Islam

Enciclopedia Dantesca (1970)

Islàm

Francesco Gabrieli

In questa voce, complementare della voce Arabi, ove si tratta della presunta conoscenza che D. poté avere dell'arabo, e del suo atteggiamento verso la scienza e filosofia araba, saranno richiamate le condizioni del mondo islamico al tempo di D., la conoscenza e l'apprezzamento che il poeta dimostra verso l'I. come fede e come fenomeno storico; infine, il particolare problema dell'escatologia islamica nella Commedia, in funzione del quale sono di solito toccati tutti quegli altri argomenti.

Il mondo islamico al tempo di Dante. - La giovinezza di D. vide chiudersi, in modo che parve allora non definitivo ma che la storia mostrò poi irrevocabile, il periodo delle crociate. Nel 1268 il sultano mamelucco Baibars riconquistava Antiochia, e i suoi successori Qalāwūn e al-Ashraf, rispettivamente nel 1289 e '91, Tripoli e Acri, completando il recupero della Siria e Palestina all'Islàm. La reazione del mondo cristiano, diviso e lacerato da interne contese, era stata del tutto velleitaria e inadeguata a ogni effettivo recupero del perduto: divieti papali al commercio con gl'infedeli (mercatanti in terra di Soldano, If XXVII 90), progetti di nuove crociate rimasti allo stadio di pie intenzioni, l'obbrobriosa persecuzione dei Templari. All'inefficacia di ogni pratica rivalsa da parte cristiana corrispose un inasprimento delle disposizioni spirituali fra i due mondi: l'opera di Raimondo Lullo, più anziano contemporaneo di D., aveva segnato il massimo sforzo per un intelligente approccio apologetico verso la civiltà islamica, nella consapevolezza dei suoi valori spirituali e culturali.

Dopo di lui, il tono dell'apologetica cristiana si rifà aspro e aggressivo. L'I. da parte sua, se come potenza politica conserva, anzi aumenterà ancora in avvenire, tutto il suo peso contrapposto all'Europa cristiana, ha esaurito ormai la sua originalità creatrice: il suo pensiero filosofico termina con Averroè e Ibn Tufail (XII secolo), il suo contatto con l'eredità antica ha ormai compiuto intero il suo corso, la letteratura araba, sua prima e più illustre espressione, entra nel periodo di decadenza. Il principale terreno d'incontro culturale fra I. e occidente, la Spagna, va rapidamente esaurendo quella sua funzione nel progredire della Reconquista, che proprio nel sec. XIII segnò le sue tappe decisive. È quindi una potenza puramente politica, sotto le vesti dell'avversa fede, che si contrappone nel Mediterraneo al mondo cristiano.

Nel corso del sec. XIII l'I., a detta di un suo stesso storico contemporaneo, aveva affrontato la sua più grave crisi: l'attacco dei Mongoli all'est, e la spinta della Reconquista spagnola all'ovest. Mentre qui esso aveva combattuto una battaglia di retroguardia destinata a durare ancora per due secoli, a oriente dopo spaventose distruzioni, che fra l'altro distrussero la sua più antica istituzione del Califfato (1258), aveva sormontato la crisi assimilando alla sua fede e alla sua cultura i barbari invasori. Nel bacino del Mediterraneo in particolare, i campioni dell'islamismo ortodosso erano stati, dopo Saladino e gli Ayyubiti, i sultani mamelucchi di Egitto e di Siria: questi avevano recuperato interamente la Terra Santa, avevano arrestato ad 'Ain Giālūt la puntata mongola verso il Mediterraneo, e formavano ormai la principale potenza musulmana in questo mare; mentre a occidente dell'Egitto, lungo la costa dell'Africa del nord, si allineavano le potenze eredi dell'impero almohade, Hafsiti in Tunisia, Merinidi nel Marocco, con i quali, nonostante i divieti papali, si mantenevano da parte cristiana vivaci rapporti commerciali. Tale era la costellazione degli stati musulmani ai tempi di D., e con questi la cristianità seguiva due linee di condotta: rigida intransigenza nel campo dottrinale e culturale, e pratico accomodamento in quello dei traffici.

Il mondo islamico nell'opera di Dante. - Una volta precisato che D. del patrimonio religioso, storico e culturale islamico non poté avere a nostro avviso se non indiretta, mediata conoscenza, ignorandone la lingua e non avendo mai messo piede nei suoi territori, vediamo come in effetti i suoi riflessi nell'opera dantesca (scienza ed escatologia a parte) non oltrepassino la media nota alle persone colte del tempo. Il fondatore della fede islamica, Maometto, appare nella sua celebre raffigurazione in If XXVIII 22-31, secondo l'abituale concezione dell'occidente latino, tra i seminator di scandalo e di scisma, al livello di un eretico qualunque come il novarese fra Dolcino (nonostante l'abissale disparità di proporzioni fra una religione mondiale e una piccola eresia locale, rispettivamente impersonate dai due). Notevole indubbiamente la menzione accanto a lui di 'Alī (32-36), personalmente devoto e ortodosso seguace del cugino e suocero, ma cui fa capo, dopo la sua morte, la prima dissidenza politica e religiosa dell'I. (è dubbio se questa nozione si rifletta anche nel tipo ‛ complementare ' del taglio fesso nel volto dal mento al ciuffetto). A D. era dunque nota la grande suddivisione della fede islamica, in ortodossia o Sunna e nella prima eterodossia della Shī 'a alidica.

Dai primordi dell'I., si salta direttamente, come echi storici, all'età delle crociate. Il conte Goffredo, liberatore del santo Sepolcro, rifulge nel cielo di Marte (Pd XVIII 47); Cacciaguida segue lo 'mperador Currado nella seconda crociata, e lascia la vita laggiù, tra quella gente turpa, usurpatrice dei diritti cristiani in Terra-santa (egli parla a D. quando l'opera delle crociate è già tutta disfatta, Pd XV 139-147). S. Francesco predica invano a Damiata ne la presenza del Soldan superba (Pd XI 101). Solo, in parte, entro il nimbo della cavalleresca leggenda trasfiguratrice, si erge nel Limbo il magnanimo Saladino. Alla compagnia dei savi antichi, su quello stesso prato di fresca verdura, l'I. dà sì due illustri suoi figli, Avicenna e Averroè (If IV 143-144), ma questo è un omaggio non già alla fede nemica, bensì a quella universalità del sapere cui qui D. s'inchina. Per il resto, i Saraceni appaiono sinonimo di barbari: donne barbare e saracine sono appaiate in Pg XXIII 103 per indicare una rozzezza e licenza di costumi solo superata dalle sfacciate donne fiorentine (curiosa questa taccia d'immoralità alla società musulmana, proprio in fatto di veli femminili!); i Saraceni sono addirittura i maggiori barbari e nemici del tempo, se l'infelice Italia è detta (Ep V 5) nunc miseranda... etiam Saracenis. E con questo è esaurito il tenue manipolo di diretti echi dell'I., come fede e struttura politica e sociale, nell'opera dantesca. Questa tenuità ci sembra del tutto corrispondente a quanto già detto nella voce Arabi, di estraneità del poeta al relativo mondo linguistico e culturale, salvo ciò che nel campo filosofico e scientifico gli era accessibile per versioni, e più ancora per echi di versioni nella cultura del suo tempo. Un ulteriore, isolato spiraglio è la conoscenza che egli dimostra di un particolare del calendario musulmano, là dove (Vn XXIX 1) cita l'usanza d'Arabia di far cominciare il computo del giorno dalla sera del giorno precedente, per potere in morte di Beatrice (8 giugno 1290) veder comparire una volta di più il fatidico numero nove (ne la prima ora del nono giorno del mese).

L'Escatologia Musulmana E La Commedia. - Su questo così modesto fondamento delle documentabili conoscenze e degl'interessi di D. verso l'I., la grande dottrina e un po' anche il partito preso di M. Asín Palacios eressero il grandioso edificio della sua nota tesi escatologica. Nel famoso libro La escatologia musulmana en la D.C. (in origine, un ‛ discurso de recepción ' all'Accademia Spagnola, 1919), l'arabista madrileno studiò da un lato a fondo, sotto ogni loro manifestazione, le dottrine e raffigurazioni islamiche dell'oltretomba, dai hadīth, o detti attribuiti al profeta, ai racconti edificanti di pietà popolare, dalle fantasie satiriche di letterati come l'Epistola del perdono di Abū l-‛ Alā ' al-Ma'arrī alle elucubrazioni di mistici come Ibn'Arabī. Del vastissimo materiale così adunato, egli additava presunti echi, analogie e concordanze nel poema dantesco, sia nella struttura dei tre mondi, sia nei concetti distributivi di premi e pene, sia nei simboli e perfino in molti episodi singoli.

La spiegazione di queste frequenti e strette analogie (o a lui apparenti tali) non poteva darsi per l'Asín che con una cosciente imitazione: e del modo come tali idee e modelli islamici potessero esser venuti a conoscenza di D., egli s'ingegnava ad affacciare più spiegazioni. Senza giungere a postulare in D. quella diretta conoscenza dell'arabo che altri doveva più sbrigativamente attribuirgli, egli ne esagerava e gonfiava l'interesse per la cultura islamica, e come possibili tramiti di tale conoscenza additava la Spagna, incontro di culture, visitata nel 1270 da Brunetto Latini; l'opera mediatrice dell'ambiente di Alfonso X; la probabile anche se allor non documentata esistenza di traduzioni, onde nozioni di escatologia islamica apparivano filtrate al mondo latino e prima e soprattutto dopo la Commedia. Accolta con l'interesse che la novità e audacia della tesi suscitavano, vivacemente discussa, e poi difesa e ribadita dall'autore stesso (Historía y critica de una polémica, 1924), la teoria dell'Asín fu nel complesso respinta dalla critica dantesca, specie italiana, per più e meno valide ragioni. Accanto a pregiudizi metodici e a false impostazioni del problema (onde appariva a taluni compromessa dalla tesi dell'Asín l'originalità e l'eccellenza stessa poetica di D.), fu fatta valere in contrario anzitutto una diversa valutazione di molte fra le affermate concordanze e analogie, il diverso spirito delle due fedi e culture, e soprattutto la mancanza di qualsiasi concreto indizio storico sul trapasso al mondo latino di queste concezioni e raffigurazioni islamiche d'oltretomba. Parve insomma che l'Asín avesse provato troppo e troppo poco: troppo, per l'aver perseguito in minimi particolari, e da troppo disparati materiali e fonti, l'asserita dipendenza, onde D. avrebbe dovuto possedere non solo una vaga conoscenza generica dell'escatologia islamica, ma una concreta, analitica familiarità con una folla di testi e di fonti, assolutamente per la massima parte ignoti all'Occidente del suo tempo; troppo poco, per restar problematico il mezzo o veicolo con cui quella qualsiasi conoscenza di un mondo astruso e lontano sarebbe giunta fino al poeta.

Un importante progresso della questione si è avuto solo trent'anni dopo il libro di Asín, e cinque dopo la morte di lui, con la scoperta e pubblicazione nel 1949, a cura di E. Cerulli, del Libro della Scala, un testo escatologico musulmano di pietà popolare in versioni romanze. Questo tipico prodotto anonimo del genere narrativo-edificante del mi'rāģ o ascensione in cielo di Maometto, era stato volto da un perduto originale arabo in castigliano per ordine di re Alfonso X, e di qui in latino e in francese antico. Con tali versioni, di cui risultava anche documentata la rapida fortuna e diffusione in Occidente, si toccava alfine con mano un esempio, supposto e quasi divinato ma non documentato ai suoi giorni da Asín, del passaggio di materiale escatologico arabo-musulmano all'Italia, anzi alla Toscana del Trecento (il Liber scalae è citato da Fazio degli Uberti nel Dittamondo). Cadeva così ogni altra fantastica ipotesi di contatti fra D. e opere della letteratura araba dotta, filosofica teologica e mistica, concentrandosi l'attenzione su questo filone di pietà popolare (al quale per verità si era anche richiamato l'Asín) di larga diffusione nelle masse, e penetrato almeno in questo caso, per la curiosità culturale dell'ambiente alfonsino, in lingue e cerchie cristiane al di qua e al di là dei Pirenei. La scoperta e lo studio di questo testo davano, nell'affrettato e sommario giudizio di un altro suo editore in Spagna, J. Muñoz Sendino, una totale definitiva conferma alla tesi di Asín. Per altri invece (e in primo luogo il suo editore italiano Cerulli, nel fondamentale studio con cui l'ha accompagnato), la conferma è indiscutibile per ciò che riguarda il generale fenomeno di trasmigrazione culturale, restando ancor incerta la misura e valutazione della sua applicazione al caso dantesco. Riesaminando a una a una le analogie riscontrabili fra il nuovo testo islamico (la descrizione del viaggio del Profeta nei regni d'oltretomba, a sviluppo di un oscuro accenno nel Corano) e il poema, tali analogie in parte si dissolvono, in parte si ridimensionano, in parte infine possono spiegarsi secondo il Cerulli (sempre nella oggi verosimile ipotesi che D. abbia conosciuto quel testo) con un valore d'ispirazione secondaria e concorrente alle fonti principali, bibliche e classiche, della cultura e della visione dantesca. In luogo del saccheggio sistematico di una quantità di taciuti modelli arabo-islamici da parte di chi altrimenti si mostra così sommariamente informato su quella civiltà, si sarebbe avuta qui per D. la suggestione, e quasi la spinta a emulare, nei modi di una tanto diversa mentalità e spiritualità, un curioso esemplare di lontana ed estranea fede, giuntogli in tale versione o altra analoga. Questa conclusione, formulata dal Cerulli con grande prudenza ed equilibrio, ha incontrato da parte della critica internazionale assai maggior consenso di quanto a suo tempo non ebbe la radicale tesi di Asín, la quale ne esce in parte confermata, in parte rettificata o addirittura scartata. Né va taciuto che anche le così prudenti e moderate conclusioni del Cerulli, e l'ipotesi stessa da cui esse dipendono, di una probabile conoscenza del Liber scalae da parte di D., non sono state accettate da tutti gli studiosi. Dantisti anche insigni come B. Nardi permangono al riguardo in un atteggiamento di scetticismo, che solo ulteriori elementi di fatto potrebbero modificare. Comunque, l'importante e delicato argomento dei rapporti fra il mondo dantesco e l'I. resta aperto, come un affascinante capitolo di storia della cultura medievale ancor più che della biografia intellettuale del poeta e dell'arte della Commedia.

Bibl.- Anteriori all'Asín sono i vecchi studi: E. Blochet, Les sources orientales de la D.C., Parigi 1901; J.J. Modi, D. Papers, Bombay 1914 (che additavano soprattutto influssi di escatologia iranica); M. Asín Palacios, La escatologia musulmana en la D.C., Madrid 1919, 1961³; G. Gabrieli, Intorno alle fonti orientali della D.C., Roma 1919; ID., D. e l'Oriente, Bologna 1921; E. Cerulli, Il " Libro della Scala " e la questione delle fonti arabo-spagnole della D.C., città del Vaticano 1949; G. Levi Della Vida, Nuova luce sulle fonti islamiche della D.C., in " Al-Andalus " XIV (1949) 377-407; U. Bosco, Contatti della cultura occidentale di D. con la letteratura non dotta arabo-spagnola, in " Studi d. " XXIX (1950) 85-102 (poi in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 197-212); B. Nardi, Pretese fonti della D.C., in " Nuova Antol. " 1955, 383-398; C. Grabher, Possibili conclusioni su D. e l'escatologia musulmana, in " Siculorum Gymnasium " n.s., VIII (1955) 164-182.; F. Gabrieli, D. e l'I, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 194-197.

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