Industria

Enciclopedia del Novecento (1978)

Industria

LLuciano Cafagna

di Luciano Cafagna

Industria

sommario: 1. Premessa. 2. Industria, macchine e divisione del lavoro. 3. La rivoluzione industriale. 4. I modelli del processo d'industrializzazione e l'industria moderna. 5. Localizzazioni e classificazioni delle industrie. La divisione internazionale del lavoro e il futuro dell'industrialismo. 6. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Premessa

Nella sua accezione moderna, l'industria è, insieme, un ramo particolare e distinto di attività economica e un modo di produzione avente suoi specifici connotati. Come ramo particolare di attività economica, l'industria si distingue in quanto attività ‛trasformatrice' di prodotti grezzi o già sottoposti a precedenti lavorazioni. In questo è diversa dall'agricoltura - la quale, così come l'allevamento, si applica alla sollecitazione e alla cura di cicli biologici naturali - e dai servizi, che non producono propriamente beni, ma si rivolgono a modificare le condizioni e le possibilità di uso di questi ultimi (così il commercio, i trasporti ecc.), oppure consistono in prestazioni personali dirette al consumatore. L'industria è, quindi, l'attività economica nella quale vi è la maggiore applicazione di tecniche accrescitive dei rendimenti rispetto ai fattori utilizzati: il lavoro immediatamente necessario, i mezzi di produzione prodotti dal lavoro passato, le risorse naturali. Questa possibilità si traduce anche nella creazione di nuovi mezzi tecnici per aumentare il rendimento delle altre attività, le quali, da questo punto di vista, le sono sempre più largamente tributarie. Va tenuto però presente che, in senso lato, in quanto attività economica riferita alla trasformazione, la dizione ‛industria' può comprendere settori di attività trasformatrice basati su lavorazioni che adottano tecniche più tradizionali, come l'artigianato. Ciò riflette la stratificazione storica cui ha dato luogo il dinamismo stesso ditale tipo di attività.

Come modo di produzione, invece, l'industria si caratterizza per l'organizzazione del lavoro basata sul concorso di molti lavoratori concentrati in officine, e per la sua applicazione al servizio di macchinari azionati da forza motrice non umana, nei quali è sempre più largamente contenuto il ‛programma' tecnico della lavorazione, che gli uomini devono guidare, controllare e, in varia misura, selezionare e integrare. In ciò il modo di produzione propriamente industriale, in senso moderno, si distingue dall'attività trasformatrice più tradizionale (come l'artigianato individuale o la manifattura concentrata con scarso uso di macchinari), in cui mancano in tutto o in gran parte i requisiti sopra descritti e prevale ancora sostanzialmente l'abilità o solamente l'impegno manuale.

L'industria è perciò forma economica tipicamente capitalistica, in quanto in essa si compie integralmente una dissociazione del lavoratore impegnato direttamente nella produzione dalla proprietà dei mezzi di produzione stessi, dalla gestione del processo produttivo e dalla disponibilità del prodotto finale. Ciò avviene su una base che è insieme tecnica, economica e sociale, e che appare inerente al modo di produzione in quanto le dimensioni dei mezzi necessari a produrre, della produzione stessa e degli sbocchi di questa tendono a soverchiare le possibilità economiche e tecniche di un produttore individuale. A ciò si deve aggiungere che l'accumulazione finanziaria che si richiede per realizzare l'imponente attrezzatura tecnica concentrata, l'approvvigionamento dei materiali da trasformare e l'organizzazione di vendita implicano necessariamente una ripartizione del reddito prodotto nelle forme di fondo per la retribuzione del lavoro, da un lato, e fondo per il riutilizzo nell'impresa (o nel sistema delle imprese) dall'altro. Karl Marx, che fu il maggiore studioso di questo fenomeno, ipotizzò una società industriale non capitalistica, in cui alla socializzazione del modo di lavoro corrispondesse un'analoga socializzazione sotto il profilo della proprietà, della gestione, della possibilità di produrre, tale da superare quella dissociazione. Quel tentativo rimase però un esercizio di astratta dialettica, poiché egli non indicò in termini positivi i modi concreti di siffatta possibilità. La semplice proprietà statale e non privata dei mezzi di produzione, ovvero la proprietà azionaria operaia, ovvero ancora forme cooperative di proprietà o di conduzione (definite autogestionarie), non sembrano configurare un modo di produzione effettivamente diverso, ma soltanto forme giuridiche diverse.

L'industria, come ramo di attività economica, riesce a raggiungere una quota dominante del reddito prodotto in una società e dell'occupazione complessiva di lavoratori solo quando si afferma come particolare modo di produzione nel senso anzidetto. Le economie preindustriali, dal punto di vista del modo di produzione, sono generalmente tali anche dal punto di vista delle attività prevalenti: sono cioè economie prevalentemente agricole, con una quota più o meno ampia di attività commerciali e artigianali. Ciò avviene perché solo il modo di produzione industriale crea, nell'insieme dell'economia, le condizioni di produttività e di consumo che consentono un massiccio spostamento negli orientamenti produttivi e nella distribuzione della forza lavoro complessiva. Quando il modo di produzione industriale prevale, i vecchi modi di produzione applicati all'attività trasformatrice divengono una semplice appendice o un'integrazione del nuovo: il che giustifica l'aggregazione a quest'ultimo che solitamente se ne fa in sede statistica. Non è però sempre vero l'inverso: che, cioè, l'introduzione in un tessuto economico tradizionale di unità del nuovo modo di produzione - anche se tecnicamente molto avanzate - implichi facilmente e rapidamente una loro prevalenza e un'emarginazione delle vecchie.

Il particolare dinamismo tecnologico proprio dell'attività industriale nel senso anzidetto ha portato alla formulazione di un'ipotesi relativa alle caratteristiche più generali dello sviluppo economico moderno sotto il profilo della distribuzione complessiva del lavoro umano; tale ipotesi è chiamata ‛legge dei tre settori'. Questa ha avuto grande diffusione, assumendo la forza di un luogo comune che, come tale, ha influenzato la maggior parte delle politiche di sviluppo adottate nei vari paesi dopo la seconda guerra mondiale, configurandole appunto come politiche d'industrializzazione. Secondo tale legge, enunciata per la prima volta da A. G. B. Fisher nel 1935, e ripresa e divulgata da C. Clark in un fortunato libro del 1940, lo sviluppo economico comporterebbe un progressivo passaggio della quota relativamente maggiore delle forze di lavoro di un paese da un settore ‛primario' (agricoltura) a un settore ‛secondario' (industria) e infine a un ‛terziario' (servizi). Per il Fisher la base di questa tendenza starebbe nella struttura della domanda dei consumatori, regolata nel lungo periodo dalla cosiddetta ‛legge di Engel' (dal nome dello statistico prussiano che la formulò verso la metà del sec. XIX). Secondo tale legge, al crescere del reddito vi sarebbe un mutamento nella elasticità relativa delle grandi categorie dei consumi: i consumi alimentari crescerebbero meno rapidamente degli altri. Pertanto la crescita del reddito complessivo di una collettività implicherebbe maggiore incremento relativo delle produzioni extragricole e dei servizi, e quindi dell'occupazione fuori dell'agricoltura. C. Clark approfondì questo punto, sottolineando altresì come l'andamento dei rendimenti tenda a crescere da un settore fisheriano all'altro. Di conseguenza, l'industrializzazione sarebbe praticamente un passaggio obbligato perché possa aversi una sensibile crescita del reddito, e quindi dei livelli di vita, in una collettività. Paesi ad alto reddito pro capite con struttura prevalentemente agricola sono infatti eccezioni, connesse solitamente a un particolare rapporto popolazione/terra coltivabile e a una ‛storia' di colonizzazione dall'esterno. Nelle economie più mature (per es. in quella degli Stati Uniti) si osserva addirittura l'affermarsi di una preminenza del settore terziario. Questa tendenza appare in generale più marcata quando si riesca a distinguere un settore di servizi ‛arcaico' (e in declino) da uno moderno (e in espansione). Quest'ultimo, in talune sue espressioni tecnologicamente avanzate (informatica, ricerca applicata) viene addirittura chiamato ‛quaternario'.

Occorre però osservare a questo riguardo - per evitare semplificazioni eccessive - che i presupposti del manifestarsi della legge di Engel su scala collettiva possono essere alterati nel breve e medio periodo da mutamenti nella distribuzione del reddito a favore di gruppi di popolazione precedentemente sottoalimentati, e che questo fenomeno può assumere proporzioni rilevanti qualora la redistribuzione avvenga con caratteri di simultaneità su scala geograficamente estesa. È bene precisare dunque che il declino assoluto e relativo dell'occupazione in agricoltura e quello relativo delle risorse impiegate in tale attività si spiega solo in parte con la summenzionata legge di Engel. Per gran parte si spiega, invece, con il notevole incremento di produttività derivante dall'apporto diretto o indiretto, nel processo di produzione agricolo, di beni di provenienza industriale (per es. meccanici e chimici) o di applicazioni scientifiche (per es. di genetica) accelerate o rese possibili dall'industrialismo. Per contro l'espansione dell'occupazione nei servizi non sembra dipendere da una qualche sorta di legge di Engel applicabile all'industria nel suo insieme (implicante cioè una minore elasticità, al crescere del reddito, della domanda di prodotti industriali rispetto a quella di servizi) ovvero da una maggiore produttività dei servizi (che pure in qualche caso, come nei trasporti, sempre però per effetto dei nuovi mezzi successivamente prodotti dall'industria, ha avuto importanza grandissima), bensì, in misura preponderante, proprio dall'incremento continuo e notevole della produttività industriale. Questo incremento rende infatti disponibile mano d'opera che può essere così utilizzata in attività intrinsecamente più costose e aventi minore dinamismo tecnologico quali, in generale, quelle dei servizi. Il ruolo del settore ‛secondario', cioè dell'industria, resta perciò dominante nell'insieme delle tendenze accennate, le quali si svolgono tutte sotto il segno dell'industrialismo e sono da questo rese possibili.

Queste ultime considerazioni inducono a concludere questa parte introduttiva accennando a una caratteristica generale del processo d'industrializzazione messa in evidenza dagli studi e che ne pone in risalto la fondamentale tensione verso l'ampliamento riproduttivo del sistema economico. Già Marx aveva individuato nella struttura produttiva capitalistica una tendenza intrinseca all'aumento del rapporto fra attività rivolte alla produzione di mezzi di produzione e attività rivolte alla produzione di beni di consumo: condizione, questa, per un continuo ampliamento del sistema economico. E, dal canto loro, altri economisti che aprivano strade diverse - e più formalistiche - di riflessione, come Menger, avevano parlato di aumento del rapporto fra produzione ‛indiretta' e produzione ‛diretta', come connotato di un'economia in crescita. In tempi a noi più vicini, uno studioso tedesco, Hoffman, riprendendo quest'impostazione e innestandola sulla propensione alla ‛tassonomia stadiologica' propria della tradizione degli studi tedeschi di storia economica, ha creduto di poter individuare una successione di stadi dell'industrializzazione proprio basandosi sull'aumento del rapporto fra industrie produttrici di beni capitali e industrie produttrici di beni di consumo. Tale aumento si troverebbe in correlazione all'aumento del reddito pro capite.

2. Industria, macchine e divisione del lavoro

In quanto modo di produzione, l'industria moderna si presenta come uno svolgimento insieme generalizzante ed eversivo del principio della divisione del lavoro. Questo svolgimento si manifesta in triplice modo: come proliferazione di nuove attività per la soddisfazione di nuovi bisogni, come separazione e specializzazione di attività distinte rispetto a finalità produttive prima raggruppate, e, infine, come sviluppo su larga scala dell'articolazione dei lavori all'interno di una singola unità produttiva. Le prime due manifestazioni della divisione del lavoro sono antichissime e marcano l'intero cammino della storia economica, ma con ritmi molto lenti. L'industria moderna sconvolge questi ritmi, accelerandoli drasticamente.

L'ultima delle forme sopra elencate di divisione del lavoro - quella interna all'unità produttiva - aveva invece avuto, prima dell'avvento dell'industria moderna, applicazioni assai limitate nelle attività economiche, e comunque su piccola scala. La più significativa era stata quella delle manifatture, in cui si raggruppavano operai anche in buon numero, ma senza ausilio di macchinari, o con ausilio molto modesto. Un esempio del genere è la manifattura di spilli illustrata in una nota pagina della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, nella quale si sottolineano i vantaggi per la produttività derivanti dalla divisione di un processo composto da fasi distinte di lavorazione assegnate a persone diverse in modo coordinato. Caratteristica propria di questa forma della divisione del lavoro è che essa può andare oltre la produzione separata e distinta di prodotti finiti o di parti definite di prodotti, per investire processi unitari di lavorazione di un bene determinato che vengono scomposti in operazioni specializzate poste in successione (tipico delle industrie ‛di processo') ovvero applicate simultaneamente a parti separate di un prodotto che poi vengono combinate insieme (tipico delle industrie ‛di montaggio'). In ambedue i casi il lavoro individuale si fa unilaterale e parziale.

Tale forma di divisione del lavoro (manifatturiera e poi di fabbrica) presuppone un'organizzazione unitaria di comando su molti lavoratori, dei quali si deve coordinare l'attività dal momento in cui il nuovo modo di produzione, sostituendosi al vecchio, a stampo individualistico, li priva del controllo dell'insieme del processo produttivo. Essa si fonda, d'altra parte, sulla scoperta del carattere frazionabile dei processi lavorativi, e dell'economia di tempo realizzabile attraverso la reiterazione separata e continua di movimenti semplici; in altre parole, trova uno sconfinato campo di applicazione nella riduzione meccanica dei movimenti di lavoro. Per essa quindi si può dire che il passaggio dalla scomposizione dei movimenti del lavoro umano a movimenti analoghi a quelli di una macchina - e quindi sostituibili, ogni qualvolta si trovi il modo e la convenienza, coi movimenti di una macchina - avviene senza soluzioni di continuità. Alla stessa logica potrà tendere il successivo reinserimento, nel processo lavorativo, dell'apporto umano adattato alla intervenuta semplificazione meccanica. Dal lavoro umano verrà allora pretesa una prestazione sempre più simile a quella di una macchina, nella forma e, se possibile, anche nell'intensità: non potendosi dissociare e contrapporre, nell'unità del processo produttivo, due logiche diverse. In tal modo il lavoro, come disse Marx, da ‟concreto" tende a diventare ‟astratto", cioè ingaggiato come ingrediente fungibile, la cui esecuzione è sostanzialmente ‛programmata' dall'esterno.

Questa implicazione del macchinismo per il rapporto uomo-macchina è l'aspetto che più ha attirato l'attenzione dal punto di vista sociologico. Prima di ritornare su alcuni suoi caratteri concreti sarà bene però accennare al fatto che vi è un altro aspetto di questa trasformazione non meno importante per l'uomo lavoratore: ed è la riduzione del ruolo di questi a fonte diretta di energia. Se in molti lavori, concretamente considerati, il macchinismo riduce il ruolo dell'abilità manuale e dell'ingegno applicativo, in molti altri, per contro, riduce la richiesta di sforzo fisico pesante. La stessa riduzione ‛macchinistica' del lavoro nell'industria si è venuta manifestando, nella realtà storica, con sfumature diverse che, pur collocandosi entro uno stesso schema classificatorio dal punto di vista logico, possono avere risvolti sociali di portata assai diversa. Il ruolo modificato dell'uomo lavoratore nell'industria moderna è stato infatti, volta a volta, quello di semplice integratore (per lo più transitorio) in un ciclo incompleto di movimenti di macchine, ovvero di sorvegliante addetto a correggere movimenti di macchine costituiti in ciclo pressoché completo, ovvero anche di parziale realizzatore di un coordinamento di movimenti di macchine con responsabilità effettive nell'esecuzione di un programma. A siffatte schematiche distinzioni di forma del rapporto possono però corrispondere condizioni di onerosità e pericolosità nel lavoro le più disparate. Quei diversi ruoli e queste diverse condizioni di lavoro si succedono e si sostituiscono, inoltre, in modo non unilineare nell'evoluzione dell'industria. Lo sviluppo di nuovi rami di attività - per esempio nel settore chimico - può ricostituire su un altro fronte elementi di pericolosità e onerosità del lavoro attenuatisi in altri settori, e cosi può dirsi per l'immissione di nuove tecniche in uno stesso settore. Tutto ciò è da porre in connessione col fatto che la logica aziendale che presiede all'introduzione o sostituzione delle macchine non è quella dell'alleviamento progressivo delle condizioni di lavoro (anche se questa ne è stata complessivamente e in ultima istanza la conseguenza, nel corso di una storia che non è solo fatta di sforzi economici ma anche di lotte sociali, capaci di correggere le tendenze di una logica puramente economico-aziendale).

Un punto essenziale per comprendere il continuo rivoluzionamento all'interno del quadro dell'organizzazione industriale del lavoro è infatti questo: esso trae costantemente origine dall'obbedienza a principi di minimizzazione degli apporti per unità di prodotto e di massimizzazione del prodotto per unità di apporto. Gli apporti - si tratti di materiali, di energia motrice, di logorio di macchine, di lavoro umano - sono risparmiati o valorizzati secondo i medesimi criteri: salvo l'eventuale resistenza dei prestatori di lavoro, i quali sono gli unici a poterla opporre, in virtù della loro diversa natura rispetto agli altri apporti, a onta dell'assimilazione che a questi ne è stata fatta nella struttura capitalistica dell'industria. La stessa applicazione di miglioramenti o, più in generale, di modifiche tecniche (che può implicare ritorni parziali a tecniche già smesse) è condizionata pertanto dai mutamenti che intervengono nella disponibilità dei prestatori di lavoro a cedere la loro forza lavoro a date tariffe e a date modalità. Sviluppandosi e complicandosi, quindi, l'industrialismo ha finito con il creare le premesse tecniche più favorevoli al rafforzamento del peso dei lavoratori implicati direttamente nel processo produttivo - seppur fino ad ora nella forma passiva del potere di veto - qualora, naturalmente, ricorrano le condizioni politiche atte all'esercizio di questo potere.

Come si è già accennato, questo modo di produzione, e questa organizzazione del lavoro che gli corrisponde, hanno però certi caratteri autoritari e centralistici che paiono attenuabili ma non eliminabili. Ciò perché si tratta di una struttura organizzativa nella quale i risultati dipendono dal funzionamento di un tutto e sono al tempo stesso vincolati, nella misurazione, al rapporto di scambio, ancorché l'autorità politica adotti dei correttivi per il conseguimento di fini speciali o la difesa di interessi particolari. In questa struttura il programma del processo produttivo sovrasta inevitabilmente la sua esecuzione. Ciò implica funzioni distinte e centralizzate di decisione fra alternative diverse e di decisione innovativa, rispetto alle quali - nell'ambito dell'unità produttiva - possono essere promosse autonomie, ove lo stato delle tecniche lo consenta, ma sempre nel quadro di vincoli precisi. Tutto questo implica una distinzione fra il momento del disporre e il momento dell'eseguire. Ed è difficile che tale distinzione non si cristallizzi in una distinzione di funzioni e di strati sociali, anche se questa non sembra dover essere necessariamente sempre identica alla drastica contrapposizione che ha presieduto alla nascita e allo sviluppo del sistema industriale di fabbrica.

In ogni caso il modo di produzione industriale può funzionare solo in quanto sia socialmente possibile un rapporto operativo fra queste diverse funzioni tale da comprendere e superare l'eventuale conflittualità. I due casi estremi nei quali si può configurare tale possibilità sono: o uno stato di coercizione diretta di stampo militare, ovvero una situazione di libero mercato in cui avvenga uno scambio di prestazioni offerte contro pagamenti, e in cui vi siano realmente alternative di scelta e potere contrattuale effettivo da parte di chi nello scambio cede forza lavoro. Nella realtà storica non si registrano finora siffatte forme pure, bensì situazioni più vicine all'una o all'altra forma. La formazione del sistema industriale è avvenuta storicamente nei modi dello scambio libero di forza lavoro contro salario: scambio fra chi non aveva altre possibilità di reddito che la vendita, a livelli di puro sostentamento, della propria forza lavoro e chi dall'altra parte disponeva non solo del capitale per anticipare il pagamento delle prestazioni prima della vendita del prodotto, bensì anche del sostegno del potere politico. Suo presupposto era quindi l'esistenza di una struttura sociale con larga disponibilità di lavoratori senza altre alternative di sostentamento. Nella Gran Bretagna del sec. XVIII - patria dell'industria moderna - avevano concorso a formare questa situazione sociale le recinzioni (enclosures) di terre prima assoggettate a servitù pubbliche o alla coltivazione individuale. Ma la formazione di un proletariato disponibile per il lavoro industriale può avvenire in molti modi. Né si deve credere che una violenza extramercantile si manifesti soltanto all'origine della formazione del rapporto di lavoro salariato. Essa ritorna non di rado, nella storia, ad assicurarne la normalità. E questo anche in società che dichiarano di essere ordinate secondo principi di governo proletari.

Tuttavia la contrattazione della prestazione di lavoro (o compravendita della forza lavoro) non è una finzione, ma un effettivo rapporto mercantile, e le condizioni politiche che regolano la situazione sociale in cui esso è possibile sono storicamente soggette a mutamento. Il portatore della forza lavoro può essere un cittadino protetto dalla legge. Nel caso in cui lo sia effettivamente e in misura tale da produrre effetti non soltanto formali, e nel caso in cui la persistenza di un regime di democrazia politica consenta una legislazione provocata dallo stesso mondo del lavoro, l'organizzazione per meglio contrattare (sindacati) e lo sviluppo della contrattazione possono consentire la difesa sostanziale della quota del lavoro nella ripartizione degli incrementi del reddito dovuti agli incrementi di produttività che il sistema industriale assicura - e quindi un progressivo incremento dei redditi reali - o anche miglioramenti di quella quota. Possono consentire altresì riduzioni progressive nell'orario di lavoro e più favorevoli condizioni di prestazione dell'opera. Tutto ciò, nella misura in cui può effettivamente verificarsi, diviene possibile in quanto è caratteristico dell'industrialismo che possano rendersi compatibili - a certe condizioni di equilibrio economico o sociale - una maggiore produzione fisica di beni e un minor apporto del lavoro corrispondente: e ciò con continuità e regolarità, e anche secondo una tendenza accelerativa. Questa caratteristica era del tutto sconosciuta a economie ordinate secondo altri modi di produzione.

Il problema della sopravvivenza dell'industrialismo moderno sta oggi nella capacità che le società in cui esso prevale mostreranno di sapere o meno salvaguardare insieme il miglioramento continuo delle condizioni di lavoro e il miglioramento continuo della produttività. L'industrialismo è un sistema tale da consentire - come si è detto - il realizzarsi di entrambe queste possibilità, ed è quindi, in linea di principio, non entropico. Ma se ciò è possibile, non è però ineluttabile, in quanto presuppone, al fondo, qualcosa come un ‛contratto sociale' in senso rousseauiano, le cui condizioni possono anche venire storicamente a mancare (v. lavoro).

3. La rivoluzione industriale

L'industria moderna ha il suo atto di nascita nella rivoluzione industriale inglese della seconda metà del sec. XVIII, con la quale comparve per la prima volta in un paese su larga scala il sistema di fabbrica (factory system) ed entrò in una fase di rapidissima espansione il macchinismo nella produzione manifatturiera. Ciò comportò in breve tempo una sensibile accelerazione nella formazione annua del prodotto nazionale. Questo, verso la fine del secolo - proprio quando Malthus pubblicava il suo pessimistico saggio sul rapporto fra andamento demografico e disponibilità di mezzi di sussistenza - assumeva in Inghilterra un ritmo di crescita superiore a quello della popolazione. Nella prima metà del sec. XIX, mentre la rivoluzione industriale si dispiegava in tutta la sua ampiezza, prodotto nazionale e reddito pro capite continuarono a crescere a ritmi ancora superiori. Questa capacità di espansione senza precedenti nella storia dell'economia (paragonabile forse soltanto - come ha notato C. M. Cipolla - al mutamento che, fra l'8000 e il 1500 a. C., convertì l'uomo da cacciatore in agricoltore) si estese dalla Gran Bretagna ad altri paesi.

Intorno alle origini di questa fondamentale trasformazione e alle cause che la provocarono in Gran Bretagna e non in altri paesi, anch'essi a quell'epoca economicamente progrediti (come la Francia), si è molto discusso e ancora si discute. Si sono date diverse interpretazioni della sequenza degli eventi, sequenza che gli storici hanno impostato nei termini di un loro abituale modello esplicativo, fondato sulla coppia di opposti continuità-discontinuità. L'interpretazione più tradizionale è basata sull'affermazione di una netta discontinuità: si sarebbe passati, nel breve giro di pochi decenni rivoluzionari (1760-1830 o 1780-1840), da un'economia sostanzialmente stazionaria, o in assai lento sviluppo, a un'improvvisa accelerazione intervenuta in una o più variabili decisive per la crescita economica: accumulazione del capitale, innovazioni tecniche, aumento di popolazione. Altro e più recente genere d'interpretazione è quello che riduce, invece, la portata delle discontinuità, individuando precedenti fasi nelle quali si sarebbero compiuti sostanziali progressi preparatori, sia nell'ambito manifatturiero, sia - soprattutto - in quello commerciale e in quello agricolo, nei 100-200 anni che precedono quella che è stata chiamata la ‟grande trasformazione" (Polanyi).

Buona parte degli studi più importanti apparsi negli ultimi anni obbedisce a tale impostazione. Da essi emerge che, nell'alternanza di tendenze cicliche secolari di crescita e decadenza che caratterizza la storia dell'economia europea per lo meno a partire dal Mille d. C., l'Inghilterra e l'Olanda sono i primi due paesi che riescono a sottrarsi all'ultima fase ciclica di caduta intervenuta nel sec. XVII. Di tali due paesi, il primo è quello che appunto, attraverso la rivoluzione industriale, riesce a legare cumulativamente una fase ciclica secolare di progressi preindustriali con un nuovo ciclo secolare espansivo dotato di nuovi ed eccezionali caratteri accelerativi. I rapporti che in questo periodo legano in ‛circolo virtuoso' i fattori politico-istituzionali a quelli propriamente economici, i dati culturali e scientifici a quelli tecnici, di mentalità e comportamento, nonché la concatenazione dell'espansione commerciale e dell'aumento della produttività agricola (‛rivoluzione agraria') sono attualmente nel pieno di un fervore di studi in cui si tende a fondere la tradizionale sensibilità storiografica individualizzante con le formalizzazioni concettuali dell'economia e della sociologia contemporanee.

Indipendentemente, però, dal problema delle sue origini o cause, è certo che la rivoluzione industriale si manifesta comunque come un mutamento nelle strutture produttive, i cui aspetti fondamentali riguardano le innovazioni tecniche e l'organizzazione del lavoro - con i conseguenti rapporti sociali - che ne dipende. La storia di queste innovazioni è stata molte volte ricostruita in opere di grande pregio, alcune delle quali, come quella di P. Mantoux o quella, meno remota, dell'Ashton, conservano negli anni la loro validità, e sono piuttosto integrate che corrette dalle ricerche più recenti. La serie ditali innovazioni è rappresentabile come un intreccio, peraltro visibile solo a posteriori, di progressi tecnici - di ordine meccanico e chimico -, che nel lungo periodo si sostengono reciprocamente, nelle lavorazioni tessili, nella siderurgia e nel campo delle fonti di energia: vale a dire nei rami essenziali, per l'epoca, della produzione di beni di consumo e di beni per la produzione. I progressi del settore tessile furono più immediatamente percepibili ed ebbero nel giro di pochi decenni effetti economici e sociali molto appariscenti: soprattutto in questo settore si misurò sia il fenomeno della formazione del nuovo proletariato industriale, agglomerato in centri di nuovo tipo come Manchester, sia il dominio sui mercati internazionali che il nuovo modo di produzione, coi suoi bassi costi, consentiva. Gli avanzamenti nella siderurgia seguirono con minore celerità, ma costituirono, alla fine, la più solida base di una trasformazione veramente radicale e profonda che doveva coinvolgere non solo l'intera industria ma anche i trasporti e l'insieme delle attività economiche in genere. L'innovazione fondamentale intervenuta in campo energetico, e cioè la macchina a vapore, doveva diventare il simbolo della rivoluzione industriale: essa consentì progressi decisivi negli altri due campi ora ricordati e, a sua volta, schiuse altre e varie possibilità.

Le prime innovazioni che aprirono il ciclo rivoluzionario nel settore tessile risalgono alla prima metà del sec. XVIII e si manifestano nel ramo allora più importante, quello laniero. Così è per la spoletta volante per telai di John Kay (1730), o per il filatoio di John Wyatt e Lewis Paul (1738). La loro diffusione, e il loro successivo moltiplicarsi, si verificò tuttavia solo con il volgere della seconda metà del secolo ed essenzialmente nel ramo cotoniero. Se la produzione laniera era, infatti, quella di gran lunga più importante nella precedente struttura manifatturiera inglese, fu invece quella cotoniera l'ambito in cui si realizzò il vero rivolgimento, il quale ebbe quindi anche come essenziale caratteristica l'affermarsi e l'imporsi di un prodotto praticamente nuovo. Infatti il cotone era non soltanto poco diffuso in precedenza, ma non si era ancora pervenuti tecnicamente alla possibilità di un solido tessuto interamente composto con tale fibra. La drastica riduzione dei costi che la rivoluzione industriale determinò in questo campo mutò le possibilità stesse del vestire, aprendo così la lunga serie dei mutamenti nel modo di vita prodotti dall'industrialismo. Come ha scritto D. Landes: ‟da secoli era in corso uno spostamento irregolare ma quasi ininterrotto verso stoffe più leggere, ma [con il cotone] la disponibilità di tessuti lavabili a buon mercato diede origine a nuovi modi di vestire dallo sviluppo potenziale imprevedibile. Il comfort e l'uso della biancheria non furono più riservati ai ricchi; il cotone permise di portare mutande e camicie a milioni di persone che prima indossavano soltanto i grossolani e sudici indumenti esterni" (v. Landes, 1969, p. 83). Questo processo sociale nei consumi si sarebbe ripetuto, nel corso dei successivi 200 anni di sviluppo dell'industria, moltissime volte.

Le prime innovazioni aprirono degli squilibri fra i ritmi delle varie lavorazioni collegate, alcune delle quali subivano accelerazioni nei tempi di esecuzione, mentre altre segnavano il passo. Si ebbe quindi un effetto di sollecitazione al susseguirsi di innovazioni volte a eliminare le sfasature insorte nei tempi di approvvigionamento o di utilizzazione e le strozzature che l'avanzamento nei ritmi di una fase di lavoro provocava in altri. Così la diffusione del telaio di Kay provocò una strozzatura nella fornitura di filati che lo stesso filatoio ancora solo pionieristico di Paul e Wyatt non era in grado di risolvere. Ci riuscirono, invece, i filatoi di Hargreaves (1766), di Arkwright (1769) e di Crompton (1779). A questo punto, però, rimaneva di nuovo indietro la tessitura: il telaio meccanico di Cartwright (1787), che ebbe bisogno di qualche decennio di rodaggio, risolse questo problema. Indispensabili a rendere il materiale adoperato adatto alle più veloci lavorazioni furono dei progressi chimici, peraltro elementari. Questo schema d'innovazioni mutuamente sollecitate, e che si rincorrono, sarà poi una caratteristica permanente del progresso tecnico dell'età industriale. In tempi recenti ha dato luogo al tentativo di una vera e propria programmazione dei miglioramenti tecnologici in settori o grandi aziende. La felice reciprocità delle risposte tecnologiche intersettoriali è stata infatti una condizione essenziale della marcia vittoriosa dell'industrialismo; una crisi in questo processo di domande e risposte potrebbe avere conseguenze fatali.

La molteplicità di avanzamenti tecnici su un largo fronte - sia pure diluita in un arco temporale di decenni - è perciò un aspetto essenziale della rivoluzione industriale, che quindi non può essere ridotta a un avvenimento settoriale. L'attività industriale può svilupparsi solo sulla base di una larga diversificazione e interconnessione interna, ed estende questi requisiti anche alle tradizionali attività agricole e a quelle dei servizi, non solo offrendo loro nuove potenzialità, ma anche rendendole sempre meno autosufficienti. Come si è detto prima, la rivoluzione industriale non è solamente il trionfo dell'industria del cotone. Questo ebbe bisogno del progresso di altri settori, senza di che avrebbe trovato presto una barriera. E, per contro, diede luogo a un vero e proprio fall out più o meno indiretto per altre attività. Talune fra queste (come la siderurgia e la meccanica) finirono poi con l'assumere il ruolo di ‛settore traente'. I progressi dell'industria siderurgica ebbero maturazione più lenta, ma prepararono trasformazioni più generali e più profonde. Queste derivarono dal fatto che si rese largamente disponibile per una molteplicità di usi un materiale che prima era di difficile e costosissima lavorazione nonché di qualità e prestazioni ineguali. I primi progressi si erano avuti agli inizi del sec. XVIII con la sostituzione del carbon coke alla legna dei boschi (A. Derby, 1709), dapprima per la produzione della ghisa, e poi per la successiva fucinatura in ferro e per la trasformazione in acciaio (H. Cort, 1783-1784). Nel frattempo l'introduzione delle macchine a vapore nelle ferriere permise di applicare in queste una potenza così grande da modificare le possibilità della soffiatura nei forni e dell'energia meccanica per battere il metallo nelle forge (1775 c.). Questo duplice apporto del carbon fossile nella fabbricazione siderurgica - come elemento combustibile più economico e, attraverso la macchina a vapore, come forza motrice di elevata potenza - fece dei paesi carboniferi i privilegiati dell'industrializzazione per un lungo periodo di tempo: sufficiente a determinare un livello differenziale di sviluppo e la conservazione di una superiorità economica nei confronti di rivali sopraggiunti successivamente, pur in un contesto tecnologico non più così esclusivo. La funzione del carbone nella prima fase di sviluppo della moderna industria chimica, affermatasi verso la metà del sec. XIX, consolidò quel privilegio.

L'inventore della macchina a vapore, in quella versione che ne rese possibile l'irradiarsi delle applicazioni, James Watt (1769), fu salutato per molto tempo come l'eroe della nuova era. Watt introdusse in una precedente macchina a vapore (quella di Newcomen, 1705) dei perfezionamenti che vi riducevano a un quarto l'energia consumata. Nel giro di qualche decennio si arrivò poi, con successivi miglioramenti, a un consumo che era un terzo di quello stesso di Watt. L'interazione di questi progressi tecnologici fra loro non si fece molto attendere. Così come la maggiore potenza motrice consentì uno sviluppo senza pari dell'industria tessile e favorì la siderurgia, quest'ultima, con i suoi progressi, consentì la produzione di macchinari più resistenti e più duttili, atti a tollerare le più energiche sollecitazioni di una maggiore potenza. Si rese necessario, a questo punto, un progressivo affinamento delle lavorazioni meccaniche per la produzione dei meccanismi trasmissori e degli utensili ora azionati da forza motrice. Questi, per contro, poterono avvalersi di una maggiore e migliore siderurgia e quindi estesero progressivamente il campo delle loro applicazioni. La più sensazionale fra queste fu la trazione mobile per mare e per terra mediante macchina a vapore: soprattutto a partire dal 1830 circa si delineò nel mondo una rivoluzione nel campo dei trasporti, la quale doveva ridurre drasticamente i tempi di percorrimento delle distanze e i costi di spostamento per le merci e gli uomini.

Questo fu il risultato più vistoso della rivoluzione industriale. Era nata, in modo evidente per tutti, una nuova economia, avente la capacità di coinvolgere nel proprio processo dinamico l'intero orbe terracqueo. Mutavano i modi di lavoro e, con essi, i rapporti sociali. Mutavano i modi di vita, con la diffusione di nuove merci e nuove abitudini, con il crescere dell'urbanizzazione e dei movimenti di uomini e merci. Mutavano i rapporti fra le diverse aree del mondo: quelle arretrate venivano sottoposte a un più rapido assoggettamento da parte dell'area metropolitana industrializzata. Le grandi scoperte geografiche, da Colombo in poi, lo avevano preparato, ma un mercato mondiale, come sistema integrato e continuo di rapporti commerciali, nacque effettivamente solo con la rivoluzione industriale.

4. I modelli del processo d'industrializzazione e l'industria moderna

Lo sviluppo dell'industria successivamente alla rivoluzione industriale deve essere considerato da due punti di vista nettamente distinti, anche se connessi. Vi è, in primo luogo, la storia per così dire ‛interna' dell'industria, indipendente cioè dalla sua diffusione geografica, dalle sue relazioni con l'insieme dell'economia sia di un paese che internazionale. E in questo senso la storia dell'industria è la fenomenologia della sua diversificazione, della sua struttura organizzativa, ed è la sua storia tecnologica. Ma vi è un altro punto di vista dal quale l'industria va considerata: in quanto componente (essenziale) della crescita delle economie dei singoli paesi nel quadro evolutivo dell'economia mondiale. In questo senso la storia dell'industria è storia dell'industrializzazione, cioè del processo economico, e anche economico-politico, della diffusione dell'industria stessa.

Dal primo di questi due punti di vista si potrà parlare di fasi successive della storia industriale, che alcuni tendono a definire come un susseguirsi di ‛rivoluzioni' intervenute nelle caratteristiche dell'attività trasformatrice. Ritorna infatti, in relazione a queste fasi di mutamento, la formula ‛seconda rivoluzione industriale' o anche ‛terza rivoluzione industriale', se chi vuol marcare il carattere rivoluzionario del mutamento è più o meno consapevole del fatto che si è già ricorsi, in relazione a precedenti periodi di accelerato mutamento, a tale periodizzazione.

Indipendentemente, comunque, da siffatte etichette, si può osservare che, con enfasi diversa, gli studiosi tendono a distinguere nella storia industriale moderna almeno quattro grandi fasi: la prima, quella della rivoluzione industriale ‛classica', contrassegnata dalla predominanza del settore tessile; la seconda, che si fa partire dal 1830 o dal 1840 circa, sarebbe quella in cui prendono particolare rilievo e ampiezza le lavorazioni siderurgiche (e si hanno in questo campo innovazioni fondamentali, come il processo Bessemer, 1856, e il processo Siemens-Martin, 1857-1864), e che coincide press'a poco con la prima età delle ferrovie e della navigazione a vapore e quindi con quella che è stata chiamata, per analogia, la ‛rivoluzione dei trasporti'. Una terza fase viene generalmente collocata alla fine del sec. XIX, quando cominciano a prendere eccezionale rilievo gli aspetti chimici dei processi industriali: non soltanto nel senso del sorgere di una grande industria chimica (dei coloranti, degli esplosivi e dei fertilizzanti agricoli), ma anche nel senso che processi chimici si applicano sempre più al trattamento dei materiali tradizionali, migliorandone drasticamente le prestazioni, consentendo nuove leghe (per es. l'alluminio) e nuovi materiali, come le prime fibre tessili artificiali. Ma il carattere ‛rivoluzionario' di questa terza fase è accentuato dalla comparsa di una grande innovazione nel campo delle fonti di energia con l'introduzione nei processi industriali dell'elettricità, dopo che vengono perfezionate le tecniche per il trasporto a distanza di quest'ultima (anni ottanta). In questo periodo, fra la fine del sec. XIX e gli inizi del XX, sorgono produzioni nuove, come quella dell'automobile o quella degli aeromobili, si espande l'utilizzazione dei combustibili fossili liquidi e si delinea una prima traduzione del progresso industriale in nuovi modi del consumo di massa. Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale, l'eccezionalità della svolta costituita da quella precedente fase parve oscurata da nuovi straordinari avvenimenti scientifico-tecnici, come l'utilizzazione dell'energia atomica, la moltiplicazione dei materiali sintetici prodotti dalla petrolchimica, le applicazioni dell'elettronica nelle telecomunicazioni e nella guida e nel controllo del lavoro di altri macchinari (v. elettronica; v. energia; v. petrolchimica; v. telecomunicazioni).

Queste quattro fasi della moderna storia industriale riflettono sostanzialmente le grandi svolte del processo di diversificazione della struttura industriale nel corso del suo progresso tecnologico. Esse trovano un certo parallelismo nei contemporanei mutamenti negli aspetti organizzativi dei processi industriali: così è possibile attribuire alla seconda fase indicata (a partire, cioè, dal 1830-1840) il prorompere della ‛grande' industria, cioè delle grandi concentrazioni industriali con l'avvio della separazione della proprietà dalla gestione e il diffondersi della forma della società per azioni nell'iniziativa industriale. Mentre alla terza fase - quella che cade fra la fine del sec. XIX e l'inizio del XX - si possono ascrivere l'introduzione del taylorismo nell'organizzazione del lavoro e l'istituzionalizzazione generalizzata del negoziato sindacale, nonché il diffondersi di forme di controllo del mercato da parte dell'industria, con la formazione di trusts e cartelli. La quarta fase, infine, che pareva dovesse essere quella dell'automazione dei processi industriali, lo è stata solo limitatamente, e pare invece piuttosto caratterizzata dalla diffusione di tecniche razionali di management, dall'organizzazione psicologica del consumo su larga scala (attraverso i mass media), dall'ampiezza assunta dal fenomeno della multinazionalità delle grandi imprese, nonché da una crescita eccezionale del potere sindacale di contrattazione.

Se veniamo ora a considerare l'altro dei due punti di vista da cui la storia industriale può essere riguardata - quello dell'espansione dell'industria nell'economia mondiale - si assiste, anche qui, a fasi ben distinte, in gran parte e a grandi linee coincidenti con quelle riscontrabili nella storia ‛interna' dell'industria. In un primo periodo l'industria moderna è un fatto essenzialmente inglese. Soltanto nella seconda metà del secolo un contagio assai lento maturato nel frattempo lungo una fascia privilegiata dell'Europa continentale - fra Paesi Bassi, Francia nord-orientale, Germania occidentale, Svizzera e talune regioni dell'Impero austro-ungarico - prese le proporzioni di un'effettiva e rapida industrializzazione. Si avvantaggiarono di più, naturalmente, le regioni che disponevano di giacimenti carboniferi e metallurgici. Lo stesso ‛albo d'oro' delle nuove invenzioni industrialmente feconde, il quale da Watt a Bessemer era stato praticamente monopolio degli Inglesi, cominciò a popolarsi di nomi continentali, in gran maggioranza tedeschi (Siemens, Otto, Daimler, Diesel). L'industria chimica, la nuova motoristica e l'elettromeccanica - i settori avanzati della terza fase della storia industriale moderna - ebbero in Germania la patria d'elezione. Contemporaneamente, dall'altra parte dell'Atlantico, si assisteva alla trasformazione industriale degli Stati Uniti d'America, che doveva assumere dimensioni gigantesche nel corso del sec. XX. Tra la fine del secolo e la prima guerra mondiale l'industrializzazione investì anche alcune regioni europee della Russia nonché il Giappone.

È singolare che l'industrializzazione, intesa come processo che tende a trasformare l'insieme dell'economia di singoli paesi, si sia sostanzialmente fermata alle frontiere raggiunte negli anni antecedenti la prima guerra mondiale. Dopo di allora nuclei d'industria dei settori più svariati si sono disseminati in molti paesi dei vari continenti, ma non come elemento dominante di quelle economie, capace d'indurne una rapida e radicale trasformazione. Questo, ovviamente, con eccezioni (come il Canada, Israele o Taiwan), tutte però dipendenti da situazioni molto anomale. Numerosa è invece oggi la schiera dei paesi che si considerano in ‛via di sviluppo', nei quali sono in corso sforzi particolari per un'industrializzazione accelerata: tali paesi sono però essi stessi indice di una dicotomia che si è venuta cristallizzando nella geografia economica del mondo.

Questa impasse che si registra nella diffusione delle strutture industriali nel mondo pone un complesso problema d'interpretazione storico-economica da una parte e un serio interrogativo politico-economico dall'altra. Quali fattori l'hanno determinata? Con quali mezzi essa può essere superata?

Nella visione ottocentesca del progresso economico l'industrializzazione non era concepita come elemento necessario. La teoria allora dominante della divisione internazionale del lavoro induceva a ritenere che ogni paese avrebbe potuto massimizzare il proprio dividendo nazionale specializzandosi in quelle produzioni che era in grado di effettuare - per fattori geografici o d'altra natura - a costi comparativamente più bassi: e quindi anche in produzioni esclusivamente agricole. In tal modo sarebbe stato possibile procurarsi attraverso lo scambio, alle condizioni più vantaggiose, qualsiasi altro bene. Tale risultato non si sarebbe potuto ottenere nella stessa misura se, viceversa, ciascun paese avesse tentato d'impiantare al proprio interno produzioni sfavorite in partenza, vuoi per mancanza di materie prime o fonti energetiche adeguate, vuoi anche per la scarsa disponibilità di fattori storicamente condizionati, come una mano d'opera specificamente addestrata ecc.

Tale teoria - benché tutt'altro che priva di fondamenta scientifiche entro un determinato quadro di condizioni - si caratterizzava per la sua spiccata aderenza agli interessi delle nazioni già industrializzate e allora in posizione dominante sui mercati dei beni industriali. La sua impostazione era statica e di breve periodo: essa tendeva, in primo luogo, a sopravvalutare la convenienza derivante dai fattori esistenti e già operanti (naturali o storici) rispetto a quelli acquisibili (sia pure a prezzo di un periodo intermedio di svantaggi) mediante il futuro dinamismo tecnologico dell'industria, da cui non è illecito attendersi un'alterazione nello stesso quadro dei vantaggi comparati. In secondo luogo essa ignorava la diversità della forza contrattuale che finisce con lo stabilirsi fra paesi a struttura produttiva industriale e paesi a struttura produttiva agricola e comunque arcaica, spesso ‛monoculturale', cioè orientata tutta su un solo prodotto fondamentale, soggetto a grandi oscillazioni di prezzo. Ma soprattutto quella teoria non prevedeva i fattori sociali che col trascorrere del tempo - essendosi formata una sovrappopolazione relativa anche a seguito degli effetti destabilizzanti introdotti nelle vecchie strutture dal contatto con il mercato mondiale - avrebbero potuto indurre i singoli paesi non industriali, già dotati di autonomia politica o pervenuti successivamente a questa, a porsi il problema di strutture economiche suscettibili di una più elevata creazione di posti di lavoro. E ciò si sarebbe verificato soprattutto a partire dal momento in cui alcuni parziali effetti civili e sanitari dell'industrializzazione si fossero diffusi nel mondo provocando un'impennata nell'aumento di popolazione, come conseguenza, principalmente, di diminuiti tassi di mortalità.

Le teorie che cercano di spiegare questa grande impasse storica dell'industrializzazione mondiale sono riconducibili sommariamente a tre punti di vista.

Un primo punto di vista è quello che fa dipendere lo sviluppo industriale capitalistico dalla preesistenza di certe condizioni nella struttura sociale precedente, favorevoli a una trasformazione di quest'ultima. Assumendo tale orientamento si finisce con il far dipendere più o meno interamente le possibilità evolutive presenti da quelle passate. Le società che avevano raggiunto fra il sec. XVIII e la fine del XIX un certo ordine sociale - maturando in sostanza un superamento più o meno completo di un preesistente sistema feudale - si sono industrializzate. Le altre no, per la mancanza di tali prerequisiti istituzionali. Donde la necessità, ove da queste ultime si voglia superare tale carenza, di un volontaristico ed ‛eroico' salto di fase storica. Il che, naturalmente, taluni ritengono possibile e altri, invece, illusorio.

Un secondo punto di vista - sovente oggetto di una particolare enfasi ideologica in quanto è quello che meglio si associa all'impulso conflittuale verso l'esterno proprio del nazionalismo dei paesi che si rendono politicamente indipendenti - parte dal presupposto che il sistema di rapporti economici internazionali creato dallo sviluppo colonialistico e imperialistico delle prime nazioni industriali avrebbe deformato gravemente le economie del resto del mondo. L'evoluzione economica degli altri paesi sarebbe stata orientata nel senso di una subordinazione, la quale avrebbe dato luogo addirittura a situazioni pregiudizievoli al loro ulteriore sviluppo, per esempio costringendone la produzione in ambiti limitati e senza prospettive di diversificazione, oppure consolidando o imponendo in essi un ordinamento sociale retrogrado e ostile al progresso.

Un terzo punto di vista sottolinea invece le crescenti difficoltà d'ingresso nell'area economicamente industrializzata del mondo proprio via via che l'industrialismo progredisce, in quanto questo diviene fenomeno più complesso tecnologicamente, economicamente e anche socialmente. La maggiore complessità della realtà industriale imporrebbe a ogni nuova economia nella quale si venga a manifestare, o vi venga politicamente introdotta, una tendenza allo sviluppo - dato che questo non potrebbe realizzarsi che a un livello aggiornato e rispettando certe indivisibilità proprie di tale livello - di concentrare massicciamente, e in breve giro di tempo, uno sforzo che i paesi ‛primi arrivati' hanno compiuto più o meno gradualmente in un periodo secolare. In altre parole, la diffusione internazionale dello sviluppo industriale avrebbe trovato degli ostacoli per effetto del dispiegarsi stesso di questo sviluppo nei paesi della prima ondata.

In un primo tempo una certa diffusione di strutture industriali in alcuni paesi sarebbe stata consentita dalla relativa semplicità delle prime tecnologie, e quindi dalla loro più agevole trasmissibilità e dal costo non inaccessibile dell'investimento industriale connesso; d'altra parte, l'ancora elevato costo dei trasporti (poi via via ridotto dall'introduzione dei portati dell'industrializzazione in questo settore) avrebbe svolto oggettivamente la funzione di una barriera protettiva per i nuovi paesi avviati all'industria rispetto alla maggiore forza competitiva, ai puri costi di produzione, delle regioni pioniere. Il venir meno di queste due condizioni - come è stato messo in rilievo specialmente dal Bairoch - avrebbe progressivamente accresciuto le difficoltà d'ingresso nell'area industriale. Infatti la rivoluzione dei costi di trasporto tende, come è noto, a favorire l'accentramento nelle strutture produttive, e, dal canto loro, il più alto tasso di accumulazione di capitale necessario e le maggiori conoscenze e abilità richieste dall'industria moderna spingono nella stessa direzione.

A tali considerazioni si deve aggiungere che la concentrazione territoriale dell'industria tende a creare essa stessa - come ora vedremo - una maggiore convenienza al sorgere nella medesima area di nuove attività, vincendo l'attrattiva di taluni particolari vantaggi (come i più bassi costi di mano d'opera non qualificata o delle aree da utilizzare) che possono essere talvolta offerti in zone vergini. Lo stesso sforzo iniziale d'industrializzazione - lo ha sottolineato A. Gerschenkron - deve a un certo punto della storia industriale, per risultare efficace, svolgersi su un fronte esteso, per blocchi. Tutto ciò impone allora, col trascorrere del tempo, uno sforzo sempre più cospicuo, e una mobilitazione di energie più drastica per conseguire il risultato. Ne deriva che il modello gradualistico, e più o meno liberale, cui corrisponde la vicenda storica dei primi paesi industriali, dovrebbe di necessità venire progressivamente capovolto, per dare luogo a industrializzazioni con un sempre maggiore contenuto d'iniziativa centralizzata multisettoriale, per esempio di banche, ma anche e, alla fine, soprattutto, di promozione politica. Il tutto, quindi, con accelerazione dei ritmi e con controlli economici e sociali più o meno autoritari.

Ciò renderebbe organicamente impossibile che i processi d'industrializzazione si svolgano in obbedienza a un unico modello generale. La gran parte delle caratteristiche più salienti della trasformazione si presenta, in effetti, in modo alquanto diverso nei vari casi storici. Il Gerschenkron ha tentato di elencare una serie significativa di tali caratteri, i quali possono presentarsi, in tempi differenti e in differenti paesi, in modo affatto opposto. Ad esempio, in taluni casi l'industrializzazione appare un fatto autoctono, in altri derivato, cioè fortemente dipendente da sollecitazioni che provengono da altre aree dell'economia mondiale; il processo stesso può svolgersi in forma autonoma, per effetto di forze spontanee dell'economia, oppure venire forzato dall'autorità politica; può indirizzarsi prevalentemente verso la produzione di beni di consumo oppure fare parte assai larga o addirittura preponderante a quella di beni strumentali (e ciò sin dall'inizio); può aver luogo in situazione inflazionistica o invece di stabilità monetaria; può, o non, mettere capo a vaste trasformazioni strutturali nell'insieme dell'economia; il suo svolgimento può essere caratterizzato da gradualità e continuità o, per contro, da discontinuità, cioè da brusca accelerazione; il suo rapporto con il preesistente settore agricolo può essere di reciprocità nel progredire, ma può anche essere invece contrapposto, implicando nell'agricoltura stagnazione e regresso; differenti possono essere le fonti della formazione del capitale per l'investimento industriale; e, infine, la sua motivazione, negli agenti che principalmente lo hanno promosso, può essere prevalentemente economica o politica.

A questi elementi per una tipologia dell'industrializzazione altri se ne potrebbero aggiungere o sostituire: è evidente comunque la diversità delle implicazioni di ogni genere - economiche, sociali e politiche - che possono accompagnarsi a ciascuna di queste possibilità, e ciò giustifica pienamente la riflessione storiografica al riguardo. Per il Gerschenkron il problema fondamentale sta nel ricercare se vi possa essere un principio esplicativo unitario al quale esse siano riconducibili e che permetta di comprendere se esse tendono ad associarsi fra loro in base a una logica. La risposta che questo autore dà, individua nel grado di arretratezza iniziale dell'economia in cui si avvia il processo d'industrializzazione la variabile indipendente rispetto alla quale tutte le alternative riguardanti gli aspetti prima indicati del fenomeno sarebbero variabili dipendenti. In pratica, più un'economia viene a trovarsi inizialmente arretrata e più imponente dovrebbe essere lo slancio necessario e quindi discontinuo il processo; maggiore l'impulso dato alla produzione di beni strumentali, quelli cioè necessari all'allargamento della produzione nel suo insieme; più grandi le dimensioni delle attrezzature iniziali; più drastica la compressione dei consumi della popolazione; meno importante la parte dell'agricoltura come mercato per i prodotti industriali e quindi più soggetto a sproporzione il parallelo sviluppo di essa; più decisiva la parte dei finanziatori esterni all'industria stessa, come intermediari finanziari, o dello Stato stesso, dato che le dimensioni dello sforzo d'avvio e il tempo in cui questo deve compiersi non consentono di fondarsi sulla graduale formazione di capitale interna alle imprese.

Tali indicazioni, nonostante i loro limiti - principalmente la modesta considerazione del ruolo delle influenze reciproche di aree economiche diverse - sono un importante punto di riferimento per l'analisi del problema in questione e costituiscono il più coraggioso tentativo di sintesi in materia che sia stato finora compiuto. Esse appartengono a quelle astrazioni di media portata, sorta di generalizzazioni empiriche non suscettibili né bisognose di rigorosa formalizzazione, ma estremamente utili - come ha rilevato un altro importante storico dell'industrializzazione, il Landes - nell'analisi di fenomeni storici: soprattutto se tale analisi non vuole disperdersi nell'irriducibilmente specifico e individuale e, alla fine, meramente descrittivo, ovvero annullarsi in apriorismi concettuali estranei allo svolgersi effettivo degli eventi e a una visione unitaria del processo storico, come capita sovente nell'esercizio puramente teorico di costruzione di modelli formali.

Altri tentativi simili per lo più non considerano isolata- mente il fenomeno dell'industrializzazione in senso stretto, ma assumono quello della crescita economica nel suo insieme pur collocando al centro dell'analisi, naturalmente, l'industrializzazione stessa. Fra coloro che si sono mossi in questa direzione è da segnalare soprattutto H. Chenery, il quale non parla di ‛tipologie' bensì di ‛sentieri' dello sviluppo industriale. Egli sottolinea altresì l'importanza delle dimensioni territoriali del paese cui si riferisce il caso di sviluppo. È evidente che le dimensioni dell'area condizionano strettamente sia l'entità dei rapporti con l'esterno di una data economia, sia la composizione di tali rapporti. Ne risulta quindi influenzato il suo grado d'integrazione interna e pertanto l'orientamento nella composizione delle sue produzioni. Chenery innesta queste considerazioni su un'ipotesi relativa alla potenzialità differenziata di crescita dei vari settori industriali, condotta in termini che discendono dall'impostazione Fisher-Colin Clark sopraricordata, e che si basa sulla diversa elasticità di domanda di differenti gruppi di prodotti al crescere del reddito. Secondo Chenery la stessa struttura industriale si stratificherebbe al modo dei grandi settori fisheriani e obbedirebbe, nella crescita, a un'analoga logica differenziata: si avrebbero, cioè, industrie ‛iniziali', industrie ‛intermedie' e industrie ‛ultime'. Viene così delineata una relazione, che può prestarsi a fecondi sviluppi, fra dimensioni territoriali, grado di apertura esterna, composizione strutturale e capacità di crescita. Siffatta impostazione ha il pregio di valorizzare meglio, rispetto a quella del Gerschenkron, la variabilità strutturale dipendente dalla collocazione internazionale di un'economia in via d'industrializzazione, mentre l'impostazione del Gerschenkron è invece più sensibile alla funzione del tempo storico nel determinare il quadro condizionale dell'industrializzazione, e quindi, anche qui, delle forme e della struttura di questa in paesi che l'affrontino in tempi diversi.

Non è però impossibile immaginare una riflessione comprensiva che tenga conto di tutti questi aspetti, assegnando a ciascuno di essi il dovuto peso. Gli elementi sui quali potrebbe fondarsi un tentativo siffatto risalteranno più chiaramente ove si considerino brevemente i fattori che regolano la convenienza alla localizzazione delle industrie, e le loro relazioni con le diversità tipologiche dei settori industriali. Queste ultime comportano infatti una sensibilità non uniforme ai fattori di localizzazione. Da tutto ciò deriva una variabilità storica dell'influenza dei fattori di localizzazione in presenza di mutamenti tecnologici, economici e sociali. In più, a tutto questo, si sovrappongono fattori politici obbedienti a una logica diversa.

5. Localizzazioni e classificazioni delle industrie. La divisione internazionale del lavoro e il futuro dell'industrialismo

La localizzazione delle attività industriali obbedisce infatti a una logica diversa in relazione al movente economico e a quello politico. Anche in un passato meno recente ha avuto qualche peso il movente politico (per es. considerazioni strategiche e militari) nel determinare la localizzazione di qualche attività industriale. Questo tipo di movente, però, è considerevolmente aumentato d'importanza non solo via via che nelle successive industrializzazioni il peso dell'intervento statale cresceva, ma anche via via che crescevano, nei paesi di vecchia industrializzazione, i motivi per un'azione correttiva pubblica sulle tendenze spontanee alla localizzazione. Il movente economico obbedisce alla logica della convenienza aziendale. Il movente politico può ispirarsi alle più diverse ragioni: lo Stato o un'altra autorità territoriale possono avere interesse a modificare in un'area data le condizioni economiche generali; o può esservi una ragione militare o di prestigio, oppure un motivo urbanistico o ecologico; ovvero ancora pressioni sociali, oppure calcoli politici circoscritti. In tali casi le autorità politiche possono promuovere iniziative industriali sia direttamente, con considerazione limitata o nulla delle convenienze economiche immediate, ovvero indirettamente, limitandosi in tal caso a modificare con sussidi, integrazioni, incentivi, i termini del calcolo economico delle imprese. Così si ha un trasferimento di maggiori costi dalle imprese alla collettività, in previsione di maggiori benefici futuri per la collettività stessa o, in casi patologici, per il gruppo politico che ha il potere di decisione.

I moventi alla localizzazione ispirati al calcolo aziendale partono da valutazioni relative ai costi di approvvigionamento, di trasformazione e di distribuzione. Naturalmente l'ampiezza della gamma delle alternative considerate varia in funzione delle dimensioni dell'operatore che deve compiere la scelta: un piccolo imprenditore si porrà un numero minore di alternative possibili che non una società multinazionale. Di conseguenza l'effetto complessivo delle scelte sarà influenzato dal modo in cui è composta la massa di coloro che sono chiamati a prendere le decisioni, il che varia storicamente, così come variano storicamente, del resto, le stesse possibilità tecniche che a questi si offrono di allargare le proprie possibilità di scelta, in dipendenza sia dall'evoluzione economica generale, sia dallo sviluppo di funzioni amministrative pubbliche che agiscono indirettamente sul livello dei costi di transazione in genere.

La teoria distingue per lo più i fattori economici di localizzazione (in senso stretto, cioè aziendali) in due gruppi a seconda che prevalga il criterio della vicinanza alle risorse impiegate (localizzazione resources oriented) o quello della vicinanza ai mercati di smercio (localizzazione market oriented). Storicamente, sembra avere avuto più peso, negli effetti complessivi, l'attrazione dei mercati di smercio rispetto a quella delle risorse da impiegare: ciò in conseguenza di un processo cumulativo e agglomerativo in cui i moventi resources oriented sono in larga misura apparsi sopraffatti in molti modi da quelli market oriented. La diversificazione produttiva, infatti, è venuta moltiplicando enormemente il numero delle industrie che hanno per clienti altreindustrie, formando un amplissimo mercato interindustriale intermedio rispetto a quello del consumo finale. L'iniziativa industriale nasce così sempre più largamente dalla percezione diretta, in loco, della possibilità di sviluppare una nuova produzione indipendente, sulla base di precise possibilità di approvvigionamento industriale, oltre che di mercato. Imprese di grandi dimensioni finiscono col crearsi una rete di piccoli e medi subfornitori adiacenti mentre, in circolo, la miriade di piccole industrie fa da mercato per le maggiori imprese produttrici di beni strumentali. D'altra parte il progresso tecnico amplia le possibilità di sostituzione di risorse originariamente vincolanti al territorio, per cui l'agglomerazione stessa diventa una parte sempre più grande delle complessive fonti di offerta da cui si attingono gli inputs da impiegare nella produzione. Dall'agglomerazione nasce altresì la formazione di funzioni specializzate intermediarie di fornitura alle industrie, specie minori, che riduce la necessità della ricerca diretta. Ma soprattutto la complessità delle industrie appartenenti alla più recente stratificazione tecnologica riduce la dipendenza da un solo fattore tecnico della produzione (per es. una materia prima), estendendola a una gamma di altri fattori (materie ausiliarie, macchinari, pezzi di ricambio, ecc.). A tutto ciò si deve aggiungere che l'agglomerazione forma mano d'opera addestrata e capacità di formazione di questa, di cui diviene in pratica il più grande serbatoio. Essa, insomma, moltiplica i capitali, le capacità imprenditoriali, le suggestioni tecniche, le opportunità d'investimento e la domanda di lavoro, nonché l'offerta stessa di lavoro in quanto concentra da molteplici provenienze mano d'opera migratoria. In un certo senso la nozione stessa di agglomerazione finisce con l'annullare la distinzione fra situazione geografica caratterizzata da una prevalente offerta di risorse e situazione geografica caratterizzata da un prevalente sbocco di mercato. La tendenza che essa esprime è operante sia nel quadro della divisione internazionale delle attività economiche, sia nell'ambito infranazionale, ove dà luogo a disparità regionali.

Se quanto si è detto vale in generale, e prescindendo dall'evolversi di un'azione ‛controcorrente' di numerosi Stati, il quadro può mutare sensibilmente ove si tenga invece conto delle particolarità dei singoli settori industriali in presenza dello sforzo d'industrializzazione che, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, comincia a essere compiuto da un numero ognora crescente di paesi ex coloniali o comunque subordinati economicamente in passato alle grandi potenze industriali. Criteri di localizzazione ‛politici', pur fra enormi difficoltà ed errori, cominciano ad agire su scala mondiale, modificando - ma non sopprimendo - la logica economica dell'agglomerazione. Ciò avviene in concomitanza con l'emergere, nei paesi di antica industrializzazione, di fenomeni di maturità, di congestione, di sovrasviluppo, i quali si manifestano soprattutto con il rovesciamento della tendenza tradizionale alla diminuzione dei costi manifatturieri e con l'inflazione cronica. Comincia a porsi concretamente il problema di una nuova divisione internazionale delle attività economiche, determinata congiuntamente e dalla pressione dei paesi emergenti, nei quali compaiono situazioni e opportunità nuove per effetto di sforzi politici, e da taluni elementi di crisi nei paesi di vecchia industrializzazione.

Al tempo stesso, la crescita di imprese multinazionali permette a questi giganti economici di prendere decisioni di localizzazione in orizzonti territorialmente vastissimi, dove il confronto dei costi può offrire enormi disparità, ricostituendo il vantaggio per la considerazione prioritaria della vicinanza delle risorse. Le imprese multinazionali, per l'eccezionalità dei mezzi a loro disposizione e la spregiudicatezza e il dinamismo della loro conduzione, possono inoltre più facilmente modificare queste decisioni al variare delle condizioni di costo originarie: ciò crea una tensione molto forte e permanente con le autorità politiche di paesi in via di sviluppo.

In questo nuovo e diverso contesto - caratterizzato da un ‛volontarismo' sia dei paesi che cercano di aprirsi una strada, sia dei paesi che vogliono correggere un itinerario fattosi accidentato, e dalla presenza di un operatore di nuovo tipo come l'impresa multinazionale - prende rilevanza, come fattore di localizzazione, la tipologia delle attività industriali (cosa diversa, non c'è bisogno di sottolinearlo, dalla tipologia dei processi d'industrializzazione di cui si è parlato più sopra). Ciò avviene in quanto le differenti caratteristiche delle varie industrie si pongono come elementi di scelta, nell'ambito di processi che si cerca di guidare o di correggere politicamente, per il conseguimento di specifici risultati: una maggiore autonomia economica, la massimizzazione dell'occupazione, il riequilibrio della bilancia dei pagamenti, l'agibilità del territorio o dell'ambiente.

La classificazione delle attività industriali non esiste come disciplina a sé stante, o come ramo di qualche disciplina: si è venuta praticando, in ambiti scientifici o operativi diversi, in relazione a esigenze funzionali alla teoria o alla decisione. Si tratta pertanto di una serie di distinzioni assai disparate quanto a criteri di formulazione, nell'ambito delle quali è però possibile individuare due gruppi, fra i tanti possibili, che corrispondono alle esigenze di scelta, rispettivamente, dei paesi in via d'industrializzazione (non solo di quelli odierni ma già di quelli che ieri si trovavano in tale stadio) e dei paesi di vecchia industrializzazione.

Nel primo gruppo possono farsi rientrare distinzioni più tradizionali come quelle di industrie ‛pesanti' e ‛leggere', di ‛base' e non di base, traenti e non traenti, ad alta o bassa intensità di capitale o di lavoro, per la produzione di beni strumentali o di beni di consumo. Mentre corrispondono a esigenze di ragionamento e di scelta più proprie di paesi di vecchia industrializzazione distinzioni come quelle fra industrie ad alto o basso contenuto di ricerca, ad alto o basso consumo di energia, ‛sporche' o ‛pulite', ‛mature' o ‛avanzate' (o più semplicemente ‛vecchie' e ‛nuove').

Le distinzioni del primo gruppo sono generalmente funzionali ai problemi della crescita, intesa quantitativamente nelle sue dimensioni globali o in rapporto a grandi obiettivi aggregati, come l'occupazione, l'autonomia economico-politica, ecc. Fra queste, la prima - industrie pesanti e leggere - è la più antica, e riflette il passaggio dalla prima alla seconda fase della prima rivoluzione industriale, quando, accanto al settore tessile - tipica espressione d'industria ‛leggera', tale cioè da non richiedere impianti massicci - cominciarono a sorgere le grandi officine siderurgiche o della meccanica, detta appunto ‛pesante', vale a dire con elevato impiego di prodotti siderurgici (cantieri navali, produzione di caldaie a vapore per ferrovie e industrie, ecc.). Si tratta di una distinzione sommaria e allusiva, che si rifà alla misura dell'impegno necessario alla realizzazione, in termini di capitali, di capacità tecniche e di possibilità di mercato. Nella seconda metà dell'Ottocento e nei primi anni del sec. XX, nuclei d'industria leggera cominciavano a diffondersi con minore difficoltà nei più diversi paesi, ma solo la presenza di un'industria ‛pesante' diventava sinonimo di una diversità qualitativa, della formazione di una ‛base' industriale, cioè di una struttura portante per l'ulteriore sviluppo, per le esigenze politico-militari, ecc. E a questa distinzione è infatti vicina l'altra, spesso usata, fra industrie di ‛base' e non di base, intendendosi per industrie di base quelle che producono beni più o meno indispensabili a tutte le altre industrie o a gran parte di esse: tali ad esempio le fonti di energia, la siderurgia, o, nella chimica tradizionale, l'acido solforico (e, nella moderna petrolchimica, l'etilene). Talché si è potuto tentare di distinguere - per esempio a proposito di fasi d'industrializzazione come quella dell'Italia fra la fine del sec. XIX e la prima guerra mondiale - la ‛formazione di una base industriale', implicante soltanto la nascita di siffatta struttura portante diversificata, da una piena industrializzazione, implicante invece un peso dominante del settore sull'insieme dell'economia (in termini di quota del prodotto lordo o dell'occupazione complessiva), che nella fase antecedente non si dava ancora.

La nozione d'industria ‛traente', elaborata più di recente, tende anch'essa a definire il ruolo di un settore industriale in rapporto alle possibilità di crescita di altri settori. Ma si tratta, appunto, di una pura definizione di ruolo: un'industria può essere traente in una situazione e non esserlo in un'altra. È traente, ad esempio, un'industria la quale, sviluppandosi l'esportazione, raggiunga dimensioni tali da creare una domanda interna per altri settori, al punto da permettere il sorgere, all'interno, di questi settori con autonome possibilità di sviluppo (per es. l'industria tessile inglese, nel corso della rivoluzfone industriale, con la domanda di macchinari tessili, impianti per la forza motrice, ecc.). Naturalmente ha maggiori possibilità di svolgere una funzione ‛traente' - qualora possa raggiungere certe dimensioni - quel settore che, per le caratteristiche della sua produzione, ha un elevato bisogno di prodotti industriali disparati e vantaggiosamente producibili entro la stessa area.

La coppia ‛industrie produttrici di beni strumentali-industrie produttrici di beni di consumo' ha invece un significato economico analiticamente più preciso, anche se semplice. È la base degli schemi di riproduzione usati da Marx per spiegare la dinamica espansiva del sistema capitalistico e le condizioni di equilibrio di questa (in tal senso è riferita però all'insieme dell'attività produttiva). Nell'età delle industrializzazioni decise in sede politica, questa distinzione ha ricevuto un rilievo essenziale come base di scelta, sostenendosi la necessità, per un'industrializzazione in grado di autoalimentarsi e di procedere celermente, di una forte preminenza del settore ‛beni strumentali'. Così è avvenuto soprattutto nell'Unione Sovietica, a conclusione di un appassionato dibattito fra economisti e politici negli anni venti e, dopo di allora, negli altri paesi governati dai partiti comunisti. Ma altri casi d'industrializzazione - come quello giapponese - non sembrano confermare la validità di questa tesi, sostenuta per lungo tempo come un dogma nei paesi comunisti (v. pianificazione).

La rilevanza dell'intensità di capitale e dell'intensità di lavoro nei processi produttivi, come criterio distintivo fra le industrie, si pone allo spartiacque della suddivisione che si è qui tentata fra il gruppo di distinzioni tipologiche più funzionali al versante dei paesi in via d'industrializzazione e il gruppo più funzionale al versante dei paesi già industrializzati. Si tratta, in questo caso, del peso proporzionale di un fattore (capitale, lavoro) rispetto agli altri impiegati. Ed è importante notare che tale distinzione si riferisce a processi produttivi più che a ‛settori', vale a dire che, per produrre un medesimo bene possono essere seguiti processi produttivi implicanti una diversa proporzione di fattori: con più o meno capitale o, inversamente, con più o meno apporto di lavoro. Ma, naturalmente, vi sono settori in cui il processo produttivo ha caratteristiche dominanti di un tipo e settori in cui prevale il tipo opposto. La produzione di energia, ad esempio, può essere realizzata con intensità di capitale assai diversa, ma resta nell'insieme un settore ad alta intensità di capitale. Per contro, l'industria tessile può fare un posto più o meno grande a impianti automatici, ma resta, nell'insieme, un settore a elevata intensità di lavoro.

La preferenza per industrie e processi produttivi a più alta intensità di lavoro dovrebbe affermarsi nei paesi in via d'industrializzazione - fatte salve alcune inderogabili necessità di segno opposto - qualora questi, come generalmente accade, scarseggino di capitali, controllino i costi di mano d'opera e si pongano il problema di massimizzare l'occupazione. Questa sembra essere stata, ad esempio, la scelta di fondo operata in Cina negli scorsi decenni. E, nonostante contrastanti propensioni a non rinunciare a industrie di beni strumentali e ambizioni al possesso di tecnologie aggiornate, la forza delle cose tende a spingere quei paesi nella direzione dei processi ad alta intensità di lavoro. Per contro, nei paesi industrializzati da tempo, nei quali il costo del lavoro è elevato, ed è in continuo aumento, si manifesta una tendenza contraria, favorita dalla più elevata disponibilità di capitali propria di tali paesi.

Su tali basi potrebbe orientarsi in futuro una diffusione - finora mancata - dell'industrializzazione nel mondo, seguendo lo schema di una divisione internazionale del lavoro che veda sempre più trasferirsi nei paesi di nuova industrializzazione le produzioni a più alta intensità di lavoro, mentre lo sforzo industriale dei paesi più avanzati potrebbe concentrarsi nei settori e nei processi a più alta intensità di capitale, aventi però anche altre caratteristiche rispondenti a nuove necessità di questi paesi e a particolari attitudini in essi maturate.

Valgono, a comprendere la natura di questo problema, le distinzioni tipologiche del secondo gruppo: il più o meno elevato contenuto di ricerca proprio di un'industria, la sua forza inquinante (industrie ‛sporche', come gran parte delle produzioni chimiche, o ‛pulite', come l'elettronica), il suo grado di ‛novità', che implica la possibilità di contare su un mercato di consumatori a reddito elevato e crescente o su un mercato industriale largamente diversificato.

L'individuazione di questa tendenza nella divisione internazionale del lavoro, nell'età della decolonizzazione, in cui si è messo in movimento un più vasto spazio economico mondiale, ha dato luogo all'enunciazione della cosiddetta ‛teoria del ciclo del prodotto'. Questa parte dall'ipotesi che i prodotti industriali passino in genere da una fase iniziale, tecnologicamente complessa e innovativa, a una fase di maturità e di più facile acquisizione anche da parte di produttori non particolarmente dotati dal punto di vista tecnologico, fino a divenire banali e praticamente alla portata di tutte le economie, anche arretrate. Si avrebbero così, se ci si colloca nell'ottica delle economie industrializzate, prodotti in sviluppo, prodotti maturi e prodotti in declino, e si verificherebbe un progressivo passaggio di tali produzioni dai paesi industriali di avanguardia (come gli Stati Uniti d'America) agli altri paesi industriali, e poi ai paesi in via di sviluppo.

Quest'ipotesi corrisponde indubbiamente a taluni aspetti della divisione internazionale del lavoro che tendono a manifestarsi, in questa fase storica, sulla base di questa duplice premessa: un'accelerazione del progresso delle tecnologie e una diffusione della ricettività all'industria nel mondo. Ma anch'essa è unilaterale, prescinde dai fattori politici, e non può essere considerata, in ultima analisi, che come un altro elemento per una visione comprensiva del fenomeno dell'industrializzazione nel mondo, di cui ancora manchiamo.

6. Conclusione

Lo stadio al quale è giunto oggi, per le sue caratteristiche interne e per i modi della sua diffusione nel mondo, lo sviluppo industriale pone una serie d'interrogativi. Questi investono ora direttamente il futuro dell'umanità, che ne è stata in passato radicalmente influenzata, subendone rilevanti mutazioni biologiche e antropologiche. L'industrialismo ha infatti consentito alle popolazioni presso le quali si è affermato nuove possibilità di vita, generalizzando forme di benessere, di cultura, di comunicazione sociale modellate su quelle che erano un tempo prerogative di una cerchia sociale elevata e assai ristretta. Tale generalizzazione, però, è, nei suoi risultati, cosa diversa dal modello dal quale trae origine, come una proiezione inevitabilmente deformata. Ed è avvenuta e avviene attraverso continui sradicamenti sociali, creando ineguaglianze contigue, cioè a stretto contatto e quindi in facile frizione, determinando gravi disadattamenti. Ciò non sembra favorire, all'interno delle società industriali, il conseguimento di equilibri tali da consentire il pacifico godimento dei vantaggi realizzati, ma piuttosto il crescere di disagi, tensioni, difficoltà di convivenza. Anche sotto il profilo più strettamente economico, all'offerta crescente di beni a prezzi decrescenti o stabili - che caratterizzava il peculiare dinamismo produttivistico dell'attività industriale - si va sostituendo un'industria focolaio di inflazione da costi, e quindi d'instabilità. All'offerta crescente di beni sempre nuovi per una vita più agevole, si va sostituendo una crescente difficoltà di gestione di un paniere statico di beni non più nuovi.

Al tempo stesso il rapporto fra l'area dei paesi prevalentemente industriali e il resto del mondo, nel momento stesso in cui hanno cominciato ad affermarsi le condizioni politiche per una diffusione dell'industrialismo, si è venuto facendo più aspro e conflittuale. Dal colonialismo - forma in cui la gran parte del mondo venne coinvolta unilateralmente e subalternamente nella trasformazione economica provocata dall'industrialismo - si è passati a un sistema di relazioni fra indipendenti ineguali, carico di tensioni. Il coinvolgimento colonialistico del resto del mondo nell'orbita dell'area industrializzata ha sospinto infatti società arcaiche verso la ricerca di nuove strutture, simili a quelle dei paesi colonizzatori, ma senza fornire però ad esse le basi che potessero rendere ciò possibile, tranne che per ristrette enclaves, cioè per le ‛teste di ponte' urbanizzate e modernizzate dal commercio con la metropoli (v. sottosviluppo).

D'altra parte lo sviluppo industriale si è rivelato - alla scala cui è pervenuto - un terribile divoratore di risorse. La sua prosecuzione ai ritmi degli ultimi decenni, e, più ancora, la possibilità di una sua effettiva diffusione equilibrata a livello mondiale sembrano nettamente incompatibili - ferme restando le sue connotazioni tecnologiche presenti - con la disponibilità accertata di risorse. Il che porrebbe un drammatico dilemma fra un improvviso arresto di una macchina costruita per correre e una cinica discriminazione - certamente non praticabile pacificamente - fra aventi e non aventi diritto alla corsa.

I problemi futuri delle società industriali sembrano quindi dispiegarsi su un fronte assai ampio e interconnesso: a) come problemi interni a ogni società industriale; b) come problemi relativi ai rapporti fra i paesi appartenenti all'area industriale; c) come problemi relativi ai rapporti fra l'area industriale nel suo complesso e il resto del mondo. Tali problemi si presentano immediatamente come problemi politici. Le loro dimensioni sono però di tale ampiezza che essi non paiono riconducibili a questioni di pura ‛volontà' politica, ove questa non sia sorretta dai mezzi tecnici per esercitarsi positivamente. Di fatto, però, il dinamismo scientifico e tecnico applicato all'industria e i ritmi di produttività di quest'ultima sembrano attraversare una fase di rallentamento o, quanto meno, di rallentamento relativo rispetto alla velocità con la quale sono cresciuti e crescono i problemi che dal passato sviluppo industriale sono stati e vengono aperti. Sembra segnare il passo soprattutto la capacità di creazione di nuove disponibilità energetiche, nella quale si concentra e si riassume la teleologia stessa del moderno progresso industriale. Questo si è riconosciuto, alle origini, nel mito di J. Watt, che offriva l'immagine di un mondo capace di bandire ogni forma di servitù sostituendola con surrogati meccanici.

Se, e in quale arco di tempo, sia possibile superare questa crisi, oggi non si è in grado di dirlo, nonostante le congetture dei futurologi. È solo possibile dire che il nostro futuro si trova oggi più che mai nelle mani della scienza applicata, quella che ci ha permesso di giungere a questo punto e le cui capacità ulteriori sono condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per trarcene fuori, e in avanti.

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