Indigenismo

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Indigenismo

Antonino Colajanni

La particolare composizione etnica e la stratificazione sociale formatesi nell'America Latina durante i cinque secoli trascorsi a partire dalla Conquista, hanno generato una situazione originale nella quale si sono confrontati, e continuano ancora oggi a confrontarsi, gruppi diversi per tradizioni storico-culturali, linguistiche e anche razziali: le popolazioni indigene, discendenti dagli originari abitatori del continente (che in alcuni paesi dell'area raggiungono circa la metà della popolazione totale), lo strato sociale dominante, che discende dai coloni spagnoli e portoghesi, e infine uno strato sociale formatosi dall'incrocio tra i due precedenti. Le popolazioni indigene assumono, dunque, nell'America Latina un rilievo storico e sociale che non hanno in altri continenti (in Africa, per es., oggi non ha molto senso parlare di indigeni, data la natura diversa dei processi coloniali e la scarsa consistenza del meticciato tra bianchi e neri).

Le popolazioni indigene hanno costituito un problema sociale fin dagli inizi dell'epoca coloniale e durante tutto il processo di formazione dei nuovi Stati nati dalle rivoluzioni nazionali antispagnole dei primi anni dell'Ottocento. Infatti, ogni riforma sociale e ogni tentativo di modernizzare i paesi dell'area, e soprattutto le loro regioni marginali, hanno costituito una sfida per le strategie politiche e sociali degli strati dominanti, perché dovevano fare i conti con le popolazioni indigene che, private di buona parte dei propri territori, si sono mostrate resistenti, nonostante le pressioni ricevute, ai tentativi di assimilazione - linguistica, economica e sociale - nelle nuove società nazionali. Dopo secoli di contrasti e di tentativi più o meno forzosi di assorbimento delle diverse componenti etniche, le società politiche della maggior parte dei paesi dell'America Latina hanno ammesso in epoca recente il pluralismo etnico e culturale come caratteristica fondamentale delle loro formazioni sociali, riconoscendo anzi in esso una ricchezza nazionale da salvaguardare.

L'insieme degli atteggiamenti mentali e culturali delle società latino-americane sul problema indigeno del continente, gli studi e le ricerche sulle identità indigene e sul loro rapporto con gli strati sociali dominanti, e infine le attività pratiche e le proposte sociali e politiche nei loro riguardi (protezione, difesa, promozione sociale e così via) hanno ricevuto nelle scienze sociali (sociologia e antropologia in particolare) la definizione di indigenismo. Essa abbraccia correnti di pensiero filoindigene, movimenti prima intellettuali e poi sociali, gruppi di solidarietà e di promozione sociale che, a partire dalla fine dell'Ottocento, hanno dibattuto sull'immagine, sulla realtà sociale e sul futuro delle popolazioni indigene, fino a farle diventare - in alcuni paesi dell'area - vero 'problema nazionale'. L'i., rinnovatosi e mutato nei suoi caratteri più volte nel corso di circa un secolo, svolge ancora oggi un ruolo indubbiamente rilevante nel panorama sociale e culturale del continente latino-americano.

I processi di cambiamento sociale e culturale dovuti alle influenze esercitate sulle popolazioni indigene dall'azione missionaria, dall'espansione dell'economia monetaria e del lavoro salariato, dalla colonizzazione europea, insieme con gli scarsi interventi governativi in campo scolastico e sanitario, hanno modificato fortemente i modi di vita degli indigeni in tutto il continente fino a generare forme di deculturazione e di disintegrazione sociale. Ma nel complesso le previsioni di alcuni politici e studiosi dei primi del Novecento, secondo le quali le culture indigene sarebbero scomparse in breve tempo, assimilate dalle nuove culture nazionali, non si sono avverate. Processi di resistenza culturale, di sincretismo costruttivo e di ricostituzione e riorganizzazione sociale su nuove basi sono divenuti molto frequenti, cosicché la presenza indigena nei paesi dell'area è rimasta socialmente e politicamente rilevante.

Le statistiche ufficiali sulla presenza delle popolazioni indigene nei diversi paesi dell'America Latina sono spesso poco attendibili e imprecise, anche perché i criteri di identificazione non sono omogenei (essi vanno dal possesso di una lingua indigena o di pratiche sociali e costumi specifici, alla residenza in comunità più o meno differenziate e omogenee, alla coscienza storico-etnica e alla conseguente rivendicazione di una propria identità socioculturale, infine alla dubbia riconoscibilità biologica). Considerando con una certa cautela la presenza di estesi gruppi sociali meticci, che spesso si richiamano al mondo indigeno dal quale provengono, in tabella è indicata approssimativamente la distribuzione della popolazione indigena nei principali paesi del continente latino-americano. Dalla sua lettura appare evidente la posizione di assoluto rilievo delle popolazioni indigene in Ecuador, Perù, Guatemala e Bolivia (oltre metà della popolazione nazionale). Per contro, in paesi come il Brasile, la Colombia, l'Argentina e il Venezuela, le percentuali degli indigeni nella popolazione nazionale sono minime. Eppure, anche in questi paesi il dibattito pubblico e la mobilitazione sociale, intellettuale e scientifica sulla questione degli indigeni sono stati assai rilevanti o addirittura sproporzionati rispetto alla scarsa consistenza numerica dell'elemento indigeno. Ciò conferma l'opinione che in America Latina questo problema investe a un tempo sia il campo economico-sociale sia quello culturale e intellettuale.

L'indigenismo letterario e filosofico-politico

Nel clima culturale e politico che accompagnò le lotte per l'indipendenza delle classi dirigenti latino-americane dai governi di Spagna e Portogallo, le popolazioni indigene divennero un punto di riferimento ideologico e filosofico-politico nel processo di creazione di una coscienza e di un'identità storica autonoma latino-americana in funzione anti-iberica. Numerosi intellettuali del continente contribuirono alla creazione di una figura, spesso artificiale e retorica, di indigeno come 'vero nativo', 'eroe anti-europeo', 'sconfitto, ma vincitore morale'.

Furono per primi alcuni scrittori e letterati che, a partire dai primi decenni del 20° secolo, dedicarono appassionati racconti e romanzi all'epica dell'indigeno - eroe silenzioso che con la sua sola permanenza nel mondo contemporaneo rappresentava più d'ogni altra cosa i limiti del mondo culturale d'origine europea - fondando una letteratura realistica di impegno sociale che segnalava come al cuore del continente latino-americano ci fosse il problema indigeno.

A volte il riferimento agli indigeni è strumentale e si rivela null'altro che un espediente polemico e critico nei confronti delle tradizioni letterarie e culturali europee: è il caso del movimento letterario brasiliano dei primi anni del secolo denominato Tupì or not Tupì (dal nome del gruppo etnico-linguistico Tupì) o del Manifiesto antropofágico di M. de Andrade, del 1928. Come i cannibali Tupì divoravano i loro nemici nei primi anni della Conquista, così i nuovi letterati brasiliani avrebbero divorato le mode letterarie europee, lanciando uno stile proprio e un nuovo modo di fare poesia e narrativa. In modo non molto diverso, nel 1915, il poeta peruviano J. Gálvez, nel saggio Posibilidad de una genuina literatura nacional, rivendicava la straordinaria importanza delle tradizioni indigene e popolari, del mondo folklorico e nativo, come base esperienziale e linguaggio culturale specifico della nuova letteratura del suo paese. Più tardi, la novela indigenista sarebbe divenuta una tradizione letteraria di grande forza espressiva e di grande successo presso il pubblico del continente.

Negli anni Trenta un grande rappresentante dell'i. letterario di ispirazione sociale, votato alla denuncia delle condizioni degli indigeni e alla loro difesa, fu l'ecuadoriano J. Icaza, che con il suo famoso romanzo Huasipungo (1934) ha creato un modello di romanzo sociale filoindigeno. La narrazione di stile epico disegna con chiarezza i problemi pressanti di circa la metà della popolazione ecuadoriana, quella di origine indigena: la struttura latifondista della proprietà terriera con l'indigeno in stato semiservile all'interno dell'organizzazione feudale della hacienda serrana (impresa agricola dell'altopiano), il paternalismo padronale, la base etnica nella formazione delle classi sociali, la continua repressione delle proteste indigene e soprattutto le distanze culturali, ossia le difficoltà di comunicazione tra indigeni e classi privilegiate. In Perù, lo scrittore C. Alegría, anch'egli autore di romanzi famosi, come Los perros hambrientos (1938) e El mundo es ancho y ajeno (1941), continuò il medesimo filone di racconti di impegno sociale nei quali l'indigeno, sconfitto ma dotato di energie primordiali che annunciano un possibile futuro riscatto, viene visto dall'esterno, ossia da appassionati scrittori bianchi e meticci, spesso dotati anche di grande esperienza diretta, come osservatori partecipi della realtà indigena che descrivono nei loro racconti. In anni più recenti, autori come M. Asturias, M. Scorza, J.M. Arguedas hanno continuato in diverse forme questa narrazione densa di informazione sociale e culturale, in cui il mondo indigeno è protagonista assoluto della società latino-americana.

Parallelamente all'i. letterario si faceva strada in molti paesi latino-americani la riflessione politica e politico-filosofica sulle identità nazionali in costruzione e sulle politiche sociali, che attribuiva alle comunità indigene e ai loro sistemi economici e socioculturali una sempre crescente importanza. In Perù, per es., un consistente gruppo di scrittori politici e di intellettuali, rappresentanti di quello che è stato definito il pensiero indigenista (J. Bustamante, M. Gonzáles Prada, L.E. Valcárcel, J.U. García), considerava fondamentale nei programmi politici la componente indigena, protagonista principale del processo di liberazione nazionale e della ricerca di un'autentica identità nazionale incentrata sul mondo andino. Un autore importante come J.C. Mariátegui ha dato, con i suoi Siete ensayos de interpretación de la realidad peruana (1928), un contributo di primo piano alla visione dell'indigeno come protagonista necessario delle lotte sociali e politiche del paese, come simbolo di una tenace resistenza all'oppressione e allo sfruttamento economico-sociale. I problemi della terra e della riforma agraria, delle forme sociali di gestione solidale della vita economica nelle comunas indígenas, degli insegnamenti che ne derivano per il movimento sindacale e per i partiti politici cittadini, vennero infatti affrontati da Mariátegui tenendo fermo il punto che la soluzione del problema indigeno avrebbe di per sé costituito il segno del successo dei movimenti di riforma radicale della società.

L'interesse per le popolazioni indigene negli autori fin qui richiamati si basava su motivazioni intellettuali e politiche che raramente si accompagnavano a un'analisi di ricerca sociale in loco e a programmi specifici, circoscritti e coerentemente pianificati. Gli studi e la conoscenza sul campo delle condizioni di vita delle popolazioni native e la pianificazione del loro miglioramento costituiscono i caratteri propri di una nuova fase dell'i. latino-americano.

L'indigenismo sociale e l'antropologia sociale applicata. - Il precursore di un i. basato sull'esperienza diretta della condizione indigena attraverso viaggi di studio, e attento alla programmazione di interventi di promozione sociale, fu di certo il brasiliano C.M. da Silva Rondon, fondatore del Servizio di protezione agli Indios. Positivista, Rondon era convinto che le popolazioni indigene avrebbero potuto facilmente convivere con il mondo moderno se solo fossero stati loro garantiti un'educazione adeguata, aiuti tecnici, una formazione professionale e un'assistenza sanitaria di base.

In contrasto con coloro che ritenevano fosse impossibile e inutile tentare di guadagnare gli indigeni alla civiltà, per la loro naturale arretratezza e incompatibilità con la modernità, Rondon era convinto che attraverso fasi successive di pacificazione, educazione e integrazione, le popolazioni indigene sarebbero potute entrare a far parte della società più ampia, bianca e meticcia. Dai primi anni del secolo fino al 1938, Rondon percorse infaticabilmente tutto l'interno del Brasile, a partire dal Mato Grosso, dirigendo la messa in opera della linea telegrafica che attraversava i territori indigeni e creando dei Posti indigeni che sarebbero serviti da centri di raccolta e di diffusione di elementi di modernità. In tutto il continente, Rondon fu celebrato e riconosciuto quale principale rappresentante dell'i. romantico. La sua esperienza di ricerca diretta, sia pure attraverso continui viaggi che non consentivano una conoscenza approfondita dei territori indigeni, e la sua cura nello stabilire metodi e tecniche di avvicinamento e di dialogo-scambio con gruppi ostili e isolati contribuirono a stabilire un tipo di i. che programmava forme di intervento e considerava pertinente la ricerca sociale sulle comunità indigene.

A partire dalla fine degli anni Trenta cominciò a svilupparsi, soprattutto in Messico e in Perù, una tradizione di studi sociologici e antropologici in cui l'impegno sociale e politico a favore delle popolazioni indigene si fondeva con la ricerca delle condizioni favorevoli alla modernizzazione e ai processi di cambiamento sociale e di acculturazione. Ciò avveniva mentre in quasi tutti i paesi del continente nascevano istituzioni e centri di carattere sociale finalizzati a favorire la promozione sociale degli indigeni e la loro integrazione a pieno diritto nella società più ampia della quale, spesso solo formalmente, facevano parte. Il riconoscimento del problema indigeno come problema sociale fondamentale favoriva lo sviluppo di questa antropologia indigenista. In Messico A. Caso e G.A. Beltrán, in Ecuador P.J. Alvarado e G.R. Orbe, in Perù L.E. Valcárcel e V.A. Belaunde, sono i primi rappresentanti di questo filone investigativo-applicativo dell'i. latino-americano.

Dagli anni Quaranta si intensificarono gli studi applicativi e i contatti tra studiosi di diversi paesi del continente, mentre aumentavano i tentativi per sensibilizzare i governi e le istituzioni pubbliche deputate alla promozione sociale allo scopo di ottenere tutela, protezione e aiuti economici per le regioni marginali abitate da popolazioni indigene. I primi studi di i. sociale si basavano sulla constatazione del carente sviluppo economico, dell'arretratezza tecnologica, delle deficienze igieniche e degli anacronistici e superstiziosi metodi curativi degli indigeni, spesso all'origine di epidemie e degli elevati tassi di mortalità.

Secondo M. Gamio, compito dell'i. era, dunque, quello di analizzare e valutare le caratteristiche della vita materiale e intellettuale degli indigeni, per poi decidere se conservare e stimolare quelle che apparivano utili e benefiche, estirpare o correggere quelle che apparivano pregiudizievoli, sostituire quelle che sembravano deficienti con altre più efficaci, e infine introdurre molte novità delle quali gli indigeni mancavano e che erano loro indispensabili. Seppure cosciente della difficile questione di stabilire a chi, e con quali criteri, doveva spettare il pesante compito di prendere queste decisioni, Gamio, come molti altri indigenisti, concedeva alle società indigene qualche debole apprezzamento per quanto riguarda la "cosmovisione ricca e suggestiva", o l'originalità nelle espressioni artistiche; ma nel complesso l'impostazione della ricerca e dell'attività di promozione sociale era tutta concentrata su uno sforzo di uniformazione sociale, che consentisse agli indigeni di beneficiare dei vantaggi della società moderna. Infatti, i concetti fondamentali di questa forma di i. sono quelli di incorporazione degli indigeni nella società nazionale, di integrazione sociale, fino all'estremo dell'assimilazione.

In alcune opere era più evidente la rivendicazione enfatica, e a volte retorica, del riconoscimento delle culture e delle tradizioni autoctone come testimonianza di altri modi di vita, che meritavano di essere salvati dall'avanzare della modernizzazione. Più frequente era l'ammissione dolorosa che la modernizzazione fosse inevitabile e che le società indigene dovessero, per sopravvivere, cambiare radicalmente, e di conseguenza negare se stesse. Molti indigenisti consideravano se stessi come mediatori culturali, i quali dovevano favorire un processo di adattamento alla società dominante, e quindi di trasfigurazione etnica, lento e non drammatico, non distruttivo, non disgregativo. Essi dovevano assicurare la comunicazione tra i due fronti, attenuando i contrasti, i conflitti, le incomprensioni. È chiaro che i processi di decentralizzazione ammministrativa, di introduzione della scolarizzazione di massa, di creazione di un sistema medico nazionale, di definizione dei diritti sulla terra in vista dell'impegnativa attuazione di riforme agrarie, comprendenti anche la modernizzazione tecnologica dell'agricoltura, riguardavano in modo particolare le società indigene in tutti i paesi latino-americani. Si diede così inizio a un processo di pedagogia sociale e di progressivo assorbimento degli indigeni nel tessuto sociale medio nazionale che, sebbene migliorasse in buona parte le condizioni di vita di gruppi marginali prima trascurati, aveva tuttavia anche un carattere di 'deculturazione pianificata'. Tra le opere più rilevanti di questo orientamento vale la pena di ricordare la monografia di G.R. Orbe, Punyaro. Estudio de antropología social y cultural de una comunidad indígena y mestiza (1956), e quella di G.R. Villavicencio, Relaciones interétnicas en Otavalo. ¿Una nacionalidad india en formación? (1973), e infine il saggio di G.A. Beltrán, Regiones de refugio. El desarrollo de la comunidad y el proceso dominical en mestizo América (1967).

Il processo aveva assunto presto un carattere continentale, mostrando consistenti parallelismi tra i diversi paesi dell'area. Ciò accadde a partire dal 1940, anno in cui fu convocato a Pázcuaro (Messico) il primo Congresso indigenista interamericano, al quale intervennero studiosi, politici, intellettuali e promotori sociali di tutto il continente, interessati a fondare un programma comune e coordinato volto a migliorare le condizioni delle popolazioni indigene. In quell'occasione venne fondata un'istituzione internazionale di coordinazione delle politiche indigeniste, l'Istituto indigenista interamericano, con sede a Città di Messico e legato alla Organización de los Estados Americanos (OEA). Vennero anche fondati numerosi istituti indigenisti nazionali (legati come uffici semiautonomi a diversi ministeri nei diversi paesi). L'istituto di Città di Messico pubblicava una rivista specializzata (América indígena) che da allora cominciò a ospitare risultati di ricerche, dibattiti teorici e politici, discussioni metodologiche, campagne di promozione e di difesa delle società indigene del continente. L'Istituto si dedicò anche alla promozione e all'uniformazione della legislazione indigenista in difesa dei diritti delle popolazioni indigene. Attraverso la fondazione di analoghe riviste nazionali, cominciò dunque a imporsi una produzione di contributi indigenisti che realizzava un'originale combinazione tra antropologia sociale applicata, attività di promozione sociale e di servizio sociale, studi sulle identità nazionali e sulle identità indigene in trasformazione.

I caratteri comuni dell'i. sociale consistevano in una visione 'integrazionista' delle società indigene (che, come si credeva, si sarebbero presto trasformate radicalmente per essere riassorbite nella nuova cultura nazionale mista) e nella prevalenza del punto di vista esterno, quello, cioè, di intellettuali, studiosi e promotori sociali provenienti dalla società di vertice, con nessuna o scarsa partecipazione diretta delle popolazioni indigene. A partire dai primi anni Settanta il quadro dell'i. del continente muta in maniera radicale. Si fanno strada punti di vista critici e conflittuali nei confronti della società dominante e si registra una sorprendente persistenza di diversi aspetti sociali e culturali delle società indigene; si registrano anche processi di ri-definizione etnica, e si affermano in tutta l'America Latina strutture associative e organizzative nate dai diversi gruppi indigeni, che propongono nuove forme di rivendicazionismo globale e radicale, assumendo progressivamente una posizione di protagonismo nei confronti dell'i. ufficiale di studiosi, promotori sociali e governi.

Il neoindigenismo critico: dall'indigenismo tradizionale alle organizzazioni indigene

A seguito dei cambiamenti significativi dei primi anni Settanta, le nuove organizzazioni indigene iniziarono a gestire in prima persona il processo di emancipazione, la difesa dei diritti e della cultura delle popolazioni indigene, avviando per la prima volta un dialogo formale con le istituzioni statali e internazionali. Il problema indigeno del continente iniziava dunque a essere visto dall'interno, attraverso il protagonismo attivo e la voce degli stessi interessati, mentre volgeva rapidamente a conclusione la fase paternalistica e pedagogica, durante la quale l'immagine dell'indigeno era stata prodotta sostanzialmente da non-indigeni. Questo processo, consistente nel passaggio dall'i. classico all'indianismo e dall'i. pubblico-statale al protagonismo delle organizzazioni indigene, è inoltre connotato dalla rivendicazione di una parte consistente del passato precoloniale.

Nella loro maggioranza le organizzazioni indigene sono di carattere locale, essendo formate dai rappresentanti di diverse comunità di un solo gruppo etnico (sono cioè organizzazioni di primo livello); ma vi sono anche organizzazioni composte dai rappresentanti di diversi gruppi di ambito regionale (organizzazioni di secondo livello); non mancano, inoltre, organizzazioni di carattere internazionale, che riuniscono gruppi di aree estese, per es. dell'area amazzonica o andina, o dell'intero continente (organizzazioni di terzo livello).

Le organizzazioni indigene riescono a ottenere fondi da enti internazionali e dai governi europei e statunitense, sia direttamente sia attraverso la mediazione di numerose organizzazioni non governative, e spesso gestiscono in proprio progetti di sviluppo che attribuiscono particolare importanza alla protezione delle loro culture e a diverse strategie miranti alla loro rivitalizzazione.

Questa fase più recente dell'i. latino-americano è inoltre caratterizzata da un crescente riconoscimento, da parte di governi e istituzioni pubbliche e private, delle forme locali di organizzazione sociale, dei diritti consuetudinari indigeni e della partecipazione comunitaria alle difficili scelte imposte dai processi di modernizzazione. Rimane in buona parte fuori dai riconoscimenti formali il problema centrale della condizione indigena, quello concernente l'acquisizione di diritti certi e definitivi sulla terra, soprattutto per i gruppi che non beneficiano di riserve e di spazi adeguati (la maggior parte delle terre sono già state sottratte agli indigeni nel corso degli ultimi secoli). Solo alcuni paesi, come la Colombia e, in parte, la Bolivia, hanno attuato in tempi recenti politiche di riconoscimento di diritti territoriali, nelle quali, soprattutto nella regione amazzonica, si somma spesso la duplice protezione di aree riservate agli indigeni e di parchi naturali.

Gli aspetti teorici e politici del nuovo i. sono stati affrontati con grande impegno da numerosi teorici indigeni, i quali si sono anche sforzati di proporre reinterpretazioni aggiornate delle tradizioni precolombiane che possano servire da base per l'azione politica futura.

Valgano come esempio alcuni degli interventi ai due seminari organizzati nel 1982 e nel 1986 dalle organizzazioni indigene facenti capo al Consejo Indio de Sud América (CISA), su 'Filosofia, ideologia e politica dell'indianità'. Per quanto riguarda la Bolivia, va ricordato che una recente ricostruzione storica delle elaborazioni teoriche e delle proposte politiche presentate dagli indigeni negli ultimi venticinque anni rende giustizia del protagonismo attuale dei discendenti delle popolazioni precolombiane (D. Pacheco, El indianismo y los indios contemporáneos en Bolivia, 1992).

Al protagonismo delle organizzazioni indigene fa riscontro, fin dai primi anni Settanta, un rinnovamento radicale delle posizioni dell'i. di alcuni studiosi e politici latino-americani, che hanno adottato posizioni critiche e non-integrazioniste, basate sul riconoscimento di spazi politici e sociali di decisione alle popolazioni indigene e sul carattere dinamico e ricostruttivo delle culture indigene.

Per es., l'antropologo messicano G.B. Batalla, criticando la visione romantica tendente a idealizzare le culture indigene e a ridurne la specificità a una serie più o meno ampia di tratti folklorici, ha elaborato la nozione di cultura propria, riferita ai gruppi indigeni, come relazione specifica con la propria collettività, basata sulla capacità sociale di decidere sull'uso delle risorse culturali. In tal senso un gruppo indigeno è culturalmente differenziato perché mantiene e genera progetti propri nel corso delle sue relazioni dinamiche con la società esterna, lottando per mantenere e accrescere il controllo sulle proprie risorse culturali. Gli sforzi per il recupero culturale dei popoli indigeni e per l'autonomia e l'autogestione politico-sociale sono quindi connessi con il fenomeno molto diffuso della resistenza culturale.

Un gruppo consistente di studiosi dissidenti e radicali si impegnò a partire dal 1971, assieme ad alcuni rappresentanti di organizzazioni indigene latino-americane, a disegnare i principi e i metodi del nuovo i., che non mancava di mettere in discussione l'intervento dei governi, gli interessi dei privati, le ricerche degli antropologi e l'azione dei missionari. La Declaración de Barbados, di quell'anno, fu il primo documento del genere. In un volume che conteneva proposte teoriche, critiche politiche e analisi di casi (Indianidad y descolonización en América Latina, 1979), la Seconda riunione di Barbados (1978) ribadiva le posizioni neoindigeniste, e proponeva per la prima volta un nuovo e importante concetto, quello di etnosviluppo, che sarebbe diventato presto centrale nelle nuove elaborazioni e metodologie di azione. Nel 1982, nella Declaración de San José, che fu al centro di un incontro continentale i cui atti sono stati pubblicati nel volume América Latina: etnodesarrollo y etnocidio (1982), il concetto di etnosviluppo fu definito come "l'ampliamento e il consolidamento degli ambiti di cultura propria, attraverso il rafforzamento della capacità autonoma di decisione di una società culturalmente differenziata, per guidare il proprio sviluppo e l'esercizio dell'autodeterminazione", il che implica anche un'organizzazione equa e adeguata del potere. Questo significa che "il gruppo etnico è l'unità politico-amministrativa che ha autorità sul proprio territorio e capacità di decisione negli ambiti che costituiscono il proprio progetto di sviluppo nel quadro di un processo di crescente autonomia e autogestione". Altri concetti fondamentali proposti in quell'occasione furono i concetti di etnocidio (distruzione del patrimonio culturale di una società indigena e sua sostituzione con patrimoni culturali alieni e spesso non adatti o non utili al processo storico autonomo), di diversità culturale e di pluralismo culturale.

Nel 1993 venne organizzata una Terza riunione di Barbados, nella quale, fatto il punto sul nuovo i. latino-americano, furono affrontati, sia a livello teorico sia attraverso analisi di casi concreti, i principali problemi della condizione degli indigeni negli anni Novanta, dalla crisi ambientale alla difesa dei diritti umani, dalle critiche al neoliberismo di buona parte dei governi latino-americani al problema delle nuove povertà, delle migrazioni interne e internazionali, del riconoscimento dei diritti formali sulle terre, della violenza sociale e dei conflitti interni (spesso le popolazioni indigene, per es. in paesi come la Colombia e il Guatemala, e più recentemente il Chiapas, si sono trovate in un difficile equilibrio fra due fuochi: l'esercito e i gruppi paramilitari, da una parte, e i gruppi di guerriglieri, dall'altra).

I temi che hanno acquistato maggiore risalto negli atti della Terza riunione di Barbados (Articulación de la diversidad, 1995) sono stati: la pluralità etnica e il pluralismo, come orientamenti necessari per il futuro dell'America Latina, di contro ai processi di uniformazione propri della globalizzazione; le autonomie etniche e locali, nel quadro delle dinamiche di decentralizzazione amministrativa che accompagnano la crisi organizzativa dello Stato nazionale; la democratizzazione e la più intensa partecipazione popolare alle decisioni, che nelle aree indigene assume un'importanza e un rilievo maggiori che altrove.

La rivendicazione politica e la richiesta di spazi di autonomia e autogestione locale sempre più ampi appaiono, dunque, come caratteri propri dell'i. più recente. Ma a lato delle rivendicazioni puramente politiche è nato di recente un filone più ampio e integrale di produzione letteraria, di estrazione indigena, sulle società native e sulla loro condizione attuale, che riesce a fondere in maniera ottimale l'esperienza e il racconto personale con la descrizione degli interessi politici e la denuncia delle sopraffazioni che storicamente le società indigene del continente hanno dovuto subire, e ancora oggi subiscono.

I due livelli indicati sono mirabilmente fusi nell'opera Moi, Rigoberta (1983; trad. it. Mi chiamo Rigoberta Menchú, 1987), autobiografia di una indigena maya-quiché del Guatemala che è a un tempo una storia di vita intessuta di dati esperienziali e di punti di vista indigeni riguardo alla situazione sociale del paese e delle sue popolazioni, e un durissimo atto di accusa politico contro le forme di discriminazione e di violenza diretta e indiretta subite dalle popolazioni indigene. Un più recente lavoro della Menchú, Rigoberta, la nieta de los Mayas (1998; trad. it. Rigoberta. I Maya e il mondo, 1998) è un altro esempio di i. autobiografico e narrativo, che non cessa per questo di essere ricco di informazioni e di prospettive provenienti direttamente dalle popolazioni interessate.

La presenza sempre più attiva dei rappresentanti delle popolazioni indigene nei luoghi e momenti di decisione politica ha conferito progressivamente alla questione indigena un'importanza a livello mondiale. Negli ultimi anni, infatti, sempre più ampia è stata la considerazione e lo spazio di intervento attribuiti alle organizzazioni indigene nell'ambito degli organismi internazionali. Nelle più importanti riunioni e congressi su temi ambientali e di discussione critica sulle strategie dello sviluppo sono numerosi gli interventi di rappresentanti indigeni. La FAO, l'OMS, l'UNESCO e la Banca mondiale hanno cominciato ad ammettere la partecipazione di indigeni alle riunioni e alle discussioni su argomenti che li riguardano. Ma è soprattutto la International Labour Organization (ILO) quella che ha mostrato la più grande sensibilità verso queste problematiche. Nel 1989 è stata infatti approvata, dopo un lungo lavoro preparatorio che ha coinvolto numerose organizzazioni indigene latino-americane, la Convenzione internazionale nr. 169 sui popoli indigeni e tribali nei paesi indipendenti, che è stata poi ratificata e introdotta stabilmente nelle legislazioni nazionali di molti paesi del continente. Il documento affronta tutti gli aspetti di tutela, protezione e riconoscimento di diritti speciali per le popolazioni indigene, oltre a quelli comuni, ai diritti umani e sociali propri di tutti i cittadini. A partire dagli anni Novanta è inoltre attivo, a Ginevra, un gruppo di lavoro delle Nazioni Unite che si occupa dei problemi indigeni e che sta elaborando una Dichiarazione universale dei diritti delle popolazioni indigene.

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