Informale

Enciclopedia del Novecento (1978)

Informale

Marisa Volpi Orlandini

di Marisa Volpi Orlandini

Informale

sommario: 1. Introduzione. 2. L'informale in Europa. 3. L'informale in Nordamerica. 4. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Introduzione

‛Informale' è stata definita una corrente dell'arte contemporanea i cui protagonisti, per caratteri e risultati assolutamente peculiari e imparagonabili, si sono distaccati dal corso storico delle forme artistiche, comprese quelle delle avanguardie, mettendo in luce nella loro meditazione espressiva i motivi esistenziali della loro rivolta, e ricercando con varie tecniche una vita del ‛profondo', al di là delle apparenti modificazioni storiche delle forme. Prima di tracciarne il percorso occorre: a) comprendere che cosa esattamente la definizione di informale intendesse indicare; b) fare un'analisi delle premesse storiche, culturali e linguistiche che hanno condizionato tale tendenza.

Con la parola ‛informale' si designarono subito tutti quei movimenti o quelle personalità che, dopo il formalismo delle più importanti avanguardie storiche, che aveva dominato l'arte fino al 1940-1945, riproposero nella pittura e nella scultura un primato dell'espressione in senso individuale, puntando sulla materia, sulla tensione gestuale e sul recupero di un'immagine ingenua, incolta o degradata. Il termine venne in uso in Europa, ma esso fu riferito anche, più o meno correttamente, all'action-painting e all'espressionismo astratto americani, nonché al tachisme, alla pittura materica, all'art brut, a quelle indicazioni date da M. Tapié sotto il titolo Un art autre nel 1952, e perfino allo spazialismo e al nuclearismo. A prescindere quindi da una morfologia simile, ma anche da ogni dichiarazione di poetica, il termine coglie genericamente un'area il cui comun denominatore è soltanto il fare perno dell'artista su una situazione esistenziale, su una percezione individuale dei problemi anche oggettivamente tragici del mondo degli anni quaranta-cinquanta.

Un testo classico dell'esistenzialismo, La nausée di Sartre (1938), esprime esattamente lo stato d'animo di pregnanza dell'esistenza che mette in scacco l'individuo e la sua razionalità: ‟Mi sono lasciato andare sulla panchina stordito, ottuso da quella profusione di esseri senza o r i g i n e [...]. Non avevano voglia di esistere, solo che non potevano esimersene [...]. L'esistenza è un pieno che l'uomo non può abbandonare".

Questo senso di ricchezza cieca dell'esistere contro l'impotenza della coscienza a cogliere ciò che è vissuto è una caratteristica che si impone dopo il 1945, ma che già agli inizi del secolo circola nella cultura europea. Lo iato che appare incolmabile tra la definizione della realtà - la possibilità di comprenderla da parte dell'uomo - e il reale stesso, la percezione acuta dell'abisso che separa la razionalità tradizionale e la vita invadono, per così dire, tutti i settori dell'arte e della cultura (letteratura, filosofia) fin dai primi decenni del Novecento. Basti ricordare la letteratura del postromanticismo in città come Londra, Vienna a~ o Parigi: si pensi alla meditazione di un Musil, di un Broch, o a Hugo von Hofmannsthal che nel Brief des Lord Chandos (1902) scrive pagine memorabili sulla crisi del linguaggio.

La lettera si immagina inviata da un proprietario di campagna inglese all'amico Francesco Bacone che lo sollecitava alla composizione della progettata Dafne. Lord Chandos spiega le ragioni della sua rinuncia, descrivendo l'impossibilità di discernere tra le sue emozioni di partecipazione mimetica. Un'indifferenziata e travolgente corrente di labili significati gli viene da minuti oggetti del vivere quotidiano, e non c'è segno che riesca più a captarli.

‟L'esistenza è un cedimento, arriva alla coscienza come un t r o p p o", aveva scritto Sartre. Il fenomeno è visto dal punto di vista di chi vi aderisce con perplessità (Hofmannsthal) e da quello di chi ne è disgustato (Sartre): ma è lo stesso senso panico di immersione indifferenziata nel vivere, caratteristico dell'opera d'arte informale e ribadito da numerosi testi di poetica, da Bryen a Wols, a Borduas, a Dubuffet, a certi americani.

Hofmannsthal descrive anche visivamente la vitalità incontrollabile del pensiero come una specie di mimesi materica: ‟...Allora mi sento come se io stesso entrassi in fermentazione, e buttassi vesciche, vampe e turgori. E tutto è una sorta di febbrile pensare, ma pensare in un elemento che è più incomunicabile, più fluido, più ardente delle parole: sono vortici, ma a differenza dei vortici della lingua, questi non paiono condurre a sprofondare nel vuoto, bensì al contrario in qualche modo mi riportano in me stesso e nel più riposto grembo della pace" (H. von Hofmannsthal, Brief des Lord Chandos, 1902; tr. it.: Lettera di Lord Chandos, Milano 1974, p. 57).

Per quanto riguarda le premesse storiche e linguistiche specifiche, si è costretti a risalire ancora più indietro nel tempo. La storia dell'arte occidentale, essendo profondamente legata alla Chiesa e ai ceti sociali dominanti, è caratterizzata nel suo complesso da una concezione teorica e da una pratica che possiamo definire in generale un ripensamento continuo dei canoni classici. I primi accenti critici rispetto a questa tradizione vengono dall'ambito di quella che è stata considerata l'arte realista, da Caravaggio a Rembrandt, ai pittori del Seicento olandese e finalmente a Goya, a Courbet, al realismo francese. Ma poiché il concetto di realismo è estremamente relativo storicamente, non ci fermeremo tanto a considerare il fenomeno culturale, quanto alcuni dati tecnici e morfologici che si colgono soprattutto in quell'area (ma non solo in essa), come preannunci dell'informale: in Rembrandt o in Courbet la materia emerge granulosa, spessa, quasi a strati, dando un valore nuovo alle asperità, al carattere consumato o escrescente dell'immagine; in Velasquez, in Franz Hals, ma soprattutto in Goya l'immagine risulta dall'intreccio apparentemente casuale di pennellate vibranti, dirette, frutto di un virtuosismo eccezionale, ma anche di un'espressività nuova. In realtà si comincia a scorgere nell'area realista un personaggio diverso: l'individuo artista che punta sulla sua esistenza come motivo di liberazione sia dai canoni culturali, sia dalle norme di una società gerarchica che aveva sostenuto fino alla Rivoluzione francese tutta una serie di convenzioni estetiche, la cui perdita totale avviene solo nel XX secolo. Non è questa la sede per fare un'analisi dei travagliati passaggi attraverso i quali l'artista moderno si rese conto, nella pittura, nella scultura e in parte anche nell'architettura, della crisi di una attrezzatura linguistica fino ad allora ricca di dinamismo, che era anche crisi di una concezione del mondo.

Una delle fasi più singolari e significative di questa crisi è l'impressionismo, il quale, almeno nella personalità del tardo Monet, veniva già indicato da Arcangeli nel suo articolo Una situazione non improbabile, pubblicato nel 1957 su ‟Paragone", come un antefatto dell'espressionismo astratto e informale, proprio per l'aspetto materico delle Ninfee di Monet che trasformavano l'immagine della natura in corpo della natura, mentre l'immersione vitale dei sensi rendeva la coscienza un fulcro sperduto nella realtà panica dell'universo. Naturalmente queste sono solo illuminazioni dell'occhio contemporaneo verso il passato; le premesse più storicamente concrete vanno rintracciate nei primi quarant'anni di questo secolo. La crisi emersa nelle arti visive lungo tutto l'Ottocento, soprattutto nei ripetuti revivals che tentavano variamente di ridare significato a stili riesumati dal passato, più o meno remoto, aveva significato nella storia delle arti l'interruzione di quell'alimentarsi dialettico della forma e dell'immagine nei propri rispecchiamenti, tipico di tutte le civiltà figurative del passato. Il decadere dell'elemento iconico nell'illustrazione e nella pesante simbologia letteraria ebbe come conseguenza le proposte formali delle avanguardie storiche dal cubismo al neoplasticismo.

Se si eccettuano l'esperienza dada - che costituisce tuttavia piuttosto una riflessione concettuale sull'arte come artefatto, come separazione dalla vita - e il surrealismo, che nel 1924 registrò a tutte lettere la fine dello stile e proclamò l'importanza determinante dell'inconscio nell'espressione, tutti gli altri movimenti, soprattutto quelli che si collegarono con l'architettura e con la funzione sociale dell'arte nel vivere quotidiano, accentuarono l'importanza dello sviluppo autonomo della forma, delle sue leggi e di una sua didattica.

D'altra parte, tra le due guerre l'arte iconica aveva avuto un'importante zona di espansione soprattutto in quelle correnti che vengono chiamate ‛realismo sociale': negli Stati Uniti, in Messico, in URSS, in Europa, la crisi economica, le rivoluzioni, il fascismo avevano posto il problema di un'arte d'immediata comprensione e di propaganda dei temi politici.

I protagonisti dell'area informale nel 1945 superano automaticamente le dicotomie forma-contenuto, astrattismo-realismo, per cogliere significati espressivi nel flusso stesso dell'esistere, negando implicitamente alla compiutezza formale un valore e ponendo l'accento sulla continuità senza limiti tra la natura (la realtà) e i barlumi appena accesi e subito spenti della coscienza. Negando egualmente un confine tra l'iconico e l'aniconico, ritrovando un ruolo all'immagine come aggregazione labile della materia, materia essa stessa, privata di ogni valore umanistico sia simbolico sia stilistico, hanno istituito un ponte tra l'avanguardia espressionista - collegata con i movimenti sociali -, l'avanguardia surrealista e la vitalizzazione totale del quadro realizzata dagli impressionisti.

La crisi rivelata dall'informale era soprattutto quella dell'arte geometrica, del costruttivismo, del design, dell'architettura razionalista. Già Argan in un saggio del 1961 sull'informale sviluppava il tema della crisi del costruttivismo e del design come crisi del ‛progettare' artistico, come fallimento del tentativo di dare ai processi e ai prodotti della società industriale un significato estetico. Nella sua analisi l'Autore metteva in rilievo le tappe di questa crisi: dall'arrestarsi della rivoluzione nell'altro dopoguerra, al compromesso con il capitalismo tentato subito dopo in buona fede da urbanisti, architetti, disegnatori industriali, al progressivo venir meno delle illusioni con l'avvento del fascismo, con la persecuzione intentata contro imprese come quella di Gropius. Argan considerava l'informale come arte anti-design, e comunque come una tendenza non d'avanguardia. Gli artisti informali percepiscono guerre, rivoluzioni - egli diceva -, nuove strutture economiche, come fine di una civiltà e di un linguaggio. La radicale profondità della trasformazione li conduce di colpo oltre ogni possibilità di razionalizzazione storica, ed essi avvertono la condizione umana non come un percorso limitato e tuttavia obiettivamente operante, ma, allargando all'infinito i suoi rapporti con il cosmo, ne riducono il potenziale di coscienza. Il passato non ha più un senso logico nell'evolversi di una vita, se non esiste un presente complessivamente significante nella coscienza. Da ciò la nuova pretesa di assolutezza morale del gesto espressivo e insieme la unilateralità dal punto di vista conoscitivo: ‟L'obiettivo della rivolta (dell'arte di un Pollock, o di un Wols, o di un Fautrier) non è l'arte conservatrice - scriveva Argan - ma l'arte che muove da un'ideologia rivoluzionaria e alla quale si rimprovera di non aver realizzato il proprio fine. In un ambito ristretto, specificamente tecnico, la rivolta è diretta contro l'arte che si è associata all'industria [...] in un ambiente più largo, contro l'assorbimento dell'individuo nella massa attraverso la riduzione dell' esistenza sociale al meccanismo di produzione e consumo". Argan concludeva che, se l'arte informale non è un'arte d'avanguardia, ‟qualche volta tocca alle retroguardie decidere la sorte della battaglia" (v. AA. VV., 1961, pp. 23 e 41-42).

D'altra parte Michei Tapié nel 1952, analizzando la zona dell'art autre o informel, aveva scritto che, mentre le opere dell'avanguardia andavano contro le nozioni tradizionali di Bellezza, Forma, Spazio, Estetica, le opere informali esistevano oltre queste nozioni, totalmente indifferenti davanti ad esse, come ignorandole, come se esse non fossero mai esistite.

La parola informel venne usata per la prima volta in Francia e divenne soprattutto caratterizzante per l'opera di artisti come Fautrier, Dubuffet, Wols, Bryen, Michaux. Come scrive N. Ponente: ‟Il termine ‛informale' fu probabilmente dovuto alla suggestione di un titolo di Bryen che rispecchiava perfettamente il senso delle sue ricerche, titolo che era: non-non-forme, cioè abolizione non solo della forma naturalistica, ma anche della determinazione dell'immagine in uno spazio ben definito e affermazione, invece, di una nuova ontologia, di una nuova presenza dell'essere nell'attività" (v. Ponente, 1967, p. 282). La definizione ha avuto fortuna perché corrisponde di fatto sia alle tecniche usate dagli artisti, sia all'impressione che l'occhio trae dalle loro opere, distruttive di una qualunque forma geometrica o naturalistica.

D'altra parte coloro che sono considerati gli iniziatori hanno avuto un iter simile: sia Gorky che Wols, che Pollock, in una certa fase del loro lavoro sembrano scagliarsi contro la loro stessa propedeutica formale. Wols, che aveva usato la linea sensibile e fantastica di Klee, comincia a gettare delle macchie e a graffiare la stesura sulla tela, con l'intenzione manifesta di cancellare ogni elaborazione precedente, ogni comunicazione lirica che poteva derivarne. Negli stessi anni, 1946-1947, negli Stati Uniti A. Gorky, amico di Breton, sensibile imitatore di Picasso, dopo essersi appropriato del biomorfismo di Arp, di Miró, di Matta e dello spazio surreale di questi ultimi, confonde le forme facendole scolare oltre il disegno, come se all'ultimo avesse deciso di sciacquare la tela: il quadro acquisisce un pathos mai sperimentato. Pollock, anche lui tra il 1947 e il 1948, abbandona Picasso, Masson e le riesumazioni precolombiane per l'uso del dripping, lo sgocciolamento diretto del colore dal tubetto, che crea un'immagine labirintica dell'energia in espansione.

Altri, come Dubuffet o Burri, avevano iniziato come pittori naïfs, adottando francamente, in una loro ‛preistoria' artistica, modi ingenui e semplificanti, per rispondere a una vocazione plastico-pittorica più forte della loro educazione alla forma. L'uno mercante di vini, l'altro destinato a fare il medico, decidono di dipingere e adottano un'attrezzatura di fortuna, per approdare, come vedremo, a consapevolezze critiche che vanno ben oltre. Ambedue - in modi totalmente diversi - espliciteranno poi una capacità eccezionale di inchiesta sul mondo delle materie fino a creare una loro cosmogonia poggiante, come scriveva F. Arcangeli a proposito di Burri, sul nada, sul nulla dei mistici. Insomma tutti questi artisti non tengono conto né della tradizione classica, né - direttamente - di quella delle avanguardie. Agiscono spunti remoti o anche postulati liberatori delle avanguardie surrealiste ed espressioniste, ma senza che si possa istituire un rapporto di linguaggio. Morfologicamente la frattura è totale: la macchia, il dripping, la scolatura, la cancellazione, il graffio, l'uso massiccio, quasi offensivo, di materie e immagini degradate, creano uno iato non solo rispetto alla tradizione e alle avanguardie in generale, ma anche rispetto alla formazione intellettuale di questi artisti. Questo è anche l'elemento saliente che li differenzia profondamente da quegli artisti che, tra il 1930 e il 1950, formano il cosiddetto astrattismo lirico che insieme alle avanguardie programmate (dal Bauhaus al neoplasticismo) dominava la scena artistica occidentale in quegli anni. Una pittura e una scultura importanti si erano infatti sviluppate sulla scia di Kandinskij, di Klee, di Mirò e del costruttivismo; pittura e scultura annoverano personalità come Bissière, Bazaine, Manessier, Poliakoff, Afro, Baumeister, Tal Coat, Licini, Melotti, Nay, Franchina, i giovani italiani del gruppo Forma, gli artisti definiti da L. Venturi come astratto-concreti, i gruppi che si raccolsero tra le due guerre in abstraction création e in cercle carré, scultori come Calder, pittori come Vieira de Silva, Estève, De Staël, Bram e Ger Van Velde, ecc.: artisti che avevano trovato una collocazione tra le istanze post-cubiste e quelle espressive individuali, costituendo un nucleo di vastissima portata e di alta qualità tecnica.

Nella fase in cui entra in scena prepotentemente l'informale tutto questo settore acquisisce nuovi caratteri; messi a confronto con la drammaticità e il radicalismo di opere così diverse, alcuni artisti se ne lasciano penetrare e modificano il corso della loro ricerca, altri tendono a diffondere con maggior forza le loro posizioni formali, altri ancora proseguono nella direzione personale seguita fino a quel momento, anche a causa delle differenze generazionali.

La critica e il pubblico, fortemente influenzati dall'informale di un Wols, o di un Dubuffet, o di un Pollock, cominciano un'operazione assai discutibile che tende ad attribuire valori e significati comuni ad artisti di diversa estrazione o comunque non così radicali. È tuttora difficile dipanare questi nodi culturali: certamente i primi che aderirono alla sensibilità dei nuovi artisti, da Rosenberg a Greenberg, da Tapié ad Arcangeli, come anche gli scrittori amici, da Paulhan, a Ponge, a Sartre, gli amatori, i collezionisti, i galleristi, influirono nel creare schieramenti, caratteri, e nell'allargare al di là dei protagonisti il concetto di informale, nel contestarne il senso, nel dare altre etichette all'espandersi di questo che si può considerare piuttosto un atteggiamento che una tendenza.

2. L'informale in Europa

In Europa tuttavia, dove nacque propriamente la definizione di informale, nella quale vennero comprese più o meno legittimamente molte personalità artistiche degli Stati Uniti e del Canada, non solo il termine non venne sottoposto a contestazioni, ma trovò anzi un credito e un'estensione di significati al di là di ogni previsione.

Si avvertiva con maggior sensibilità l'importanza delle opere di pittura e di scultura che corrispondevano meglio di altre alla tragedia vissuta dall'umanità negli anni 1939-1945. Molti artisti erano fuggiti nel 1942 dall'Europa negli Stati Uniti, molti avevano trascorso gli anni della giovinezza in campi di internamento o di concentramento. L'internazionalità, la libertà, le capacità potenziali di incidere della cultura e dell'arte apparivano sconfitte agli artisti e agli intellettuali di quegli anni.

Tra i protagonisti abbiamo citato Wols: dopo l'attività di fotografo svolta a Parigi nel 1937, dal 1940 inizia a disegnare nel campo di internamento in Francia e continua fino al 1945, anno dell'esposizione da René Drouin, dove gli amici che lo presentano, Bryen, Roché e Sylverie, sottolineano la versione mistica ed estatica della personalità del pittore. Nelle immagini del 1940 l'artista si affida ancora ai suggerimenti dell'ultimo Kandinskij, di Kiee e di Miró, ma nei raggruppamenti casuali di forme prive di gravità arriva a realizzare già nel 1942 la sensibilità nucleare del segno che gli sarà propria (per esempio, Le sorcier).

Agli effetti scenici di mondi favolosi su fondi di colore spento continua ad alternarsi l'ossessiva analisi di forme in decomposizione: Dos de femme (1945), o Crâne de poète (1945). Certo il rapporto con le visioni caleidoscopiche, pregne di una sensibilità surreale di Paulhan, che egli conosce a Parigi e di cui illustrerà Le berger d'Écosse, è evidente. Al tradizionale misticismo romantico, l'artista unisce la ‛disponibilità' del metodo automatico dei surrealisti, divenendo veramente con la sua tecnica sempre più complessa ‟il luogo di percezione degli oggetti". Un lirismo che permane, emancipandosi dalla figurazione iniziale, fino all'ultimo: basti osservare alcune incisioni realizzate per Nourritures di Sartre (1949). Sia per i quadri, sia per alcune punte secche, sovvengono le famose pagine del Doctor Faustus dedicate da Thomas Mann a Adrian Leverkühn e alla sua passione per la biologia, la chimica e la fisica; pagine nelle quali si rileva che ‟la natura stessa è piena di produzioni a sorpresa che danno nel magico, di capricci ambigui, allusioni semivelate e accennanti stranamente ad un mondo incerto"; e la bellezza delle opere di Wols appare in effetti ‟fantasticamente esagerata", ‟spettacolosamente esatta", come viene descritta da Mann l'effimera vita degli insetti e il loro mimetismo protettivo. E la passione per i fragili complicati ornamenti, con ermetico significato, di conchiglie, muschi, ghiacci, la fede in quel significato e nell'inquietante biomorfismo della materia inorganica sono le stesse che esaltano Wols e costituiscono le premesse della sua crisi. Anzi, ‟la coincidenza fra la vita intuita, nascosta all'occhio normale, del nucleo fisico e il tacito gorgo di noi stessi è il soggetto della pittura di Wols", come scrive Arcangeli nel 1957 (v. Arcangeli, 19772, p. 349). L'esperienza nei campi di internamento francesi durante la guerra, la sua vita di vagabondaggio certamente non elettivo e una consapevolezza morale che non cessa di tormentarlo preparano lo scatto drammatico di alcuni quadri fin dal 1946, se la data di Manhattan è esatta. L'espressione della famosa poesia scritta a Cassis, ‟tourner le dos au chaos de nos agissements", la traccia amara di un pensiero rinvenuto in un disegno da attribuirsi agli ultimi anni: ‟Dopo il 1913 [anno della nascita di Wols], tutto mi dimostra che nessun progresso è possibile, nella scienza, nei cuori o nei cervelli [...]", indicano che la preoccupazione etica prevale su quella estetica.

Nel 1948 Wols illustra Visage di Sartre, e l'incontro del pittore con lo scrittore francese non è casuale; noi abbiamo già citato la famosa pagina della Nausée, quale esperienza parallela a certa sospensione di Wols altrettanto investita dal senso dell'assurdo. Di qui la crisi della forma, l'incombente ineffabilità della materia. Ma Wols supera il momento mediato letterariamente di tale esperienza e tenta, nelle tele più che negli acquarelli, di esprimere in termini altrimenti stringenti il senso dello scacco. La compattezza dell' ‛opera', di fronte al caos dell'esperienza, scompare: sentiamo che dal tessuto estremamente nobile e quasi antiquato del segno di Wols, dalla sgargiante e ambigua bellezza di un colore idoleggiato in quei fondi per velieri o vilies englouties, esplode proprio la volontà dell'agire umano a cui il pittore aveva volto le spalle con amarezza. Il quadro diventa l'itinerario della crisi, si estroverte in un colore gridato, non più intimo. Wols è tormentato dai sogni, ma il materiale diviene sempre più renitente alla pura traccia di quel tormento o di quella beatitudine. Il pittore interviene rompendo l'ultimo diaframma tra gesto e pittura: l'immagine è una patina che causa intermittenze alla sua presenza; il graffio, la macchia, il segno-colore divengono atti volontariamente irriflessi e violenti entro il molle fondo di un'interiorità dubbiosa di se stessa. E se, come scrive Crispolti, in Dubuffet, Wols, Fautrier, sopravvive il ‛rimpianto' per una vecchia civiltà che scompare, la coscienza drammatica di questo scacco assume in Wols una comunicativa gestuale tra le più efficaci. Per la prima volta vediamo il quadro farsi e disfarsi sotto i nostri occhi, e la qualità emerge non dalla bellezza ma dalla prova di un'autenticità irrepetibile.

Breton, Roché, Paulhan, Ratton, Tapié e Dubuffet fondarono nel 1951 il primo nucleo della Compagnie de l'art brut, dopo aver promosso, a partire dal 1947, una serie di iniziative per diffondere la nuova poetica. Essa risaliva, sia pure parzialmente, alla scoperta che Dubuffet aveva fatto nel 1923 del quaderno di Clementine R., quando l'Ufficio Nazionale Meteorologico francese aveva bandito un concorso per le più interessanti fotografie della volta celeste; alla Commissione, di cui appunto faceva parte Dubuffet, arrivò un quaderno pieno di disegni, nel quale una donna dichiarava di aver fissato tutto quello che vedeva in cielo dalla sua finestra.

‟Attraverso l'art brut - scrive Lorenza Trucchi nella sua monografia del 1965 - Dubuffet ingaggia quindi, sia pure indirettamente, una nuova sfida alla cultura dogmatica e parassitaria e a quel dilagante spirito di plagio che vizia e corrompe ormai gran parte dell'arte moderna. Né c'è da meravigliarsi che da tempo sulla strada di un'altra arte i membri della Compagnie si incontrassero non soltanto con la pittura naïve e infantile [...] ma, soprattutto, con l'art brut, che divenne per Dubuffet un po' quello che l'arte negra era stata per Picasso e per Braque" (v. Trucchi, 1965, p. 120). Dubuffet si dedica completamente all'attività artistica a partire dall'età di 41 anni. Nell'art brut egli trova l'unica possibilità di demistificare il linguaggio colto assimilandone le ragioni psichiche come un magma dove l'individuo annullandosi compie una specie di lavacro. L'artista rifiuta così l'uomo, la sua civiltà, le sue sublimazioni e indaga la natura nella sua sconosciuta logica oggettiva. Dubuffet stesso nel 1946 aveva scritto che gli uomini sono assolutamente simili l'uno all'altro, che tutte le differenze poste in luce dalla psicologia sono riducibili, e aveva paragonato l'aspirazione a superare questa condizione di assorbimento costante dell'individuo da parte del collettivo a una specie di meccanismo naturale dell'organismo fisio-psichico, simile a tanti altri meccanismi che appaiono puramente fisici: egli aggiungeva inoltre che elemento primordiale della condizione umana è la richiesta incessante - perfettamente gratuita e vana per altro - del mistico, del lirico, di qualcosa al di sopra che non esiste o che esiste solo allo stato di polarità - ma senza che ci sia il polo - polarità che si esercita in un solo istante, venendo non si sa da dove, non si sa perché, come i lampi di calore nelle notti d'estate. Livellare le grandezze, porre la realtà del visibile sullo stesso piano antimetafisico, servirsi della materia, accostarsi alla materia, diventare materia fu fin dal 1946 il motivo costante e profondo dell'arte di Dubuffet.

In questo senso il periodo figurativo più interessante fu certo quello compreso tra il 1946-1948 e il 1953, anni in cui il primitivismo del segno e dell'immagine fu usato da Dubuffet negli splendori di una materia sovrana del quadro, per indicare appunto la povertà della traccia umana; e ciò con mano ferma, quasi puntigliosa, senza sortilegi. Sottolineare che si tratta di umori, di tic, di affanni e non di idee formali: questa, parafrasando le sue stesse parole, fu l'intenzione dell'artista. Quando Dubuffet nelle Topographies, nelle Tables, nelle Texturologies, nei Phénomènes, cioè nelle opere da lui dedicate alle strutture non umane del reale, si abbandona alla ‟pace tonica", alla ‟esaltazione serena come quella delle meditazioni asiatiche", trova un piacere di immedesimazione nell'oggetto che non contraddice il suo materialismo. Dubuffet del resto scriveva di amare gli ‟ampi mondi omogenei" come il mare, le nevi, i deserti e le steppe, e di aspirare a una pittura che gli procurasse sensazioni equivalenti di silenzio, di vuoto, di continuità.

Nessun pittore ha realizzato una simile azione di disturbo sistematica sulle aspirazioni classiche e sublimate delle attese percettive dello spettatore (l'Hourloupe ne è una cosciente conferma): i suoi aggregati materici si organizzano con la casualità di eventi naturali e l'occhio di Dubuffet, esasperatamente analitico, li segue senza intervento, eludendo con sistematica acidità la tendenza alla forma delle strutture della percezione visiva. Quando gli aggregati si stabilizzano in figure, esse sono, come abbiamo detto, le figure attentamente prelevate dai meccanismi delle menti malate, ove la nozione è brutalmente scissa da ogni contesto linguistico storico-culturale.

Amico di Dubuffet e vicino negli anni quaranta allo stesso ambiente di letterati, si rivela pittore protagonista dell'informale anche Jean Fautrier; a quattrodici anni ricevette la prima educazione artistica alla Royal Academy di Londra e nel 1920 cominciò a Parigi la sua attività di pittore, del tutto estraneo ai gruppi d'avanguardia, incline verso una figurazione vagamente espressionista. Dopo la crisi economica del 1929-1930, spinto dalle sue condizioni di salute e da necessità pratiche, divenne albergatore e maestro di sci, soggiornando quasi esclusivamente in montagna. Durante la seconda guerra mondiale fu costretto a rientrare a Parigi e la persecuzione nazista lo spinse nell'ambiente della resistenza dove ebbe occasione di entrare in rapporto con letterati e poeti francesi, fra cui Jean Paulhan e André Malraux che divennero suoi amici. Anche Fautrier è dunque un artista non ‛professionale', spinto da una vocazione esistenziale e non inserito; solo nel 1943 espose da Drouin un gruppo di 81 opere, tra cui le illustrazioni dell'Enfer, iniziando pubblicamente il suo ruolo di primo piano nello sviluppo dell'arte del dopoguerra.

Fautrier manifesta più volte una poetica che convenzionalmente possiamo definire decadente: culto della memoria, spirito maudit, antitradizionalismo anarchico senza petizioni di principio, interferenza profonda di motivi di morte ed erotismo, estrema coscienza dell'ambiguità morale di ogni condizione umana.

L'istanza della tradizione francese che Fautrier reca nell'ambito dell'informale è vista da Palma Bucarelli, nella sua monografia del 1960, come un bisogno del pittore di ‟ricondurre gli impulsi irrazionali a un grado di chiarezza, ad una forma, a quella raison che non cessa di essere raison per il fatto di essere raison du coeur" (v. Bucarelli, 1960, p. 90). Ed è il motivo della sua opposizione ad ogni tecnica che si rifaccia alla prassi dell'automatismo, praticato in origine dai surrealisti ma già usato da Dubuffet e da Pollock; il motivo del suo appello alla ‟cosa vista" come punto di resistenza al disfarsi della forma: il segno che testimonia la cosa ‟argina la dilatazione della materia; è come un tronco d'albero trascinato dalla piena, che segue bensì la corrente, ma in qualche modo la contrasta, obbligando l'acqua a deviare e ad impennarsi, schiumando, contro l'ostacolo" (ibid., p. 72). A questo proposito sono interessanti le notizie sui giudizi che il pittore francese dà dei contemporanei: sente vicino Wols, di Dubuffet non ama il gusto prosastico e aneddotico, di Pollock apprezza l'autenticità ma la sua pittura gli sembra disordinata e convulsa, stima degli americani Rothko e Tobey; abbozza un suo schema storico dell'informale, cominciando da Turner e passando per l'ultimo Monet e per Kandinskij, rivendica a sé la scoperta della materia, a Wols quella della macchia, a Hartung quella del gesto (ibid., p. 105). Come Mathieu egli è dunque anche un teorico e uno storico, e la sua poetica si inserisce perfettamente in questo quadro critico: egli manifesta una partecipazione appassionata, ma anche estetica e malinconica, alla tragedia dei corpi martoriati, della carne consunta, cui alludono sempre le vaghe immagini escrescenti disegnate e fatte di colori squisiti che sembrano lievitare e ispessirsi costantemente soprattutto nella serie degli Otages. Assorbite dal mistero della natura, anche la sofferenza fisica e la consunzione acquisiscono l'attraente patina della vita, i rosa stanno tra il sangue e i fiori, i celesti tra il livido e il tenero. Se Fautrier e Mathieu (del quale parleremo più avanti) rappresentano il polo di coscienza critica dell'informale, artisti come H. Michaux, G. Chaissae, lo svizzero L. Soutter, lo stesso Bryen, per ragioni diverse ne caratterizzano invece l'aspetto ‛spontaneo' o l'‛anomalo', riscoperto sull'onda della rivalutazione delle correnti irrazionali della psiche e del pensiero. Henri Michaux, per esempio, poeta raffinato e colto, in quegli anni dipinge spesso, sotto l'effetto di droghe diverse, tracce di segni simili a calligrafie; tali droghe egli sperimentava anche studiando le culture esotiche o primitive che ne fanno uso abituale, descrivendo parallelamente i simboli di quelle civiltà e le alterazioni subite da lui stesso sotto l'azione di quelle sostanze. L'apporto di Michaux si può considerare eccezionale e del tutto al di fuori di una vera e propria storia del linguaggio informale; ma occorre anche aggiungere che l'informale è un terreno di tutti e di nessuno, caratterizzato spesso da queste presenze occasionali, o da clamorose designazioni e riscoperte, o da esperienze transitorie anche decisive. Tipica quella dell'italiano Scialoja che dal 1956 al 1963, con la serie delle Impronte, ha dato voce a una vibrante e singolare partecipazione psichica alla vita della superficie, simile a quella di Fautrier, pur avendo egli avuto soprattutto contatti con l'arte statunitense e lavorando con le tecniche dei collages. Georges Mathieu, per esempio, attivo organizzatore oltre che pittore, scrive nel 1951 un saggio importante sulla pittura di segno: Esquisse d'une embryologie des signes; e per più di dieci anni si pone in polemica dialettica con la pittura di materia considerando l'informale uno stadio estremo della storia dell'arte occidentale con l'uso - come egli scrive - dei non-mezzi, o di mezzi senza possibilità di significato. In questo ambito considera soprattutto l'opera di Wols e degli americani Tobey e Rothko. A prescindere dai suoi giudizi e dalle sue graduatorie è interessante la constatazione secondo cui nella discesa che va dall'Ideale al Reale, il punto più basso è proprio questa realtà non métamorphosée, questo réel brut che è la materia. Da ciò la reazione di Mathieu il quale, influenzato dall'esattezza del gesto pittorico della tradizione orientale, su una tela liberata del materismo tenta un nuovo discorso pittorico basato sulla traccia rapida ed essenziale di un racconto psichico, in cui il segno, nella sua energia contenuta e tecnicamente esemplata su modelli non espressionistici, dovrebbe precedere il significato. Titoli storici come Il grande Delfino, Festa e processione per la vittoria di Lepanto, Guglielmo il bravaccio, costituiscono una specie di evocazione parodistica di quella tematica classica occidentale alla quale Mathieu attribuisce comunque un ruolo, anche se defunto. I suoi quadri sono di fatto nuclei calligrafici che si svolgono su ‛pagine' orizzontali o verticali come nell'arte orientale, realizzando immagini dinamiche spesso su due motivi in contrappunto.

Nell'ambito di tale tendenza segnico-gestuale e antimaterica vanno visti sia Hartung, sia certo Fontana, ma anche Capogrossi, Winter, Soulages, Schneider, Accardi, Sanfilippo, Chillida e, in America, certamente Tobey. Ma il loro lavoro confina largamente con le ricerche ‛formali'; basti pensare all'analogia morfologica quasi totale di alcune opere di artisti come Tobey e Dorazio degli anni 1958-1960, ma anche di certe ‟tables de sérénité" di Dubuffet, e Tobey, e perfino Michaux. Il pullulare ritmico del segno grafico, pur venendo da culture e intenzioni diverse, senza alcun contatto tra loro, sortisce sulla tela pulita, nella purezza dell'iterazione, impaginazioni simili, che si leggono come inquietudini particolari dominate da una visione estatica d'insieme.

Nei casi di Hartung e Fontana, il lavoro e l'effetto sono diversi: tagli, segni rapidi come sciabolate danno all'immagine il senso di un'eleganza estrema e di una struttura formale che nasce comunque dal virtuosismo illimitato e dalla tensione con la quale lo spazio è dominato dalla libertà del gesto. Per gli altri artisti l'accostamento morfologico con tendenze più espressive e drammatiche va a situarli accanto a Scanavino, Twombly, Novelli, Vedova, Perilli, Sonderborg, Götz, Prassinos e perfino a certi spagnoli come Saura.

Le prime opere non figurative di Hartung, nato a Lipsia, ma residente a Parigi dal 1935, sono del 1921-1922 e muovono da linee e colori liberi alla Kandinskij fino al 1950 circa, per costituirsi poi nei famosi due o tre strati dello spazio con cui si caratterizzano i suoi quadri da allora a oggi: un fondo netto, stesure a velatura, e più in superficie il segno-gesto che articola sbarramenti, dà luogo a ritmi, a slanci dinamici con grande emblematicità di risultati. Per Hartung come per Mathieu, per Tobey e per Kline, sono state importanti le esemplificazioni ricavate dalla calligrafia e dalla pittura dell'Estremo Oriente: essi ottengono così uno spazio semplificato, un segno che scocca e si sviluppa come silhouette, e una gestualità fulminea che sola li pone giustamente nell'area dell'informale.

Anche Lucio Fontana, nato a Rosario di Santa Fé e vissuto tra l'Argentina e Milano, rifacendosi piuttosto alle culture primitive opera una semplificazione radicale su secoli di tradizione europea per riportare la facoltà percettiva alla sua indeterminatezza e intensità originarie. Fontana ha avuto il suo periodo decisivo con il gruppo milanese formatosi negli anni trenta intorno a Carlo Belli e alla Galleria del Milione, tuttavia il soggiorno in Argentina dopo il 1940 e il ritorno in Europa lo spingono verso esperienze veramente autres, nelle quali abbandona il suo geniale virtuosismo per una gestualità quasi simbolica. Già nel Manifesto Bianco del 1946, elaborato con diversi artisti argentini, si riferiva alle epoche primitive in cui gli uomini della preistoria che percepirono per la prima volta un suono prodotto da colpi battuti su un corpo vuoto, si sentirono soggiogati dalle sue combinazioni ritmiche e, spinti dalla forza di suggestione propria del ritmo, danzarono fino all'ebrezza. L'intenzione del gruppo era di sviluppare tale condizione originaria dell'uomo. Il gesto ‛primitivo' di Fontana fa perno sull'allargamento del concetto di spazio che si è determinato storicamente dal barocco ad oggi, in cui la rappresentazione di esso ha ceduto alla necessità di rinnovarne ogni volta l'esperienza, dopo che ogni tipo di organizzazione razionale contemplativa è stata messa in causa dalle scoperte della scienza. Lo stesso Fontana ci dice che ormai non valgono né pittura, né scultura; il dinamismo plastico di Boccioni si sviluppa come dinamismo spaziale. E Tapié ci ricorda la discussione che Fontana ebbe nel 1937 con Brâncuşi e Tzara, durante la quale l'artista sostenne il valore dello spazio contro quello del volume. Il cosmo di Fontana, come quello di Miró, è in attesa dell'uomo che lo farà vivere, e viceversa: un atteggiamento di profonda fede nella magia del gesto e dell'occhio lo accomuna ad artisti come Pollock e Burri. La sua opera complessa, soprattutto nelle sculture, utilizza tuttavia anche un materismo particolare, rappresentato più che vissuto: ma il senso della sua arte è sempre nel gesto estremo che, mettendo in causa tutta la cultura plastica posseduta, nella quale egli vive come un giocoliere, dà al suo lavoro l'emblematica purezza di un'asserzione simile a quella di Hartung. L'asserzione di Fontana è comunque di fede quasi biologica nel futuro.

Burri è senza dubbio l'artista più rappresentativo dell'informale in Italia. I portati della sua cultura sono stati molti: c'è un Burri dal segno picassiano, di un postcubismo surrealista, un Burri coloratissimo del 1948 che echeggia Klee o Kandinskij o la pittura francese, un caleidoscopio di esperienze tutte febbrilmente tastate e poi lasciate stare per seguire un dettato più profondo. Tutti gli apporti dell'arte contemporanea si colgono nelle opere dal 1948 al 1952, finché emerge appunto la singolare morfologia di una materia bruta - sacco, stoffe vecchie, catrami, ferri, cretti, legni - impaginata secondo schemi allusivi a orizzonti, crateri, superfici pullulanti e pareti.

Burri aveva cominciato a dipingere durante la guerra nel campo di concentramento di Hereford nel Texas: paesaggi naïfs, caratterizzati da un rutilare di vortici di colore-materia. Tornando in Italia nel dopoguerra vide solo povertà e rovine e avvertì un isolamento profondo che diede sostanza e individuazione alle radici romantiche della sua formazione giovanile. Abbandonò del tutto la carriera di medico e scoprì dall'arte contemporanea surrealista e postcubista il modo di dar forma a questa vocazione espressiva, capace di prelevare la cosa vista nella sua elementarità, nella sua miseria, nella sua condizione di rifiuto e lacerazione, per farle acquisire un'enfasi grandiosa. La coerenza delle immagini, la loro stupefacente costanza iniziano nel 1948-1950 un lungo iter nell'uso di materie diverse: la cucitura del sacco è uno degli elementi più noti, la ritroviamo come segno nelle varie copertine del libro progettato per le poesie di Emilio Villa, nei percorsi fluidi dell'incisione, nelle anomalie nervose delle cuciture delle stoffe, nelle sfilacciature, nelle suture dei collages, nei loro margini sensibili, nei bordi rappresi delle combustioni, nelle saldature dei ferri dei grandi quadri, insomma un motivo lineare che apparterrà sempre al suo lavoro. Così le forme ovoidali, o rotonde, ad arco, larghe o ristrette come fessure: nascono come macchie e crateri, continuano come strappi, come bruciature, come lacerazioni, o come forme pure, decantate di ogni elemento materico, dai contorni quasi geometrici nelle superfici semplificate fino alle serigrafie del 1970. Potremmo allo stesso modo diffonderci sugli ‛orizzonti', sulle verticali, sulle spaccature: variando le materie, non variano tuttavia i patterns.

Burri, bricoleur infaticabile, scopre con le sue materie il modo di far contemplare a chiunque le proiezioni di un'immaginazione cupamente drammatica. Nelle sue opere vediamo veramente crolli, risucchi, catastrofi, aloni di fumo, segni di avvenimenti dell'inconscio (e della coscienza). Ma sentiamo anche il gusto delle asperità tattili, il senso della loro schiettezza, e una specie di acuta nostalgia di un epos fantastico che si coglie nella grandiosità dello spazio di questi quadri; anche il senso di una materia che diventa da drammatica e intrisa di affetti, pacata e splendente. Come scrive Brandi nella sua monografia del 1963: ‟L'opera di Burri non ci vuol comunicare né piaghe, né ferite, né suture, né operazioni di sorta. Siano queste evenienze esistenziali alla base della sua accensione fantastica, rimangono nella spoglia apparente come rimane nella parola della poesia la parola dello scambio quotidiano, è in quanto si supera piaga e ferita che si concreta la figuratività" (v. Brandi, 1963, p. 139).

Alberto Burri, il quale pure è ormai considerato un punto di riferimento chiave dell'arte materica informale, anche per l'influsso che ha avuto sul materismo americano dei precursori della pop art, nonché sul grande pittore spagnolo Tàpies e su una ‛voga' materica italiana e tedesca, non era ancora citato nel volume di Michel Tapié pubblicato a Parigi nel 1952: Un art autre, testo fondamentale tra le poetiche degli anni cinquanta. A distanza di venticinque anni il libro offre più un interesse documentario che storico, soprattutto perché vediamo inclusi nella corrente sostenuta da Tapié, critico militante e manager, non solo personaggi come i protagonisti francesi, tedeschi e americani che abbiamo citato, ma anche un pittore surrealista come Brauner, gli italiani Sironi e Marini, e artisti che non hanno avuto molto in comune con l'informale, come Dova, Butler, Ubac, Paolozzi, Sutherland; astratti, surrealisti, figurativi, segnici o postcubisti, Tapié li considerò (e li fece considerare) disinvoltamente nella stessa tendenza. Per quel che riguarda gli inglesi Paolozzi, Sutherland, Butler, Armitage, per l'importantissimo Francis Bacon (da altri considerato informale), si può dire - come del resto per gli scultori francesi Richier e Giacometti - che l'informale investì soprattutto i loro significati drammatici esistenziali e diede alle ‛figure' di una pittura e scultura iconica caratteristiche di corrosione o escrescenza materica, o deformazione allucinata. Malgrado la ricchezza delle problematiche di questi artisti, essi non furono coinvolti dal radicalismo dell'informale vero e proprio, ma solo dall'atmosfera e dai motivi di crisi e da alcuni aspetti tecnici similari.

Ancora più fuorviante risulta l'aver incluso nell'informale artisti come la Accardi, Capogrossi e Sanfilippo, il cui lavoro, pur intensamente significativo, appare in un'area di semplificazione e iterazione del segno, tipica peraltro di una situazione italiana, che caratterizzò anche Dorazio e Consagra, con esiti di qualità eccezionale, ma del tutto formali nel senso dell'impaginazione e della finitezza dell'immagine che ne risulta. E ciò anche se Capogrossi, Colla, Ballocco e Burri fecero insieme delle mostre come Gruppo Origine, e se il segno di Capogrossi venne investito di tensioni psichiche e significati al di là delle incrostazioni storico-culturali cui essi si opposero. Semmai un certo informale materico può aver suggerito a uno straordinario e sensibilissimo pittore come Turcato le sue inventive ‟superfici lunari".

Tapié, amico e partecipe delle serate alla Galerie Drouin con Dubuffet, Fautrier e Mathieu, viaggiatore infaticabile nelle capitali occidentali e orientali del dopoguerra, ebbe notevole gioco nel forzare l'interpretazione degli artisti che lo interessavano verso questa nuova sponda teorica dell'individualismo, tra Nietzsche e i filosofi esistenzialisti. Finì con l'includere nei gruppi da lui sostenuti anche artisti giapponesi come Toshimitsu Jmai, Kazno Shiraga, Kumi Sugai. Ricorrono nelle mostre da lui organizzate alcuni nomi che oggi non hanno più alcun rilievo e altri che sono visti da un'angolatura diversa come Dova, Matta, Soulages, ecc. Dobbiamo tuttavia dargli atto della scoperta precoce di un clima comune che caratterizzava non solo le sue interpretazioni o in genere quelle dei critici, ma la pratica artistica di quegli anni. Troviamo giustamente e precocemente vicini nel suo libro e in altre iniziative: Appel, Hofmann, Riopelle, Bryen, Guiette, Serpan, Sam Francis, la Falkenstein; vi troviamo anche Ossorio che sappiamo fu un tramite importante tra Dubuffet e gli Stati Uniti, collezionista e pittore di materia eccentrico e curioso, il quale ebbe rapporti stretti anche con Pollock e con il collezionismo americano dei ‛compagni di strada' di quel periodo.

Proprio la vastità dell'ondata di interesse per questi fenomeni artistici ricreò sulle macerie dell'Europa nazionalista una internazionalità culturale nuova, e il ‛gusto' informale trionfò ovunque: da Bruxelles a Torino, da Bologna a Parigi, da Düsseldorf a New York, da Londra ad Amsterdam, perfino a Tōkyō. In Italia alcuni artisti ricevettero spinte e soluzioni determinanti al loro lavoro da questa nuova esaltazione dei valori individuali come possibili indagini del ‛profondo': abbiamo citato Scialoja, ma aggiungiamo, tra i più importanti, Tancredi, Morlotti, Moreni, Scordia, Arnaldo e Giò Pomodoro, Afro, Sadun, Mastroianni, Leoncillo, Mannucci, Bendini, Vacchi; Vedova declinava il suo futurismo severo verso una gestualità e un materismo drammatici di grande efficacia; un anticipatore significativo per la sua origine espressionista fu Luigi Spazzapan; Santomaso dalla tecnica del dripping mutuava l'intervento di setacciare polveri colorate nelle stesure realizzando straordinari effetti atmosferici senza mediazioni pittoricistiche. Ma occorre ovviamente dire che l'esplosione europea dell'informale avvenne a distanza di almeno otto anni dal formarsi e dall'incidere esemplare dei protagonisti citati: se il sorgere delle nuove tecniche si può situare tra il 1945 e il 1950, il loro diffondersi inarrestabile si sviluppò dal 1950 al 1960.

Anche dal punto di vista dell'informazione, l'eco non fu così rapida: possiamo parlare del 1956-1958 come degli anni in cui critici militanti, organizzatori di musei, riviste e gallerie assunsero questa tendenza come la più importante e significativa. Una simile unità d'intenti, basata sull'interscambio europeo, statunitense, canadese e giapponese, su una maturazione interiore e non superficiale, anche nei più piccoli centri di provincia, non si è avuta più. Paradossalmente questo modo di esprimersi esaltante la vocazione individuale e antisociale divenne una delle forme d'arte più comunemente praticata, diffusa, compresa ed amata, a livello potremmo dire quasi popolare in tutto il mondo occidentale. In Germania ricordiamo: E. Schumacher, J. Wagemaker, B. Schultze, K. O. Götz, G. Hoëme; nei Paesi Scandinavi e nei Paesi Bassi gli artisti del gruppo Cobra e i numerosi altri da loro influenzati tra i quali: E. Jacobson, Lucebert, E. Jaguer, E. Bille, Lataster, l'italiano P. Gallizio; in Spagna il nutrito gruppo degli artisti conosciuti dal pubblico con sorpresa generale e consenso critico al padiglione della Biennale di Venezia del 1958.

Il gruppo Cobra si era formato nel 1948: ne fecero parte pittori come Pedersen e Jorn, iniziatori e creatori della poetica del movimento; poi Appel, Alechinsky, Constant, Corneille. Il nome del movimento deriva da una combinazione delle iniziali delle città di origine: Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam. Il gruppo si pose in polemica con il purismo più direttamente di altri, e constatò con enfasi e insistenza il fallimento delle avanguardie razionaliste, particolarmente importanti in quei paesi.

La figurazione assunta in partenza era quella del mostruoso e del fantastico della favola, ma deformazioni e immagini popolari venivano poi travolte dalla caratteristica densità materica e dalla violenza gestuale. Scriveva Ponente nel 1967 come Appel affidasse la figuratività ‟al suo violento temperamento che caricava i colori e le materie quasi di un peso fisico, che rivelava la continuità di una dimensione culturale espressionista" (v. Ponente, 1967, p. 306). Surrealismo ed espressionismo sono comunque i riferimenti di tutti gli artisti Cobra: in particolare essi si richiamano ad Ensor, Munch, Nolde, Kokoschka e van Gogh, più che agli espressionisti locali come Permeke o de Smet. La figuratività del gruppo Cobra (il danese Carl Henning Pedersen aveva cominciato a lavorare già negli anni quaranta) ebbe esiti assolutamente singolari, propri di quel movimento: potremmo dire che forza fauve del colore, spessore materico, gestualità appassionata e immagine deformata sulla scorta dell'infantile e del naïf, sia negli aspetti delicati sia in quelli da incubo, coincidano. In Pedersen la figuratività è dichiarata; in Jorn - danese anche lui - più conosciuto di Pedersen, e che venne considerato a lungo l'ispiratore del surrealismo scandinavo, le immagini seguono l'andamento magmatico di una materia densa, e l'allusione è sempre suggestiva per la sua apparente occasionalità, come ai margini di un sogno. Jorn, nato nel 1914, fondò nel 1955 ad Alba il Bauhaus immaginista e dal Piemonte a Monaco, ad Amsterdam, diffuse questa aperta e creativa polemica contro il razionalismo della famosa scuola tedesca. La singolarità del suo apporto all'informale è determinata anche dai suoi scritti sull'estetica e sull'arte popolare. Karel Appel fu tra i fondatori del movimento Cobra con i belgi Alechinsky e Corneille; in lui le immagini emergono dalla materia con una rudimentale violenza, mentre nei belgi agisce più sottilmente una matrice surrealista e un'impaginazione elegante derivata dall'astrattismo.

Anche l'informale spagnolo ha origini strettamente collegate con il surrealismo; un clima di ‛rivolta' moderna iniziò a manifestarsi tra gli artisti catalani e castigliani negli anni quaranta: a Barcellona nacque il gruppo Dau al Set e a Madrid il gruppo El Paso. Dau al Set fu fondato nel 1948 da Arnald Brossa, uno scrittore vicino a Beckett e a Jonesco, che riunì i pittori Tàpies, Cuixart, Tharratas, Pon~, il critico Cirlot e il teorico del gruppo Puig. Un amico d'infanzia di Miró, Joan Prats, condusse i giovani dal grande surrealista catalano e attraverso Miró il loro interesse risali a Klee, ad Ernst, a Picabia. Il gruppo che si formò a Madrid, El Paso, fu fondato dallo scrittore Manolo Conde e dai pittori Millares, Feito, Canogar e Saura. Le connotazioni degli artisti di ambedue i movimenti divennero poi le più diverse: dal materismo solenne e metafisico di Tàpies a quello più drammatico ed espressionista di Canogar e Millares, alla pittura gestuale di Antonio Saura, simile per certi aspetti a Emilio Vedova e per altri a De Kooning (con parole analoghe a quelle dell'americano, Saura dichiarò nel 1959 a proposito del quadro Crocefissione: ‟Mi interessa di esprimere la mia situazione di uomo solo, in un universo minaccioso di fronte a cui c'è posto soltanto per la gesticolazione e per il grido"). Saura supera la sensibilità surreale alla Tanguy dei quadri del 1954-1955 attraverso l'influsso degli americani, soprattutto di Pollock e di De Kooning.

Tàpies, l'altro protagonista, più anziano di sette anni, costituisce il polo opposto dell'informale spagnolo: assolutamente europeo, si è formato precocemente come pittore di una materia otticamente densa e allusiva. Già nel 1946-1947, nel quadro Croce in carta di giornale, il surrealismo illustrativo della sua fase propedeutica è superato e l'evidenza epifanica dell'immagine si esprime nella casualità del collage. Il caso e la pregnanza divengono gli elementi guida della lettura dell'opera di Tàpies, e permettono di risalire alle ragioni delle tecniche dell'artista. A proposito di segni, lacerazioni e materie in una severa composizione plastica, si è fatto giustamente il nome di Burri, che in anni immediatamente precedenti componeva i Sacchi. Spesso nei quadri di Tàpies successivi al 1952 si continuano a scoprire tracce che, pur trasformate in penetrazioni all'interno della materia (come buchi, fenditure e graffi) richiamano i filamenti, le righe ondulate e i punti vaganti di Miró.

E Miró è all'origine non solo di Burri e di Fontana, ma anche della similarità degli esiti di Fontana e Tàpies. Nella materia-muro dei quadri tipici del pittore catalano troviamo incise delle scritte indecifrabili e misteriose, pagine di storia umana alienata dal tempo; spesso Tàpies lascia una traccia a calce, una croce, una sinusoide, un graffio quasi fresco, un segno di sangue, che fanno l'effetto di una protesta, un simbolo d'intesa o un atto proditorio (a un significato anche politicamente polemico in epoca franchista accenna l'interpretazione fattane da L. Söderberg nel 1959). Tuttavia le opere di Tàpies sono caratterizzate sempre e soprattutto da una solennità enigmatica - tipicamente spagnola - dove la traccia pietosamente inerme dell'esistenza viene giocata da un'impaginazione plastica rigorosa, come se tuttavia il mondo avesse un segreto da rivelare al di là della morte. Più impegnata in senso esistenziale l'immagine di Saura, di Canogar, di Millares e di Cuixart, più poetica in senso astratto-lirico quella di Feito.

3. L'informale in Nordamerica

Negli Stati Uniti la situazione artistica dopo il 1940-1945 è caratterizzata diversamente rispetto a quella europea: gli artisti appartengono a un ambiente culturale e linguistico unico, non solo, ma sono quasi tutti residenti a New York, a parte Mark Tobey per il quale si può parlare di informale solo in modo traslato. Ciò non implica alcuna similarità morfologica tra questi artisti, e tuttavia, pur isolati, essi hanno, come vedremo, molte occasioni di incontrarsi e stimolare a vicenda un humus polemico e un'analogia di intenti. D'altra parte, la tradizione dell'arte classica, importata nel Seicento e nel Settecento dagli emigrati nel Nordamerica, è solo una veste superficiale di una classe borghese ben altrimenti aperta all'assimilazione, anche poco discriminata, dei prodotti della cultura moderna. Il Nordamerica nasce col capitalismo borghese, quindi nulla della vecchia tradizione serve agli Americani per trovare la propria identità come individui e come nazione.

Com'è noto il collezionismo dell'Otto e del Novecento, apertissimo a ogni novità, mette presto a disposizione della popolazione locale numerosissimi esempi di arte impressionista. Con l'apertura nel 1913 a New York dell'Armory show, entrarono nel gusto comune anche Brâncuşi, Matisse, van Gogh, Picasso e altri. D'altra parte la migliore tradizione americana si era caratterizzata, sia nell'Ottocento che nel Novecento, come arte di paesaggio e arte ‛realista'; l'unico problema dunque che il gruppo degli artisti di New York doveva affrontare sul piano culturale era quello di un'autonomia definitiva dalla soggezione nei confronti dei grandi artisti dell'arte europea degli ultimi ottant'anni. Se esistenzialmente la solitudine e i drammi dei singoli artisti furono simili a quelli degli europei - molti di loro erano di origine russa, da Rothko a Gorky, altri olandesi come De Kooning, e d'altra parte la tragedia dell'Europa coinvolgeva culturalmente e umanamente anche gli Stati Uniti - la lotta individuale e solitaria ebbe poi il conforto di scoprire un terreno comune con spirito sgombro e aperto.

Curiosamente l'aspetto drammatico della loro esperienza si fuse con un certo tono aggressivamente esaltato dalla comunità di intenti, dall'utopia di istituire un linguaggio epico sulla scorta di una psicologia del profondo. Una sorta di nuova arte primitiva del XX secolo, rispondente a bisogni essenziali della persona umana, una persona umana da ‛giungla d'asfalto', sgombra delle illusioni ottimistiche dei Mondrian o dei Gropius, fu il sogno comune a quel gruppo di artisti. Così non solo si postulò la distruzione di ogni diaframma iconico, ma anche dello stesso supporto pittorico: la tela di Pollock non ha limiti, viene stesa per terra e tagliata casualmente, quando la gestualità dell'artista nel suo febbrile contatto con lo spazio si esaurisce. Inoltre l'individualismo, strutturale alla loro nascita culturale, libera energie potenti e impedisce una certa compiacenza ‛decadente' e il ripiegamento autoanalitico che caratterizzano alcuni degli esponenti dell'informale europeo.

Altro dato da tener presente: l'informale americano (o espressionismo astratto, o action painting) è soprattutto determinato dalla gestualità, mai dal materismo o dall'imagerie regredita. Materismo e regressione torneranno di rimando dall'Europa e troveranno sviluppo soprattutto nell'assemblage pop o nella junk art. Occorre anche dire che, se pur convenzionalmente e per l'enfasi sulle misure e sui valori di environment, alcuni artisti come Rothko o Newman sono inclusi nell'espressionismo astratto e informale in quanto antigeometrici e mai puramente ottici nei valori pittorici, la loro connotazione è piuttosto di pittori astratti, non dissimili morfologicamente dall'area cui appartengono europei come Dorazio, come Nay, o europei americanizzati come Albers. Così per Tobey la connessione morfologica con certi Michaux o Dubuffet si fa stringente, i rapporti con l'arte orientale la sottolineano, e comunque gli esiti sono tutt'altro che informi. Diciamo allora che tutti questi artisti sono uniti da un unico elemento: l'enfasi posta sulla ricerca e sul messaggio individuale, con mezzi e strumenti tendenti a sostituire all'ecumenicità delle civiltà antiche un'assertività personale grandiosa, di tipo romantico, un ultimo romanticismo. Negli anni 1942-1947 la loro arte comincia biomorfica: l'andamento fluido dello spazio e del disegno è desunto da Miró (Gorky e Rothko), da Masson (Pollock), da Klee (Baziotes), dalle forme stesse della natura (Stamos), dagli studi sul modo di disporsi delle scritture primitive (Gottlieb), ma anche per certi aspetti dalla metafisica e dall'automatismo (De Kooning), dall'automatismo e da Picasso (Motherwell). Affiora un'immagine che, privata della sua immediata riconoscibilità, comunica tensioni più misteriose e profonde.

Anche se il critico Clement Greenberg tende fin dal 1945 a diminuire l'importanza del surrealismo nella cultura americana, e lo stesso Motherwell, che pure fu amico del pittore surrealista cileno Matta, presente a New York dal 1939 al 1948, sostiene che le tecniche automatiche del surrealismo furono da lui comunicate a Baziotes e a Pollock senza che esse tuttavia influissero sulle poetiche e sul lavoro degli artisti americani, occorre ricordare che in realtà il movimento surrealista europeo, avendo messo a fuoco il tema dell'importanza dell'inconscio nella vita psichica, diede una spinta inequivocabile all'interesse per i simboli primitivi, per le teorie di Jung, per le immagini biomorfiche che i giovani americani di quella generazione (anche i più alieni da un rapporto diretto con il surrealismo come Newman, o Rothko, o Gottlieb) adoperarono unitamente a nuove teorie sul carattere ‛primitivo' dell'arte americana. Dipinti di Rothko come Tentacoli della memoria e Scena battesimale (1945), Impronta ancestrale e Vascelli magici (1946) recano l'impronta di Miró e, precedentemente, quadri come Immagine mascherata di Pollock (1938), Uccello e Specchio magico (1941), Custodi del segreto e Pasifae (1943), Totem I e Cerimonia notturna (1944), La donna lunare spezza il cerchio (1944-1945), L'inconscio azzurro (1946), derivano chiaramente i mezzi espressivi parte da Masson, parte dalla violenza surreale di Siqueiros e Orozco. Ma l'iconografia e perfino la tematica venivano dalla cultura azteca e maya, con il suo repertorio di corrispondenze sacre materializzate in simboli, con il tempo e lo spazio intesi come un'unica sostanza che segue una vita ‛ciclica ritornante, con il senso di una comunità in cui tutto era sottomesso al ritmo cosmico nel quale il rito era l'unica possibilità di partecipazione.

Il più vicino al surrealismo fu indubbiamente Arshile Gorky che, morto tragicamente nel 1948, costituì una specie di tramite tra la cultura figurativa europea e quella americana che si veniva formando. Egli, come dice Ethel Schwabacher, vide Ingres e Cézanne con gli occhi di Picasso, Picasso e Klee con gli occhi di Miró, e Duchamp con gli occhi di Matta; aggiungiamo che, con la sua peculiare attitudine mimetica, guardò Stuart Davis, Matisse, Arp, Moore, Kandinskij, Braque, Tanguy, Masson, e penetrò fino alla parafrasi a volta a volta gli andamenti espressivi di ognuno di essi. Non dobbiamo dimenticare che Gorky doveva il suo disprezzo dell'originalità a quella che Rosenberg chiama ‟debolezza assertiva", alla sua storia di immigrato, ai traumi dello sradicamento dall'antico mondo feudale e contadino dell'Armenia verso l'ignoto di una civiltà industriale, in cui uscire dalla solitudine e dall'anonimato diventava difficilissimo. A distanza di quindici o venti anni dal suo arrivo negli Stati Uniti, Gorky scrive nelle lettere: ‟Questo posto sembra tanto grande e infelice ..." (v. Schwabacher, 1957, p. 85). Rosenberg dice acutamente: ‛Privo di un mondo di cose familiari, Gorky fece dell'arte il suo universo, come succede ad altri emigrati con la modesta routine della loro bottega" (v. Rosenberg, 1962, p. 22). L'arte fu a lungo per lui un riparo e una sublimazione; la scelta del celebre pseudonimo: Gorky (egli si chiamava Vosdanig Adoian) fu uno dei tanti travestimenti cui si sottopose per schermarsi dinanzi alla realtà, per lasciarsi respiro, illusioni, e soprattutto la possibilità di coltivare i piaceri della bellezza, dei ricordi, della tradizione. La sua opera lascia un messaggio per De Kooning e per Pollock: lo spazio postcubista di Matta, teatro di scontri, si trasforma in un universo di comunicazioni liriche, le ‛concrezioni' di Arp si spaccano, i segnali di Kandinskij si caricano di un'animazione soggettiva più provocante e psicologica, le immagini girovaghe di Miró si condensano per alludere più scopertamente a una specie di fisiologia della natura, che perde la sua naïveté e diventa drammatica. Ciò che è più significativo, interviene quel gesto dilavante per cui le stesure colano e le immagini sembrano sgocciolare, le superfici si impastano come dietro un vetro sul quale batte la pioggia e l'occhio di Gorky e le sue mani sembrano celebrare davanti a noi questo gesto d'addio alle sue illusioni.

Se la distruzione dell'immagine facendo debordare il colore con andamenti assolutamente casuali fu per Gorky un'esperienza importante, essa non fu tuttavia per lui definitiva. Il percorso di Pollock ne fu invece determinato, con una coerenza cronologica che stacca il 1946 dagli anni precedenti per l'uso del dripping (sgocciolamento).

Il processo è tanto più singolare in quanto la forza eminentemente plastica di Pollock tendeva a dedurre le immagini dalle stesse forme astratte, con clamorose caratterizzazioni barocche. Distaccato sostanzialmente dalla tradizione europea, Jackson Pollock, attraverso il pittore romantico americano Benton, che fu il suo maestro quando intorno al 1930 arrivò a New York e si iscrisse all'Arts student league, infine attraverso lo stile dell'affresco messicano appreso da Orozco tra il 1935 e il 1940, costituisce un legame tecnico-stilistico con linguaggi privi di quei complessi riflessi dell'arte europea d'avanguardia che agirono viceversa su Arshile Gorky. Alloway, citando un'intervista del 1944 in cui Pollock diceva che Ryder era l'unico maestro americano ad interessarlo, scrive che l'artista si servì del romanticismo americano per esplorare la propria identità di americano senza cadere nelle strettoie sciovinistiche del regionalismo. Greenberg d'altra parte scrisse nel 1947 che nei quadri di questo artista era racchiuso un modo di sentire forse anche più radicalmente americano della pittura di Graves o di Tobey. Egli aggiungeva inoltre che Faulkner e Melville avrebbero potuto costituire il precedente del carattere tipicamente americano di tanta violenza, esasperazione e asprezza.

Indubbiamente furono importanti per Pollock anche i pittori europei, soprattutto Picasso e Masson. Ma il rapporto con il loro linguaggio fu per lui una specie di propedeutica e gli elementi tradizionali dell'avanguardia che vissero fino all'ultimo nei quadri di Gorky e sono ancora presenti nei quadri di Motherwell, scompaiono assai presto dall'opera di Pollock. Scompaiono sussultando sotto la forza di un'iconografia più congeniale alle intenzioni dell'artista, quella arcaica: dalla scultura scitica ai pittogrammi navajos, alle forme d'arte popolare boema e sud-germanica, usate per decorare i margini dei certificati di nascita e di matrimonio, che appaiono ancora riprodotte nelle decorazioni murali delle chiese del Nuovo Messico.

Pollock nacque nel Wyoming e durante la sua giovinezza viaggiò a lungo nel South West: regioni dove esistono ancora molte riserve indiane che mantengono vive le tradizioni rituali delle antiche tribù; inoltre, guidato dall'idea che l'arte deve rispondere all'esigenza di un rapporto profondo dell'uomo con il cosmo, Pollock ha dato certamente grande importanza a quelle forme di espressione primitiva che realizzavano gesti e immagini - ora considerati artistici - come riti propiziatori e autoprotettivi. Da questa idea fondamentale il pittore passerà al modo di dipingere che Rosenberg ha chiamato action painting in seguito a una conversazione avuta con Pollock nel 1949, nella quale appunto l'artista sostenne il valore dell'atto pittorico in sé come sorgente di energia. L'abolizione delle immagini fu in questo senso il tentativo di superare ogni cristallizzazione nel rapporto che Pollock intendeva stabilire tra pittura e cosmo.

Il superamento del surrealismo attraverso la tecnica dello sgocciolamento, che deriva dalle stesse teorie surrealiste sull'automatismo grafico, induce a esaminare l'opera di questo artista dopo il 1946-1947 come un riallacciarsi dell'arte americana a una tradizione di pittura totale che proveniva sostanzialmente dall'impressionismo. Lo spazio di Pollock era uno spazio indivisibile dalle immagini e dai procedimenti tecnici; l'unità organica pittura-artista-spazio, distrutta dalla concezione razionale dello spazio prospettico (e non ricostituita realmente dal cubismo), venne in certo modo recuperata. Greenberg, nel valutare la qualità eccezionale di questa operazione, ha posto l'accento, abbiamo detto, sul progressivo abbandono da parte di Pollock dello spazio del cubismo sintetico (anche se non delle strutture del cubismo analitico), per una concezione del quadro come un muro di colore. In tal senso all'opera di Pollock sono vicini non solo certi italiani ‟ultimi naturalisti" come Morlotti o Moreni - così li descrisse Arcangeli nel 1957 - ma quel gruppo di canadesi che seguendo il tachisme vibrante e la consapevolezza teorica di Borduas si rivelarono significativi soprattutto in Europa, per merito di organizzazioni culturali o di critici militanti particolarmente attenti e coinvolti: mi riferisco ai pittori Riopelle, Barbeau, Leduc, Mousseau. In un'interpretazione ‛impressionista' dell'arte pollockiana e dell'informale americano si possono veder convergere in modo originale e sensibile anche gli statunitensi Mitchell, Stamos, Tworkov, Sam Francis, il raffinato e poetico Cavallon, i giovani e virtuosi Poons e Christensen.

Nel 1942 si erano incontrati Baziotes, Motherwell, Pollock e, attraverso quest'ultimo, essi avevano conosciuto De Kooning e Hofmann; Hofmann ebbe una straordinaria importanza come trait d'union tra l'espressionismo di origine kandinskijana, la pittura di Matisse e gli artisti di New York. Motherwell d'altronde compose con Baziotes poemi automatici e, dotato di molteplici dirette esperienze della cultura europea, comunicò alcune idee del surrealismo a Pollock e a Baziotes. Nel 1946 Motherwell incontrò Newman e Rothko, il quale a sua volta aveva avuto un lungo sodalizio intellettuale con Adolph Gottlieb. Tali numerosi rapporti e interscambi diedero luogo nel 1948 alla creazione di un gruppo: Subjects of the artists. Negli incontri regolari e frequenti cercarono di comunicare ai giovani le nuove idee di assoluta libertà pittorica; si riunivano al club chiamato Studio 35 per discutere su vari argomenti, come l'arte e la magia, l'artista e la comunicazione, la scienza e l'arte, l'immagine nella poesia e nella pittura, l'espressionismo astratto, l'idea purista, ecc. Occorre dire però che incontri e iniziative comuni non impedirono risultati profondamente divergenti e perfino opposti, come quelli della pittura sottilmente ipnotica, basata sugli effetti di masse di colore luminoso, di Rothko e quelli della pittura gestuale-informale di De Kooning.

Nella complessità di tante voci potremmo enucleare una situazione che caratterizza in modo similare l'arte di Rothko, di Still, di Gottlieb e di Newman: per essi la pittura è partecipazione esistenziale, ma i significati si decantano in una sorta di ermetismo grandioso. Inoltre, se da un lato la pittura si avviava all'astratto contro le origini surreali o espressionistiche, dall'altra si muoveva contro la geometria razionalista, di Mondrian o di Glarner. E pionieri dell'antigeometrismo furono proprio Clyfford Still e Barnett Newman: mentre Still scelse una strada diretta lasciando al colore un'espansione irregolare sulle sue enormi tele, Newman scelse l'eredità della tradizione cubista, trasformandola con ironia nell'incerta forma assunta dai suoi quadri, di quinte che si schiudono, o della striscia che folgora un campo pittorico, dando l'idea di un dinamismo cui il colore intenso e puro presta una vibrazione particolare. Per la prima volta egli scoprì che la geometria poteva essere qualcosa di vivente, poteva dinamizzare lo spazio della tela e lo spazio circostante.

Insieme a Pollock, Newman è il primo a servirsi della tela come di un supporto il più possibile pieghevole alla complessa utilizzazione che se ne propone il pittore, e se Pollock ne contraddice i limiti, Newman li ironizza: si pensi a Il selvaggio (1950), le cui proporzioni, più che a un quadro, fanno somigliare il dipinto a un altissimo listello dalla piccolissima base. Mentre il passaggio attraverso la pittura biomorfica fu, come abbiamo detto, fondamentale per quasi tutti gli artisti della ‛scuola di New York', per Newman esso si esaurì in due o tre quadri (apparizioni di soli neri o chiari) e subito sopravvenne l'idea fondamentale del quadro che agisce sullo spazio circostante. Egli comincia col dipingere nel 1947 stesure sensibili spaccate da una linea orizzontale di colore più chiaro, come delle quinte che si stiano aprendo. Mentre in Rothko la luce è manipolata come una solitudine, un'essenza, in Newman è ottenuta dai rapporti strutturali tra tela e stesure. La luce di Rothko tende ad essere un'emanazione misteriosa, perché soffice, in una profondità nascosta all'indagine dell'occhio; quella di Newman è una presenza incontestabile, una folgorazione regolata da un'idea spaziale che ne condiziona la percezione.

Meditando sui temi arcaici più congeniali alla civiltà occidentale, dalla Bibbia alla tragedia greca, gli artisti dell'espressionismo astratto dalla pittura impegnata su temi sociali arrivarono, come abbiamo visto, attraverso l'automatismo surrealista e la pittografia, a concepire l'astrazione come un fatto vivente, recante nella sua estrema semplicità un messaggio d'assoluto, una nuova mitografia: ‟Noi - afferma Barnett Newman - stiamo riaffermando il naturale desiderio dell'uomo per ciò che è grande, per ciò che concerne i nostri rapporti con le emozioni assolute. Noi non abbiamo bisogno di obsoleti appoggi, di antiche leggende fuori tempo. Noi stiamo creando immagini la cui realtà è evidente in se stessa; prive di puntelli o grucce che evochino associazioni con immagini fuori moda [...] ci stiamo liberando degli ostacoli della memoria, dell'associazione, della nostalgia, della leggenda, del mito, o di ciò che volete, che sono stati gli emblemi della pittura dell'Europa occidentale [...]. L'immagine che produciamo ha in se stessa l'evidenza della rivelazione reale e concreta, che può essere capita da chiunque voglia guardarla senza i nostalgici occhiali della storia" (v. ‟Tiger's eye", 1948, I, n. 6, p. 53). In questo senso l'informale americano presenta sempre una positività nelle formulazioni individualiste che gli europei possiedono raramente. Agisce su loro il sogno di creare una tradizione moderna, consentanea al mondo moderno, non partendo come le avanguardie costruttiviste da postulati sociali e tecnologici, ma dal profondo della psiche individuale, eredi in ciò di una cultura libertaria e insieme di un antistoricismo tipico di molte delle scienze umane (psicanalisi, antropologia, strutturalismo).

È interessante confrontare le dichiarazioni di Newman e quelle di Still: vi si trova un parallelo rifiuto non solo delle possibili autodefinizioni, ma via via di ogni interpretazione data alla loro opera. Rosenberg intitola argutamente Non è questo, no, non è questo uno dei capitoli del suo libro La tradizione del nuovo e, riassumendo l'atteggiamento di alcuni artisti americani, pensa di poter appunto scorgere un deciso rifiuto della storia nella costante ripetizione che essi fanno di che cosa ‛non' è la loro arte (ad evitare ogni definizione positiva). Leggendo Clyfford Still del 1942, la ragione di tale rifiuto appare limpidamente chiarita come rifiuto dell'aspetto autoritario o dogmatico che la storia assume come tradizione del già accaduto: ‟Non è necessario ricordare che il colore sulla tela provoca reazioni convenzionali nella maggior parte delle persone. Dietro queste reazioni c'è tutta una storia diventata dottrina, autorità, tradizione. Io disprezzo l'egemonia dispotica di questa tradizione, io rifiuto i suoi presupposti. La sua sicurezza è un'illusione banale e priva di valore [...]. L'omaggio che le è stato tributato è una celebrazione funebre" (v. Miller, 1952, p. 22). Ma Still va ancora più avanti nel testimoniare il valore assolutamente eversivo che egli attribuisce alla sua arte dicendo che la pretesa che l'artista perpetui i valori dei suoi contemporanei ha lasciato a noi testimonianze di frustrazione, sadismo, superstizione e volontà di potenza.

A causa di questo puritanesimo morale che investe la loro opera, in Newman e in Still, come in Pollock, il rifiuto della cultura europea è totale, ed è veramente difficile individuare nella loro produzione tracce di una qualità del colore o dello spazio che rimandino ad altri artisti conosciuti. Esaltate dalle dimensioni enormi dei suoi quadri le colate di colore di Clyfford Still ci danno indubbiamente l'idea sensibile del sublime, e soltanto su questa egli si lascia sfuggire un assenso. Il ‛sublime' di Still ci richiama congiuntamente alla memoria il sublime del romanticismo tedesco e la vastità degli spazi del West. Le sue pareti di pittura sulle quali si aprono crepe sottili e dilagano gigantesche sovrapposizioni spezzate di gialli su grigi, di blu su marroni, di rossi su neri, su bianchi, di blu su gialli, di neri su marroni, con guizzi di luce nelle notti o di ombra netta nella luce, colpiscono anch'esse come un'ulteriore identificazione della psiche con un senso cosmico della natura.

Si è già accennato all'influenza di Miró e di Masson presente nei quadri di Mark Rothko precedenti il 1947, sebbene il modo con il quale i segni biomorfici stabiliscono i principi del moto vitale dell'immagine sia del tutto diverso da quello di Gorky o di Baziotes: nel quadro di Rothko si creano subito rapporti di rifrazione o di rispecchiamento e l'immagine mobile risulta in qualche modo immobilizzata dal suo riflesso in basso o dal suo ripetersi identico rovesciato. Già prima del 1947 l'artista aspira a creare nella sua pittura quello che Butor chiama ‟un luogo di aereazione, di purificazione, di giudizio". Nel 1947 le forme cominciano a perdere contorno e sui dipinti, quasi sempre divisibili in uno o più orizzonti, si dispongono macchie di colore sempre più grandi, sempre più vicine, il cui pigmento assume andamenti nebulosi o luminosità vibranti. Perdendo la loro configurazione convenzionale, le immagini aumentano il loro potere di influenza reciproca come luce e come colore.

Rothko ha scritto in più occasioni quanto le grandi dimensioni siano importanti per la sua pittura: ‟Comunque si dipinga in un quadro di grandi dimensioni si è sempre dentro. Non è qualcosa che si possa dominare". E ancora nel 1958: ‟Un grande quadro stabilisce un contatto immediato, ci ‛coinvolge" (v. Ashton, 1958). In effetti i quadri di Rothko agiscono sullo spettatore in forma quasi ipnotica: alcuni ci portano in silenzio sull'orlo di uno spazio oscuro senza fondo, in altri le macchie orizzontali sembrano bruciare perennemente, dinanzi a noi, i fondi imprecisi con i quali hanno solo un rapporto cromatico-luminoso. Ovunque il colore ha una liquidità che suggerisce elementi primordiali: acqua, aria, luce, buio. E perciò esercita sullo spettatore un potere di suggestione medianico: come se la forza immaginativa, che l'artista manifesta nella sua ricerca di uno spazio creato da distanze luminose, per pura relazione cromatica, senza definizione alcuna di volume e di segno, cercasse di renderci perplessi, assorti e infine attirati dall'energia contenuta in quei semplici rettangoli di colore.

Pur avendo assunto caratteri assai diversi nello sviluppo della loro ricerca, Mark Rothko e Adolph Gottlieb ebbero inizi comuni. Quando nel 1940 dipingevano ancora scene di vita americana, si resero conto insieme che i temi della loro arte dovevano acquisire un carattere più universale, e si volsero così alle suggestioni della tragedia greca, del mito, delle espressioni grafiche simboliche. Esistono quadri come Oedipus di Gottlieb (1941) e Il presagio dell'aquila di Rothko (1942), che hanno lo stesso carattere iconografico: quadri spartiti orizzontalmente e verticalmente in modo regolare, con apparizioni di maschere schematizzate da un disegno elementare, eseguito direttamente col pennello sul fondo, occhi vuoti, movimenti grafici alludenti forse al mare o con carattere di grafia pura.

Meyer Schapiro racconta che tra il 1942 e il 1943 gli artisti erano impegnati in discussioni teoriche e metodologiche, erano interessati alla pittografia e alla psicologia. Gottlieb fu certamente l'artista intellettualmente più impegnato in questa ricerca mitografica; egli stesso ha dichiarato di essere stato influenzato dal tardo Klee, da Torres Garcia, dalle scritture primitive: ‟Era necessario ripudiare completamente la cosiddetta ‛buona pittura' per poter essere libero di esprimere ciò che era visivamente vero per me". In tal modo l'artista ha dedicato il primo periodo della sua ricerca, almeno fino al 1957, a un'invenzione segnica molto simile alle scritture pittografiche, che contemporaneamente sperimentava anche Tomlin. Negli ultimi dieci anni ha poi focalizzato elementi simbolici che, nella semplificazione accentuata, danno al suo lavoro un ruolo preciso anche nella funzione organizzatrice dello spazio che l'espressionismo astratto ha avuto nella storia dell'arte americana. L'iconografia si è coagulata sostanzialmente in due elementi costantemente ripetuti: uno circolare, quasi sempre nella parte superiore del quadro, l'altro un nucleo grafico simile in qualche modo alla grande scrittura nera dei quadri di Kline, che per lo più si trova nella parte bassa del quadro e che assume svolgimenti ora nitidi, ora intrigati, eseguiti con tecniche gestuali.

Nell'esaminare questo settore, che consideriamo piuttosto astratto che astratto-espressionista, della ‛scuola di New York', della quale fecero parte anche Ludwig Sander e il grande Ad Reinhardt, il più purista del gruppo, ci si domanda se le definizioni ‛espressionismo astratto' o ‛informale' siano pertinenti. In un articolo su questi artisti Greenberg preferisce adoperare come titolo American-type painting. Per una parte del movimento la parola espressionismo risponde invece interamente al suo significato. Anzitutto per Hans Hofmann, di origine tedesca, formatosi a Parigi, emigrato in America definitivamente nel 1933, che esercitò un'influenza eccezionale per più di vent'anni su tutti i giovani artisti di cui fu insegnante. Egli derivava la sua tecnica in parte dal Kandinskij degli anni del Blaue Reiter, in parte da Matisse, ed ebbe tale consapevolezza del valore espressivo del colore che cercò di trasmettere negli Stati Uniti, con la passione che lo animava, le qualità della grande tradizione impressionistica ed espressionistica, frutto in Europa di un pensiero secolare. Ma Hans Hofmann fu, come abbiamo detto, soprattutto un insegnante, ebbe a cuore le sorti di una qualità, appunto, il cui perseguimento era affidato all'abilità e alla ricchezza dei mezzi. Egli dipinse contemporaneamente in modi diversi: quello che egli chiamava ‛naturalistico' ed aveva le caratteristiche della profondità e dell'organicità, e quello che egli chiamava ‛pittorico', in cui l'impasto del colore tendeva a disporsi secondo un ordine astratto, ponendo in valore i significati percettivi delle stesure e delle relazioni tra i diversi gradi di intensità. Hofmann concepiva il dipingere come una continua mediazione e tensione tra lo spazio e la superficie, che divennero per lui sinonimi di push e pull, cioè dell'operazione di spingere in dentro e viceversa di tirare in avanti, di esplorare cioè la funzione spaziale del colore. Consapevole di tutta la tradizione francese della pittura pura e di tutta la tradizione scientifica sull'analisi degli effetti percettivi, da Seurat a Kandinskij, possiamo definire espressionista Hofmann nella misura in cui egli aprì agli americani l'accesso a un patrimonio culturale che aveva finito col concentrare i valori espressivi nel colore.

De Kooning, Kline, Motherwell, Guston, Tworkov, Brooks, Marca-Relli, Stamos, lo stesso Tomlin, nonché la Hartigan e la Mitchell, furono espressionisti e informali in modo più aderente al significato del termine, sia in senso morfologico sia in senso esistenziale. È nota la dichiarazione di De Kooning formulata nel 1951 durante una discussione sull'argomento ‛Che cosa è per me l'arte astratta' tenutasi al Museum of Modem Art di New York, dichiarazione assai simile per il tono a quelle di molti pittori informali europei: ‟La pittura non sembra mai darmi pace o purezza. È come se fossi sempre coinvolto nel melodramma della volgarità [...]. Questo famoso spazio fisico - lo spazio degli scienziati - ora ha finito proprio con l'annoiarmi. Hanno lenti così spesse, questi scienziati, che lo spazio visto attraverso di esse diviene sempre più malinconico. Sembra proprio che non vi siano limiti allo squallore dello spazio fisico: non contiene altro che miliardi e miliardi di frammenti di materia, calda e fredda, che vagano nel buio, secondo un sistema grandioso, senza scopo [...]. Il fatto è che le stelle che interessano me, se potessi volare, le raggiungerei alla buona, in un paio di giorni. Le stelle degli scienziati, invece, le uso come bottoni che abbottonano sipari di vuoto. Se stendo le braccia intorno e mi domando dove sono le mie dita - ecco, ho tracciato lo spazio che basta a un pittore [...]" (v. Barr jr., 1958, pp. 53-54).

Questa concezione ‛vissuta' dello spazio lo conduce a una straordinaria vitalizzazione del quadro quando, tra il 1947 e il 1950, la fluidità surreale comunicatagli da Gorky, l'influsso delle esperienze calligrafiche condotte da Tomlin e da Kline lo spingono a un dominio semplificante della superficie che impedisce all'attenzione dell'occhio di focalizzarsi sulle immagini; questo vale ancora nel 1956-1959 quando la sua pittura può essere guardata come pittura di gesto e insieme come un'invenzione di rapporti che ci ricorda Manet, Hals e Rembrandt. E tuttavia la struttura picassiana rimane sempre fondamentale per lui. La storia di De Kooning è esemplare per caratterizzare, anche nel suo caso, il trauma dell'emigrazione in un paese privo di relazioni tuttora attive con gli ambienti culturali da cui gli artisti provenivano. Egli arrivò in America a ventidue anni e lavorò per la pubblicità; amico di Gorky e di Stuart Davis, intorno al 1940 cominciò a imporsi nell'ambiente dei pittori di New York, a partecipare alle loro discussioni. Di origine olandese urbana, l'integrazione nell'ambiente newyorkese fu certamente meno difficile per lui che per Gorky. Ma anche in lui rimase sempre un particolare sapore dell'Europa, il dramma morale che investe la sua arte in un impegno sociale è di origine europea; egli in un certo senso si assume il ruolo del Picasso americano e ciò, in molte occasioni, lo avvia alla deformazione dell'immagine, ad agire sullo spettatore con i mezzi della rappresentazione: la violenza espressionistica e i significati simbolici.

Se si paragona la serie delle Donne di De Kooning del 1951-1952 ai Corps des dames di Dubuffet del 1950, il discorso appare ancora più chiaro. Dubuffet - da europeo - opera con sottigliezza analitica una distruzione molecolare dell'immagine-forma, i corpi delle donne sono trattati come carte topografiche e la tecnica usata è quella del disegno infantile e degli alienati. Gli incidenti sono materici, lo spazio è uno spazio puramente topologico, l'artista non si dibatte per un significato, esplora i limiti del non-artistico in una direzione giudicata a priori insensata; egli attacca nel profondo la cultura e il suo idealismo formale, ma anche ogni volontà individualistica di salvezza. Il suo nichilismo può disturbare, ma ha un significato nella storia del linguaggio. De Kooning viceversa ci testimonia sempre se stesso, la sua denuncia, la sua inquietudine, il suo sogno di bellezza tradito; la sua opera chiede di essere capita e amata, nella tradizione di Guernica di Picasso o dei Disastri della guerra di Goya. Malgrado il gesto del dipingere sia caricato di ‛attualità', e ci comunichi spesso la flagranza dell'invenzione, la coerenza dell'insieme riprende piede come coerenza dello spazio cubista ed espressionista.

Anche il quadro di Kline, solo apparentemente più diretto pur se sostanzialmente più semplice, non propone uno spazio del tutto nuovo e tuttavia per qualche ragione, in dipinti come Wotan (1950) e Croce d'ardesia (1961), Kline ha una capacità enorme di assorbire nel suo segno-gesto lo spettatore, forse per l'indeterminatezza dei vuoti, forse per l'essenzialità delle strutture che lo obbligano a uno slancio grandioso di dimensioni. O'Hara parlava molto efficacemente di ‟pennellate calligrafiche di angolosa monumentalità, in costante tensione con una rude e sgraziata ostinazione semigeometrica: quasi un combattimento tra Guernica di Picasso e il Bauhaus". Ogni tanto anche dalla sua pittura - come da quella di De Kooning - appare in modo consapevole il senso della vitalizzazione della superficie dipinta, come comunicazione di un gesto. E lui che si entusiasma perché ‟Bonnard compone davanti a noi", perché malgrado i sette o otto strati di stesura Ryder appare un pittore di getto, ed è lui che dichiara: ‟...il metodo di lavoro, prima di Cézanne, è un segreto - Cézanne è invece come un analista, sembra che sia proprio lì e pare di vederlo mentre dipinge il lato di un naso in rosso" (v. O'Hara, 1963, p. 22). Se De Kooning è decisamente espressionista (forza il segno, lo spezza, gli impone perfino un'immagine), Kline viceversa scandisce lo spazio servendosi di una calligrafia gigantesca che gli permette di sintetizzare la sua volontà espressiva al momento, di dipingere di getto davanti a noi senza bisogno di deformazioni. Il contrasto di bianco e nero gli serve a questo: il bianco è come un cielo sul quale Kline traccia giunture, potenti delineazioni, masse che scardinano o che procedono velocemente, strutture romanticamente pletoriche, crolli, tensioni, sbarramenti. ‟Egli non desiderava essere dentro la sua pittura come Pollock, ma creare un segno del suo passaggio [...] attraverso il mondo", scrive O'Hara (ibid.).

Non è un caso che quasi tutti i pittori di New York abbiano avuto un più o meno lungo tirocinio figurativo con grande libertà di riferimenti al di fuori delle avanguardie europee. Kline fu uno dei più restii ad abbandonare la figurazione (dipingeva paesaggi postimpressionisti, campi di ferro degli incroci ferroviari, strutture d'acciaio, e continuò a intitolare i quadri astratti con nomi di luoghi della Pennsylvania o delle locomotive dei treni che trasportavano carbone dalle miniere). La rinuncia alla figurazione avviene dunque al di là delle giustificazioni culturali offerte dalla pittura europea; Picasso è un grande stimolo ma enigmatico, così come Miró e Klee. Il passo compiuto dagli americani apre una voragine con sullo sfondo quei riferimenti, ma come una propedeutica verso l'ignoto. Kline, rinunciando alla figurazione, rinuncia alla grande pittura del passato che amava, rinuncia alla natura della luce per ottenere degli spazi su cui concentrare la forza del gesto. Tra coloro che negli anni cinquanta si inserirono con particolare qualità nell'ambito dell'espressionismo astratto, vanno ricordati soprattutto Sam Francis, che frammenta la luce di Rothko e vi inserisce l'elemento drammatizzante del dripping, ed Helen Frankenthaler. Prima però di concludere sull'informale americano dobbiamo includervi - benché non vi appartenga in senso stretto - un artista che divenne famoso sull'onda dell'espressionismo astratto e dell'informale europeo tra il 1940 e il 1960, e che apparteneva alla cosiddetta ‛scuola del Pacifico': Mark Tobey. Tobey era arrivato all'astrattismo dopo una lunga attività che potrebbe farlo considerare partecipe della prima avanguardia (egli apparteneva alla generazione dei Dove e degli Hopper), e che lo pone viceversa accanto a Pollock quale iniziatore di tecniche e di forme nuove. Dieci anni prima di Pollock usò i grovigli quale mezzo di comunicazione, ma l'approccio ad essi è tutto diverso, quale modo di visione e di contemplazione più che di azione o di gesto. Egli scrive di lavorare così perché si sente un pittore americano e non può rimanere indifferente alle folle brulicanti, alle moltitudini, alle insegne al neon, ai cinematografi, ai rumori della città moderna che pure afferma di odiare.

Lontano dallo sviluppo e dal percorso che l'arte ha avuto a New York, sebbene vi abbia risieduto a lungo a più riprese tra il 1911 e il 1920 e vi sia tornato occasionalmente molte volte, Mark Tobey ha operato da solo i molteplici passaggi da un'arte culturalmente aggiornata, alla maniera di Marin e di Dove, ad alcune prove simili a quelle dei ‛precisionisti', a una ricerca infine che inizia assai precocemente nel 1935 con la calligrafia e l'automatismo per estrarre una specie di essenzialità delle forme, spingendo nell'indistinto del fondo gli elementi rappresentativi e portando in superficie le strutture remote. A questo procedimento, noto con il nome di writing, Tobey è arrivato per strade tipicamente americane: viaggiatore indefesso, sperimentatore continuo, egli ha dato alla pittura un valore conoscitivo appoggiandosi a meditazioni di tipo religioso-orientale. È stato un adepto della religione bahaista che predicava la fusione delle religioni e l'instaurazione di un ordine cosmico in un nuovo spirito di unità. La sua irrequietezza non fu tuttavia di natura drammatico-romantica, ma tendeva a scoprire un principio universale di positività, sperimentando di persona come lui diceva: ‟la rotondità della terra e l'universalità della coscienza". Egli apprese a Shang hai nel 1934 la filosofia e la tecnica pittorica orientali, studiò alcuni procedimenti della calligrafia e del lavis con il pittore cinese Teng Kwei, visse per un periodo in un monastero zen in Giappone. Si devono a Tobey l'introduzione nella pittura americana della scrittura bianca, della nozione di ‛spazio vibrante' (che corrisponde al ‛gran vuoto' del neobuddhismo Tch'an), dell'uso del pennello a piccoli colpi secondo la pratica degli artisti Song. Osservando i procedimenti con i quali egli trasforma lentamente le sue immagini rappresentative, le folle, le notti brulicanti di luci, gli assembramenti di oggetti, rilevandone l'intrigo grafico e ritmico secondo un'idea di accordo o addirittura di ‟fusione del ritmo dello spirito con il movimento delle cose viventi", appare chiaro il tentativo di ridurre a una norma contemplativa, al di là del contingente, la conoscenza della realtà.

4. Conclusione

Perdita drammatica e sofferente dell'io nella constatazione dell'impotenza della ragione sulla realtà, o pace contemplativa in tale perdita, acquisita come liberazione, attraverso tecniche derivate da culture primitive o dell'Estremo Oriente, rifiuto della forma, dello stile, di un linguaggio selezionato dal privilegio di una tradizione ormai morta, ma anche da un'avanguardia connotata dall'ottimismo di una concezione illuministica: queste caratteristiche, spesso contraddittorie, appartengono genericamente all'informale sia come esso si è manifestato in Europa, sia come, con altre etichette, è esploso negli Stati Uniti.

Le opere di questi artisti sono, abbiamo visto, difficili da descrivere, sfuggenti alle definizioni critiche, impossibili da catalogare storicamente. In tal senso costituiscono un momento sintomatico dell'arte moderna, più della successiva pop art, più di altri movimenti post-dada come l'arte minimal o concettuale; l'informale nel suo insieme è, in un certo senso, l'ultimo tentativo di una tradizione espressiva romantica, non ancora sostituita come atteggiamento intellettuale da un altro tipo di pensiero.

Se è vero che la metafora e la metonimia in genere sono processi analoghi a quelli che originano il feticismo (implicano cioè l'arresto di un rapporto, la perdita dell'oggetto, la sostituzione di una cosa con un'altra che la rappresenta), diciamo che un aspetto perspicuo dell'informale è stato il bisogno - nelle intenzioni e nelle tecniche -, malgrado ogni interpretazione a posteriori, di distruggere ogni possibilità di metafora, sia nell'immagine, sia in altre forme simboliche, sia nella traduzione in parole. Affermare cioè l'assoluta identità nella presenza.

L'identità di segno e significato, proposta dall'astrattismo, è stata ereditata in pieno dall'informale, ma non come un postulato utilizzabile funzionalmente (la morte dell'arte nell'architettura, nell'urbanistica, nell'oggetto d'uso), al contrario per rivendicarne il senso quale luogo di un assoluto bramato e non posseduto. Scriveva Calvesi nel 1961: ‟L'informale [...] sceglie l'azione frammentaria e disorganizzata, il tempo contingente senza orientamento né direzione, ma spinge fatalmente questa scelta fino al rovesciamento dell'azione, afinalistica, nella contemplazione; del tempo, non più scandito, nell'eternità [...]". E ancora: ‟La sopravvivenza dell'arte non coinciderebbe che con quella di un'ancestrale esigenza dell'uomo, astorica perché eterna, l'esigenza di esprimersi, oltre ogni declinabilità ideologica e trasmutabilità di contenuti [...]" (v. Calvesi, 1966, pp. 250- 251). Rimarcava così, criticamente, l'aspetto contraddittorio ma vitale di tale tendenza, che proprio per la natura delle sue spinte non poteva costituire la base di un nuovo linguaggio, nè di una comunicazione attiva. Piuttosto esauriva, con energia e tensione psichica, le possibilità fornite da molte esperienze, soprattutto quelle che portavano verso l'astoricità dell'inconscio: dal surrealismo alla calligrafia orientale, dalle espressioni naïves a quelle degli alienati.

Se ci si domanda quale eredità gli artisti di quella generazione hanno lasciato o lasciano ai più giovani, occorre limitarsi a sottolineare l'intensità della loro esperienza da un lato nel superare lo schema di una pittura o di una scultura sensualmente o liricamente piacevoli ed evasive (e ciò senza negare un ruolo ineliminabile a questo aspetto dell'arte), dall'altro nel pretendere, con un'intonazione assertiva individualistica, il riconoscimento di una presenza dell'opera senza rinvii metaforici, quasi l'affermazione di un assoluto letterale.

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