Intelletto agente (o attivo)

Dizionario di filosofia (2009)

intelletto agente (o attivo)


intelletto agente

(o attivo) In gr. νοῦς ποιητικός; in lat. intellectus agens; in arabo al-‛aql al-fa‛āl. Nella filosofia aristotelica e nella sua tradizione indica la disposizione attiva dell’intelletto capace di astrarre la specie intelligibile dalla materia e di imprimerla nell’intelletto passivo o possibile che viene così attualizzato. Esso è dunque a un tempo il principio ultimo della conoscenza e la sua garanzia.

La teoria aristotelica

La discussione sulla natura e il ruolo dell’i. a. ha origine dalle pagine del terzo libro del De anima di Aristotele. Al suo stadio iniziale l’intelletto umano è concepito come una tabula rasa che, potenzialmente in grado di ricevere tutte le forme, ossia di pensare tutti gli intelligibili, per avere intellezione, deve essere attualizzato. In base alla teoria aristotelica dell’attualizzazione della potenza, l’intelletto potenziale (o possibile o passivo) rimanda così necessariamente a qualcosa che è già in atto, cioè a un intelletto «produttivo» e quindi attivo che eserciti un’azione analoga a quella che la luce, permettendo la visione dei colori, svolge rispetto ai corpi sensibili (De anima, 430 a 10-25). L’intelletto attivo o agente, definito «separato», «immisto», «immortale», «eterno» – senza tuttavia che venga chiarito il senso di tali qualificazioni – è dunque il principio ultimo della conoscenza.

I commentatori greci e arabi

L’i. a. rappresenta già a partire dalla prima generazione di commentatori una delle grandi questioni esegetiche della tradizione aristotelica. Da una parte, restava da chiarire il senso delle qualificazioni attribuite all’i. a. dal testo aristotelico, dall’altra, emergevano questioni fondamentali che andavano al di là del problema gnoseologico: la definizione dell’anima e dell’individualità umana, nonché, soprattutto nel contesto religioso medievale, la sua immortalità e le questioni escatologiche della beatitudine e della pena che a questa si connettevano. Fra le soluzioni adottate in ambito ellenistico, spiccano quelle – opposte fra loro – di Alessandro di Afrodisiade e di Temistio. Alessandro identifica l’i. a. con la causa prima divina, il primo motore immobile: quando l’intelletto divino incontra l’intelletto passivo individuale (chiamato ‘materiale’ perché in potenza come la materia), se ne serve e pensa, agendo come il Primo motore. Secondo Temistio, al contrario, l’i. a. non è trascendente ma immanente all’uomo e la sua unione con il passivo va pensata in analogia con l’unione di forma e materia. Le interpretazioni ellenistiche vengono discusse anche dagli aristotelici di lingua araba. Avicenna pone così, per la specie umana, un unico i. a. ma, a differenza di Alessandro, non lo identifica con Dio, bensì con l’ultima delle intelligenze celesti che, separata, ossia immateriale, è poi lo stesso principio metafisico che dona le forme alla materia del mondo sublunare (ed è quindi «dator formarum» wāhib al-ṣuwar, oltre che «datore di intelletto» wāhib al-‛aql). In quanto disposizione a ricevere le forme intelligibili, l’intelletto potenziale o possibile e passivo è invece individuale ossia proprio dell’anima umana immortale che trova nell’attualizzazione il proprio orizzonte ultimo, non soltanto sul piano gnoseologico, ma anche su quello etico e infine escatologico. Anche Averroè fa dell’i. a. una sostanza separata, ma affianca a essa l’intelletto possibile o passivo, anch’esso separato. La complessa soluzione di Averroè, variamente rielaborata nel corso degli anni, consiste nel porre due sostanze separate o piuttosto due aspetti o modi di un’unica sostanza. All’individuo, in ogni caso, è lasciata la capacità di ricevere gli intelligibili soltanto in quanto egli fornisce le immagini sensibili sulle quali l’i. a. opera poi per far passare gli intelligibili dalla potenza all’atto. L’atto dell’intendere è così garantito nella sua universalità e nella sua verità (è uno ed è propriamente dell’intelletto separato), ma appare sottratto all’individualità umana. L’immortalità dell’anima personale viene in tal modo negata.

La scolastica

In ambito latino, le questioni esegetiche sollevate dal De anima aristotelico, tradotto per la prima volta nel 12° sec. da Giacomo Veneto, vengono ampiamente dibattute, facendo presto ricorso anche alle interpretazioni arabe. I primi tentativi per armonizzare il testo aristotelico (e il problema della conoscenza) con la dottrina cristiana dell’immortalità utilizzano la teoria avicenniana alla luce dell’agostinismo; così alcuni (Alessandro di Hales, Giovanni de la Rochelle) attribuiscono l’i. a. all’anima e usano la distinzione avicenniana delle ‘due facce’ (superiore e inferiore) dell’anima, altri (Guglielmo d’Alvernia) attribuiscono la funzione dell’i. a. all’illuminazione divina. La lettura di Averroè è invece segnata da almeno due fasi. In una prima fase (primo averroismo), il commentatore viene letto alla luce di una possibile armonizzazione con la dottrina cristiana: l’i. a. è, come l’intelletto possibile, attribuito all’anima umana. Nella seconda metà del 13° sec., invece, alla facoltà delle Arti di Parigi, si inaugura una lettura critica di Aristotele, oltre che di Averroè, che, rivendicando autonomia per la filosofia, cessa di interpretare il testo aristotelico alla luce della dottrina cristiana. È questo il cosiddetto secondo averroismo latino. Sigieri di Brabante riafferma per es. l’unicità dell’i. a. che esiste come unità specifica e si individualizza solo nell’unione con i phantasmata di ogni singolo uomo. Alle interpretazioni averroiste si oppongono i teologi Alberto Magno e Tommaso d’Aquino con la redazione di scritti Sull’unità dell’intelletto. Sulla base del testo di Aristotele (non l’auctoritas è rifiutata, dunque, ma la sua lettura), Tommaso tenta di dimostrare nel suo De unitate intellectus contra Averroistas, a un tempo l’universalità del conoscere e l’immortalità dell’anima. Nella sua interpretazione l’intelletto è «separato» in quanto privo di corporeità: dunque sia l’i. a. che quello passivo appartengono all’individuo, cosicché sia l’immortalità dell’anima che la sua capacità conoscitiva sono salvaguardate. L’i. a., diverso nei singoli uomini, agisce sulle specie sensibili e forma le specie intelligibili con un’operazione che, in continuità con Aristotele, è ancora spiegata con la metafora della luce. La disputa sull’i. a. attraversa ancora il secolo successivo anche se, già a partire dal sec. 14° e in partic. con Guglielmo di Occam, la questione verrà assunta criticamente. Il progressivo confinamento della questione all’interno della tarda scolastica si deve anche alle condanne ecclesiastiche del 1277. Nell’aristotelismo rinascimentale, Pomponazzi assume una posizione accostabile a quella di Avicenna, ma molti saranno gli autori vicini ad Averroè.

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