si devono a Cosimo I anche l’ingrandimento del porto di Livorno e la successiva possibilità di sviluppo del commercio marittimo. Notevoli cure egli prestò alla difesa delle coste tirreniche dalle incursioni dei pirati barbareschi, e a tale scopo istituì l’ordine dei cavalieri di Santo Stefano, con sede a Pisa. Inizialmente fedele vassallo di Carlo V e di Filippo II, seppe accrescere il margine della propria autonomia e il territorio dello Stato (annessione della Repubblica di Siena), sino a ottenere il titolo granducale (1569). Una battuta d’arresto si ebbe con il successore Francesco I (1574-87). Il processo iniziato da Cosimo I fu ripreso dall’altro suo figlio, Ferdinando I (1587-1609), che alla morte del fratello lasciò la porpora cardinalizia per il governo del granducato. Completò i lavori di bonifica nella Maremma e di creazione del porto di Livorno, il cui abitato fu elevato a città nel 1577. Con Ferdinando I ebbe fine la politica di vassallaggio verso la Spagna e iniziò un orientamento filofrancese. Il ducato di Savoia, Stato cuscinetto tra la Francia e la Lombardia spagnola durante la lunga guerra del 1521-59, fu terreno di battaglia tra spagnoli e Francesi, che si insediarono da padroni in Piemonte, mentre gli svizzeri conquistarono lo Chablais e il Ginevrino. Il debole duca Carlo III (1504-53) non conservò che poche terre, e ben presto il figlio Emanuele Filiberto dovette recarsi al campo spagnolo-imperiale e conquistarsi con le doti di comandante le premesse per potere un giorno riottenere lo Stato dei suoi avi. Con la Pace di Cateau-Cambrésis, Emanuele Filiberto ottenne il ducato di Savoia, il principato del Piemonte e la contea di Nizza, ma dovette concedere le fortezze di Torino, Chivasso, Pinerolo, Chieri e Villanova d’Asti al re di Francia e quelle di Asti e di Santhià al re di Spagna, nonché impegnarsi a essere neutrale. Il nuovo duca si dedicò con energia a riorganizzare il proprio Stato, introducendo molte riforme amministrative e giudiziarie a suo tempo adottate dai sovrani francesi nella costruzione del loro assolutismo monarchico. Smantellò numerosi castelli feudali, abolì la servitù della gleba mediante riscatto, abbandonò le milizie mercenarie per costruire un esercito formato quasi integralmente da suoi sudditi. Con la riforma monetaria del 1562 diede nuovo impulso all’economia piemontese. Forte di questa razionalizzazione interna, svolse una prudente ma decisa politica estera, che gli valse la restituzione di alcune fortezze da parte della Francia, di alcune terre da parte dei cantoni svizzeri e, infine, l’acquisto della contea di Tenda, che gli rese libera la strada da Cuneo a Nizza, e di quella di Oneglia, che forniva il ducato di un secondo sbocco sul mare. Nel 1563 trasferì la capitale da Chambéry a Torino. Un ulteriore ingrandimento del ducato fu realizzato nel 1588 dal nuovo duca Carlo Emanuele I (1580-1630) con l’annessione del marchesato di Saluzzo, resa possibile dall’indebolimento del regno di Francia a causa delle guerre di religione. Lo Stato pontificio mantenne la sua indipendenza grazie al suo carattere di patrimonio del papato e alla politica della Controriforma, della quale la Spagna fu la più rigorosa interprete. Anche se a volte i pontefici furono in urto aperto con il re di Spagna, il loro possesso territoriale, che una bolla di Pio V dichiarò inalienabile nel 1567, non corse mai serio pericolo. I problemi maggiori si ebbero invece all’interno e furono causati dalla riluttanza dei nobili a sottoporsi al fiscalismo e all’assolutismo pontificio e dallo stato di indigenza di una parte della popolazione, che si accentuò fortemente nella seconda metà del Cinquecento. Durante il pontificato di Gregorio XIII (1572-85) il malcontento esplose nel 1577 in una formidabile ondata di banditismo che durò sino al 1595. Contro di esso il pontefice Sisto V (1585-90) attuò una repressione durissima e nel contempo cercò di sollevare le condizioni di vita della popolazione avviando la bonifica delle paludi pontine e promuovendo migliorie economiche nella parte settentrionale dello Stato. A queste precarie condizioni economiche della popolazione e all’arretratezza delle strutture produttive si contrapponeva il grande sforzo di rinnovamento edilizio della Roma rinascimentale e barocca (Sisto V, Paolo V e soprattutto Urbano VIII Barberini, protettore di Bernini e di Borromini), che divenne in quegli anni la capitale del Rinascimento così come Firenze lo era stata dell’Umanesimo quattrocentesco; e si contrapponevano anche i costi di una corte e di una politica di piccolo nepotismo, dei favori, delle pensioni, delle prebende e dei patrimoni fondiari privati, come quello della famiglia Borghese creato da Paolo V, nonché la costante opera per sottrarre al mosaico feudale molte terre, rivendicandole al dominio diretto della Chiesa: nel 1598 Clemente VIII incamerò la città di Ferrara, Urbano VIII nel 1631 il ducato di Urbino, Innocenzo X nel 1649 il ducato di Castro. Lo Stato più di tutti effettivamente libero dall’ingerenza spagnola era però la Repubblica di Venezia che, sebbene bloccata per sempre nella sua espansione verso la terraferma italiana, era ancora temibile sul mare, come dimostrò nel 1571 il suo fondamentale apporto alla vittoria della Lega cattolica sui turchi a Lepanto. La crisi economica, determinata anzitutto dall’espansione portoghese in Asia orientale che aveva spezzato il quasi monopolio veneziano del commercio delle spezie e fatto crollare i prezzi sulle piazze di Lisbona e Anversa, cominciava ora a colpire anche l’industria della lana e quella delle costruzioni navali. Erano sempre più numerosi gli aristocratici che si ritiravano dalla vita attiva del negozio di mare e investivano nella proprietà terriera, ma l’arretramento era lento, la resistenza ancora forte.

Il ritorno della Francia e la ripresa dello scontro con la Spagna

Con il 17° sec. la Francia, chiusa la tragica fase delle guerre di religione, rientrò in forze sulla scena della politica attiva europea e avviò un processo di indebolimento dell’egemonia della Spagna in I., che si collocò nel più generale quadro europeo creatosi con la guerra dei Trent’anni. Già prima dello scoppio di quest’ultima nel 1618 si ebbero gli accordi dei Savoia con la Francia (Trattato di Bruzolo nel 1610 tra Carlo Emanuele I e il re di Francia Enrico IV) e le prime guerre tra Stati italiani provocate al di fuori del controllo spagnolo (prima guerra per la successione del Monferrato nel 1612-17, che si concluse con la vittoria dei Gonzaga e di Filippo III; guerra di Venezia contro gli Asburgo d’Austria e gli Uscocchi nel 1615-17; energica reazione di Venezia nel 1618 alla cosiddetta congiura dell’ambasciatore spagnolo Bedmar). Nel 1621 un audace colpo di mano diede la Valtellina agli spagnoli, mettendoli in grado di unire le proprie forze direttamente con quelle degli Asburgo d’Austria, ma la Francia con un’energica reazione fece ripristinare lo status quo ante e trasse motivo dall’incidente per giustificare la necessità di una propria presenza nella penisola. Con il matrimonio di Maria Gonzaga con il giovane figlio di Carlo di Nevers, origine della seconda guerra per la successione del Monferrato (1628-31), il re di Francia venne a disporre nei Gonzaga-Nevers di una dinastia sicura alleata. Nel frattempo l’esercito francese occupò la strategica fortezza di Pinerolo. Nel 1635 il Trattato di Rivoli vide il duca Vittorio Amedeo I (1630-37) schierarsi contro la Spagna con la promessa di una parte della Lombardia e del titolo regio. Infine la morte del duca e la reggenza della vedova Maria Cristina di Borbone (1637) favorirono il definitivo spostamento del ducato dei Savoia nell’orbita della Francia. In I. meridionale il contrasto internazionale diede impulso a un processo di marcata rifeudalizzazione del sistema delle relazioni sociali ed economiche. Sotto la pressione sempre più forte dei bisogni finanziari determinati dalla guerra dei Trent’anni, la Corona non solo sottopose a un pesante aumento il carico fiscale nel Napoletano, ma si vide costretta ad autorizzare, nell’esazione delle imposte, la più sfacciata speculazione da parte di banchieri privati. I frutti di queste speculazioni furono spesso impiegati nell’acquisto di feudi e di diritti di giurisdizione signorile, contribuendo a una massiccia messa all’incanto di poteri sovrani. Forte lo scontento dei differenti «partiti» presenti in città (i gruppi aristocratici, i ceti mercantili, gli artigiani, i «togati», i giuristi impegnati nelle magistrature del regno), del mondo rurale esposto come non mai alle angherie di esosi percettori di rendita feudale, dei cittadini delle «università» demaniali spesso vendute a baroni vecchi e nuovi. Su questa situazione interna, contraddistinta dal rancore delle province verso Napoli e la Spagna, dal caos amministrativo e da un’ondata di fallimenti di compagnie commerciali particolarmente intensa nel decennio 1636-46, s’inserirono i richiami della propaganda della Francia, ben lieta di incoraggiare le rivolte interne al territorio della Spagna nemica: la situazione precipitò il 7 luglio 1647 in una rivolta che da Napoli si diffuse all’intero regno e della quale la figura di Tommaso Aniello (Masaniello) fu la più nota e pittoresca, ma non la più importante. La rivolta, scoppiata come tumulto spontaneo contro l’ennesima tassa, finì con l’assumere, col passare dei mesi, forte valenza politica. Nei mesi di luglio-agosto si ebbe anche a Palermo una rivolta guidata dal battiloro Giuseppe Alessi (1647) e la Spagna fu costretta a impegnarsi a fondo nella repressione. A Napoli l’arrivo di Enrico di Guisa duca di Lorena conferì alla situazione connotati oltremodo inquietanti per la Spagna, che fu impegnata assai più a lungo nella repressione della rivolta, conclusasi solo nel 1648 con l’arrivo del nuovo viceré spagnolo, il conte di Oñate. D’altro canto la Pace di Vestfalia e la Pace dei Pirenei, con la netta vittoria della Francia, spostarono sensibilmente gli equilibri politici e i rapporti di forza nel continente a favore di quest’ultima, mentre la Spagna entrava in una fase di chiara e progrediente decadenza. Ciò si tradusse in un suo indebolimento anche in Italia. La presenza della flotta francese nel Mediterraneo, durante la guerra d’Olanda, rese particolarmente temibile per la Spagna la ribellione di Messina, ben presto appoggiata dai francesi, anche se la Pace di Nimega (1678) segnò la restaurazione del dominio spagnolo. Ma Genova nel 1684 fu costretta con la forza a spostarsi in campo francese, come pure il doge Francesco Imperiali-Lercari. Inoltre nel 1681 Luigi XIV si fece concedere dal duca di Mantova Ferdinando Carlo la città di Casale, vera porta di accesso alla Lombardia spagnola.

L’Italia nel 18° secolo

Con la guerra di Successione spagnola (1701-14) il duca di Savoia Vittorio Amedeo II (1675-1730) ritenne giunto il momento per realizzare la sua grande aspirazione di annettere l’intera Lombardia e cingere la corona regia. Mentre la maggior parte degli Stati italiani restò neutrale, egli si alleò con la Francia, insieme al duca di Mantova, ma nel 1703 passò dalla parte degli imperiali. Nel 1713-14 le paci di Utrecht e di Rastatt sottrassero al nuovo re di Spagna Filippo V tutti i possessi italici, assegnando il Milanese, la Sardegna, il Napoletano e lo Stato dei presidi all’Austria, che già dal 1708 aveva occupato Mantova. Vittorio Amedeo II ottenne la Sicilia con il titolo regio, i distretti dell’ex Lombardia spagnola della Lomellina e della Valsesia, il Monferrato, che aveva occupato nel 1708. Questo quadro fu parzialmente modificato in seguito al fallito tentativo di rivincita del primo ministro spagnolo, il cardinale Giulio Alberoni, che dovette sottoscrivere il Trattato dell’Aia (1720), definitivo riconoscimento dell’assetto territoriale fissato a Utrecht, con la variante dello scambio della Sicilia con la Sardegna tra il re Vittorio Amedeo II e l’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Nel 1733-38 la guerra di Successione polacca fu combattuta quasi interamente in Italia. Con la Pace di Vienna (1738), che la concluse, Carlo Emanuele III di Savoia (1730-73) ottenne i distretti di Novara e Tortona e il territorio delle Langhe; i regni di Napoli e di Sicilia furono sottratti all’Austria e assegnati al figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, don Carlos; il granducato di Toscana, dove nel 1737 l’ultimo dei Medici, Gian Gastone, era morto senza eredi, passò a Francesco Stefano di Lorena, marito della futura imperatrice Maria Teresa d’Asburgo, per indennizzarlo del ducato di Lorena, che la Francia aveva fatto assegnare a Stanislao Leszczyński. Infine il ducato di Parma e Piacenza passò sotto il dominio dell’Austria. Nel 1748 la Pace di Aquisgrana, che pose fine alla guerra di Successione austriaca (1740-48), portò il confine dello Stato di Carlo Emanuele III fino al Ticino (annessione dei distretti di Voghera, Vigevano e Alto Novarese), e sottrasse all’Austria il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla per conferirlo al secondo figlio di Elisabetta Farnese, don Filippo. Nel 1768 la Repubblica di Genova vendette alla Francia la Corsica, da tempo in stato di endemica rivolta contro il dominio genovese. Dopo la Pace di Aquisgrana, per un cinquantennio l’I. cessò di essere il campo di battaglia delle potenze europee.

Figura 5

L’età dei lumi e delle riforme

Con la seconda metà del Settecento si aprì per l’I. un periodo di ripresa economica e di sviluppo civile, favorito anche dalla prolungata assenza di conflitti. Dalla metà del secolo si ruppe quel circolo vizioso di stagnazione di popolazione, produzione, redditi e consumi che aveva avviluppato l’economia della penisola dalla metà del Seicento. Riprese per prima a crescere la popolazione, seguita dai prezzi e poi dalla produzione, dai redditi e dai profitti agricoli. L’I. divenne il maggior produttore europeo di seta greggia (Piemonte, Lombardia, Calabria) e grande esportatore di olio (I. meridionale), vino e, in alcune annate, grano. La coltivazione del mais si estese vertiginosamente. Il commercio fu potenziato anche con la nuova pratica dei porti franchi: il primo fu quello di Livorno, al quale seguirono quelli di Trieste (1717), Ancona (1732), Civitavecchia (1748) e infine Messina. La marina italiana si collocò al quarto posto in Europa. I pubblici poteri cominciarono a occuparsi anche di strade e non solo di guerre. Ma a prestare maggiore attenzione ai fatti economici, al benessere e allo sviluppo civile delle popolazioni contribuì sicuramente il grande movimento dalla cultura illuministica, che sia pure in modo diseguale stimolò in tutta la penisola un’energica attività riformatrice da parte dei governi. Dal movimento per le riforme rimase abbastanza emarginata Venezia, come le altre repubbliche oligarchiche di Genova e Lucca. La Pace di Passarowitz (1718) chiuse definitivamente la sua secolare politica orientale e mediterranea e le sue navi non solo erano incapaci di lanciare la propria sfida sulle rotte oceaniche, ma subivano ormai una concorrenza inarrestabile da parte olandese e inglese nello stesso Mediterraneo. All’interno la Serenissima rimaneva dilaniata da lotte intestine tra quella cinquantina di grandi casate patrizie, detentrici di tutto il potere, e la piccola quanto famelica nobiltà dei Barnabotti, e a ciò si aggiungeva il conflitto, non meno grave, con la terraferma. Brescia e Bergamo rivolgevano sempre più lo sguardo verso la Lombardia austriaca, e il Friuli verso l’Austria. Gli orizzonti politici di Venezia apparivano sempre più ristretti come quelli economici. Nel regno di Sardegna, sotto Vittorio Amedeo II fu riformata l’alta amministrazione (1717), unificata la legislazione penale e civile (1724), incoraggiata l’istruzione e potenziata l’università di Torino, privata la nobiltà di tutti i beni e privilegi per i quali non fosse possibile produrre un titolo legittimo di possesso, promossa la trasformazione di parte dei nobili in funzionari dello Stato e della dinastia, lanciata un’energica politica giurisdizionalista nei confronti della Chiesa cattolica e del clero. Quest’ultima fu fortemente attenuata negli ultimi anni del regno di Vittorio Amedeo II e poi abbandonata dal suo successore Carlo Emanuele III. Proseguì una timida attività di riforme solo per la Sardegna, terra fino ad allora del tutto trascurata, che cessò poi con Vittorio Amedeo III (1773-96). Nello Stato pontificio l’attività riformatrice, pur condizionata dalla sua natura teocratica, non fu totalmente assente. Clemente XIV nel 1773 giunse anche a sopprimere la Compagnia di Gesù, bersaglio della polemica e dei provvedimenti restrittivi di tutta Europa. Pio VI (1775-99) fece redigere un catasto e attuò una riforma tributaria tesa a semplificare l’esazione dei tributi, riprese i lavori di bonifica nelle paludi pontine e fu mecenate di artisti e letterati. In Lombardia il conte Beltrame Cristiani e il conte Carlo di Firmian furono intelligenti esecutori della politica riformatrice dell’imperatrice Maria Teresa. Pilastro della loro opera fu la compilazione, tra il 1748 e il 1755, di un catasto generale, che, entrato in vigore nel 1760, permise di distribuire più equamente ed efficacemente il carico fiscale. Altra grande riforma fu quella amministrativa, che divise il territorio in province e comuni, inglobando nella stessa unità amministrativa città e campagna e riducendo la selva delle condizioni differenziate. Nel 1765 fu istituito il Consiglio superiore dell’economia, sostituito nel 1771 da un magistrato camerale e dalla Camera dei conti. Energica fu anche la politica giurisdizionalista nei confronti della Chiesa, che divenne addirittura travolgente con il figlio di Maria Teresa, Giuseppe II (1780-90), già dal 1765 associato dalla madre al governo dello Stato (soppressione del tribunale dell’Inquisizione e della censura ecclesiastica sui libri, allontanamento dei gesuiti dall’insegnamento prima ancora della soppressione della Compagnia, abolizione del diritto d’asilo). In Toscana, passata a Francesco Stefano di Lorena nel 1737, l’attività riformatrice ebbe inizio già per opera del Consiglio di reggenza. Pur non potendo infrangere i limiti che Francesco Stefano – impegnato nella guerra di Successione austriaca e in quella dei Sette anni e quindi bisognoso di grandi quantità di denaro – pose a ogni politica riformatrice, la reggenza cercò di limitare la giurisdizione feudale, razionalizzare l’amministrazione pubblica, risanare le finanze statali, rilanciare l’economia stipulando trattati commerciali, favorendo la bonifica della Maremma, incentivando l’industria della seta. Con il giovane Pietro Leopoldo al riformismo vivace ma scoordinato della reggenza si sostituì un programma organico di riforme. Circondato dai migliori elementi della cultura e dell’amministrazione toscana, il granduca Pietro Leopoldo incarnò il tipo ideale del principe riformatore italiano e sotto di lui la Toscana si pose all’avanguardia del progresso civile nella penisola (pubblicazione del bilancio, perequazione ed eguaglianza fiscale, riordinamento e uniformità delle amministrazioni provinciali e comunali, uniformità di legislazione, abolizione della tortura e della pena di morte, soppressione dei maggiorascati e dei fedecommessi, abolizione del vincolismo economico-corporativo, vaste opere di bonifica in Valdichiana e Maremma). Negli Stati borbonici il moto riformatore settecentesco agì in misura significativa. A Parma, divenuta un centro di cultura francese, anima delle riforme fu dal 1756 il ministro G.-L. du Tillot, soprattutto durante la minorità del duca Ferdinando (1765-71). A Napoli Carlo di Borbone si avvalse della collaborazione di B. Tanucci e dell’opera di A. Genovesi, una delle figure più rappresentative del movimento riformatore politico-economico del regno. In coerenza con una secolare tradizione anticuriale le riforme attuarono soprattutto una dura lotta contro il cumulo di privilegi e di esenzioni delle quali godeva il clero (1741: concordato con la Santa Sede che riduceva l’immunità fiscale dei beni ecclesiastici e la giurisdizione del foro ecclesiastico). Partito nel 1759 per la Spagna Carlo di Borbone, l’azione riformatrice continuò anche con Ferdinando IV e fu estesa alla Sicilia, dove nel 1781 fu inviato quale viceré il marchese Caracciolo. L’azione mirata a ridurre i privilegi del baronaggio ebbe minore successo di quella antiecclesiastica.

L’Italia giacobina e napoleonica (1796-1814)

Negli ultimi anni del 18° sec. nella penisola l’attività riformatrice rallentò decisamente quasi ovunque. La Rivoluzione francese aprì scenari di soluzione dei problemi dell’antico regime che generarono timori anche nei fautori più fervidi del riformismo graduale. Non mancarono italiani come Filippo Buonarroti che decisero di condividere le idee e far propri i programmi rivoluzionari d’oltralpe, ma la maggior parte del Paese restò ostile alla rivoluzione. Intanto le campagne italiane dell’esercito francese guidato da Napoleone Bonaparte avevano inizio. Nel 1796 le fulminee vittorie di Napoleone ruppero subito il fronte comune austro-sardo della prima coalizione, costringendo il re di Sardegna all’armistizio di Cherasco, divenuto poi Pace di Parigi (15 maggio). L’armata rivoluzionaria puntò poi su Milano, dove entrò il 15 maggio 1796, e, mentre il quadrilatero delle fortezze austriache opponeva una seria resistenza, Bonaparte impose gravose condizioni al duca di Parma e a quello di Modena, occupò le legazioni pontificie di Ferrara, Bologna, Ravenna, Imola e Faenza e impose al papa Pio VI un armistizio che, oltre alla rinuncia alle province di Ferrara e di Bologna, gli imponeva il pagamento di una gravosa indennità di guerra e la cessione di 500 codici e di 100 opere d’arte. Occupò poi il porto di Livorno e impose un gravoso armistizio anche al re di Napoli. Battuti ripetutamente gli austriaci in Val Padana e conquistata Mantova, puntò al cuore dell’impero austriaco, costringendo l’imperatore Francesco II all’armistizio e ai preliminari di pace di Leoben (18 aprile 1797). L’Austria perse la Lombardia in cambio della Dalmazia, dell’Istria e di una parte della terraferma veneta, per poter disporre della quale Bonaparte attaccò Venezia, che sino ad allora si era mantenuta neutrale, insediandovi un governo democratico con il quale strinse un trattato di pace e di amicizia. Con la Pace di Campoformio (17 ottobre 1797) il territorio veneziano fu poi diviso tra Austria, Francia – che occupò direttamente le Isole Ionie e gli ex possessi di Venezia in Albania – e Repubblica cisalpina, che era nata nel maggio 1797 dalla fusione della Repubblica cispadana, formata dal dicembre del 1796 con i territori di Reggio, Modena, Ferrara e Bologna, con la Repubblica transpadana (Lombardia). La Repubblica cisalpina, che si rivelò organismo robusto e vitale, fu ingrandita con l’annessione della Valtellina sottratta ai Grigioni (ottobre 1797) e delle città venete alla destra dell’Adige. Nel giugno del 1797 Bonaparte impose alla Repubblica oligarchica di Genova di democratizzare i propri ordinamenti e nel dicembre 1797 di costituirsi in Repubblica ligure. Nel novembre Bonaparte lasciò l’I., ma l’espansione del dominio, diretto o indiretto, della Francia rivoluzionaria continuò. L’assassinio a Roma del generale L. Duphot provocò l’arrivo delle truppe francesi e la proclamazione il 15 febbraio 1798 della Repubblica giacobina. L’ingerenza francese nel governo interno del Piemonte si fece sempre più soffocante, al punto che nel dicembre 1798 il nuovo re Carlo Emanuele IV (1796-1802) preferì rifugiarsi prima all’estero e poi in Sardegna. Scoppiata la guerra della seconda coalizione (1798), l’incauta spedizione di Ferdinando IV di Borbone contro la Repubblica giacobina romana provocò l’immediata controffensiva del generale francese Championnet, che non solo ristabilì la Repubblica a Roma, ma marciò su Napoli e vi insediò la Repubblica partenopea (23 gennaio 1799). Il sovrano borbonico si rifugiò in Sicilia. Fu inoltre abbattuta la Repubblica oligarchica di Lucca ed ebbe inizio l’invasione della Toscana. Tuttavia mentre Bonaparte era impegnato nella campagna di Egitto tutte le repubbliche giacobine caddero. Solo Genova fu capace di resistere alle forze della seconda coalizione. In Lombardia si abbatté, durissima, per tredici mesi la reazione austrorussa e ancora più spietata fu la risposta di Ferdinando IV e dell’ammiraglio inglese Nelson a Napoli. La seconda campagna italiana di Napoleone, divenuto primo console, dopo la schiacciante vittoria di Marengo (14 giugno 1800) ricondusse la penisola sotto il controllo della Francia (restaurazione della Repubblica cisalpina, riaffermazione del predominio francese sul Piemonte e sulla Repubblica ligure, occupazione del granducato di Toscana, invio di un esercito al comando di Gioacchino Murat contro il regno di Napoli attraverso il territorio pontificio). Il nuovo assetto fu sancito con le paci di Lunéville con l’Austria (9 febbraio 1801) e di Firenze con Ferdinando IV di Napoli (28 marzo). La Repubblica cisalpina fu notevolmente ingrandita con il Veronese e il Polesine, appartenenti un tempo a Venezia, con il Novarese tolto al Piemonte e le ex Legazioni pontificie; inoltre furono attribuiti alla Cisalpina gli sbocchi del Sempione. Il Piemonte e l’ex ducato di Parma rimasero sotto la diretta occupazione della Francia. L’ex granducato di Toscana fu trasformato nel regno di Etruria per Ludovico I di Borbone e, alla sua morte (1803), per il figlio Carlo Ludovico sotto la reggenza della madre Maria Luisa. Il re di Napoli fu costretto a evacuare Roma, cedere ai francesi lo Stato dei presidi, consentire loro l’occupazione temporanea delle coste abruzzesi e pugliesi, chiudere i propri porti al commercio inglese. Lo Stato dei presidi fu poi unito al regno di Etruria e l’Elba e Piombino furono annessi alla Francia nel 1802. La consulta di Lione del 1801-02 provocò il crollo di ogni residua illusione democratica e nazionale in Italia. La Cisalpina fu trasformata prima in Repubblica italiana (1802) sotto la presidenza dello stesso Napoleone e la vicepresidenza di Francesco Melzi d’Eril, poi in regno italico (1805) sotto il governo del viceré Eugenio di Beauharnais. Nel frattempo in tutta l’I. napoleonica a partire già dal 1796 si realizzava un enorme trasferimento di proprietà mediante la vendita dei beni ecclesiastici e demaniali. In una prima fase si ebbe un sensibile frazionamento della proprietà delle terre vendute. Ben presto, però, vi fu un processo inverso di ricostituzione della grossa proprietà in mano agli acquirenti e agli speculatori, per lo più membri della soppressa nobiltà e della grossa borghesia. Dopo la trasformazione della Francia in impero il motivo dinastico ebbe sempre più peso nei calcoli di Napoleone. Il territorio della Repubblica ligure fu annesso integralmente alla Francia. Piombino e Lucca, già feudi imperiali, e due anni dopo il territorio dell’ex ducato di Massa e Carrara, furono conferiti alla sorella di Napoleone, Elisa, e al marito Felice Baciocchi. La vittoria sulla terza coalizione (battaglia di Austerlitz, trattato di pace di Presburgo) comportò la cessione al regno italico da parte dell’Austria delle terre venete ottenute con il Trattato di Campoformio, mentre la Dalmazia e l’Istria diedero vita alle cosiddette Province illiriche, annesse all’impero francese ma con amministrazione separata. La dinastia borbonica, che era entrata nella coalizione antifrancese, fu costretta all’esilio in Sicilia, mentre il regno di Napoli fu affidato a Giuseppe Bonaparte (1806-08) e poi a Gioacchino Murat (1808-15). Il Trentino fu annesso alla Baviera, alleata di Napoleone. La quarta coalizione (1807-12), oltre alla decisione di Napoleone d’instaurare un rigoroso blocco commerciale anti-inglese su scala continentale, compresa l’I., provocò nella penisola nuovi rimaneggiamenti territoriali, ai quali contribuì anche l’urto sempre più forte con il papa Pio VII (1800-23) e la curia romana. Le modifiche furono: scomparsa del regno d’Etruria (10 dicembre 1807) e annessione della Toscana all’impero francese (1807-09), successiva ricostituzione della Toscana, insieme con i territori di Lucca e Piombino, in granducato, vassallo della Francia, per Elisa Baciocchi (2 marzo 1809); occupazione di Ancona (1805), di Civitavecchia (1806) e delle Marche tolte al papa (novembre 1807) e annessione di queste ultime al regno italico (1808); infine, occupazione militare di Roma, cui seguì nel giugno 1809 la proclamazione della fine del potere temporale dei papi e la deportazione di Pio VII a Savona (e poi in Francia). Di tutti gli Stati italiani, solo due sfuggivano alla presa diretta napoleonica: la Sardegna, dove Carlo Emanuele IV aveva abdicato in favore del fratello Vittorio Emanuele I (4 giugno 1802), e la Sicilia, rifugio di Ferdinando IV e della regina Maria Carolina, ma in realtà roccaforte dei baroni siciliani e quartier generale del proconsole inglese lord William Bentinck, i cui larghi poteri erano garantiti dalla convenzione del 1808 conclusa dal suo governo con il re Ferdinando IV. La posizione sovrana di quest’ultimo fu formalmente regolata dal 1812 da una Costituzione, ispirata al modello inglese, che dava grande potere ai baroni. Nel 1813-14 per le esigenze del blocco contro l’Inghilterra l’economia della penisola fu rigidamente subordinata alle esigenze immediate della politica di guerra di Napoleone e nello stesso tempo fu considerata, in una visione di lungo periodo, quasi come un «mercato coloniale» della Francia. Quest’ultima nei progetti napoleonici avrebbe dovuto avere il quasi monopolio dello sviluppo industriale, mentre all’I. sarebbe spettato il ruolo di fornitrice di prodotti agricoli e semilavorati. Questo modello di sviluppo, se da una parte determinò un incremento dell’agricoltura italiana, agevolata dal blocco e dalla congiuntura di prezzi in crescita, dall’altra favorì il lento ma progressivo arretramento delle attività manifatturiere, e in particolare delle metallurgiche, dell’I. settentrionale, nel quadro di una grave crisi degli scambi commerciali e dell’attività portuale. Positivi furono invece i riflessi della politica economica francese nel Mezzogiorno. L’abolizione del feudalesimo del 1806 sciolse un nodo che nessuna riforma settecentesca aveva sciolto. Inoltre sia Giuseppe Bonaparte sia Gioacchino Murat favorirono lo sviluppo di industrie manifatturiere (lana, carta, cotone, ferro, navi) a prescindere dalle linee programmatiche francesi. Nell’insieme della penisola l’alto costo in termini di vite umane delle campagne napoleoniche generava ormai stanchezza e la subordinazione comunque crescente degli interessi nazionali italiani alle esigenze imperiali francesi alimentava un sentimento antinapoleonico che si intrecciava sempre più strettamente con una forte coscienza nazionale e indipendentista. Questa a Milano fu abilmente imbrigliata dalla politica liberaleggiante del viceré Eugenio, ma a Napoli trovò un valido appoggio nelle ambizioni del re Gioacchino Murat, e se nella crisi finale dell’impero napoleonico il viceré Eugenio rimase fedele al suo protettore e solo troppo tardi accarezzò il progetto di restare sul trono quale re della Lombardia, a Napoli Murat fu rapido nel distaccarsi da Napoleone: in contatto con l’Austria fin dal marzo 1813, nel gennaio 1814 revocò il blocco anti-inglese dei porti napoletani e strinse una formale alleanza con l’Austria, attaccando il 7 marzo 1814 le truppe del viceré Eugenio a Reggio nell’Emilia. Sostenuto dall’Austria, ma osteggiato dall’Inghilterra, Murat al Congresso di Vienna vide sfumare tutte le proprie possibilità di conservare il trono e cercò di salvarsi puntando ancor di più sul sentimento nazionale. Tuttavia, la guerra nazionale, da lui proclamata il 15 marzo 1815, si concluse con una rapida sconfitta e, dopo un incauto tentativo di rientro armato in Calabria, la morte (13 ottobre 1815). A Napoli e in Sicilia tornò Ferdinando IV di Borbone col nome di Ferdinando I re delle Due Sicilie, un nuovo Stato che univa in un unico organismo istituzionale e amministrativo i due antichi e distinti regni di Napoli e Sicilia.

La Restaurazione e i moti degli anni Venti e Trenta

L’assetto politico-territoriale stabilito per l’I. al Congresso di Vienna non attuava una restaurazione integrale della situazione preesistente al periodo napoleonico. Esso vedeva la penisola suddivisa in otto Stati (regno di Sardegna, regno del Lombardo Veneto, ducati di Modena e Reggio, Parma e Piacenza, Massa e Carrara, Lucca, granducato di Toscana, Stato pontificio, regno delle Due Sicilie). Mentre sanciva quindi il ritorno sul trono dei sovrani spodestati da Napoleone, non restaurava le tre repubbliche che preesistevano alla sua discesa in Italia: la Repubblica di Venezia, quella di Genova e quella di Lucca. Venezia con il Veneto entrò a far parte del neonato regno del Lombardo-Veneto inserito nell’impero Asburgico, Genova e la Liguria entrarono a far parte del regno di Sardegna, Lucca rimase ducato indipendente. L’Austria rafforzava sensibilmente nella penisola la sua egemonia rispetto all’epoca prerivoluzionaria, governando direttamente il Lombardo-Veneto e avendo rapporti di parentela molto stretti con gli Asburgo-Lorena di Toscana, con gli Asburgo-Este duchi di Modena, con Maria Luisa d’Asburgo-Lorena arciduchessa di Parma. Inoltre la Santa alleanza e il principio di intervento a difesa dei deliberati del Congresso di Vienna le conferivano uno straordinario potere di interferenza nella vita interna di tutti gli Stati. La restaurazione fu tutt’altro che integrale anche all’interno dei singoli Stati. In nessuno di essi, sia pure in modo differenziato, fu ricreata integralmente la situazione dell’ancien régime: aspetti importanti delle istituzioni civili e amministrative portate dai francesi furono conservati quasi ovunque. In particolare nessun sovrano ritenne di rinunciare all’abolizione del feudalesimo o restituire i beni sottratti agli enti ecclesiastici soppressi. L’ordinamento politico comune quasi a tutti gli Stati della penisola fu di un assolutismo privo anche di quel minimo di funzioni di controllo che nelle società di antico regime esercitavano gli organi di rappresentanza cetuali e le parvenze di giurisdizioni feudali sopravvissute all’assolutismo dei sovrani sei-settecenteschi. Era chiaro che dopo gli esperimenti democratici della Rivoluzione francese, dopo la Costituzione spagnola di Cadice del 1812, in presenza di un modello liberal-costituzionale come quello inglese e di una carta costituzionale sia pur ristrettissima come quella concessa da Luigi XVIII in Francia, il problema di nuove forme di limitazione dell’assolutismo e di condivisione dei poteri da parte del popolo non avrebbe tardato a porsi, come anche l’aspirazione alla creazione in I. di uno Stato nazionale unitario e indipendente, che era stata esplicitamente espressa sin dal 1796 dai primi giacobini italiani, si sarebbe riproposta già a pochissimi anni dal Congresso di Vienna, nonostante l’impossibilità per le opposizioni di manifestare liberamente il proprio dissenso e di associarsi. Ciò avvenne attraverso l’opera di intellettuali come S. Pellico, A. Manzoni, G. Berchet e il gruppo del Conciliatore e attraverso la diffusione di società segrete strutturate sul modello massonico con reclutamento iniziatico-gradualistico, che si posero l’obiettivo di realizzare in I. un regime di libertà e progressivamente di indipendenza politica in uno Stato unitario. La più importante fu la Carboneria. Nel 1820 nel regno delle Due Sicilie, sull’onda del pronunciamento militare che in Spagna aveva riportato in vigore la Costituzione del 1812, i carbonari guidati da due ufficiali dell’esercito, Morelli e Silvati, promossero una sollevazione che costrinse Ferdinando I a concedere la Costituzione. L’Austria predispose l’intervento militare in nome delle grandi potenze al fine di schiacciare l’insurrezione sia in I. sia in Spagna. Al Congresso di Lubiana (genn. 1821) Ferdinando I, re delle Due Sicilie, rinnegò il giuramento che aveva fatto al regime costituzionale da lui concesso e chiese formalmente l’intervento austriaco, che di lì a poco represse il moto e ristabilì il regime assoluto. L’attività rivoluzionaria (➔ moti del 1820-21), si estese anche al Piemonte, dove i congiurati ritenevano di poter contare sull’appoggio del principe di Carignano, Carlo Alberto di Savoia. Il 12 marzo avvenne l’insurrezione a Torino. Vittorio Emanuele I abdicò, nominando reggente Carlo Alberto, che concesse la Costituzione spagnola, ma Carlo Felice (1821-31), fratello ed erede legittimo di Vittorio Emanuele, sconfessò l’operato di Carlo Alberto inducendolo ad abbandonare il fronte liberale. Il governo provvisorio invitò i soldati piemontesi alla guerra contro l’Austria, ma l’improvvisato esercito costituzionalista fu sconfitto a Novara (7-8 apr.) dai soldati rimasti fedeli alla dinastia, soccorsi dall’esercito austriaco. Nel Lombardo-Veneto le autorità austriache già attive contro il gruppo del Conciliatore intensificarono la vigilanza e la repressione poliziesca per evitare il ripetersi di moti eversivi. La fortezza dello Spielberg, in Moravia, dove furono detenuti molti patrioti, divenne il simbolo della lotta per l’indipendenza contro l’Austria. Esito non dissimile ai moti del 1820-21 ebbero quelli scoppiati nel 1830-31 (➔ moti del 1830-31) dietro la spinta delle rivoluzioni liberali europee, in particolare quella francese. La parte più direttamente interessata fu questa volta l’I. centrale. L’insurrezione iniziò a Bologna e investì gran parte della Romagna, il ducato di Modena e Reggio, Parma, le Marche. Si giunse alla costituzione di un governo provvisorio delle province unite con sede a Bologna, che agiva di concerto con i governi provvisori instauratisi nei ducati. Ma questi, fallita la speranza di un appoggio francese, non furono in grado di resistere alle truppe austriache inviate da Metternich nel marzo 1831. Di fronte al nuovo fallimento delle strategie cospirative delle società segrete il movimento nazionale italiano entrò in una fase di riflessione che portò rapidamente alla dissoluzione della Carboneria e alla nascita del movimento mazziniano.

Progetti per l’unità e l’indipendenza nazionale: democratici, moderati, federalisti

Con la crisi della Carboneria e del suo sistema cospirativo le forze che premevano per il rinnovamento si divisero in due correnti principali: quella che faceva capo a G. Mazzini, che fondò la Giovine Italia nel 1831, con un programma basato sull’iniziativa rivoluzionaria popolare per uno Stato unitario e repubblicano, e quella moderata, che puntava sull’iniziativa delle classi dirigenti e sull’azione riformatrice dei governi per realizzare uno Stato unitario oppure una confederazione di Stati con ordinamento politico monarchico-costituzionale. Gli insuccessi dei mazziniani, culminati nel 1844 nel fallimento della spedizione in Calabria dei fratelli Bandiera, unitamente alle esigenze dello sviluppo economico-sociale e al vento liberale che spirava dalla Francia e dalla Gran Bretagna, contribuirono alla crescita del riformismo moderato a partire dalla metà degli anni Trenta dell’Ottocento. Sul terreno economico i moderati adottarono un’ideologia libero-scambista, funzionale alla creazione di un mercato nazionale unificato. Sul terreno politico, l’opinione pubblica moderata trovò la sua prima espressione nel pensiero politico dei toscani Capponi e Ridolfi, ma poi soprattutto nelle opere di V. Gioberti e di C. Balbo, che individuavano rispettivamente nel papato e nella dinastia sabauda le due leve con cui mettere in moto il risorgimento nazionale. Convinti fautori di un progetto federalistico, repubblicano e democratico, che rimase però fortemente minoritario, erano invece pensatori come C. Cattaneo e G. Ferrari, la cui riflessione partiva dal presupposto del tradizionale policentrismo della storia italiana. Tra il 1846 e il 1848 sembrarono maturare condizioni favorevoli allo sviluppo di una nuova fase di rivendicazioni liberali. Nello Stato pontificio l’elezione di Pio IX (1846-78) fu accompagnata da una serie di misure (amnistia per i reati politici, maggiore libertà di stampa, una consulta aperta ai laici e una guardia civica) che accreditarono l’immagine di un papato rinnovato e innovatore. Leopoldo II in Toscana concesse la guardia civica, la consulta e una più ampia libertà di stampa. In Piemonte Carlo Alberto, succeduto a Carlo Felice, riprese, dopo anni di chiusura conservatrice, una politica di riforme che sembrava riaprire il discorso interrotto bruscamente nel 1821. Il coronamento del nuovo corso riformistico dei tre Stati fu la firma dei preliminari per una Lega doganale italiana (1847), tuttavia questi primi accordi il 12 gennaio 1848 furono scavalcati dallo scoppio a Palermo di un’insurrezione che si diffuse rapidamente a tutta la Sicilia e al Napoletano e che si rivelò il primo episodio di un gigantesco sussulto che investì l’intera Europa.

Dal 1848 all’unità d’Italia

Ferdinando II (1830-59) fu costretto a concedere, primo fra i sovrani italiani, una Costituzione, seguito da Leopoldo II di Toscana, da Carlo Alberto e, infine, da Pio IX. Si trattava di costituzioni moderate, ispirate a quella francese del 1830, che affiancavano ai sovrani nell’esercizio del potere legislativo un Senato di nomina regia e una Camera eletta a suffragio ristretto, ma era pur sempre quanto di più avanzato esistesse sul continente. La rivoluzione scoppiata a Vienna il 13 marzo 1848 radicalizzò l’opinione pubblica italiana e spinse le forze democratiche repubblicane a prendere l’iniziativa di una lotta risoluta contro l’Austria, anzitutto nel Lombardo-Veneto. La prima grande insurrezione scoppiò a Milano, dove le truppe austriache dopo cinque giornate di combattimenti abbandonarono la città. Anche nei ducati di Parma e Modena i sovrani furono deposti. Maturò allora la decisione di Carlo Alberto di dichiarare guerra all’Austria (prima guerra d’Indipendenza). Lo spingevano la speranza di liberare la penisola dalla tutela asburgica, arrivando alla formazione di quel regno dell’alta I. che era da secoli nelle aspirazioni tradizionali di casa Savoia, e il timore, dopo la proclamazione della Repubblica di Venezia, del prevalere delle correnti più radicali nella guida di un movimento nazionale al quale egli, primo sovrano della sua dinastia, pensò invece di porsi a capo. Carlo Alberto entrò a Milano in un clima di entusiasmo patriottico. I sovrani di Toscana, Roma e Napoli inviarono contingenti militari per uno sforzo bellico che assunse con ciò carattere nazionale e che avrebbe dovuto concludersi con una soluzione confederale neoguelfa. Ben presto, però la ragion di Stato prevalse. Per primo si ritirò Pio IX, che si rese conto di non poter muovere guerra a un Paese cattolico come l’Austria. Il suo ritiro fece trovare Leopoldo II e Ferdinando II nella condizione di combattere una guerra egemonizzata dal Piemonte contro lo Stato, l’Austria, che era stato dal 1815 il baluardo delle loro dinastie. Il loro ritiro fu pressoché obbligato. Rimasero in campo Carlo Alberto e il movimento democratico, che riprese l’iniziativa in tutta la penisola. Il 23-25 luglio l’esercito piemontese fu sconfitto a Custoza e poco dopo fu firmato l’armistizio con l’Austria. Venezia, dove era stata proclamata la Repubblica, rifiutò di arrendersi e organizzò la resistenza sotto la direzione di D. Manin. In Toscana si costituì un governo democratico con il programma della convocazione di una costituente italiana. A Roma, dopo la fuga del papa a Gaeta, fu convocata la costituente romana, che dichiarò la fine del potere temporale dei papi e proclamò (9 febbr. 1849) la Repubblica guidata dal triumvirato di Mazzini, Saffi e Armellini. In Piemonte, fallita una mediazione anglo-francese per il riconoscimento da parte dell’Austria dei diritti sabaudi sull’alta I., Carlo Alberto ruppe l’armistizio e tentò ancora la sorte delle armi, ma con un esito catastrofico: l’esercito piemontese fu sconfitto a Novara (23 marzo) e Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II (1849-78). Resistettero ancora le repubbliche di Roma e di Venezia, ma il 4 luglio del 1849, dopo un mese di assedio, Roma, difesa eroicamente da Giuseppe Garibaldi, si arrese alle truppe francesi. Analogo esito si ebbe a Venezia, assediata dalle truppe austriache e stremata dalle epidemie e dalla fame. Quanto alla Toscana, Leopoldo II rientrò facilmente a Firenze e abrogò la Costituzione. Solo Vittorio Emanuele II mantenne lo statuto, che poi sarebbe divenuto la carta costituzionale del regno d’Italia. Il fallimento della prima guerra d’Indipendenza dimostrò quanto fosse difficile affrontare l’Austria e realizzare una rivoluzione nazionale nonostante l’impegno anche di casa Savoia. Le possibilità di sviluppo del movimento democratico apparivano sempre più difficili, come era confermato da una serie di conati insurrezionali falliti, culminati nel massacro dei trecento di C. Pisacane a Sapri. Le uniche speranze di successo apparivano sempre più affidate al regime liberale sabaudo-piemontese. Già il governo d’Azeglio propose un modello di Stato che procedeva sulla strada delle riforme economiche e amministrative. L’ingresso nel governo, nel 1850, di Camillo Benso conte di Cavour come ministro dell’Agricoltura diede un’energica impronta laica e liberista all’attività del governo. Cavour mirava sul piano economico-sociale allo sviluppo di un moderno capitalismo e della civiltà della libera impresa, sul piano politico al raggiungimento dell’indipendenza nazionale sotto la guida dello Stato sardo nel quadro di un regime liberale parlamentare. Nel 1852 realizzò con U. Rattazzi, capo della sinistra moderata, il cosiddetto connubio, cioè un’alleanza politica e parlamentare che, isolando la destra più conservatrice e la sinistra democratica radicale, proponeva una maggioranza di centro più energicamente riformista e anticlericale di quella capeggiata da M. d’Azeglio e più decisa di questa a perseguire il disegno unitario anche a costo di una nuova guerra. Con questo programma Cavour divenne presidente del Consiglio e, attraverso scelte quali la partecipazione alla guerra di Crimea, cercò di ottenere l’appoggio delle potenze, soprattutto della Francia, in vista di eventuali mutamenti sulla scena italiana. Un incontro segreto a Plombières, nei Vosgi, tra Napoleone III e Cavour (20-21 luglio 1858) definì gli scopi comuni: provocare una dichiarazione di guerra dall’Austria al Piemonte, con soccorso della Francia a quest’ultimo; a guerra vinta, sottrazione del Lombardo-Veneto all’Austria a favore dei Savoia, che avrebbero avuto anche i ducati; cessione di Nizza e Savoia dal regno di Sardegna alla Francia; creazione di un regno dell’I. centrale comprendente Toscana e territori dello Stato pontificio tranne Roma e sue adiacenze; sostituzione dei Borbone con i Murat nel regno delle Due Sicilie; creazione di una confederazione di Stati presieduta dal Papa. Cavour riuscì a far dichiarare guerra al Piemonte dall’Austria e il 26 aprile 1859 iniziò la seconda guerra d’Indipendenza. Dopo gli iniziali successi franco-piemontesi e del corpo di volontari dei cacciatori delle Alpi guidati da Garibaldi, che aveva abbandonato Mazzini e l’idea repubblicana per aderire al progetto sostenuto da Vittorio Emanuele, insorsero autonomamente le regioni dell’I. centrale. In contrasto con quanto previsto dagli accordi di Plombières, queste si espressero per l’annessione al Piemonte. Napoleone III decise unilateralmente di porre fine alla guerra e concluse con l’Austria l’armistizio di Villafranca (8-11 luglio), in base al quale la Lombardia veniva ceduta alla Francia, che a sua volta la cedeva al Piemonte, mentre nell’I. centrale sarebbero state ristabilite le autorità legittime. Cavour si dimise, ma, tornato dopo pochi mesi alla guida del governo, si accordò nel marzo 1860 con Napoleone III per annettere al regno di Sardegna, in seguito a plebiscito, le regioni insorte (ducati padani, legazioni pontificie e Toscana), e cedere alla Francia Nizza e Savoia, sempre in seguito a plebiscito. A questo punto l’iniziativa cavouriana era priva di ulteriori obbiettivi immediati. Si mosse allora il Partito d’azione mazziniano, che organizzò una spedizione militare nel Mezzogiorno guidata da Garibaldi e segretamente appoggiata da Vittorio Emanuele II. Mazzini dichiarò ufficialmente di rinunciare alla pregiudiziale repubblicana, ma in realtà sperava di creare un’area territoriale e politica sottratta all’influenza della monarchia. Accolto con entusiasmo dai contadini siciliani, che vedevano in lui un «liberatore» anche sociale (speranze che svanirono con la repressione violenta dell’occupazione di terre a Bronte), Garibaldi conseguì una serie di vittorie su un esercito borbonico che non diede gran prova di sé (vittoria di Calatafimi, presa di Palermo, battaglia di Milazzo). Varcato lo stretto marciò verso Napoli, dove entrò trionfalmente il 7 settembre 1860, senza trovare praticamente resistenza da parte di uno Stato che si sfaldava clamorosamente in tutte le sue strutture pubbliche. Preoccupato che il dichiarato intento di Garibaldi di proseguire la sua marcia fino a Roma provocasse una reazione militare della Francia, dalle imprevedibili conseguenze internazionali, e che il prestigio venuto ai democratici dai successi garibaldini rimettesse in discussione l’assetto politico-istituzionale del futuro Stato unitario, Cavour riprese l’iniziativa e, ottenuto il via libera francese, nel settembre fece occupare le Marche e l’Umbria dall’esercito sardo. Al principio di ottobre, mentre Garibaldi otteneva la sua più grande vittoria nella battaglia sul Volturno, Vittorio Emanuele, assunta la guida dell’esercito, marciò attraverso l’Abruzzo verso Napoli. Il 22 ottobre si tennero a Napoli e a Palermo i plebisciti che approvarono l’annessione al Piemonte dell’ex regno borbonico. Il 26 ottobre Garibaldi e Vittorio Emanuele si incontrarono a Teano, dove avvenne il passaggio dei poteri sulle regioni meridionali alle autorità piemontesi. Il 4 novembre si tennero i plebisciti per l’annessione delle Marche e dell’Umbria. Il 17 marzo 1861 il primo Parlamento nazionale proclamò a Torino Vittorio Emanuele II re d’Italia. Cavour e i liberali moderati avevano vinto la loro battaglia, anche nei confronti del Partito d’azione.

La «destra storica» al potere (1861-1876)

I problemi che il nuovo Stato unitario si trovò ad affrontare furono quelli del consolidamento politico del nuovo regno all’interno e nel contesto internazionale, dell’unificazione di tutti gli apparati civili e militari ereditati dagli antichi Stati, del raggiungimento della stabilità finanziaria, della promozione di uno sviluppo economico e civile superiore a quello preunitario. I problemi politici fondamentali e più impellenti erano di ordine sia internazionale (questione romana e questione veneta per raggiungere confini dello Stato tali da garantire un accettabile livello di sicurezza militare e una sufficiente corrispondenza della nazione politica con quella linguistico-culturale), sia interno (repressione del brigantaggio). Cavour tracciò subito la linea dei rapporti con il papato proclamando, in un memorabile discorso al Parlamento, Roma capitale morale di un’I. in cui avrebbe potuto vivere una libera Chiesa in libero Stato. Morto prematuramente Cavour (6 giugno 1861), B. Ricasoli (giugno 1861-marzo 1862) proseguì senza successo i contatti avviati dal conte con Pio IX per indurlo a rinunciare al potere temporale e ad accettare un regime di separazione tra Stato e Chiesa. U. Rattazzi (marzo-dic. 1862), succeduto a Ricasoli, cedette alla tentazione di far prendere Roma da Garibaldi sbarcando in Calabria al grido di «Roma o morte» e ripetendo l’esperienza dei Mille. Dovette però fermarlo con l’esercito sull’Aspromonte per evitare uno scontro con la Francia. La reazione dell’opinione pubblica fu tale da indurlo alle dimissioni. Dopo un breve ministero Farini, il nuovo presidente del Consiglio, M. Minghetti (marzo 1863-sett. 1864), negoziò con la Francia la cosiddetta «Convenzione di settembre». In base a essa la Francia garantiva il ritiro entro due anni delle proprie truppe poste a difesa del papa, mentre l’I. rinunciava formalmente a ogni pretesa su Roma impegnandosi a difendere quanto restava dello Stato pontificio da qualsiasi attacco esterno e a trasferire la capitale da Torino a Firenze. Nel 1866, mentre la questione romana restava così congelata, vi fu invece la possibilità di risolvere la questione veneta. La Prussia, decisa a muovere guerra all’Austria, offrì un’alleanza militare all’I., che vi aderì.  Gli unici fatti d’armi favorevoli all’I. furono dovuti a Garibaldi e ai suoi volontari nel Trentino. Vi furono due sconfitte italiane, per terra a Custoza e per mare a Lissa, ma la guerra fu vinta ugualmente grazie alle vittorie prussiane, facilitate dall’impegno di parte dell’esercito austriaco in Italia. L’Austria cedette il Veneto all’I. tramite la Francia. La presa di Roma fu invece possibile solo il 20 settembre del 1870, con la caduta di Napoleone III in seguito alla guerra franco-prussiana, dopo che un nuovo tentativo di Garibaldi nel 1867 era stato bloccato dall’esercito francese in un sanguinoso scontro a Mentana. L’atteggiamento di chiusura del papa pose il governo italiano nella necessità di definire unilateralmente i rapporti con la Chiesa con la legge delle guarentigie (1871), che riconosceva al pontefice gli onori sovrani e il possesso del Vaticano con il privilegio dell’extraterritorialità. Inoltre si abbandonavano quasi tutte le ingerenze giurisdizionali dello Stato nell’amministrazione ecclesiastica in linea con il principio cavouriano della libera Chiesa in libero Stato. Pio IX non la riconobbe, si dichiarò prigioniero in Vaticano e impose ai cattolici il divieto di partecipare alla vita politica del nuovo Stato, cosa che ne restrinse ancora di più le già ristrette basi della vita politica, dato che aveva diritto al voto, secondo il sistema elettorale allora vigente, il 2% della popolazione. Nel frattempo i governi della destra avevano fronteggiato e risolto il problema del brigantaggio, espressione della rivolta dei contadini poveri del Mezzogiorno, strumentalizzata da legittimisti borbonici e clericali. Nel 1863 la legge Pica aveva esteso la legge marziale alle aree interessate dal brigantaggio. La repressione aveva impegnato circa 120.000 soldati, la metà di tutto l’esercito italiano. Tra i ribelli si erano avute diverse migliaia di morti. Il brigantaggio, almeno come fenomeno di massa, si chiuse nel 1865. Non cessò tuttavia il malcontento dei contadini meridionali, la cui avversione nei confronti dello Stato era alimentata dalla leva obbligatoria e dall’aumento del carico fiscale. Inoltre, la liquidazione delle terre ecclesiastiche e dei beni demaniali incamerati dal nuovo Stato, favorì solo in parte la formazione di uno strato di piccoli e medi agricoltori, mentre premiò soprattutto la proprietà borghese medio-grande. Per quanto riguarda la costruzione delle nuove istituzioni unitarie, entro il 1865 venne ultimata l’unificazione doganale, monetaria, finanziaria e amministrativa, che si identificò per lo più con l’estensione all’intero Paese della legislazione e degli ordinamenti del regno sabaudo. La politica economica della destra fu ispirata a un rigoroso liberismo doganale, che favorì lo sviluppo delle esportazioni e della produzione agricola, a un forte impegno nella costruzione di infrastrutture e nello sviluppo civile in genere, da rendere compatibile con il peso della politica di completamento dell’unificazione e con l’imperativo del risanamento del deficit del bilancio e della diminuzione del ricorso al debito pubblico. La situazione fu affrontata mediante un forte aumento della pressione fiscale, in larga misura indiretta e quindi particolarmente gravosa per le masse popolari, con l’introduzione del corso forzoso, con la vendita dei beni dell’asse ecclesiastico e demaniali. Particolarmente odiosa risultò la tassa sul macinato, che colpiva un prodotto da cui dipendeva la sopravvivenza stessa degli strati più poveri della popolazione e che diede origine a proteste e tumulti. Nel 1876 fu conseguito il pareggio del bilancio a coronamento di un’azione di governo che nessun partito politico della successiva storia d’I. ha mai eguagliato. E tuttavia la durezza della politica fiscale e il carattere ristretto del blocco politico-sociale che sorreggeva la destra finirono per suscitare un malcontento diffuso, di cui seppe farsi portatrice la sinistra cosiddetta giovane, in rappresentanza degli interessi tanto della piccola e media borghesia del Nord, quanto dei proprietari e intellettuali meridionali.

I governi della «sinistra storica» da Depretis a Crispi

Il programma della sinistra prevedeva: difesa dello Stato laico e lotta al clericalismo; istruzione elementare obbligatoria; decentramento amministrativo; diminuzione e redistribuzione del carico fiscale; allargamento delle libertà civili; allargamento del suffragio. Quando nel 1876 il ministero Minghetti cadde, il re affidò ad A. Depretis, principale guida politica della sinistra, l’incarico di formare il nuovo governo. Depretis rimase alla guida del Paese quasi ininterrottamente dal 1876 al 1887, tranne la parentesi dei governi Cairoli nel 1878 e nel 1879-81. La realizzazione del programma fu graduale, non mancò di destare qualche delusione, dapprima nella sinistra di Cairoli, poi nella sinistra estrema formata da repubblicani, radicali e dai primi socialisti. Nonostante ciò dimostrò grande abilità nell’aggregare a partire dal 1882 una maggioranza politica di centro, nella quale confluirono esponenti della destra e che per questo fu definita negativamente «trasformista», ma che in realtà governò un grande processo di rinnovamento della vita politica, economica e civile al di là delle fragilità e delle degenerazioni che pure lo caratterizzarono. Le riforme introdotte nell’era di Depretis rispecchiarono la duplice esigenza di allargare il consenso sociale e di soddisfare istanze di progresso civile già affermate nei Paesi più progrediti. Furono approvate la legge Coppino sull’obbligo scolastico di almeno due anni per tutti i bambini (1877) e la riforma elettorale (1882), che portò al 6% della popolazione gli aventi diritto al voto contro il 2% dell’età della Destra. Fu abolita la tassa sul macinato e fu eliminato il corso forzoso. Furono approvate alcune leggi a sostegno dell’industria siderurgica e meccanica e fu introdotta, nel 1887, una legislazione protezionistica per favorire i settori strategici dell’industria del Nord e la cerealicoltura nazionale del Nord e del Sud, incapace di reggere il confronto con la concorrenza dei grani americani. Continuò, e anzi fu intensificato negli anni Ottanta, il programma di costruzioni ferroviarie avviato dalla Destra. In politica estera, in seguito allo scacco subito con l’imposizione del protettorato della Francia sulla Tunisia, considerata dall’I. area di una sua possibile espansione, fu stipulato il trattato della Triplice alleanza con Germania e Austria (1882). Depretis inaugurò anche la politica coloniale italiana, che però, a differenza di quella inglese o francese, non fu espressione di un capitale industriale e finanziario in forte espansione. Iniziata nel 1885 con l’occupazione di Massaua, la politica coloniale italiana registrò una grave disfatta a Dogali nel 1887, che segnò la fine del dominio politico di Depretis, costretto ad accordarsi con F. Crispi e ad accoglierlo nel suo ultimo governo. Ex rivoluzionario e democratico mazziniano ai tempi dell’unificazione, sostenitore del suffragio universale, Crispi si era convertito alla monarchia ed era divenuto uno degli esponenti di spicco della sinistra moderata. Convinto nazionalista, si impegnò a cancellare l’umiliazione di Dogali e a rilanciare le ambizioni coloniali italiane. Con la firma del Trattato di Uccialli (1889) il sovrano d’Etiopia Menelik sembrò accettare il protettorato italiano sull’impero etiope e riconobbe le conquiste italiane in Eritrea, che fu proclamata ufficialmente colonia nel 1890. All’interno Crispi attuò una serie di importanti riforme di carattere progressista (eleggibilità dei sindaci, allargamento del suffragio amministrativo, istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato, abolizione della pena di morte, libertà di sciopero), bilanciate da altre riforme tendenti ad accrescere il controllo dell’amministrazione centrale su quella periferica (rafforzamento del potere del presidente del Consiglio, aumento delle funzioni di controllo dei prefetti sugli organi di rappresentanza provinciali). Inoltre accentrò nella sua persona le cariche di presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e ministro dell’Interno. Tentò inutilmente una conciliazione tra Stato e Chiesa e, visto l’insuccesso, esasperò le tendenze anticlericali. Il suo primo governo terminò nel febbraio 1891, quando la Camera non accolse alcune proposte di inasprimento fiscale che tentavano di rimediare al deficit del bilancio dello Stato ricomparso nel 1884-85. Seguì un ministero presieduto da A. di Rudinì e uno di G. Giolitti (maggio 1892-nov. 1893), il quale manifestò l’intenzione di diminuire il carico fiscale a favore dei meno abbienti, allentò la pressione di polizia sulle opposizioni, in particolare sui socialisti, instaurando un clima più liberale, anche se utilizzò pesantemente l’apparato statale per assicurarsi una solida maggioranza alle elezioni del 1892 (anno in cui i socialisti si riorganizzarono nel Partito dei lavoratori italiani). Giolitti riordinò il sistema degli istituti di emissione riducendoli a tre e fondando la Banca d’Italia, ma il suo primo governo fu interrotto dallo scandalo della Banca romana e dalle agitazioni dei Fasci siciliani, movimento che esprimeva la protesta dei contadini, dei mezzadri e dei braccianti contro l’eccessivo fiscalismo e lo strapotere dei ceti dominanti locali. Nel dicembre 1893 tornò al potere Crispi che, salutato dalla borghesia come l’uomo forte richiesto dal momento, fece proclamare lo stato d’assedio in Sicilia, dove la repressione provocò un centinaio di morti. Un tentativo di insurrezione anarchica in Lunigiana contribuì ad alimentare i timori di una cospirazione generale diretta a colpire lo Stato. La repressione delle organizzazioni operaie e socialiste fu dura in tutto il Paese. Nel frattempo Crispi fronteggiò la più grave recessione che l’economia italiana avesse vissuto dall’unificazione, causata dalla guerra commerciale con la Francia, dalla crisi agraria e industriale, dell’edilizia, bancaria, e dal grave deficit commerciale. Tra il 1894 e il 1895 fu nuovamente raggiunta la parità del bilancio dello Stato, fu favorita la rifondazione dell’intero sistema creditizio travolto dalla crisi edilizia e dalla crisi economica, con la nascita delle banche miste che avrebbero avuto un ruolo di primo piano nella storia dell’economia italiana sino alla grande crisi del 1929. Nel 1895, forte di una maggioranza parlamentare schiacciante, Crispi riprese l’offensiva espansionistica contro l’Etiopia, ma l’esercito italiano il 1° marzo 1896 registrò ad Adua una delle sconfitte più tragiche della sua storia. Un’ondata di violente manifestazioni di piazza chiuse definitivamente la vita politica di Crispi. Il suo successore, di Rudinì (marzo 1896-giugno 1898), pose fine alla guerra d’Africa, ma non abbandonò l’Eritrea. Cercò di allentare le tensioni interne, ma la ripresa economica tardava a far sentire i suoi effetti, l’emigrazione assumeva dimensioni senza precedenti, il malessere sociale cresceva. La situazione precipitò nella primavera del 1898, in seguito a un forte rincaro del prezzo del grano. A Milano scoppiarono violenti tumulti: l’esercito, agli ordini del generale Bava Beccaris, sparò sulla folla provocando numerose vittime. Seguirono centinaia di arresti, fra cui quelli di numerosi esponenti socialisti. I tribunali pronunciarono pesanti condanne. Rudinì si dimise e il re incaricò il generale L. Pelloux (giugno 1898-giugno 1900) di formare il governo col mandato di mantenere sotto rigido controllo l’ordine pubblico. Nel febbraio 1899 fu presentato alla Camera un progetto di legge che intendeva limitare la libertà di stampa, di associazione, di riunione e di sciopero. Questa svolta reazionaria creò un fronte di opposizione che andava dai socialisti alla sinistra liberale. Il braccio di ferro tra governo e opposizione sui provvedimenti si concluse con lo scioglimento della Camera (maggio 1900). Le elezioni politiche videro una forte avanzata dell’estrema sinistra e della sinistra costituzionale. Pelloux si dimise e al suo posto fu nominato G. Saracco (giugno 1900-febbr. 1901). Poco tempo dopo Umberto I (1878-1900), assurto a simbolo delle pulsioni autoritarie, cadde per mano dell’anarchico G. Bresci. Gli successe il figlio Vittorio Emanuele III (1900-46), che tentò la carta dell’apertura all’opposizione liberale, conferendo la presidenza del Consiglio a G. Zanardelli (febbr. 1901-ott. 1903).

Dall’età giolittiana alla Grande guerra

Il governo Zanardelli, con Giolitti ministro dell’Interno, raccolse i primi effetti positivi di uno dei periodi di più rapido sviluppo che l’economia italiana abbia mai conosciuto. La fase espansiva, i cui benefici non erano stati sino ad allora tali da poter incidere sul livello generale di vita delle masse popolari, era cominciata già verso la metà degli anni Novanta e si protrasse, a parte la grave battuta d’arresto del 1907, sino allo scoppio della Prima guerra mondiale. Al notevole progresso dell’agricoltura corrispose un vero e proprio boom dell’industria, che tuttavia, confinato alle regioni nordoccidentali, accentuò il divario tra un’I. settentrionale in rapida trasformazione e un’I. meridionale la cui economia, in movimento nel settore agricolo, appariva bloccata in tutti i settori delle attività industriali diversi da quello alimentare e, ma solo in parte, tessile. Guardando alle esperienze dei Paesi più avanzati, Giolitti, divenuto ben presto arbitro della vita parlamentare, si rese conto che il movimento operaio e contadino non poteva essere fermato più di tanto nella rivendicazione di migliori condizioni di vita, economiche e civili, e che la borghesia italiana doveva porsi sulla strada del confronto con i sindacati e con i socialisti. Un suo obiettivo politico fondamentale fu quello di integrare le masse popolari nella vita dello Stato liberale, sottraendole all’influenza delle ideologie rivoluzionarie e portando i cattolici a partecipare alla vita politica. Come ministro dell’Interno, in materia di conflitti del lavoro adottò una strategia tesa da una parte a legittimare gli scioperi di carattere economico volti a conseguire il rialzo dei salari, dall’altra a combattere gli scioperi di natura politica in nome della tutela dell’ordine pubblico. Particolarmente forte divenne nelle campagne della Valle Padana il movimento delle leghe e delle cooperative. Zanardelli, malato, si dimise nel 1903 e Giolitti formò il suo secondo ministero (nov. 1903-marzo 1905), tentando, mediante l’offerta a F. Turati di entrare nel governo, di dividere il Partito socialista responsabilizzando l’ala riformista e isolando quella rivoluzionaria. Ma proprio in questa fase fra i socialisti prevalsero gli intransigenti. Turati non entrò nel governo e nel settembre 1904 si giunse alla proclamazione dello sciopero generale. Giolitti non adottò la linea della repressione frontale, ma sciolse la Camera e fece indire dal re nuove elezioni, conseguendo un netto successo. A questo risultato contribuì anche il fatto che Pio X permise ai cattolici di partecipare al voto, facendo eccezione al non expedit, per impedire la vittoria dei candidati socialisti. La decisione papale si collocava all’interno di un’intensa attività svolta da un lato dalle organizzazioni cattoliche facenti capo all’Opera dei congressi, fondata nel 1874 per promuovere l’innalzamento della classe operaia e contadina attraverso una rete di associazioni tra cui spiccano le casse rurali e le società di mutuo soccorso; dall’altro, dalla corrente «democratico-cristiana» che, traendo impulso dall’enciclica sociale di Leone XIII Rerum novarum (1891), raccoglieva gli ambienti più avanzati del mondo cattolico. A Giolitti, che abbandonò la guida del governo al principio del 1905, succedette dapprima A. Fortis (marzo 1905-febbr. 1906), un suo luogotenente, quindi il capo dell’opposizione liberale S. Sonnino (febbr.-maggio 1906). Durante il terzo ministero Giolitti, il più lungo (maggio 1906-dic. 1909), la crisi industriale portò a una maggiore concentrazione delle imprese più forti; ciò favorì anche una crescente centralizzazione delle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori: contemporaneamente alla Confederazione generale del lavoro (1906), di orientamento socialista, nacque a Torino una Lega industriale, che poi divenne la Confederazione italiana dell’industria (1910). Nel dicembre 1908 un catastrofico terremoto colpì Messina e Reggio Calabria, provocando tra 60 e 80.000 morti (➔ Messina, terremoto di). Le elezioni politiche del 1909 videro un ulteriore rafforzamento dei socialisti, dei radicali e dei repubblicani. Nel 1909, in seguito al rifiuto della Camera di approvare alcuni decreti legge, Giolitti si dimise, lasciando il posto prima a Sonnino, che durò in carica pochi mesi, quindi a L. Luzzatti (marzo 1910-marzo 1911). Nel marzo 1911 formò il suo quarto ministero, che durò fino al marzo 1914 e che si caratterizzò per tre importanti provvedimenti legislativi: trasferimento della scuola elementare dal controllo dei comuni a quello statale; istituzione del monopolio di Stato delle assicurazioni sulla vita; introduzione del suffragio universale maschile, che estendeva il diritto di voto anche agli analfabeti che avevano compiuto i 30 anni. Per controbattere la virulenta polemica nazionalista rilanciò la politica coloniale con la conquista della Libia controllata allora dalla Turchia. Fu una guerra più lunga e difficile del previsto (1911-12), che provocò migliaia di morti e feriti, consumando ingenti risorse. Nelle elezioni del 1913 i liberali, messi in difficoltà dalla mancanza di un’organizzazione partitica moderna capace di mobilitare le masse, furono soccorsi dai cattolici, in grado di contrapporre la rete delle parrocchie e delle associazioni religiose alla ramificata struttura territoriale del Partito socialista. L’Unione elettorale cattolica, nella persona del suo presidente O. Gentiloni, in cambio dell’appoggio elettorale ottenne l’impegno dei candidati liberali eletti col voto cattolico a opporsi nella nuova Camera a qualsiasi legge che andasse contro gli interessi dei cattolici. Tale intesa e l’aperta collusione, specie nel Mezzogiorno, della macchina dei prefetti, della polizia e della stessa mafia, impegnati con ogni mezzo legale e illegale a intimidire le opposizioni, salvarono i liberali da una secca sconfitta elettorale, ma non impedirono un consistente rafforzamento dei socialisti e dei radicali. Prendendo atto del mutamento intervenuto negli equilibri politici e sociali del Paese, Giolitti si dimise. Gli succedette A. Salandra, un liberale di destra pugliese (marzo 1914-giugno 1916), che guidò il Paese nei primi anni del conflitto. Nell’estate 1914, quando scoppiò la Prima guerra mondiale, l’I., visto il carattere difensivo della Triplice alleanza e il mancato rispetto da parte austriaca dell’impegno a una consultazione preliminare con gli alleati in caso di crisi, dichiarò la propria neutralità (3 ag.), rispecchiando l’orientamento della grande maggioranza sia del Parlamento sia del Paese. Contrari all’intervento erano i liberali giolittiani e gran parte del mondo industriale; i socialisti, in osservanza ai principi dell’internazionalismo; i cattolici, che esprimevano i sentimenti pacifisti delle masse, specie contadine, e i timori del Vaticano che l’I. scendesse in guerra contro l’Austria cattolica. A favore era una minoranza composita, divisa tra i liberali conservatori, gli «interventisti democratici» (che vedevano nella guerra all’Austria l’occasione per la liberazione dei popoli da essa oppressi), una parte dei sindacalisti rivoluzionari (che consideravano la guerra il battistrada della rivoluzione) e infine i nazionalisti. A favore era anche la monarchia, secondo cui la neutralità avrebbe condannato in futuro l’I. a una posizione di secondo piano. Il 26 aprile 1915, con il Patto di Londra, preceduto da trattative segrete con le potenze dell’Intesa, l’I. si impegnò a entrare in guerra contro gli imperi centrali entro un mese dalla firma. All’I. erano stati promessi il Trentino, il Tirolo cisalpino fino al Brennero (con popolazioni tedesche), l’Istria fino al Quarnaro esclusa Fiume (con popolazioni slave), parte della Dalmazia, Valona e il protettorato sull’Albania, il Dodecaneso e il bacino carbonifero di Adalia. Si prevedevano anche imprecisati compensi coloniali. Manifestazioni di piazza (le «radiose giornate di maggio») sostenute anche dal governo si susseguirono in appoggio all’intervento. L’ostacolo della maggioranza parlamentare schierata su una linea neutralista fu superato dalle pressioni, spesso degenerate in violenza, degli interventisti e grazie anche al rifiuto di Giolitti, pure personalmente contrario alla guerra, di capeggiare fino in fondo l’opposizione al conflitto, per non entrare in urto con la monarchia. Il 24 maggio del 1915 l’I. entrò in guerra contro l’Austria. L’esercito, guidato dal generale L. Cadorna, affrontava la prova con lacune sul piano organizzativo e della preparazione tecnica. Le offensive sferrate nella zona dell’Isonzo e del Carso non riuscirono a conseguire risultati di rilievo. Il 1916 fu caratterizzato dal tentativo austriaco di eliminare l’I. dal conflitto attaccando a fondo l’ex alleato. Salandra, considerato responsabile dell’impreparazione dell’esercito, dovette dimettersi. Al suo posto, a capo di un «ministero nazionale», fu nominato P. Boselli (giugno 1916-ott. 1917). Il 28 agosto 1916 l’I. dichiarò guerra anche alla Germania. Svanita l’illusione di un conflitto di breve durata, il Paese dovette affrontare i costi di un’estenuante guerra di logoramento. Quando gli austriaci, rafforzati da forze tedesche, sfondarono le linee nei pressi di Caporetto (24 ott. 1917), la ritirata delle truppe italiane si trasformò in una rotta disordinata. Boselli cadde e venne sostituito da V.E. Orlando (ott. 1917-giugno 1919), mentre al posto di Cadorna, inviso alle truppe per la brutale disciplina e l’indifferenza per la vita dei soldati, fu posto il generale A. Diaz. Nei mesi successivi l’esercito riuscì a contenere l’offensiva degli austriaci, fermati sul Monte Grappa e sul Piave e respinti ancora (giugno 1918) in un ultimo tentativo di vincere la resistenza italiana. La vittoria italiana giunse con l’attacco generale sferrato il 24 ottobre nella battaglia di Vittorio Veneto, nella quale l’Austria subì la disfatta definitiva.

Dalla crisi dello Stato liberale alla catastrofe della Seconda guerra mondiale

L’I. uscì dal conflitto vittoriosa sul piano militare e su quello della mobilitazione industriale, ma in preda a una grave crisi economica, sociale e politica: bilancio dello Stato in gravissimo disavanzo; svalutazione della lira e aumento dei prezzi; difficoltà gravissime nella riconversione dall’economia di guerra a quella di pace e nel reinserimento nel mondo della produzione di milioni di reduci ai quali era stata promessa nel momento del sacrificio supremo una condizione di vita economica e civile migliore di quella dell’anteguerra; estremismi politici in crescita soprattutto sul fronte socialista massimalista, esaltato dalle sirene della rivoluzione bolscevica, mentre i nazionalisti protestavano e si agitavano a causa della vittoria mutilata. Alla Conferenza per la pace di Parigi (genn. 1919) le richieste italiane incontravano l’ostilità degli alleati e in particolare del presidente americano T.W. Wilson, che le considerava lesive dei diritti di altre nazionalità, specie di quella slava. La «questione adriatica», cioè il futuro della Dalmazia e di Fiume, suscitò contrasti tali per cui Orlando e Sonnino, ministro degli Esteri, abbandonarono la conferenza in segno di protesta (in giugno il primo si dimise e fu sostituito da F.S. Nitti). Dagli accordi di pace dell’Austria con l’Intesa, l’I. ottenne il Trentino fino al Brennero, la Venezia Giulia, l’Istria e parte della Dalmazia, ma non Fiume. Il 12 settembre G. D’Annunzio, contando sulla complicità dei comandi militari, occupò la città con reparti ribelli proclamandone l’annessione all’I., aprendo così una crisi internazionale. Scoppiarono con rinnovata violenza le polemiche tra neutralisti e interventisti. Nel 1919 alle prime elezioni generali con il sistema proporzionale oltre la metà dei seggi fu presa dai due grandi partiti di massa, il Partito socialista (che ebbe la maggioranza relativa) e il Partito popolare (la formazione dei cattolici fondata da L. Sturzo), mentre i liberali persero molti consensi. Lo scontro sociale e la minaccia rivoluzionaria crescevano, nonostante i miglioramenti salariali ottenuti, che peraltro cominciarono a destare lo scontento delle masse piccolo-borghesi non sindacalizzate e prive di difesa contro l’inflazione. Nel giugno 1920 Giolitti fu chiamato ancora una volta alla guida del governo e riprese l’opera di mediazione fra le diverse forze politiche. I risultati più consistenti giunsero in politica estera col Trattato di Rapallo, grazie al quale l’I. ottenne tutta l’Istria e la città di Zara, mentre la Dalmazia andava alla Iugoslavia e Fiume diveniva una città-Stato indipendente (nel 1924 un nuovo accordo la assegnò all’I.). In politica interna, di fronte al più grande conflitto del lavoro del dopoguerra, con l’occupazione delle fabbriche torinesi, Giolitti anziché ricorrere alla repressione militare scelse una linea di attesa e lasciò che la marea rivoluzionaria rifluisse spontaneamente e le parti trovassero tra loro accordi, che lasciarono forti fasce di scontento. Parte della borghesia vide nel suo atteggiamento prudente l’abdicazione dello Stato ai compiti di difesa della proprietà e dell’ordine. D’altro canto l’aggressività delle organizzazioni politiche e sindacali di sinistra generò panico nell’alta borghesia e avversione crescente anche nei ceti medi non protetti. I Fasci di combattimento, fondati da B. Mussolini nel 1919 (➔ fascismo), si rafforzarono a partire dalle campagne dell’I. centrale, dove agivano negli interessi degli agrari, ma offrirono una sponda a tutti i timori, le insoddisfazioni e le frustrazioni di quanti si ritenevano danneggiati e delusi dalla guerra prima e dagli scontri del biennio rosso dopo. La grande industria dopo gli agrari individuò nei Fasci uno strumento da contrapporre al movimento operaio e lo finanziò. Nel 1921 i comunisti si staccarono dai socialisti, dando vita al Partito comunista d’Italia sotto la guida di A. Bordiga e A. Gramsci. Sentendo vacillare la propria maggioranza parlamentare, Giolitti fece sciogliere le Camere e indire nuove elezioni (maggio), che videro l’ingresso dei fascisti nei «blocchi nazionali» assieme ai liberali. Quando Giolitti constatò che il suo programma di mediazione non aveva più il sostegno di un establishment ormai schierato su posizioni di rigida conservazione e di attacco violento contro il movimento operaio, rinunciò a formare il governo. Gli subentrò I. Bonomi (luglio 1921-febbr. 1922), che costituì un governo di coalizione tra liberali, popolari e socialisti riformisti. Al Congresso di Roma (nov. 1921) Mussolini trasformò il suo movimento in Partito nazionale fascista (PNF). Nel febbraio 1922, L. Facta, giolittiano di modesta levatura, succedette a Bonomi, debole e impotente di fronte al dilagare della violenza delle squadre fasciste contro gli oppositori. A fine ottobre Mussolini annunciò la «marcia su Roma» delle camicie nere fasciste. Il re, in un primo tempo intenzionato a proclamare lo stato d’assedio, rifiutò poi di firmare il decreto, temendo di alienare alla monarchia l’appoggio della classe dirigente schierata a favore di Mussolini, e diede a quest’ultimo l’incarico di formare il governo; nacque così un esecutivo di coalizione, costituito da fascisti, liberali di varie correnti e popolari. Fusosi nel 1923 con il movimento nazionalista, il PNF creò un Gran consiglio del fascismo, con funzioni di raccordo tra partito e governo. Le forze paramilitari fasciste furono inquadrate in una milizia volontaria per la sicurezza nazionale; fu introdotta una riforma elettorale in senso maggioritario (legge Acerbo) che prevedeva l’attribuzione dei due terzi dei seggi alla lista di maggioranza relativa che avesse ottenuto il 25% dei suffragi. Alle elezioni del 1924, che si svolsero in un clima di intimidazioni e violenze contro le opposizioni, un «listone» di emanazione del Gran consiglio, in cui entrò anche la maggioranza dei liberali, ottenne il 64,9%. G. Matteotti, segretario del Partito socialista unificato, che al momento della convalida dei risultati elettorali ne mise in discussione alla Camera la validità a causa delle violenze esercitate dai fascisti, il 10 giugno venne rapito e ucciso. La reazione nel Paese fu enorme. Con la cosiddetta «secessione dell’Aventino» le opposizioni scelsero di astenersi dai lavori parlamentari fino a che non fosse stata ristabilita la legalità. Mussolini apparve in gravissima difficoltà, ma il permanere dei fattori che lo avevano portato al potere gli consentì di superare l’impopolarità del momento e annientare ogni resistenza. Nel discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, assunse apertamente su di sé la responsabilità completa delle violenze fasciste e tra il 1925 e il 1926, attraverso l’emanazione di una serie di leggi, trasformò lo Stato liberale in regime dittatoriale. Fu abolito il pluralismo partitico, il Parlamento svuotato di ogni potere, abolite le libertà di stampa, di associazione, di organizzazione. Nel 1928 la Camera varò una nuova legge elettorale, che prevedeva una lista unica nazionale di 400 candidati scelti dal Gran consiglio, da sottoporre agli elettori per l’approvazione in blocco: da quel momento le elezioni assunsero un carattere di fatto plebiscitario. L’idea di costruire un nuovo ordine economico-sociale, il sistema «corporativo», trovò una prima espressione nella Carta del lavoro (1927), ma il disegno rimase in sostanza inapplicato, nonostante la nascita delle corporazioni nel 1934. Nel 1939, abolita la Camera dei deputati, fu istituita la Camera dei fasci e delle corporazioni. Al consolidamento del regime non fu estraneo l’atteggiamento benevolo della Chiesa cattolica seguito all’accordo con lo Stato fascista, che pose fine all’annosa questione romana: la conciliazione fu firmata l’11 febbraio 1929. La laicità dello Stato apparve minata da quelli che poi furono chiamati Patti lateranensi, mentre si realizzavano i congiunti propositi di Mussolini di fare del cattolicesimo un pilastro del nuovo ordine politico e della Chiesa di utilizzare lo Stato italiano per rinsaldare la sua influenza sulla società. Non mancarono tuttavia motivi di tensione tra Chiesa e regime, quali per es. quelli per il controllo della gioventù e per il ruolo dell’Azione cattolica. Le forze antifasciste furono sottoposte a una sistematica repressione, sicché – fatta eccezione per il Partito comunista, che conservò una sua struttura clandestina in I. – esse si riorganizzarono all’estero, specie in Francia, dove nel 1927 fu costituita la Concentrazione antifascista. Nel 1929, per impulso dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, fu fondata Giustizia e libertà, che si aggiunse al Partito comunista come nucleo più attivo dell’antifascismo in Italia. Intanto la grande crisi degli anni Trenta produsse una ristrutturazione dell’intera economia: in particolare si rafforzò la tendenza alla concentrazione industriale e finanziaria e divenne sempre più massiccio l’intervento statale nell’economia, con l’assunzione del controllo delle maggiori banche e di importanti settori dell’industria attraverso l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), creato nel 1933. L’energica politica di intervento attuata in I. riscosse apprezzamenti a livello internazionale specie in America, dove il regime divenne popolare tra le comunità degli emigrati e mise in seria difficoltà fuorusciti come G. Salvemini. In politica estera si ebbe una svolta decisiva nel 1935, quando l’I. invase l’Etiopia con grande larghezza di mezzi e facendo uso anche di gas nervini. La Società delle nazioni condannò l’aggressione e approvò una serie di sanzioni economiche, ma il 9 maggio 1936 Mussolini proclamò la fondazione dell’impero e ottenne il massimo dei consensi. Questo atto di aperta violazione del sistema di sicurezza collettiva portò l’I. ad allontanarsi dalle potenze che se ne erano fatte garanti, in primo luogo la Francia e la Gran Bretagna, e ad avvicinarsi alla Germania nazista, che mirava al sovvertimento dell’assetto internazionale uscito da Versailles. L’intervento della Germania e dell’I. nella guerra civile spagnola al fianco dei militari ribelli si spiega con questa linea generale. G. Ciano, ministro degli Esteri, stipulò un accordo con la Germania, l’Asse Roma-Berlino (1936), che allineava l’I. alla politica hitleriana. Nel 1938 venne introdotta anche in I., sull’esempio della Germania, una legislazione discriminante nei confronti degli ebrei. Mentre Hitler portava a compimento il proposito di riunificazione dell’Austria nel Terzo Reich, l’I. passava anch’essa all’azione, impadronendosi dell’Albania (aprile 1939). I. e Germania strinsero quindi il «patto d’acciaio», che prevedeva l’alleanza reciproca in caso di guerra. Tuttavia, quando, in seguito all’invasione tedesca della Polonia, scoppiò la Seconda guerra mondiale, l’I. proclamò la non belligeranza: nonostante la retorica bellicista del regime, era del tutto impreparata sul piano militare. Solo dopo i primi travolgenti successi della Germania, e soprattutto dopo il crollo della Francia, Mussolini entrò in guerra (10 giugno 1940) convinto di partecipare a una vittoria a portata di mano e con l’ambizione di una «guerra parallela» paritaria con quella tedesca che gli avrebbe consentito di espandersi facilmente nel Mediterraneo e nella regione danubiano-balcanica. Tanto in Grecia (attaccata nell’ottobre 1940) quanto nell’Africa settentrionale le operazioni presero però una piega sfavorevole e si rese necessario il soccorso tedesco: l’inferiorità dell’I. sul piano militare divenne manifesta. Nel 1941 l’I. inviò un corpo di spedizione in Russia a sostegno dell’attacco tedesco, ma le gravissime sconfitte dell’Asse in Africa nel 1942 (El Alamein) e quelle in Russia del 1943 (Stalingrado) chiarirono che le sorti della guerra stavano prendendo una piega assai diversa da quella immaginata. Iniziarono le ripercussioni sul fronte interno. La credibilità del fascismo era fortemente scossa, tanto tra le masse popolari, colpite sempre più duramente dai bombardamenti e da restrizioni di ogni genere, quanto nella classe dirigente, intenzionata a non lasciarsi travolgere dal crollo del regime. I grandi scioperi operai del marzo 1943 diedero a questo una prima spallata, ma la situazione precipitò quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia (10 luglio). Ai vertici del regime maturò allora l’idea di sbarazzarsi di Mussolini e cercare di uscire dalla guerra. Nella seduta del Gran consiglio del 24-25 luglio 1943 un ordine del giorno, proposto da D. Grandi, che invitava il re a riassumere le proprie prerogative statutarie, venne approvato a larga maggioranza. Il re fece arrestare Mussolini e nominò capo del nuovo governo il maresciallo P. Badoglio.

Dal crollo del fascismo alla nascita della Repubblica

Nel corso del governo detto «dei 45 giorni» Badoglio condusse con gli Alleati trattative segrete che portarono alla firma di un armistizio che, annunciato l’8 settembre 1943, provocò la disgregazione dell’esercito, lasciato senza istruzioni operative. Il 9 settembre il re e Badoglio abbandonarono Roma e fuggirono a Brindisi. I tedeschi, posta sotto controllo l’I. centrosettentrionale, liberarono dal confino del Gran Sasso Mussolini, che annunciò la nascita della Repubblica sociale italiana. Intanto i partiti antifascisti si riorganizzavano; a Roma si costituì un Comitato di liberazione nazionale (CLN), e in breve tempo CLN locali sorsero in molte zone del Paese. L’I. si divise in due: una Repubblica fascista al Centro-Nord, di diretta emanazione dei tedeschi, e un regno del Sud nel Mezzogiorno, in rapporti diretti e subordinati con gli Alleati. Mentre nel Nord, su impulso dei comunisti (e in particolare di L. Longo) e delle altre forze antifasciste, si costituirono le brigate partigiane e agiva il Comitato di liberazione nazionale alta Italia (CLNAI), nel regno del Sud il problema della formazione di un governo rappresentativo delle forze antifasciste era legato alla posizione da tenersi nei confronti del re e di Badoglio, dei quali i partiti antifascisti chiedevano l’allontanamento immediato, mentre gli Alleati ne preferivano il mantenimento a garanzia dell’armistizio e di un futuro assetto moderato dell’ordinamento politico della penisola. La situazione si sbloccò nella primavera del 1944 quando l’URSS, precedendo Stati Uniti e Gran Bretagna, riconobbe il governo Badoglio. P. Togliatti, leader del Partito comunista italiano, con la cosiddetta «svolta di Salerno» si espresse a favore della formazione di un governo di unità nazionale, presieduto da Badoglio e appoggiato da tutti i partiti, avente come obiettivo la lotta contro il nazifascismo. Subito dopo la liberazione di Roma, il re trasferì i suoi poteri al figlio Umberto in qualità di luogotenente e Badoglio si dimise. Gli succedette I. Bonomi (giugno-dic. 1944), che affrontò il problema dei rapporti con la Resistenza che si era sviluppata al Nord e che aveva assunto caratteristiche che la storiografia recente ha definito di guerra civile. Il ruolo del movimento partigiano, del CLNAI e del Corpo volontari della libertà (CVL, coordinato da L. Longo, da F. Parri del Partito d’azione e dal generale Cadorna), fu riconosciuto dagli Alleati e dal governo Bonomi. I comandi partigiani si impegnarono a rispettare le disposizioni alleate e a sottostare all’autorità del governo del Sud. Il 24-25 aprile 1945, mentre le truppe alleate invadevano la Pianura Padana, fu proclamata l’insurrezione generale. Mussolini, catturato dai partigiani, fu fucilato. Per le condizioni di pace dettate alla Conferenza di Parigi (luglio-ott. 1946), l’I. perse Briga e Tenda a favore della Francia e l’Istria a favore della Iugoslavia. Trieste, fonte di acute tensioni, fu dichiarata «territorio libero» e divisa in due parti, l’una sotto amministrazione anglo-americana, l’altra sotto amministrazione iugoslava. Furono perse tutte le colonie. Il fascismo e la guerra lasciarono una pesante eredità. La situazione economica, pur migliore di quella di altri Paesi europei, era comunque grave. Nell’ultimo anno di guerra le attività produttive si erano quasi paralizzate. Dopo la liberazione, si formò un governo più rappresentativo delle forze della Resistenza guidato da F. Parri, che perse in breve il sostegno dei democristiani (eredi del Partito popolare) e dei liberali, a causa del suo programma, giudicato troppo sbilanciato a sinistra. Seguì il primo ministero del leader democristiano A. De Gasperi (dic. 1945-luglio 1946), che attuò una svolta moderata. Eliminò i prefetti e i questori nominati dai CLN, reintegrando la burocrazia centrale, e chiuse il processo di epurazione dei fascisti. Il 2 giugno 1946 si tennero le elezioni per l’Assemblea costituente e il referendum per la scelta della forma istituzionale. Le prime videro emergere i tre grandi partiti di massa, che raccolsero il 75% dei suffragi: Democrazia cristiana (DC), Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), Partito comunista italiano (PCI). Nel referendum i voti ufficiali per la Repubblica furono 12.717.923, quelli per la monarchia 10.719.284 (la monarchia risultò vincitrice in tutte le regioni meridionali). Presidente provvisorio della Repubblica fu il liberale indipendente E. De Nicola; presidente dell’Assemblea costituente fu eletto il comunista U. Terracini. Il secondo ministero De Gasperi (luglio 1946-febbr. 1947) fu ancora retto da una coalizione tra partiti di centro (DC, Partito repubblicano italiano-PRI) e di sinistra (PCI, PSIUP). Cominciarono però a farsi sentire anche in I. gli echi della guerra fredda tra blocco sovietico e Occidente. La prima conseguenza fu la frattura del Partito socialista guidato da P. Nenni, da cui si staccarono per iniziativa di G. Saragat quanti erano contrari a un’intesa con i comunisti e si riconoscevano nello schieramento atlantico (scissione di palazzo Barberini, gennaio 1947). De Gasperi diede le dimissioni e formò un nuovo esecutivo (febbr.-maggio 1947) transitorio. Il 1° maggio, intanto, l’eccidio dei lavoratori siciliani in festa dopo il successo delle sinistre alle elezioni amministrative (strage di Portella della Ginestra) confermò la durezza dello scontro sociale e politico in atto. In questo quadro De Gasperi ruppe la coalizione con le sinistre e aprì una stagione di governi centristi con un gabinetto nel quale entrarono liberali e repubblicani come L. Einaudi e C. Sforza. I lavori della costituente procedevano invece in modo unitario, dando vita a ricchi dibattiti e a una sintesi delle tre culture che vi prendevano parte (cattolica, liberale e marxista), che produsse la Costituzione repubblicana, la quale entrò in vigore il 1° gennaio 1948.

Dalla ricostruzione al centrosinistra

Le elezioni politiche del 18 aprile 1948 furono influenzate dalla Guerra fredda. Finanziata dagli USA, sostenuta dalla Chiesa, fiancheggiata da una rete di comitati civici e dall’Azione cattolica, la DC conseguì una vittoria netta, ottenendo il 48,5% dei voti contro il 31% del Fronte popolare social-comunista sostenuto dall’URSS. La tensione divenne altissima dopo un attentato a Togliatti compiuto da uno studente, ma grazie all’azione moderatrice dei vertici sindacali e del PCI le agitazioni furono contenute. Tuttavia la contrapposizione politica rimaneva aspra e, alla rottura dell’unità antifascista, seguì quella dell’unità sindacale, per cui dalla CGIL unitaria guidata da G. Di Vittorio (a maggioranza social-comunista) uscirono la componente cattolica (per dare vita alla CISL) e quelle socialdemocratica e repubblicana (che costituirono la UIL). Intanto, grazie anche agli aiuti economici del Piano Marshall, prese avvio il processo di ricostruzione del Paese, che ebbe tempi molto rapidi. Nella prima legislatura (1948-53) si susseguirono tre governi De Gasperi, tutti di coalizione centrista. Vi fu una politica abbastanza dura nella soluzione dei conflitti di lavoro, che sfociò negli eccidi di lavoratori di Melissa, 1949, e di Modena, 1950, ma anche in un grande sforzo riformatore sul piano economico-sociale. Nel 1950 fu varata la riforma agraria, i cui risultati furono in parte limitati dalla ridotta dimensione degli appezzamenti di terra assegnati. Nello stesso anno fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno, un ente per l’attuazione di un piano di infrastrutture per stimolare lo sviluppo del Meridione. Nel 1951 fu fatta la riforma fiscale, che introdusse l’imposta sul reddito. Poco dopo fu varato il piano casa elaborato da A. Fanfani. In politica estera, l’I. partecipò attivamente alle prime iniziative per l’integrazione europea. Nel 1949 entrò nella NATO come Paese fondatore. Nel 1953, dopo una serie di sconfitte della DC alle elezioni amministrative, De Gasperi, per garantirsi una salda maggioranza nel futuro Parlamento, fece approvare una nuova legge elettorale (che le opposizioni chiamarono «legge truffa»), che prevedeva un premio di maggioranza ai partiti apparentati che avessero superato il 50% dei voti. A giugno però la coalizione centrista (DC, PRI, PLI, PSDI) con il 49,85% dei suffragi non raggiunse il quorum necessario a far scattare il premio di maggioranza. La DC perse, rispetto al 1948, quasi due milioni di voti e in regresso furono anche i partiti alleati. La seconda legislatura (1953-58) fu quindi caratterizzata dalla lunga crisi della formula centrista. All’ultimo, fallito tentativo di formare un governo da parte di De Gasperi, seguirono 5 governi, di cui 3 monocolore DC e 2 di coalizione con liberali e socialdemocratici. Nel 1954 fu raggiunto un accordo sulla questione di Trieste: l’I. ottenne la zona A del territorio libero. Nel 1955 l’I. entrò a far parte dell’ONU. Il nuovo presidente della Repubblica, il democristiano di sinistra G. Gronchi, rivolse un invito a porre fine al centrismo inaugurando una nuova stagione di riforme, e stimolò anche una politica estera meno schiacciata su un rigido atlantismo. Intanto la destalinizzazione prima e poi l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 portarono alla rottura fra PCI e PSI e a un avvicinamento del PSI  alla socialdemocrazia. Nel 1957 a Roma fu compiuto un passo decisivo nel processo di integrazione europea, con la firma dei trattati istitutivi della CEE (Comunità economica europea). Nelle forze politiche e sindacali si rafforzava la spinta a dare maggiore rappresentanza, coinvolgendole nelle scelte di governo, alle masse lavoratrici che avevano sopportato i maggiori costi, prima della ricostruzione e poi dell’intensa crescita economica iniziata negli anni Cinquanta. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta l’I. fu protagonista di uno sviluppo poderoso che ne mutò radicalmente la struttura sociale, trasformandola da Paese agricolo-industriale in Paese industriale-agricolo. L’apice del «miracolo economico» si registrò tra il 1956 e il 1963, anni in cui il tasso di crescita del PIL raggiunse il 6,3% in media all’anno, facendo entrare l’I. nel novero delle maggiori nazioni industrializzate. I fattori alla base di questa evoluzione furono molteplici: dalle nuove tecnologie importate dagli USA all’elevata disponibilità di manodopera a basso costo (e dunque ai bassi salari e a una dura disciplina di fabbrica), dalla scoperta di nuovi giacimenti di gas e petrolio in Val Padana, all’inventiva e a tratti alla genialità imprenditoriale di personaggi come O. Sinigaglia ed E. Mattei, che permisero all’industria italiana di sostenere la concorrenza sui mercati esteri. Iniziò così la marcia verso la stagione del centrosinistra, favorita anche dall’elezione al pontificato (1958) di Giovanni XXIII, che con il Concilio vaticano II (1962-65) sensibilizzò la Chiesa cattolica a nuove istanze sociali e alle prospettive offerte dalla distensione. Quella del centrosinistra fu la formula parlamentare dell’intesa tra DC e PSI  per un programma di riforme volte a correggere nuovi e vecchi squilibri della società italiana. Il primo governo di centrosinistra fu un monocolore presieduto da A. Fanfani, che ottenne nell’agosto del 1960 l’astensione del PSI, dopo un tentativo di governo monocolore del democristiano F. Tambroni, sorretto dai voti della DC, dei liberali e del MSI, ma costretto a dimettersi per lo scoppio di gravi disordini a Genova e in altre città (luglio 1960). Fanfani nazionalizzò l’industria elettrica, istituì la scuola media unificata ed estese l’obbligo scolastico a 14 anni. Il primo governo con la partecipazione diretta del PSI si formò nel 1963 con A. Moro presidente, ma ebbe un’incisività molto inferiore a quella dei governi Fanfani non solo per l’opposizione della destra democristiana e della sinistra socialista (che nel 1964, sotto la guida di L. Basso, diede vita al PSIUP), ma anche per le difficoltà create dalla recessione economica. Di fronte alla crescita dei salari e ai rischi di inflazione, assolutamente assenti negli anni Cinquanta, gli imprenditori reagirono limitando gli investimenti, mentre governo e Banca d’Italia operavano una severa stretta creditizia. Il governo cadde nel luglio 1964 e i timori derivanti dal «tintinnare di sciabole» avvertito da Nenni (il riferimento era al piano Solo, elaborato dal generale G. De Lorenzo – comandante dell’Arma dei carabinieri ed ex capo del SIFAR, il servizio segreto militare – con la copertura del presidente della Repubblica Segni) indussero i socialisti a rinunciare a molte delle loro richieste di riforma. Il centrosinistra riportò una vittoria con l’elezione a presidente della Repubblica del leader socialdemocratico G. Saragat, ma gran parte dell’iniziale slancio riformatore appariva smarrito. Nei due successivi governi di centrosinistra guidati da Moro furono approvate misure sulla programmazione economica, l’ordinamento regionale, l’assistenza sanitaria pubblica, che però scontarono la mancanza dei mezzi tecnici, finanziari e amministrativi necessari alla loro piena attuazione. Intanto lo scandalo del coinvolgimento dei servizi segreti in trame eversive venne alla luce nel 1967 e provocò forti reazioni nell’opinione pubblica, già turbata da eventi internazionali quali la guerra del Vietnam e il golpe dei colonnelli in Grecia. Nel maggio 1968, mentre la mobilitazione studentesca era ormai in pieno svolgimento affiancandosi alla vigorosa ripresa delle lotte operaie, si svolsero le elezioni politiche. I risultati, favorevoli alla DC e più ancora a PCI e PSIUP, furono invece deludenti per i socialisti unificati del PSU. Tuttavia il centrosinistra non sembrava avere alternative e continuò a esistere come formula di governo, svuotata di ogni spinta innovativa, proprio nel momento in cui venivano a galla numerosi nuovi problemi. L’ondata di lotte sociali e politiche, nel quadro del più generale processo di mobilitazione che coinvolgeva gran parte dei Paesi occidentali nel 1968, non rifluiva ma si accresceva. Nel 1968-69 si ebbero manifestazioni studentesche culminate nell’occupazione delle università e un’ondata di scioperi senza precedenti, accompagnati talvolta da scontri con le forze dell’ordine. Queste ultime spararono ad Avola e a Battipaglia, facendo vittime tra i lavoratori. Il 12 dicembre 1969 numerosi attentati dinamitardi culminarono nella strage della Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana, a Milano, segnando un tremendo salto di qualità della «strategia della tensione». La classe dirigente si mostrò impreparata ad affrontare il nuovo clima e nel Paese cominciò a serpeggiare la sindrome del golpe. Ad auspicare l’abbattimento dello Stato democratico, peraltro, non erano solo gli ambienti eversivi di destra – che nel 1970 guidarono una rivolta popolare a Reggio Calabria e vagheggiarono un golpe (8 dicembre) sotto la guida di J.V. Borghese – ma anche quella parte della sinistra estrema che riteneva che stessero maturando in I. le condizioni per una rivoluzione comunista. Il terrorismo nero e quello rosso, che usavano anche le armi del sequestro di persona e dell’omicidio politico, crearono una situazione sempre più drammatica. Tra le organizzazioni della destra eversiva si segnalava Ordine nuovo, ricca di connessioni con servizi segreti italiani e statunitensi; tra quelle di sinistra si distinguevano le Brigate rosse (BR), nate nel 1970, che dopo una serie di azioni dimostrative a livello di fabbrica fecero il «salto di qualità» nella lotta armata. In questo clima nel 1969 fu approvata la legge sul divorzio, dopo un iter lungo e contrastato che aveva visto l’ampia mobilitazione di tutte le forze laiche e di sinistra. Le lotte operaie dell’«autunno caldo» conseguirono a loro volta risultati di grande e lunga portata: l’abolizione delle «gabbie salariali» in cui era diviso il Paese, l’avvio della riforma pensionistica e, nel 1970, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori. Gli incrementi salariali furono da allora e per diversi anni nettamente superiori agli aumenti di produttività, compromessi anche dall’introduzione di una serie di vincoli molto rigidi nell’utilizzazione della forza lavoro sia nel settore pubblico sia in quello privato, per cui l’apparato produttivo, soprattutto industriale, perse inesorabilmente competitività come pure l’amministrazione pubblica. Intanto lo spostamento dell’opinione pubblica verso destra, come reazione all’ondata di lotte e scioperi degli anni precedenti, portò il democristiano G. Leone alla presidenza della Repubblica (1971), con i voti determinanti del Movimento sociale italiano (MSI). Alle prime elezioni anticipate della storia repubblicana, nel 1972, seguirono un governo centrista guidato da G. Andreotti e due governi guidati da M. Rumor, che adottarono provvedimenti per combattere l’inflazione e gli effetti della crisi energetica seguita alla guerra arabo-israeliana del 1973.

Dal compromesso storico alla fine della prima Repubblica

Nell’autunno del 1973 il segretario del PCI, E. Berlinguer, lanciò la linea detta del «compromesso storico» tra comunisti, socialisti e democristiani, volta a rilanciare l’alleanza tra forze popolari antifasciste interrotta nel 1947, e a giungere a un governo in grado di opporsi alle spinte eversive e aprire un nuovo processo riformatore. L’interlocutore privilegiato di Berlinguer nella DC fu A. Moro. Il leader democristiano riteneva che fosse giunto il momento di dare al Paese un nuovo corso politico, ma le resistenze all’interno del suo partito erano forti. Tanto più che i processi di mutamento messi in moto dalla modernizzazione – e dalla contestazione del 1968 – avevano allarmato profondamente il mondo cattolico, come dimostra la battaglia contro il divorzio combattuta e persa dai cattolici nel 1974 nel primo referendum popolare abrogativo del Paese. Anche questa avanzata del fronte progressista fu seguita da una violenta reazione di forze eversive di destra, che sfociò nelle stragi di Brescia (28 maggio) e del treno Italicus (4 ag.), mentre l’inchiesta del giudice G. Tamburino fece luce sui progetti golpisti della «Rosa dei venti». Le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976 videro una rilevante avanzata del PCI, che giunse al 34,3% dei voti. Un governo monocolore DC guidato da Andreotti ebbe una base inedita: la «non sfiducia» non solo dei tradizionali alleati, ma anche del Partito comunista, che in un momento di particolare gravità per il Paese, posto di fronte a una pesante crisi economica e alla sfida del terrorismo, scelse la via della collaborazione. La contestazione di tale scelta, soprattutto da parte delle forze marxiste del «movimento del 1977» e dei giovani di Autonomia operaia, fu molto aspra. Nel novembre 1977 i comunisti chiesero la costituzione di un governo di unità nazionale composto da tutti i partiti dell’arco costituzionale. Al rifiuto della DC, condizionato dal veto degli Stati Uniti, il PCI si dichiarò pronto a entrare semplicemente nella maggioranza parlamentare. Nel 1978 il nuovo governo monocolore presieduto da Andreotti con l’appoggio del PCI, nella formula definita di «solidarietà nazionale», rappresentò anche una risposta al rapimento di Moro e all’uccisione dei cinque agenti della sua scorta a Roma (16 marzo 1978) per opera delle Brigate rosse. Durante la prigionia, che si concluse tragicamente con l’assassinio di Moro (9 maggio), forze politiche e opinione pubblica si divisero sull’atteggiamento da tenere nei confronti dei sequestratori. La DC e il PCI esclusero ogni trattativa con i terroristi, negando loro la dignità di interlocutori politici; i socialisti, con altre forze minori come i radicali, sostennero una linea di maggiore flessibilità. L’elezione a presidente della Repubblica del socialista S. Pertini (9 luglio) contribuì a mantenere unito il Paese in uno dei momenti più difficili della sua storia. La vicenda Moro segnò l’inizio della crisi del terrorismo, ma anche la fine dell’esperienza del governo di solidarietà nazionale. Mentre nel Paese infuriava il partito armato, che aveva fatto ormai diverse centinaia di vittime, il PCI uscì dalla maggioranza provocando la caduta del governo Andreotti. Le elezioni politiche anticipate del 1979 penalizzarono il Partito comunista: un’intera fase si andava chiudendo. Si erano ormai create le condizioni per il ritorno a una nuova fase di governi fondati sull’alleanza tra DC e PSI. L’esecutivo presieduto da A. Forlani, che escludeva ogni intesa con il PCI, fu travolto dagli scandali, tra cui quello della P2, loggia massonica con finalità eversive. Il 2 agosto 1980 la strage alla stazione di Bologna confermava che tali progetti erano ancora operanti. Intanto la perdurante crisi economica e la ristrutturazione industriale ponevano il movimento operaio in una situazione di ulteriore difficoltà. La FIAT annunciò migliaia di licenziamenti, poi trasformati in provvedimenti di cassa integrazione: la risposta operaia fu forte e giunse fino all’occupazione degli impianti, ma gradualmente il consenso della cittadinanza venne meno, cosicché una manifestazione di quadri FIAT si trasformò in quella «marcia dei 40.000» (14 ott.) che fu la prima manifestazione di massa apertamente antisindacale nella storia del Paese; i sindacati firmarono l’accordo, ma la sconfitta operaia assunse un significato che travalicò la vicenda FIAT. Nel 1981 per la prima volta dal 1945 diventò presidente del Consiglio un laico, l’esponente del PRI G. Spadolini, che allargò il governo ai liberali. Il suo governo tentò di dare una svolta alla lotta contro la mafia, inviando a Palermo, con funzioni di superprefetto, il generale C.A. Dalla Chiesa, distintosi nella lotta contro il terrorismo. Ma questi fu assassinato pochi mesi dopo aver assunto l’incarico (1982). La secca sconfitta subita dalla DC alle elezioni anticipate del 1983 pose le condizioni per il primo governo di B. Craxi. Un PSI largamente rinnovato, fortemente orientato in senso anticomunista, conseguì un significativo successo elettorale e il suo leader, primo presidente del Consiglio socialista nella storia italiana, diede vita all’esecutivo fino ad allora di più lunga durata della Repubblica (1983-87). In un periodo di ripresa economica, che cominciava a farsi intensa a metà del decennio, Craxi conseguì rilevanti successi nella lotta contro l’inflazione e nel contenimento del costo del lavoro attraverso la riduzione della scala mobile (poi abolita nel 1992) col «decreto di S. Valentino». Lo scontro con la CGIL e col PCI fu molto duro, ma il referendum abrogativo, pur con un’alta percentuale, fu perso dai difensori della scala mobile. Nel febbraio 1984 fu firmato il nuovo concordato tra lo Stato e la Chiesa; con esso il cattolicesimo cessava di essere considerato religione di Stato. Il 24 dicembre la strage del rapido 904, a San Benedetto Val di Sambro, lanciò un’altra ombra inquietante nella storia del Paese. In seguito a contrasti esplosi tra la DC e il PSI, il presidente F. Cossiga, succeduto a Pertini nel 1985, indisse nel 1987 elezioni politiche anticipate, che videro l’ingresso in Parlamento degli ambientalisti, i Verdi. Il nuovo progresso dei socialisti accrebbe la già elevata conflittualità tra i due principali partiti governativi. Al debole governo del democristiano G. Goria (luglio 1987-apr. 1988) – durante il quale si svolsero i referendum che, di fatto, bandivano le centrali nucleari – subentrò quello del segretario della DC, C. De Mita. Nel Paese intanto si apriva il dibattito sulle riforme istituzionali. La crescente incapacità del sistema politico di porre un limite alla corruzione, legata alla pratica della lottizzazione del potere e allo scarso controllo democratico sulla spesa pubblica, contribuiva al dilagare della mafia e di altre organizzazioni criminali, che assunsero il controllo di intere zone del Paese, forti della potenza economica raggiunta con i sequestri, le estorsioni, il traffico di droga. Il voto amministrativo del 1990 vide esplodere nel Nord, in aperta protesta contro i partiti tradizionali, il fenomeno delle leghe locali, portatrici di un programma anticentralista e antifiscale. Nel gennaio 1991 il Parlamento approvò la partecipazione dell’I. alle operazioni militari in Iraq nella guerra del Golfo: per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale l’I. si trovò coinvolta, seppure molto limitatamente, in una vicenda bellica. Il mese successivo, portando a termine un processo iniziato con la «svolta della Bolognina» del segretario A. Occhetto, la maggioranza del PCI, investito dagli effetti della disgregazione del blocco sovietico, procedette allo scioglimento del partito e alla fondazione del Partito democratico della sinistra (PDS); una consistente minoranza si oppose, dando vita al Partito della rifondazione comunista (PRC), guidato da A. Cossutta e S. Garavini. Nel 1992 la Lega Nord di U. Bossi (nata nel 1991 dall’aggregazione dei movimenti locali autonomisti) ebbe un grande successo elettorale nell’I. settentrionale, con un programma che chiedeva una riforma in senso federalista dello Stato, ma che non mancava occasione di alludere alla secessione della «Padania». Le consultazioni elettorali videro anche la formazione di un «patto referendario» trasversale fra i partiti, in cui spiccava il democristiano M. Segni, teso a una riforma del sistema elettorale in senso maggioritario. Il 28 aprile il presidente Cossiga, fautore di riforme istituzionali in senso presidenzialista che crearono imbarazzo nella DC e indussero il PDS a chiederne l’impeachment, si dimise. Lo sostituì il democristiano O.L. Scalfaro, eletto con il concorso del PDS, in un clima reso incandescente dall’assassinio del giudice antimafia G. Falcone a Palermo (cui seguirà quello del giudice P. Borsellino). Un nuovo governo guidato dal socialista G. Amato affrontò la congiuntura economica e l’enorme debito pubblico che si era accumulato nel corso degli anni Ottanta in seguito alle politiche assistenziali decise pressoché concordemente da maggioranza e opposizione e ai salvataggi di aziende sull’orlo del fallimento. Amato avviò la stagione delle privatizzazioni e lo smantellamento del patrimonio pubblico e delle partecipazioni statali, e fece ratificare il Trattato di Maastricht. Ma un ciclone, per il quale fu coniato il termine «tangentopoli», investì il mondo politico italiano. La magistratura fece emergere un sistema di finanziamento illecito dei partiti e di corruzione pubblica, pervenendo tuttavia all’accertamento di reati solo da parte dei partiti di governo. Il Paese era giunto a una crisi strutturale del sistema politico e, a partire dal 1992, le formazioni afferenti al cosiddetto pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI e PLI) conobbero un crescente sfaldamento interno. Dopo un’intensa campagna di orientamento dell’opinione pubblica, la volontà di pervenire a incisive riforme istituzionali condusse al risultato referendario del 1993 per l’introduzione del sistema elettorale maggioritario, che ottenne una percentuale elevatissima di consensi. All’indomani del voto il governo Amato annunciò le sue dimissioni. Il governatore della Banca d’Italia C.A. Ciampi costituì un esecutivo di transizione finalizzato al risanamento finanziario e al varo di una nuova legge elettorale, che muoveva in direzione del sistema maggioritario uninominale, pur conservando una quota proporzionale. Nel sistema dei partiti si verificò, anche in vista del nuovo sistema elettorale, una serie di mutamenti sostanziali. Il Movimento sociale italiano riceveva consensi significativi dall’elettorato moderato e sulla spinta di questa crescita nacque il nuovo MSI-Alleanza nazionale (AN), teso al superamento dell’eredità fascista verso un approdo liberal-conservatore. Nel 1994, la DC diede vita al Partito popolare italiano (PPI), mentre un’ala più moderata costituiva il Centro cristiano democratico (CCD). La novità più rilevante fu la costituzione di Forza Italia (FI), movimento fondato dall’imprenditore S. Berlusconi, che con l’obiettivo di arginare l’annunciato successo delle sinistre riuscì a promuovere un processo di aggregazione delle forze di centrodestra.

La seconda Repubblica

Le elezioni del marzo 1994 decretarono il successo delle forze guidate da Berlusconi, che seppe conquistare un elettorato «orfano» dei tradizionali partiti di governo, attraverso la promessa di un nuovo miracolo economico e un appello ai principi del liberismo economico e della liberal-democrazia, fortemente connotato da toni anticomunisti. Il governo Berlusconi fu travagliato dalla difficoltà di tradurre in un programma omogeneo gli accordi elettorali promossi con i partiti alleati di Forza Italia. Le tensioni politiche crebbero anche per la questione del conflitto di interessi gravante su Berlusconi, capo di un grande gruppo economico e proprietario di metà del sistema televisivo nazionale. Il governo cadde a dicembre e L. Dini, ministro del Tesoro nel precedente gabinetto, formò un esecutivo di tecnici sostenuto dal centrosinistra; poco dopo siglò importanti accordi coi sindacati sulla riforma delle pensioni. Nel 1995, a Fiuggi, l’ultimo congresso dell’MSI guidato da G. Fini sancì la trasformazione di AN in vero e proprio partito. Nel febbraio 1995 R. Prodi, economista ed ex presidente dell’IRI, si candidò, in una prospettiva bipolare, a leader di una nuova alleanza di centrosinistra, l’Ulivo. Le elezioni del 1996 videro vincitrice la coalizione dell’Ulivo formata da PPI (privato dell’ala capeggiata da R. Buttiglione, fautrice di un’alleanza con il centrodestra), PDS, Federazione dei Verdi e altre forze minori. Il governo di Prodi impostò una politica di riforme strutturali che modificarono il mercato del lavoro favorendone la «flessibilità» («pacchetto Treu», 1996) e consentirono all’I. di rientrare nei parametri economici fissati a Maastricht per l’adesione alla moneta unica (2000). Ma il contrasto sui temi sociali e di politica estera con Rifondazione comunista, con cui l’Ulivo aveva stipulato un accordo elettorale e i cui voti erano determinanti alla Camera, nell’autunno 1998 causò il ritiro della fiducia all’esecutivo da parte del PRC. Prodi si dimise e M. D’Alema, leader dal 1998 di un nuovo soggetto politico, i Democratici di sinistra (DS), comprendente, oltre al PDS, esponenti di area socialista, repubblicana, cristiano-sociale e ambientalista, formò un nuovo esecutivo. Nel maggio 1999 fu eletto presidente della Repubblica Ciampi, in un clima di dialogo tra i due schieramenti politici, maturato nel contesto della crisi del Kosovo, che vide l’I. partecipare ai bombardamenti NATO contro la Repubblica federale di Iugoslavia. A dicembre D’Alema, esponente di un partito forte ma in difficoltà elettorale e propositiva, si dimise, riottenendo l’incarico per un nuovo governo. Il 2000 fu contrassegnato da un’atmosfera di aspre tensioni. La netta contrapposizione tra i due schieramenti di centrodestra e di centrosinistra generata dal bipolarismo alimentò un sistematico conflitto, privo di possibilità di confronto e di incontro tra le parti, salvo alcune rare occasioni in politica estera. L’indebolimento del centrosinistra trovò conferma nelle elezioni regionali del 2000 e D’Alema lasciò il posto a un governo guidato da Amato. Nella fase finale della legislatura la legge di revisione costituzionale (2001) modificò in senso federalista l’ordinamento statuale. Nelle elezioni del 2001 si affermò una nuova, più ampia alleanza di centrodestra, la Casa delle libertà (CdL), di cui oltre a Forza Italia facevano parte AN, il Biancofiore – che riuniva CCD e Cristiani democratici uniti (CDU), unificati dal 2002 nell’Unione dei democratici cristiani e di centro, UDC – e la Lega Nord, riavvicinatasi al centrodestra. Il vertice del G8 che si tenne a Genova a luglio vide una forte mobilitazione del movimento no global e la militarizzazione della città. Vi furono violenti scontri tra polizia e settori di manifestanti, che culminarono nella morte del giovane C. Giuliani. Dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre a New York e Washington, il governo guidato da Berlusconi schierò il Paese a fianco degli Stati Uniti e, con l’appoggio del centrosinistra, decise la partecipazione dell’I. alla guerra in Afghanistan con l’invio di un contingente militare. Mentre emergevano nella maggioranza diversità di vedute sulla politica europeista nella fase di avvio della moneta unica (entrata in vigore il 1° gennaio 2002), la scelta di allinearsi con le politiche di G. Bush e T. Blair culminate nella guerra all’Iraq (marzo 2003) suscitò tensioni e attriti con altri membri dell’Unione Europea (come Francia e Germania), più critici nei confronti delle iniziative anglo-americane. Nel 2003, dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq, l’I. vi inviò, sotto mandato ONU, una forza di peace-keeping, decisione che divise le forze politiche e l’opinione pubblica italiana. I piani governativi per rilanciare l’economia, rendendo più flessibile il mercato del lavoro, incontrarono opposizioni nelle file del sindacato e del centrosinistra. Le tensioni sulle questioni del lavoro si intrecciarono con le preoccupazioni derivanti dall’uccisione, nel 2003, per opera delle nuove Brigate rosse, del giurista M. Biagi, impegnato nella definizione degli aspetti tecnici derivanti dalle modifiche alle normative sul lavoro. Nel 1999 a cadere sotto i colpi dei terroristi per analoghi motivi era stato il giurista del lavoro M. D’Antona. Altre divisioni, trasversali agli schieramenti politici, si manifestarono sul tema della regolamentazione della procreazione assistita tra i fautori di una liberalizzazione più ampia e chi invece riteneva necessario porre limiti stretti a una pratica diffusa, richiamandosi anche alle posizioni della Chiesa cattolica. Approvata nel 2004, la legge sembrò scontentare molti, ma il referendum promosso poi per abrogarne alcune parti non ottenne il quorum necessario. Nel 2005 l’UDC fu tra i maggiori sostenitori della nuova legge elettorale, che univa il ritorno al proporzionale con un premio di maggioranza attribuito alla coalizione vincente. L’appartenenza alla coalizione neutralizzava lo sbarramento posto alle liste non collegate, facilitando la proliferazione delle piccole formazioni. Non andò in porto invece la riforma costituzionale per ampliare il carattere federale dello Stato e i poteri del capo del governo, bocciata dal referendum (2006) indetto al riguardo. Mentre il governo di centrodestra concluse il suo quinquennio senza essere riuscito a realizzare interventi strutturali, in previsione delle elezioni del 2006 si venne definendo una nuova candidatura di R. Prodi alla guida di una larga coalizione di centrosinistra. Il disegno di Prodi puntava alla costituzione di una forza che unisse le diverse componenti riformiste (la Margherita, il nuovo soggetto politico di centro costituitosi nel 2002, e i DS). Le elezioni diedero una vittoria con margini assai ristretti al centrosinistra, riunito nell’alleanza denominata Unione (ne facevano parte, oltre alla Margherita e ai DS, la sinistra radicale e altre formazioni minori). Dopo l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, il diessino G. Napolitano, Prodi formò il nuovo governo. Nell’esecutivo erano presenti marcate divergenze su molte questioni e presto emersero le difficoltà derivanti dal tentativo di conciliare nell’azione di governo culture politiche troppo diverse. Tali difficoltà riproposero il problema della forma incompiuta del bipolarismo italiano e della complessità della lunga transizione iniziata nell’ultimo decennio del Novecento. I ritardi della politica rientravano in un più generale processo di faticoso adattamento del Paese ai nuovi scenari dell’interdipendenza europea e globale. Nel febbraio 2007 il governo fu battuto su questioni di politica estera e ciò determinò le dimissioni di Prodi, cui venne però rinnovato l’incarico. Una nuova crisi della maggioranza si ebbe al principio del 2008, conducendo a elezioni anticipate caratterizzate da nuovi processi di aggregazione nel centrosinistra (nascita del Partito democratico-PD) e nel centro-destra. Nell’aprile 2008 la vittoria della coalizione denominata Popolo della libertà (PDL), comprendente Forza Italia e Alleanza nazionale e alleata con la Lega Nord e il Movimento per l’autonomia, ha portato alla formazione del quarto governo Berlusconi. Nel 2009 il processo di fusione delle formazioni di centrodestra ha trovato compimento nella confluenza di Alleanza nazionale e Forza Italia nel partito del Popolo della libertà. Oggetto primario dell’azione di governo sono state le misure per fronteggiare le ricadute a livello nazionale della crisi economica e finanziaria globale, in seguito alla quale si è registrata una flessione del PIL di oltre il 5% e un tasso di disoccupazione salito oltre l’8%. Altra priorità è stata l’emergenza provocata dal sisma dell’Abruzzo, anche se i problemi della ricostruzione minacciano tempi molto lunghi. Sul piano istituzionale si è avuto un conflitto tra magistratura e forze politiche di maggioranza. Nel 2010, una nuova serie di inchieste della magistratura ha confermato che l’intreccio perverso tra potere politico ed economico emerso negli anni Novanta rimane uno dei nodi non sciolti del Paese, assieme alla crescente disoccupazione e precarizzazione del lavoro, e al permanere di quello sviluppo ineguale tra le diverse aree dell’I. che ha caratterizzato sin dall’Ottocento la sua storia.

Per i ministeri dei governi v. Tav.

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prima guerra d’Indipendenza

17-22 marzo 1848

Insurrezioni antiaustriache a Milano e Venezia

23 marzo 1848

Carlo Alberto dichiara guerra all’Austria per liberare il Lombardo-Veneto

9 ag. 1848

Dopo la sconfitta di Custoza (23-25 luglio) gli italiani firmano l’armistizio di Salasco

12 marzo 1849

Denuncia dell’armistizio e ripresa della guerra

23 marzo 1849

Sconfitta di Novara

24 marzo 1849

Carlo Alberto abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele II

seconda guerra d’Indipendenza

apr. 1859

L’Austria dichiara guerra al regno di Sardegna

8 giugno 1859

Vittorio Emanuele II e Napoleone III entrano trionfalmente a Milano

8-11 luglio 1859

Napoleone III firma separatamente l’armistizio di Villafranca con l’Austria

nov. 1859

La Lombardia (ma non il Veneto) è ceduta alla Francia, che la gira al regno di Sardegna

marzo 1860

Annessione al regno di Sardegna della Toscana, dei ducati emiliani e delle legazioni

maggio 1860

Spedizione dei Mille

ott. 1860

Annessione del regno delle Due Sicilie

nov. 1860

Annessione di Marche e Umbria

17 marzo 1861

Viene proclamato il regno d’Italia

terza guerra d’Indipendenza

8 apr. 1866

Italia e Prussia formano un nuovo fronte antiaustriaco

20 giugno 1866

Vittorio Emanuele II dichiara guerra all’Austria

24 giugno 1866

Sconfitta di Custoza

20 luglio 1866

Sconfitta di Lissa

3 ottobre 1866

Grazie soprattutto alla vittoria prussiana a Sadowa (3 luglio),il Veneto è annesso all’Italia

Si veda anche Italia. Popolo, nazione, Stato

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