Il Rinascimento. L'alchimia

Storia della Scienza (2001)

Il Rinascimento. L'alchimia

Chiara Crisciani
Michela Pereira
Wolf-Dieter Müller-Jahncke

L'alchimia

L'alchimia fra Medioevo e Rinascimento

di Chiara Crisciani, Michela Pereira

Alla fine del XIV sec. l'alchimia latina si presenta consolidata in tre correnti principali, tra le quali, peraltro, si riconoscono nessi e potenzialità per una più organica unificazione: il progetto di trasmutazione ‒ esclusivamente metallurgico ‒ che fa capo alla Summa dello Pseudo-Geber (Paolo di Taranto); l'alchimia dell'elixir, elaborata nei testi attribuiti a Raimondo Lullo e ad Arnaldo da Villanova, che mira a produrre un agente di trasformazione più generale, in grado di perfezionare i metalli, di favorire la crescita dei vegetali e soprattutto di promuovere la salute e il prolungamento della vita dell'uomo; infine, con Giovanni di Rupescissa, lo sviluppo di procedure di distillazione a partire da ingredienti organici e inorganici (alchimia della 'quinta essenza'), linea, questa, decisamente orientata a fini farmacologici e terapeutici, che costituiranno la caratteristica fondamentale del successivo rinnovamento paracelsiano.

All'interno di queste correnti vengono sviluppate articolate dottrine e teorie d'insieme, forti e coerenti, in uno sforzo di elaborazione filosofica che verrà assai ridimensionato nel Quattrocento, traducendosi nelle forme, solo apparentemente divergenti, della parcellizzazione e semplificazione per fini divulgativi e del sincretismo dottrinario. Al forte impulso teorico si viene così sostituendo una consistente presenza di trattatistica alchemica diffusa e visibile a vari livelli, più identificabile nelle sue stratificazioni sociali. Mentre, dunque, nell'età di transizione dal Medioevo al Rinascimento l'alchimia appare più 'normale' e pertanto divulgabile, i suoi obiettivi divengono più indefiniti, fino a consentire accostamenti, per un verso, con la magia, per l'altro, con pratiche artigianali, aprendosi alle varie configurazioni che il sapere alchemico assumerà nel Cinquecento.

La diffusione dei testi alchemici (1350-1500)

Una considerazione d'insieme dei dati relativi all'età successiva al 1350 mostra l'allargarsi della ricerca alchemica e, contemporaneamente, il formarsi di linee di tradizione attorno ad alcuni autori come Alberto Magno, Arnaldo da Villanova, Raimondo Lullo, Ruggero Bacone, Tommaso d'Aquino. Aumenta la circolazione dei testi d'alchimia, molti dei quali però sono nuovi solo in apparenza; spesso composti attraverso lo smembramento e la ricomposizione di opere più antiche, risultano in realtà quasi privi di novità per quanto riguarda il contenuto.

Inoltre, a partire dai primi anni del XV sec., si assiste a un incremento numerico di manoscritti alchemici, che raggiunge il suo apice negli anni 1450-1480 (anche se il numero complessivo dei codici di opere d'alchimia rimase costantemente al di sotto dei livelli di quelli relativi a discipline come la magia e l'astrologia), come mostrano studi recenti che evidenziano anche la presenza nelle biblioteche di personaggi di rilievo dell'età umanistica e del primo Rinascimento. Per esempio, Amplonius Ratinck, Niccolò Cusano, il cardinale Bessarione, Galeazzo Facino, Hartmann Schedel, Giovanni Aurelio Augurello possedevano manoscritti d'alchimia, così come i medici Giovanni Marcanova, Pietro Leoni, Nicolaus Pol, Niccolò Leoniceno.

Esemplare testimonianza dei cambiamenti avvenuti nell'alchimia latina è un anonimo manoscritto del 1475 ca., conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia, intitolato Conversatio philosophorum. In esso viene tracciata una sorta di storia della tradizione alchemica, che ‒ dopo aver elencato gli autori antichi (sostanzialmente appartenenti alla tradizione islamica) e i 'moderni', fra i quali Lullo e Arnaldo da Villanova, considerati come ultimi esponenti dell'alchimia veritiera ‒ così descrive la situazione quattrocentesca:

un altro gruppo quasi infinito di numero, ma veramente pessimo, pieno di mentitori […] che dietro una bandiera fraudolenta e ingannatrice sconfiggono re e principi e nobili e gente di qualunque stato, spogliandoli di tutto con i loro imbianchimenti sofistici e con le loro molteplici tinture e ingannandoli […] componendo libri menzogneri cui danno come titolo il nome di degni filosofi, giurando sul vangelo per poter ottenere compensi, mentre ogni loro parola è una menzogna. (f. 156v)

All'aumento dei seguaci dell'alchimia corrisponderebbe dunque un abbassamento del livello qualitativo della ricerca e un suo scadere nella frode, testimoniato, circa negli stessi anni, anche nel Liber duodecim portarum di George Ripley.

Questa società s'è invaghita della nostra pietra e ritiene con essa di arricchirsi più del re, anzi addirittura vogliono aiutarlo affinché non sia costretto a svendere i suoi beni per vincere la Gallia […] Spettacolo incredibile la cattedrale di Westminster, in cui questi filosofi si radunano spesso, e possono vantarsi di tante ricchezze che mostrano orgogliosamente […] Il popolo sciocco li venera e li segue, convinto di ottenere così grandi ricchezze […] I ministri di giustizia li cercano dappertutto, i mercanti e gli orafi li stanno a guardare […] li cacciano come i gatti cacciano i topi, convinti che guadagneranno un tesoro così immenso che la loro ricchezza non avrà mai fine. (Opera omnia chemica, pp. 50-51)

Queste testimonianze confermano l'impressione che nel corso del XV sec. il sapere della trasmutazione e dell'elixir divenne materialmente accessibile a un numero sempre più grande di persone, nonostante il carattere segreto delle dottrine alchemiche. La caduta della tensione teorico-innovativa, propria dell'alchimia tardo-medievale, è del resto confermata dalla constatazione che gran parte dei codici contengono testi operativi, sia che si tratti di capitoli o di parti di scritti più complessi, sia che si tratti di opere nuove.

La circolazione dei manoscritti alchemici sembra essere un riflesso della diffusione più ampia dell'alchimia nella società, a livelli diversi, cui fa riscontro d'altra parte l'opposizione istituzionale, testimoniata per esempio dai divieti emanati da varie autorità, come la corona inglese (1403-1404) oppure i governi di città quali Norimberga (1492) e Venezia (1488). Allo stesso tempo, la polemica fra 'veri' e 'falsi' alchimisti si inaspriva nel momento in cui il sapere della trasmutazione o dell'elixir diventava materialmente accessibile al di fuori degli ambienti ristretti che ne costituivano l'alveo tradizionale.

Di questo ambiguo successo è un chiaro segno anche la diffusione di tecniche e ritrovati alchemici (in particolare la distillazione) in ambienti professionali diversi, a cui però fa riscontro l'interesse a distinguersi esplicitamente dagli alchimisti di quanti utilizzavano per altri scopi (medici, artigianali, artistici) i 'segreti' della stessa alchimia.

La dispersione e la moltiplicazione di scritti alchemici si riflette, per contrasto, nell'emergere di un interesse storico e 'filologico' nella seconda metà del Quattrocento, testimoniato da una parte dalla redazione di bibliografie alchemiche, dall'altra dalla preparazione di grandi e lussuose raccolte manoscritte, i cui committenti sono spesso medici o alchimisti legati alle corti. Questi splendidi codici membranacei, spesso miniati, sono evidentemente tutt'altra cosa rispetto ai libri, in genere cartacei e di piccolo formato, che gli alchimisti portavano con sé nei loro viaggi o tenevano a fianco delle apparecchiature di laboratorio. Essi testimoniano di una committenza potente, interessata ai risultati concreti dell'alchimia, anche se non sempre direttamente coinvolta nel loro ottenimento. Questo tipo di utilizzazione costituisce, probabilmente, l'anello centrale di quel passaggio dal laboratorio alla biblioteca che caratterizza un ramo della ricerca alchemica nella transizione fra Medioevo e Rinascimento. Essa è esattamente speculare alla utilizzazione delle conoscenze pratiche degli alchimisti nella nascente letteratura di 'segreti'.

Le grandi raccolte manoscritte sono perlopiù, ma non esclusivamente, costruite sui testi che la Conversatio philosophorum attribuiva ai 'moderni'. Non mancano però esempi di raccolte dello stesso livello in cui compaiono in gran numero scritti di autori 'minori', o, forse più semplicemente, non coperti dall'uso di uno pseudonimo: per es., il ms. Rylands lat. 65 della Public Library di Manchester, affianca ai 'classici' Hermes, Geber latino, Turba philosophorum, Giovanni di Rupescissa, personaggi minori come Pietro da Silento, il 'magister Vemaldus', 'Uguiccius'.

Il fattore quantitativo, insieme all'incerto statuto dell'alchimia e all'aura di sapere segreto di cui essa si era circondata da sempre, sembra anche all'origine dello scarso interesse mostrato dagli stampatori per i testi alchemici; gli incunaboli alchemici sono rarissimi e la diffusione a stampa dei testi medievali più importanti ebbe inizio solo nel XVI sec. inoltrato. Gli editori delle prime grandi raccolte cinquecentesche privilegiano la pubblicazione di 'classici' ‒ Geber (Ǧābir ibn Ḥayyān), Lullo, gli Arabi ‒ cui affiancano pochi testi composti nel corso degli ultimi centocinquant'anni (Cristoforo da Parigi, Guido di Montanor), spesso in funzione illustrativa-integrativa.

Dalla dedica del ms. BR 52, conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, apprendiamo che mettere insieme una raccolta di testi alchemici non era impresa semplice, dal momento che le opere ivi copiate "si trovavano, frammentate e lacerate, quasi dappertutto […] e ce ne sono altre di cui non abbiamo notizia o che giacciono nelle mani di gente che non ne conosce il valore" (Aura opera, f. 5r). Lo sforzo dei compilatori poteva arrivare fino a copiare, fianco a fianco, versioni diverse dello stesso testo fatte venire magari da paesi lontani, o a produrre una sorta di 'testo a fronte' in lingue diverse, come fece l'inglese John Kirkeby nella sua grande raccolta pseudolulliana conservata nel ms. 244 del Corpus Christi College di Oxford.

Nei manoscritti quattrocenteschi, inoltre, troviamo alcuni fra i primi esempi di iconografia alchemica, spesso connessi a testi di età precedente (come nei diagrammi dei testi pseudolulliani), ma contraddistinti soprattutto da un contenuto dottrinale o simbolico più che da istruzioni per la pratica. A questo proposito ci sembrano significativi e paradigmatici il Libro della santissima Trinità e l'Aurora consurgens (Aurora sorgente), che rappresentano l'emergere dell'allegoria alchemico-religiosa, testimoniando in tal modo la complessità dell'approccio alle dottrine della trasmutazione e la loro incipiente polivalenza culturale. In questi testi si rafforza la connessione fra parola e immagine, che diverrà un carattere distintivo dell'alchimia rinascimentale e barocca, soprattutto nei suoi sviluppi simbolici e occulti e che, a partire dal XVI sec., troverà espressione nella contaminazione fra arte e alchimia. Meno coinvolti in questo processo, invece, saranno gli sviluppi paracelsiani, più legati all'aspetto operativo e alle dottrine che ne rendono conto.

I manoscritti miniati quattrocenteschi d'alchimia sono indubbiamente una delle testimonianze ‒ assieme all'uso del linguaggio poetico ‒ del mutamento di strategie linguistiche di quest'arte dopo la sua emarginazione dal novero delle discipline scientifiche (che taluni considerano piuttosto causa di un vero e proprio occultamento), sancita dagli ambienti scolastici ma sostanzialmente priva di effetto nelle corti e negli ambiti intellettuali più innovatori, come la Firenze medicea. Proprio per questo, per tutto il Quattrocento, non si può certo parlare dell'alchimia come di una 'scienza occulta'; del resto, durante tutta l'età rinascimentale perdura l'interesse da parte di filosofi e scienziati per i vari aspetti della ricerca alchemica, e non solo per il suo versante simbolico.

La diffusione dell'alchimia e l'interesse che essa suscita da parte di un pubblico più ampio sono favoriti e testimoniati dal diffondersi di una letteratura alchemica nelle lingue nazionali, sia attraverso traduzioni di testi latini, sia attraverso la produzione di testi originali. Tuttavia, tale processo di volgarizzamento non è unanimemente condiviso, perché si teme una diffusione dell'alchimia in ambienti impropri, come ben mostra Cristoforo da Parigi, che vuole mantenere il carattere riservato e dotto del sapere alchemico.

Pur essendo infatti l'autore di testi espositivi (in latino) e di epistole alchemiche, scritte in italiano, afferma nell'Elucidarius che "non sveleremo totalmente l'arte per non agire scorrettamente, ma la insegneremo in modo che nessuno dell'infima feccia del volgo ci possa imitare […] se fra mille artisti anche uno solo giungesse alla conoscenza dell'arte, sarebbe abbastanza […] queste cose spettano infatti soltanto a quanti conoscono bene il latino ed hanno una provata conoscenza della filosofia e delle arti naturali" (pp. 196, 210).

Che l'alchimia fosse ben presente ‒ come tradizione consolidata ma anche come sapere di fatto circolante ‒ anche ai filosofi naturali esponenti della cultura universitaria, è dimostrato dal perdurare dell'utilizzazione di materiali alchemici nei dibattiti sul 'misto' e nei commenti ai Meteorologica di Aristotele, che in qualche modo portano avanti la quaestio de alchimia (questione sull'alchimia) promossa nei due secoli precedenti. Per esempio, Pietro Pomponazzi nei suoi corsi sui Meteorologica sviluppa lectiones sull'alchimia, legandola sia al problema della magia, sia al tema più generale dei rapporti tra Natura e arte. Pomponazzi non soltanto si mostra al corrente delle discussioni scolastiche, ma anche dell'esistenza di testi della tradizione alchemica (Ermete e Ortolano, ma anche autori recenti), nonché di pratiche operative contemporanee. Tuttavia egli mantiene la cautela mostrata in proposito da Alberto Magno e Temone l'Ebreo; come quest'ultimo, e con motivazioni simili, appare incerto sul giudizio da dare riguardo a quest'arte. L'alchimia gli appare infatti probabilis ad utrumque (probabile in ogni caso) da un punto di vista argomentativo, mentre non considera incredibili gli experimenta che egli stesso riporta; pertanto conclude: "Credo che possa essere, ma è difficile da conoscere". Come i suoi predecessori, egli è comunque attento alle implicazioni economiche e politiche dell'arte alchemica, e ne rileva, forse con ironia, la giusta linea di riservatezza: "Che cosa stabilirò dunque su questa questione? Vi dico che se lo sapessi fare [l'oro] non ve lo insegnerei" (Osimo, Biblioteca del Collegio Campana, ms. 45, Expositio in libros Metheororum, f. 125v).

I generi letterari

Nella letteratura alchemica medievale erano più o meno riconoscibili tutti i generi letterari presenti nelle discipline teorico-operative, come la medicina. Segno dell'adesione a condivise tecniche di trasmissione del sapere, i generi mantengono però peculiarità ascrivibili, appunto, alla specificità del sapere alchemico e alla sua non istituzionalizzazione, come si può notare nella permanenza degli espedienti retorici dell'epistola, del dialogo e dell'enigma. Essi segnalano, anche stilisticamente, l'esigenza di una comunicazione non neutra e universale ma selettiva e protetta, che si rafforza nei testi che adottano la cornice della visio (visione) e del somnium (sogno) e nell'utilizzazione dell'iconografia a fini didascalici e simbolici.

In generale, tali considerazioni valgono anche per la letteratura alchemica del Quattrocento. Tuttavia, la più marcata frequenza di certi generi, la presenza di alcune consistenti varianti e l'avvento di vere e proprie novità segnano l'alchimia di quest'epoca con i caratteri di diffusione e di dispersione e insieme di assestamento e di continuità che sono stati già indicati. Il contesto culturale non statico, meno rigido e più ricco di orientamenti, in cui, in questa fase, la letteratura alchemica si assesta, consente che tale sapere si diffonda più facilmente, rendendosi visibile e circolando come un sapere 'normale'.

Le ricette, e le loro raccolte, restano abbondantissime; talvolta monotematiche, più spesso rientrano in ricettari più vasti (cosmesi, tecniche artistiche, vetreria, e così via). Si sviluppa ampiamente ‒ come si è detto in precedenza ‒ l'iconografia. Ancora ben viva è l'argomentazione per quaestiones sia in commenti universitari e testi curriculari, sia in forma isolata, sia, infine, inserita in trattati più ampi. Del resto, ancora nel Cinquecento, Benedetto Varchi ricorrerà a questo approccio per valutare lo statuto e i programmi dell'alchimia. Come avviene più in generale nella letteratura filosofica, è particolarmente diffusa la scrittura epistolare, che talvolta rinvia ad autentici scambi di lettere, come quello intercorso alla fine del Trecento fra Tommaso da Bologna e Bernardo di Treviri. Potrebbero rientrare in questo gruppo diversi testi conservati in manoscritto e messi in luce da Dorothea Waley Singer, Lynn Thorndike, Zweder von Martels: l'epistola di Gerardo di Morangia d'Aquitania ad amicum suum, le missive divulgative di Cristoforo da Parigi (o da Perugia) a Cristoforo da Recanati e Andrea Ogniben, patrizio veneziano, l'epistola che chiude il Breviarium Johannis. In altri casi l'epistola va intesa o come trattatello (quella di Antonio di Abbazia e quella del Magister Antonius Marini de Delfinatu … de transmutatione metallorum) oppure come la cornice di dedica di trattati e opuscoli a illustri personaggi, come la 'falsa' missiva, riportata in una raccolta del 1475, sugli aspetti medicali dell'elixir che Cosimo de' Medici avrebbe scritto a Pio II.

Pochi sono i commenti, quasi totalmente assenti nell'alchimia medievale, e di tipo ben diverso da quelli scolastici, quasi a sottolineare il carattere non istituzionale dell'expositio alchemica. La stratificazione di opinioni sul testo d'autore, che la didattica delle scuole impone, è assente dai commenti alchemici, i quali si dispongono, se mai, in maniera paritetica nei confronti del testo da commentare. Per scarsa che possa al momento apparire la presenza stessa di commenti ‒ per esempio, la serie di commenti alla Tabula smaragdina, il commento al Rosarius di Bernardo Gama o de Grava, le glosse anonime alla Pretiosa margarita di Pietro Bono da Ferrara, le note di commento a testi di Alberto Magno stese da Jacques Foulon, infine, ma siamo già nel Cinquecento, l'Expositio di Giovanni Bracesco a Geber, interpretato sulla scorta di un confronto con 'Lullo' ‒ indica che si stabilizza e si amplia una sorta di canone di testi e di autori di base, particolarmente accreditati come portatori di linee dottrinarie consolidate e suscettibili di approfondimento.

Altro segno sicuro dell'assestamento di un sapere che, pur non istituzionale, è ormai percepito come una presenza normale nel contesto culturale, sono i trattati manualistici e i compendi. I trattati presentano ordinatamente l'insieme di un sapere ormai accumulato, differenziandosi dalla trattatistica medievale per il prevalere del carattere informativo sulle esigenze dell'esposizione teorica e precettistica. La Summa di Guillaume Sedacer (fine XIV sec.), per esempio, segue un 'indice' più dilatato rispetto alla pur individuabile teoria e precettistica che l'autore propone, dove è particolarmente significativa la riflessione teorica e operativa sul vetro. L'autore del Totum continens (1450) si prefigge già nel titolo, che richiama quello del celebre manuale medico di Rhazes, una completezza di trattazione che l'indice del testo conferma, anche se poi il contenuto si rivela assai vicino al Rosarius arnaldiano. L'Elucidarius di Cristoforo da Parigi, opera espositiva, sceglie sì una linea dottrinaria (sincretistica anche se segnata da una forte ammirazione per Lullo), ma non si limita a proporla, la incornicia e la correda con notizie sulla tradizione alchemica, con definizioni comparative dell'alchimia, quaestio preliminare sulle obiezioni contro l'arte, con considerazioni etico-politiche sui suoi fini e sulla sua utilità. A questa ampiezza e varietà di contenuti fa riscontro il fenomeno, cui si è già accennato, del costituirsi dalla metà del Quattrocento delle prime raccolte manoscritte in cui i singoli testi possono essere intesi come capitoli di un esauriente 'manuale dell'arte'.

Quanto al compendio, è forse la forma più appropriata (come prova la sua diffusione in ambito medico) per la trasmissione di conoscenze operative tra cultori di un sapere le cui basi dottrinarie sono ormai considerate solide. Il suo scopo è quello di fornire in breve la maggior quantità di nozioni e prescrizioni attendibili, tratte cioè da testi autorevoli ma troppo ampi e difficili e quindi inadatti a una rapida utilizzazione ai fini di un efficace operare. Titoli come Breviarium e Breviloquium; testi come il Compendium (1449) ‒ in cui vengono condensati e armonizzati lo 'Studio namque florenti', il Codicillus e il Testamentum ‒ o il Tractatus ... extractus ab omnibus bonis libris (di fatto un compendio ricettistico) di Marco de Ancisio da Roma sono sufficienti a segnalare l'uso e le finalità della scrittura compendiosa nell'alchimia fin dalla fine del XIV sec. e nel successivo. Del resto sono numerosissime le Practicae, ossia compendi per fini operativi, caratterizzate spesso da maggior brevità rispetto agli analoghi scritti medievali.

Oltre a testimoniare, una volta di più, la contiguità tra alchimia e medicina, il compendio favorisce e incrementa un genere già presente nella letteratura alchemica, quello dei dicta. Molti, infatti, sono i testi costituiti quasi esclusivamente da sequenze di citazioni estratte da opere autorevoli, in cui si concentrano numerosi aspetti caratteristici della letteratura alchemica del XV sec., quali assestamento (sono accreditati e accessibili i testi da cui estrarre i dicta), disaggregazione, dispersione di testi e di dottrine in nuclei tematici a volte minimi; calo della tensione teorica (evidente nell'estrapolazione del dictum dal suo contesto) e infine assemblaggio secondo le finalità più varie.

Infatti una serie di dicta può servire come base a un commento; può costituire un compendio (tali, per es., sono i Dicta domini Raneri, che raccolgono sentenze dello Pseudo-Lullo, proponendo così un succinto compendio di dottrine lulliane), o una sintesi dottrinaria sincretistica (come nei Dicta domini Renati che raccordano i due filoni autoritativi ormai assestati, ovvero la linea 'Geber' e quella 'Lullo-Arnaldo'); o può infine dar vita a un testo 'nuovo' che ricompone con esiti originali materiali preesistenti (l'esempio forse più famoso di questo tipo di opera è il Rosarium philosophorum, che godrà di notevole fortuna nel panorama editoriale del XVI sec.). Quindi, il sistema dei dicta seleziona e fissa un repertorio, stabile ma incrementabile, che potrà anche essere utilizzato per elaborare o soltanto esibire erudizione (i testi di Guglielmo Fabri de Die e di Giovanni Mercurio da Correggio che vedremo successivamente sono esemplari a questo riguardo).

Una sicura novità rispetto alla tradizione alchemica precedente (dove il verso era apparso raramente e quasi solo in funzione mnemotecnica, a parte il poema di 'Gratheus filius philosophi' della seconda metà del XIV sec.) è l'uso della poesia in testi sia latini che volgari: basterà ricordare la Cantilena di George Ripley, l'Ordinal of alchemy di Thomas Norton, i sonetti di Felice Feliciano, il poema didattico Chrysopoeia e quello allegorico, Vellus aureum, entrambi di Giovanni Aurelio Augurello. Questa novità è in piena sintonia sia con le istanze classicistiche ed erudite della cultura quattrocentesca, sia con le elaborazioni teoriche sul nesso tra filosofia, teologia e poesia, promosse dal recupero di prospettive platoniche ed ermetiche. Occorre ricordare che la scrittura poetica, quando sia intesa come verbo creatore che ispiratamente conosce e insieme trasforma, appare particolarmente idonea a esprimere l'istanza di trasformazione e perfezionamento che il progetto alchemico comunque convoglia. Qualunque siano le finalità esplicite dei poemi alchemici e i loro eventuali pregi letterari, essi stanno a significare, alla radice, che alcuni ritengono che un'unica istanza, ispirata e creativa, presieda all'opus di espressione-scrittura e all'opus di laboratorio, che risultano dunque speculari e isomorfi, quando non interscambiabili, in quanto l'uno metafora dell'altro.

Contenuti e linee della ricerca alchemica

"Questo magistero, cioè l'arte sopra nominata, è triplice. In primo luogo viene detta risanatrice del corpo umano, e lavora con le virtù di erbe, radici, fiori, semi, resine […] È inoltre meccanica cioè relativa alla manifattura, ed è praticata dai vasai […] così come la usano i vetrai, che nei loro forni inceneriscono metalli e altri minerali per fare i vetri colorati […] La terza parte dell'arte riguarda il nostro magistero, ed è chiamata trasmutazione dei metalli" (Elucidarius, p. 202).

Così iniziava il suo Elucidarius Cristoforo da Parigi, inscrivendosi ‒ siamo negli anni Settanta del Quattrocento ‒ in una tradizione di ramificazione dell'arte alchemica che risale al Duecento, e che era stata codificata nella triplice destinazione dell'elixir come agente della salute umana, della preparazione di pietre preziose e della trasmutazione metallica. Cristoforo segue la tradizione anche nell'ordine delle utilitates dell'alchimia, pur specificando il secondo settore alchemico con il dettagliato richiamo all'arte del vetro (derivante dagli sviluppi di cui la Summa Sedacina offre una prima testimonianza), che è detta "usuale nell'Isola di Murano presso Venezia". Inoltre, la terza utilitas, vale a dire quella trasmutatoria, assume un rilievo speciale ed è la più idonea a mostrare che, nel composito panorama dell'alchimia quattrocentesca, solo questo aspetto dell'opus è rimasto a contraddistinguere propriamente il 'mestiere' dell'alchimista.

L'alchimia trasmutatoria, o metallurgica, continua la linea di ricerca rappresentata nella produzione latina precipuamente dalla Summa perfectionis magisterii di Geber. Il tema più sottolineato dagli autori quattrocenteschi è quello dell'unicità della materia su cui l'alchimista deve lavorare (il 'mercurio solo'), in cui viene a trovare espressione stilizzata l'esegesi particolare che la composizione duplice dei metalli ‒ la teoria zolfo/mercurio della mineralogia scolastica ‒ aveva subìto nella tradizione alchemica: lo 'zolfo' non sarebbe altro che la parte urente e 'maschile', mentre il 'mercurio' quella fluida e 'femminile' dell'unica materia prima equivocamente denominata anch'essa 'mercurio'. L'influenza di Geber si manifesta nel ricorrere della concettualizzazione e della terminologia dei 'minima' o corpuscoli e nell'enumerazione di tre ordini di 'medicine', mentre quella lulliana è più evidente nella tripartizione dell'unica pietra (minerale, vegetale, animale), così come nella definizione complessiva di un opus circulare che si avvale dello schema degli extrema e media naturae, corpi imperfetti, corpi perfetti e prodotti intermedi dell'opus. La tendenza sincretistica dell'alchimia trasmutatoria è testimoniata dal fatto che concetti geberiani e lulliani possono comparire nello stesso testo, e che si operano sovrapposizioni e contaminazioni terminologiche. Più in generale, forse sulla scorta dello Pseudo-Bacone e di una rinnovata fortuna di Artefio, viene massimamente valorizzata, sia teoricamente che praticamente, la dottrina del 'fuoco', che include alcuni tentativi di misurazione del calore e di rielaborazione degli apparati.

La seconda indicazione ricavata dall'Elucidarius, relativa alla utilitas manufatturiera dell'alchimia, ci riporta a un ambito che è antico come l'alchimia stessa e il cui rapporto con la tradizione alchemica propriamente detta, sempre esistente e molto stretto, non equivale però né a un'identificazione né a una dipendenza. Sullo scorcio del XIV sec., l'interesse artigianale e operativo risalta nella già nominata Summa Sedacina, ed è rintracciabile sia nella letteratura trasmutatoria ‒ in cui compaiono ricette e istruzioni per la preparazione degli strumenti (vasi vitreati, forni particolari, collanti) ‒ sia nella fiorente letteratura dei ricettari, i cui contenuti confluiranno di lì a poco nella ricca produzione dei 'segreti', che, pur attingendo molto a fonti alchemiche, costituiscono, in quest'epoca, un genere autonomo. Spesso è solo l'esplicita ascrizione all'uno o all'altro ambito che ci consente di discriminare a quale dei due appartenga un testo, come nel caso del Candelabrum di Giovanni da Ferrara che, sebbene tutto concentrato su lavorazioni minerali, non per questo si sente in obbligo di seguire le direttive teoriche dettate dalla tradizione, e introduce prodotti e lavorazioni dalle provenienze più svariate.

Resta caratteristica di questi testi la sottolineatura della utilitas, che costituisce anche la motivazione principale dei molti approcci alla tematica della distillazione da parte dei medici, dei farmacisti e aromatari, degli artigiani, che condividono con gli alchimisti della linea dell'elixir le tecniche e gli strumenti per scomporre le sostanze organiche nelle loro componenti elementari. Però, mentre costoro si propongono semplicemente di ottenere un prodotto raffinato con perdita delle cosiddette feces, residuo secco equiparato all'elemento 'terra' (ciò è particolarmente chiaro nel caso della distillazione delle acque medicinali dal vino), gli alchimisti presentano la distillazione come equivalente al reperimento della materia prima, conforme a una dottrina che risale a Ruggero Bacone. La distillazione alchemica, infatti, si svolge in vasi sigillati, "in modo tale che nulla venga aggiunto né tolto" (secondo un luogo comune presente in molti autori), e mira a ottenere, attraverso il ripetersi indefinito delle circulationes, la vera e propria trasmutazione, intesa come ritorno alla pura e primordiale quinta essentia.

La distinzione fra i due campi principali di applicazione della distillazione, quello farmacologico e quello alchemico, risalta con grande chiarezza nel Libellus de aqua ardenti scritto nel 1440 da Michele Savonarola, che nell'Italia del XV sec. è il rappresentante più illustre dell'interesse dei medici per la distillazione. Questo interesse si riscontra del resto anche in Francia e in Inghilterra (ancora in Italia Antonio Guaineri, in Francia Jacques Despars, in Inghilterra Gilbert Kymer, John Faceby e l'intero Sloane Group). Michele Savonarola dichiara di combattere il mistero di cui amano ammantarsi gli alchimisti, pur sostenendo che l'acquavite è "il vero oro potabile", perché il vino viene dal Sole (pertanto in essa si ha un duplice calore, quello naturale e quello astrale); afferma di seguire in primo luogo gli insegnamenti "del gran Tadio", cioè dell'Alderotti (nei cui Consilia per la prima volta un medico insegnava a preparare l'acqua ardente), ma anche quelli degli alchimisti, soprattutto "la sententia de Raymundo". Distingue infine chiaramente fra la caratteristica sovraelementare della quinta essenza e la caratteristica elementare (calda) dell'acqua ardente; quest'ultima è il prodotto che i medici ottengono ma ‒ parrebbe ‒ solo perché la difficoltà intrinseca e le vicissitudini storiche non permettono loro di conseguire i risultati dell'alchimia, definita 'verissima'.

L'interesse di Savonarola si connette ad altre forme di uso terapeutico dei prodotti alchemici da parte dei medici. Attorno all'elixir e a uno dei testi principali che ne fondano la tradizione occidentale nel Tardo Medioevo, cioè il Testamentum pseudolulliano, si era concentrata una parte della ricerca alchemica inglese della metà del secolo, con al centro la figura di John Kirkeby, cappellano di Enrico VI, e il gruppo di medici e naturalisti che, con lui, nel 1456 rivolsero al re una petizione per poter ricercare mediante l'alchimia "la medicina preziosissima che alcuni filosofi hanno chiamato madre e imperatrice di tutte le medicine, altri l'hanno definita gloria inestimabile, altri quinta essenza, altri pietra filosofale ed elixir di vita" (Pereira 1993, p. 16). In altri ambienti medici ci si concentra piuttosto sull'ottenibilità ed efficacia dell'oro potabile; accanto alla diffidenza di alcuni (Savonarola, Guaineri) per questo rimedio che, ottenuto in forma non alchemica, già faceva parte della farmacopea tradizionale e aveva suscitato perplessità in ordine alla capacità del corpo umano di assimilare (digerere) un minerale, si manifesta l'interesse di autori che sviluppano su questo punto una ricerca più analitica.

Nelle lettere del medico Tommaso da Bologna e di Bernardo di Treviri si discute esplicitamente l'idea, emersa con Ruggero Bacone e Giovanni di Rupescissa, che solo la lavorazione alchemica renda fruibile terapeuticamente l'oro. Questo problema trova larga risonanza, forse anche per l'ampiezza della ricerca farmacologica suscitata dalle epidemie di peste ricorrenti nei secc. XIV e XV, presso vari autori medici, tutti legati alle corti e alla curia: Albino di Moncalieri, che ha lasciato una splendida ricetta per fare l'oro potabile e la quintessenza con disegni di apparati, e non manca di ricordare che una piccola quantità di quest'oro in tre giorni produce mirabilia; un ampio trattato anonimo dove la tematica è sviscerata dal punto di vista farmacologico e posologico; un'altrettanto anonima quaestio che unisce lapis a oro potabile come cura della peste; un'anonima Practica de auro potabile; il trattato di Fabri de Die, su cui torneremo.

La tematica dell'oro potabile diventa centrale nella medicina alchemica quattrocentesca e rinascimentale in cui, a partire dall'invenzione dei farmaci distillati per finire nella ricerca farmacologica legata alla peste, si assiste alla formazione di un campo semantico che connette lapis philosophorum (la pietra filosofale), quintessenza e oro potabile, avvicinandoli alla più tradizionale teriaca. Le coordinate più ampie che unificano e circoscrivono il campo dei rimedi alchemici sono da un lato l'oro, che conforta il cuore come la teriaca ed è la materia di base dell'oro potabile rettificato, del lapis e della quintessenza più potente; dall'altro l'obiettivo della protezione del cuore. Le virtù terapeutiche dell'oro, infatti, affondano le radici nel suo carattere di metallo incorruttibile, simbolo di perfezione, nel suo collegamento col Sole, datore di vita, e infine col cuore, anch'esso fons vitae, miniera degli spiriti vitali.

A parte gli esiti specialistici della riflessione medica (in cui peraltro i farmaci, che agiscono in maniera diversa da quelli umorali, sono preferibilmente utilizzati in associazione con questi per potenziarne l'azione), la connotazione terapeutica dell'elixir alchemico sembra comunque un elemento non più trascurabile, sicché anche trattati esclusivamente trasmutatori non mancano, alla fine del testo, di ricordare gli effetti terapeutici meravigliosi del preparato. In questi casi, però, è presente una genericità e una mancanza di competenza specifica che tende ad amplificare l'azione del farmaco alchemico in termini puramente retorici, aprendo quindi da un lato, la possibilità della gestione ciarlatanesca di questo rimedio e dall'altro, ampliandone al massimo la portata salvifica in termini religiosi.

Di fronte a questo tipo di utilizzazione si registrano episodi di concorrenza professionale ‒ ma anche, al contrario, di associazione ‒ fra medici e alchimisti; mentre infatti 'frater Ferrarius' riporta con ampiezza l'ormai quasi topico episodio della somministrazione di un farmaco alchemico a un principe e rileva che i medici, se vogliono usarlo, dovranno chiamare questo rimedio non alchimicum sed philosophicum (Tractatus chemicus excellentissimus, p. 13) per non incorrere nel sospetto e nell'invidia dei medici tradizionali, il maestro di Ludovico Lazzarelli, Giovanni Rigaud de Branchiis, lascia un arcanum elixiris, di cui l'allievo dà il resoconto, che aveva ottenuto lavorando "nella città di Siena in società col maestro Alberto, medico perugino" (Arcanum elexiris, f. 33v) nel 1494.

Trattati e poemi alchemici

Come rilevava Cristoforo da Parigi, l'opus che caratterizza il proprium degli alchimisti come categoria, riconoscibile per lineamenti e intenti, resta la trasmutazione dei metalli, che troviamo al centro delle indagini dei più rilevanti autori di testi alchemici nel XV sec., anche se attorno a essa si aggregano aspetti presenti solo marginalmente nei testi medievali e problemi nuovi anche a livello linguistico, in parte dovuti al convergere del filone 'geberiano' e 'lulliano-arnaldiano'.

Guido di Montanor, un alchimista attivo poco dopo la metà del secolo, offre un esempio molto lineare di scrittura interna alla tradizione. Senza preoccuparsi in alcun modo di giustificare la pratica alchemica, la sua Scala philosophorum entra in medias res con un richiamo iniziale a Lullo e si delinea come uno scritto di carattere eminentemente delucidativo-pratico. Il lapis è uno solo, precisa Guido, non però unus numero […] sed genere (non uno per numero […] ma per genere) (Scala philosophorum, p. 136b), come il maschio e la femmina sono 'uno' nella generazione. La metafora biologico-sessuale, da sempre presente nella riflessione degli alchimisti, è sviluppata in un esteso paragone fra l'opus e le fasi dello sviluppo del feto umano mese per mese. Viene discussa, con intento critico, l'associazione fra alchimia e astrologia di quanti affermano "che si deve iniziare l'opera quando il Sole è nell'Ariete e la Luna nel Toro" (ibidem, p. 137a), ciò vuol dire, dichiara Guido di Montanor, che si deve utilizzare un calore moderato, e aggiunge altri esempi di confronto fra i gradi del calore e la posizione del Sole fra la primavera e l'estate. La perfezione ottenuta alchemicamente, secondo cui "la Terra si fa celeste e spirituale mentre il Cielo si fa terrestre e si congiunge alla Terra" (ibidem, p. 137b), significa l'unione dei corpi con i loro spiriti propri, non con spiriti angelici o astrali, anche se i corpi spiritualizzati possono essere paragonati ai corpi gloriosi dopo la resurrezione dei morti, e come questi sono immortali; tale osservazione richiama l'esplicita ottica escatologica del Testamentum pseudolulliano, la cui terminologia ritorna nell'elogio finale dell'elixir detto inoltre da Guido di Montanor "oro potabile verissimo, balsamo dei filosofi efficacissimo, preziosissimo dono di Dio" (ibidem, p. 147b).

Per quanto unico, il lapis ha numerosi nomi, e Guido di Montanor spiega che ciò ha indotto molti in errore; forse proprio per questo Pietro da Silento, nel suo De occultis naturae, scritto probabilmente nella prima metà del XV sec., aveva elencato tutti i nomi con cui sono chiamati sia l''acqua' (materia prima) sia il corpo perfetto, mostrando una chiara preoccupazione concordistica rispetto alla polionimia della tradizione, che torna nei molteplici sinonimi dell'unum vas. Il tema dell'uno che è due (maschio e femmina), ma anche tre (anima, spirito e corpo), è completato con il quattro, che è il numero degli elementi; il cenno alla "costellazione celeste legittima" (De occultis naturae, f. 146v) sotto la quale si deve operare sembra indicare in Pietro da Silento uno dei possibili bersagli della critica di Guido di Montanor. Il De occultis naturae s'inscrive nella già menzionata linea del 'mercurio solo' (v. sopra) rivolgendosi a un 'figlio' cui impone di possedere la teoria prima di darsi alla pratica, e, nell'insieme, si presenta come una serie di note, legate in maniera relativamente organica, che derivano da un 'fondo' di sapere identificato con gli alchimisti più antichi, di tradizione araba: Arisleo, Geber, Hermes, Theophylus, Bubacar, la Turba philosophorum.

Nessun autore è invece nominato nel Phenix, scritto proprio alla vigilia dell'anno 1400 da Jacme Lustrach, un alchimista che lavorava alla corte aragonese. Questo scritto, che sembra porsi come un originale sviluppo della tradizione lulliana, nega che si possano utilizzare sostanze organiche e distingue fra preparazioni alchemiche varie, che chiama 'medicine', col termine usato da Geber, e il vero lapis philosophorum. Inoltre, nega che si possa definire trasmutazione il semplice perfezionamento dei metalli (cioè, evidentemente, la preparazione di leghe), poiché questo nome dev'essere riservato alla preparazione dell'elixir, ottenuto dal solo mercurio attraverso un'operazione che viene descritta dettagliatamente. Di questo lapis "i filosofi dicono che rende malleabile il vetro se gli viene proiettato sopra dopo averlo fuso e così può tingere il cristallo trasformandolo in vero rubino" (Phenix, f. 322v), idea che, a pochi anni di distanza, riprende la tematica artigianale di Sedacer; ma esso è anche curativo della "lebbra e di tutte le malattie sia interne che esterne, ringiovanisce i vecchi e li rafforza e allieta, cosa non strana dal momento che sana i corpi dei metalli malati e imperfetti" (ibidem). La parte finale del Phenix è dedicata a mostrare il modo in cui l'oro così preparato contiene in sé tutte le qualità di tutti i metalli, in una complicata combinatoria di qualità esterne (visibili) e interne (occulte).

Le magnifiche virtù tradizionali del lapis, o elixir, fanno sì che esso sia molto ricercato dai potenti, anche perché, come avverte Cristoforo da Parigi nell'Elucidarius, la sua preparazione ha certi "rami [procedimenti] che, se ti atterrai a essi, potrai mettere in fuga i Turchi dall'Asia minore" (Elucidarius, p. 199). Più aspramente di Guido di Montanor e Lustrach, dei quali condivide la sostanziale adesione alla linea lulliana, Cristoforo da Parigi critica Geber, i cui tre 'ordini' di medicine alchemiche sono a suo avviso fuorvianti, perché "c'è una sola medicina, da intendersi come quella del terzo ordine" (ibidem, p. 205). Tuttavia, Lullo non è l'unica auctoritas, perché Alberto Magno, e soprattutto Ortolano (il commentatore della Tabula smaragdina) sono citati a più riprese. Fra gli elementi interessanti dell'Elucidarius risalta il tentativo di ridefinire le linee della quaestio de alchimia, dando fra l'altro spazio alle obiezioni basate sull'assenza dell'alchimia nella Bibbia. Nessuno di questi autori è stato finora fatto oggetto di ricerche approfondite, che siano in grado di dipanare i nessi che s'intravedono fra loro. Rispetto alla produzione medievale, le opere di questi autori rappresentano una letteratura certamente minore; ma forse è proprio dall'esame più dettagliato di essa che si potranno comprendere meglio i motivi che, specialmente nei poemi alchemici, genere affatto nuovo, preludono agli sviluppi dell'alchimia rinascimentale.

George Ripley (canonico di Bridlington, morto dopo il 1476) si collega esplicitamente all'insegnamento di Guido di Montanor, di cui rileva l'origine greca e la grande fama, e di cui riproduce pedissequamente, nelle 'dodici porte' dell'alchimia che danno il titolo al suo testo più ampio, il Liber duodecim portarum, l'elenco dei processi operativi enumerati come i dodici gradini della Scala philosophorum. Ripley è il primo autore inglese di una certa fama a comporre opere alchemiche nella sua lingua materna e, almeno le principali ‒ Cantilena, Compound of alchemy ‒, in forma poetica. Nel descrivere in rima la preparazione dell'elixir, condotta nei termini della tradizione lulliana, Ripley fa proprio il repertorio delle metafore e immagini (il basilisco, la madre dei metalli, l'albero di Ermete) che era stato introdotto a partire dall'alchimia araba fino ai testi allegorico-visionari del Trecento, utilizzando la risonanza allusiva e la vaghezza di significato delle metafore come strumenti evocativi della complessità dell'opus.

Oltre a Guido di Montanor, Ripley annovera fra i suoi auctores Lullo e Ruggero Bacone, soprattutto per la preparazione dell'elixir. Nelle idee di Ripley si coglie una rielaborazione di temi cari alla tradizione tardo-medievale, quali la critica dell'uso di sostanze organiche nella confezione dell'elixir, la dottrina dell'unicità della materia e del vaso, la preferenza per l'oro alchemico su quello naturale nella confezione dell'oro potabile, la centralità della distillazione nell'opus. La prima materia di tutte le cose è l''acqua', o 'quinta essenza', da cui derivano i quattro elementi e che è capace di "convertirsi nel genere perfetto", afferma Ripley nel Liber de mercurio (Opera omnia chemica, p. 105). Alcuni aspetti delle opere lulliane vengono ripresi dall'alchimista inglese in maniera originale. Le figure, non più meri dispositivi mnemotecnici, indicano il percorso dell'opus (ma solamente agli iniziati che ne conoscono il dinamismo e l'orientamento), mentre le lettere sono usate in maniera alquanto originale perché, a differenza della fonte lulliana, si compongono talvolta in parole di senso compiuto; siamo evidentemente sulla linea di passaggio dall'uso inventivo-memorativo di figure e lettere ai grafici cosmologico-simbolici (alla Robert Fludd, o alla John Dee), così come alle interpretazioni cabalistiche che si affacciano in testi alchemici posteriori, quali la Gloria mundi di Winandus da Ruffo Clipeo o la Voarchadumia del Panteo. Anche l'uso di un simbolismo complesso, specialmente nella Cantilena, e alcuni cenni al confluire nell'opus di tematiche esplicitamente religiose ‒ "di quest'acqua si accenna nelle umane preghiere ed è chiaramente descritta nei Salmi, di essa legge il sacerdote all'altare" (Opera omnia chemica, p. 318), dichiara nella Pupilla alchemiae ‒ fanno di Ripley una figura di transizione all'alchimia rinascimentale e confermano il mutamento di strategia linguistica che l'uso della forma poetica favorisce.

Simile alla posizione di Ripley è quella di Thomas Norton (1433-1513/1514), suo allievo e di poco più giovane; il cuore del suo poema alchemico è il processo di preparazione dell'elixir, in cui Norton introduce una classificazione semplificata delle fasi dell'opus, che suddivide in gross work e subtle work. Indicativo appare il richiamo religioso esplicito nel titolo del testo, Ordinal of alchemy, che ricalca quello del lezionario (Ordinal) dell'anno liturgico e che ha come significativo contrappunto la definizione della trasmutazione metallica come 'transustanziazione'.

Il 'sacerdote all'altare' di Ripley, così come la transustanziazione alchemica di Norton, costituiscono evidenti segni del sempre più diffuso processo di sovrapposizione delle tematiche dell'alchimia con elementi religiosi. Le opere di Ripley e Norton, tuttavia, presentano numerosi altri motivi d'interesse per lo storico. In primo luogo, sono una testimonianza della diffusione dell'alchimia nella società inglese, di cui danno significative notizie, e, nello stesso tempo, permettono di cogliere alcune linee di differenziazione delle dottrine alchemiche (Ripley, per es., narra che la propria adesione all'alchimia lulliana è avvenuta nel corso di nove anni di viaggio nel continente europeo, e si pone in contrasto con l'alchimia 'ciarlatanesca' esercitata a suo dire dai suoi conterranei); in secondo luogo, fanno luce su aspetti biografici degli alchimisti quattrocenteschi (la vicenda personale e familiare di Norton si interseca visibilmente con la sua produzione alchemica).

I due autori, inoltre, sono importanti esponenti di quella tendenza a comporre linguaggio allegorico e operatività pratica che caratterizza anche altri poemi alchemici, spesso scritti in lingua volgare, come il fiammingo Lehrdichtung di 'Gratheus filius philosophi' e i due poemi francesi Sommaire philosophique (1400) e Fontaine des amoureux de science (1413). Tale motivo troverà pieno sviluppo nella Chrysopoeia di Giovanni Aurelio Augurello, caratterizzando il passaggio a una modalità peculiare della scrittura alchemica rinascimentale e barocca.

Nel 1515 Augurello dedicò al papa Leone X la sua Chrysopoeia, che già nel titolo indica il doppio significato del fare 'poietico'. Anche in questo caso il prodotto dell'alchimia è un agente trasmutatorio che non limita la sua attività ai metalli ma è anche salutifero per il corpo, e l'opus è descritto con l'ausilio di miti tratti dalla poesia classica. Il ricorso consistente che Augurello per primo fa a tematiche mitologiche non va però inteso come se l'alchimia così espressa finisse con il rinviare a verità religiose sotto il velo mitologico-alchemico, quanto piuttosto come l'adozione di strategie linguistiche nuove per un'effettiva didattica operativa, definita attraverso il recupero di dicta diversi da quelli tradizionali (ossia quelli degli antichi poeti) e la valorizzazione del carattere di verità dell'ispirazione poetica.

Anche nel Vellus aureum (poema di dimensioni minori, composto prima della Chrysopoeia) il racconto della trasformazione del vello non allude al recupero dopo lunga fatica di una sapienza religiosa, ma alla trasmutazione alchemica propriamente detta. È lo stesso Augurello ad asserire che la narrazione non va interpretata come analitica ricerca di reconditi significati, opponendosi esplicitamente a possibili letture dell'alchimia in chiave esoterico-spirituale, analoghe a quelle dei moderni interpreti. Piuttosto, sono i detti degli autori antichi che vanno interpretati come espressione velata di verità alchemiche e che perciò possono essere usati per insegnarle, prendendo la loro parola nel suo valore 'letterale', in quanto garantita dalla stessa antichità e dal verbo poetico in sé, fondato su un potere innato ‒ furor (furore) ‒ o favorito da influenze astrali; nella valorizzazione del furor Augurello traeva spunto dall'orizzonte ermeneutico inaugurato da Cristoforo Landino e da Marsilio Ficino.

Ficino e Lazzarelli: prospettive ermetiche e alchimia

L'interesse di Ficino per l'alchimia e soprattutto la sua influenza sugli sviluppi cinquecenteschi della stessa hanno dato luogo a differenti interpretazioni. È certo che alcune opere alchemiche sono state attribuite a Ficino, così come alcuni scrittori di alchimia del Cinquecento sicuramente hanno fatto di lui un loro auctor. È anche indubbio, d'altra parte, che nella concezione di Ficino siano riconoscibili spunti, dottrine, autori (Arnaldo da Villanova e Lullo soprattutto) della tradizione della prolongevità, collegata all'alchimia dell'elixir. Nella sua complessiva veduta filosofica, infine, vengono sviluppate teorie (lo spiritus come medio e connettivo tra corpo e anima dell'uomo e del cosmo; l'animazione universale; i processi di perfezionamento spirituale e materiale; la valorizzazione dell'intervento sull''umido radicale') che anche le prospettive alchemiche prevedono o possono avere come impliciti presupposti. Ficino, inoltre, presenta osservazioni più determinate concernenti specificamente l'ambito alchemico; esse riguardano la teoria della formazione dei metalli (alla prospettiva platonica, egli preferisce la più usuale veduta aristotelico-araba); la corrispondenza tra astri e metalli; la concezione vitalistica dei metalli stessi. Ancora, sia nel De vita che nell'Antidotum epidemiarum Ficino si sofferma sul ruolo dell'oro potabile, agente curativo e promotore di lunga vita. In queste opere vengono riprese le prospettive baconiane e arnaldiane sulle virtù medicamentose dell'oro naturale e alchemico; viene accentuato l'alone religioso del medicamento (dono produttore di vita recato dai magi sapienti all'autore della vita), ed è enfatizzata l'importanza dell'influenza astrale nella procedura di confezione dell'oro potabile. Considerazioni, queste, che continueranno a essere riprese e amplificate nel dibattito alchemico farmacologico, anche paracelsiano, sull'oro potabile.

Il passo più discusso a proposito dell''alchimia ficiniana' è nel De vita (III, 3). In esso, trattando dei vari modi di azione dello spiritus e delle forme del suo controllo e potenziamento, Ficino (rinviando implicitamente all'inizio di Picatrix, una delle sue fonti più importanti) rileva che lo spiritus che è nei metalli, per esempio nell'oro, quando viene separato dalla materia (come fanno i "diligenti filosofi della natura") può vivificare e trasformare i metalli, cui in seguito viene ricongiunto: "Questo spirito, tratto in modo corretto dall'oro o da un altro metallo e poi conservato, gli astrologi arabi lo chiamano elixir. Ma torniamo allo spirito del mondo [...]". Ora, anche se il collegamento di questo spirito con lo spirito universale del mondo fosse effettivamente deducibile dal passo in esame, esso non pare essere tanto innovativo da influenzare radicalmente i successivi sviluppi dell'alchimia; la dottrina della presenza di uno spirito, necessario termine intermedio tra anima e corpo anche nei metalli, e particolarmente affinato nel lapis, era infatti teoria alchemica diffusa fin dai testi arabi, nei quali già presentava un collegamento esplicito con tematiche cosmologiche, e aveva assunto nuovi e più pregnanti connotati nelle dottrine concernenti la quinta essenza. Si conferma, quindi, la valutazione critica secondo la quale l'alchimia non sarebbe stata tra gli interessi più vivi della ricerca del medico fiorentino. Nella sua magia spirituale, infatti, il programma di purificazione ed elevazione del sapiente e le operazioni che egli concretamente effettua si realizzano nel rapporto tra spirito del mondo e spirito del filosofo-mago-sacerdote, e attraverso una molteplicità di interventi e procedure, quali formule potenti, efficacia della musica, magia delle immagini e dei talismani. Queste molteplici istanze trasformatrici non hanno, per Ficino, bisogno di incanalarsi in modo privilegiato nelle operazioni del laboratorio alchemico (rispetto alle quali, anzi, egli manifesta atteggiamenti ambivalenti). È invece vero che, nel Cinquecento e oltre, a queste faranno riferimento pensatori non precipuamente interessati all'alchimia da un punto di vista tecnico, o autori di alchimia 'filosofica', interpretando anche, taluni, il collegamento tra i diversi spiritus in forme molto esorbitanti rispetto all'indicazione ficiniana.

Nel quadro culturale segnato dalla traduzione e diffusione del Corpus Hermeticum e dal conseguente sviluppo e intreccio di variegati orientamenti 'ermetici' nella seconda metà del Quattrocento, l'attenzione di Ludovico Lazzarelli per l'alchimia rappresenta un caso esplicito di come torni a essere percepita, pur senza dar luogo a una immediata identificazione, la contiguità concettuale tra alchimia e tradizione ermetica, già individuata nel XII sec., seppure su presupposti diversi.

Inizialmente letterato e poeta, Lazzarelli (1450-1500) si 'converte' alla filosofia e più specificamente all'ermetismo; sua è la traduzione delle Definitiones Asclepii. Legato a Giovanni Pontano e alla corte napoletana, egli è ammiratore e in un certo senso seguace di Marsilio Ficino. Il poema allegorico Bombix (sul processo di metamorfosi e rigenerazione spirituale del sapiente) e il dialogo Crater Hermetis segnalano la sua vicinanza all'ermetismo e al sincretismo religioso della pia philosophia ficiniana. Più concreto e coinvolgente è però il rapporto che unisce Lazzarelli, in un entusiastico e devoto vincolo di discepolato, al 'novello Ermete', Giovanni Mercurio da Correggio, singolare figura di profeta, mago, alchimista itinerante, protagonista di 'apparizioni', lezioni, predicazioni ermetiche in Francia e in Italia nella seconda metà del Quattrocento; proprio costui Ludovico considera suo iniziatore ai misteri ermetici e suo maestro, e si fa anche accurato cronista (nell'Epistola a Enoch) di una sua riuscita manifestazione 'ermetica' a Roma.

Gli interessi alchemici di Lazzarelli sono indubbi e documentati. Egli stesso si dichiara discepolo dell'alchimista borgognone Rigaud de Branchiis e delinea a ritroso una genealogia magistrale ‒ Giovanni Mercurio, Lullo, Arnaldo da Villanova, Magister Petrus ‒ di cui egli sarebbe appunto l'ultimo erede (anche se non fa mai riferimento a una propria partecipazione ad attività operative). Dimostra inoltre un vivo apprezzamento per la Pretiosa margarita di Pietro Bono da Ferrara. Una versione di quest'opera (ms. lat. 299, conservato nella Biblioteca Estense di Modena) riporta alla fine un piccolo carme dedicatorio in cui Lazzarelli (che forse ha curato personalmente o fatto trascrivere il testo) destina l'opera ad dominum Joannem preceptorem meum (forse Giovanni da Correggio, o più probabilmente Giovanni Rigaud), con fervide lodi per l'autore e per il destinatario. Infine Lazzarelli raccoglie i testi che costituiscono una miscellanea alchemica (ms. 984, conservato nella Biblioteca Riccardiana di Firenze); suoi sono i distici elegiaci di apertura e il prologo. Nell'indice (di mano posteriore) è attribuito a Lazzarelli anche il primo dei trattatelli raccolti; più probabilmente egli ha solo curato la miscellanea ‒ che si compone di testi attribuiti a Lullo ma riporta anche la ricetta dell'arcanum elixiris di Rigaud, che "lo stesso maestro Giovanni nella sua grande generosità mi ha rivelato di persona" (Arcanum elixiris, f. 33v) ‒ e l'ha corredata con un ampio prologo, che riveste particolare interesse.

Ermete vi è infatti indicato come pater di teologi, maghi e alchimisti; nella Tabula smaragdina (e cioè proprio nel testo sapienziale e fondante della tradizione alchemica) sono infatti espressi in un 'unico discorso' gli 'arcana' che compaiono anche all'inizio del manuale filosofico-magico Picatrix ‒ citato da Lazzarelli accostandolo al Secretum secretorum ‒ e che costituiscono tre forme di magia, così definite da Lazzarelli: naturalis, ovvero alchimia; celestis, ovvero magia astrale e delle immagini; sacerdotalis et divina, espressa nelle Sacre Scritture e soprattutto da Cristo stesso nei vangeli.

Il prologo apre a prospettive ardite e a possibili sviluppi sia sul rapporto (di interscambiabilità, dato l'unico discorso fondante in cui sarebbero radicati) tra salvazione religiosa e perfezionamento alchemico, sia sul vincolo tra magia e alchimia, sia infine sull'onnipervadente e indeterminato valore che qui il termine 'magia' viene ad assumere. Questa ricca problematica non trova riscontro nella raccolta di testi ‒ tutti di carattere operativo tradizionale ‒ che segue. Se consideriamo più da vicino il primo e il più strutturato di questi testi, notiamo che esso propone una trattazione esplicitamente legata alla linea lulliana, ricca di indicazioni puntuali su processi concreti, misure, apparati. L'opus è finalizzato al duplice obiettivo di cure mirabili per il corpo (che qui assumono i caratteri dell'oro potabile) e della trasmutazione dei metalli (giudicata più difficile dell'alchimia medicale). Non mancano direttive e finalità etico-religiose, come nel caso in cui si prescrive che il farmaco alchemico, dono divino, vada distribuito gratuitamente ai poveri (dovrebbe pertanto fungere anche da strumento per l'esercizio delle opere di misericordia) o come quando si descrive la natura incorruttibile e immortale del lapis nei termini (già usati da Bono da Ferrara, dallo Pseudo-Arnaldo e da Dastin) della passione e risurrezione di Cristo, e si rileva che esso è "in grado di convertire alla fede cattolica anche i suoi nemici" (Tractatus de alchimia, f. 8r). Queste considerazioni conclusive (in qualche modo consonanti con le osservazioni di Lazzarelli nel prologo), con l'intreccio di termini scritturali e alchemici, si collegano al confluire di religiosità cristiana e opus alchemico più ampiamente sperimentato nell'allegorismo politico-religioso del Libro della santissima Trinità e in quello mistico-escatologico dell'Aurora consurgens. Comunque è significativo il fatto che in questa operetta, come del resto negli altri testi della miscellanea, non si adotti un linguaggio allegorico o iniziatico, non si veicolino sotto il velame alchemico prospettive religiose, né infine si trasformi l'opus in processo mistico. L'intento di Lazzarelli, dunque, non sembra quello di procedere a collegare ‒ secondo quanto il suo stesso prologo consentiva ‒ direttive di trasformazione pratica a processi rigenerativi spirituali; né sembra quello di concretare in effettive operazioni, eventualmente rinnovate, l'istanza di trasformazione che il Corpus Hermeticum (ritrovato e interpretato) propone con elevati accenti filosofici. In altri termini, in questo caso l'approccio ermetico non implica ristrutturazioni delle teorie alchemiche; l'intento pare piuttosto quello di collocare testi tradizionali che riportano dottrine e procedure tecniche nella cornice di un'alta valutazione filosofico-ermetica dell'alchimia nel suo complesso; solamente da questa consacrazione, per così dire esterna, essi paiono acquisire quel senso e quel valore che nella vicenda dell'alchimia medievale traevano da un progetto di trasformazione, nel quale il richiamo al mitico fondatore innervava dall'interno la filosofia operativa, i cui adepti si dichiaravano, non a caso, filii Hermetis.

Un approccio di questo tipo ‒ ma assai meno nitido e difficile, comunque da valutare nella scrittura esaltata e retorica in cui risulta disperso ‒ è forse presente nel De quercu Julii Pontificis sive de lapide philosophico, attribuito allo stesso Giovanni da Correggio (cui è ascritto anche un opuscolo sulla peste, dove viene ripreso l'accostamento, già proposto da Ficino, tra l'oro potabile e l'oro dono dei magi). Questo trattatello 'alchemico' esibisce al massimo grado sia il ruolo di contenitore unificante ma indeterminato che ha assunto la magia sia, soprattutto, lo sfruttamento di spezzoni di teorie e formulazioni alchemiche in strategie linguistiche puramente retoriche. Il testo, infatti, è essenzialmente un panegirico in lode del pontefice e della sua casa. Al papa si promette lunga vita, vittoria su tutte le malattie, tesori infiniti, poteri e ritrovati mirabili (dal più banale vetro flessibile, all'ubiquità, al sicuro trionfo su Turchi, maomettani e pagani in genere, e sine armatura); con le lodi e le promesse si chiedono al papa protezione e favori.

Risuonano, anche qui, gli arcana di Picatrix, e del resto l'elenco dei fantastici risultati promessi è riconducibile sia alle operazioni magiche che Picatrix (e Ruggero Bacone) prevedevano, sia alle ricette che la letteratura dei secreta stava in quest'epoca raccogliendo.

Quando l'ampiezza indefinita (e non tradotta in precetti) delle promesse magiche e l'enfasi retorica encomiastica lasciano spazio a discorsi più circoscrivibili, si riconoscono temi propriamente alchemici, come il processo di ascensus e descensus, la triplicità del lapis della linea pseudolulliana, procedure di digestione, sublimazione, fissazione, le qualità dell'oro potabile; si riconoscono anche piccoli brani (dicta) ascrivibili a Lullo, ad Arnaldo da Villanova, alla Tabula smaragdina e allo stesso Ficino. Giovanni da Correggio, dunque, dispone certamente, nella sua variegata competenza, anche di conoscenze alchemiche; del resto, secondo la testimonianza di Tritemio, egli stesso avrebbe dichiarato (nel corso di una sua 'apparizione' in Francia) di aver penetrato i segreti della Natura e di conoscere l'arte dei metalli. I termini stessi però di elixir, lapis, magisterium hanno perso ‒ almeno in questo testo ‒ ogni connotazione specifica e qualsivoglia identificabilità precettistica operativa. I concetti e i termini alchemici, privati di valore operativo e caricati di risonanze religiose estrinseche, talora legati ‒ a esibire l'erudizione dell'autore ‒ a citazioni di autori classici, sono avulsi dal loro contesto tradizionale e inglobati in un indefinito panorama di promesse magiche. Forse la loro presenza contribuisce a segnalare che la Sapienza ermetica ‒ che nel testo parla a favore di Giovanni da Correggio ‒ va intesa come capace di promuovere trasformazioni e mirabilia in vari ambiti; certo la loro funzione maggiormente efficace non si manifesta più nei processi di laboratorio ma nella retorica che Giovanni da Correggio usa sia per rendere omaggio all'illustre protettore, sia per esaltare la piena padronanza del postulante di corte sui più vari e portentosi arcana.

Un osservatore privilegiato

Un utile punto di osservazione per la complessa vicenda dell'alchimia nel Quattrocento può essere individuato nell'opera del giurista e medico savoiardo Fabri de Die, il De lapide philosophorum. Il testo, pur privo di effettiva influenza sugli sviluppi posteriori dell'alchimia, esprime un punto di vista insieme 'coinvolto' ed 'esterno', e offre utili elementi di riscontro alla ricostruzione del periodo forse più complesso e sfuggente della tradizione alchemica occidentale.

L'opera, scritta probabilmente prima del 1449, presenta un dialogo tra l'autore e Amedeo VIII (l'antipapa Felice V), originato da alcune domande che il pontefice, afflitto da una dolorosa infermità, rivolge a Fabri de Die. Questi, pur non essendo il medico ufficiale della corte, gode comunque di grande stima per la competenza che gli deriva da una conoscenza di prima mano della medicina 'ultramontana' dalla quale il papa si aspetta un pratico giovamento, a motivo dei rimedi più efficaci (cioè alchemici) che, a suo dire, essa utilizza rispetto ai medici italiani, che invece seguono la via communis. Il rimedio, di cui dice di aver sentito parlare e su cui desidera da Fabri de Die un'informazione completa, è l'elixir: "Che mi sai dire di quella medicina filosofica che chiamano elixir? […] È possibile che ci sia qualcosa di vero e che funzioni?" (De lapide philosophorum, f. 245v). La risposta di Fabri de Die si sviluppa in tre trattatelli, in cui la domanda iniziale si articola nel seguente modo: se sia possibile la trasmutazione; quale sia l'efficacia terapeutica dell'oro potabile; che cosa significhino i due termini occulti della tradizione alchemica, telchem e yxir.

Fabri de Die non è un alchimista, e il suo testo mostra bene come egli nulla abbia a che fare con l'opus (che quasi non nomina); di fatto, la sua impostazione è completamente filosofico-teorica sia nel metodo adottato (quello aristotelico, che è detto il solo degno di fede in quanto prova ratione et experimento) sia nell'approccio ai contenuti. L'analisi della tematica dell'elixir mostra ancora una volta che nell'alchimia quattrocentesca questo termine evoca due oggetti e due progetti, quello trasmutatorio e quello medico, che pur distinti tra loro, possono essere almeno in linea di principio unificati. Riprendendo un argomento già apparso nella tradizione tardo-medievale, Fabri de Die, infatti, individua la connessione possibile tra alchimia metallurgica e metallurgia medica dell'oro potabile nel concetto, di origine medica, di 'umido radicale'; tale connessione, però, funziona sulla base di un dispositivo analogico e proprio perciò non permette d'identificare tout court l'agente che cura i metalli e il farmaco per gli esseri umani; questo era appunto l'elixir secondo la tradizione arnaldiana e pseudolulliana, che Fabri de Die segue in maniera ponderata, riconoscendone fra l'altro l'ascendenza baconiana, ma accostandole temi che derivano piuttosto da Alberto Magno e Geber. Si può dire che per Fabri de Die l'unità di fondo dei progetti metallurgici e alchemico-medici è rintracciabile a due livelli: quello retorico, che unifica nuclei linguistici in un discorso erudito amplificabile a piacere, e quello fondante per quanto generico, sapienziale e magico, espresso nei termini di yxir e telchem, risalenti a Ermete, che esprimono la potenza misteriosa della thelesim di cui parla la Tabula smaragdina.

L'immagine complessiva che, con le sue strategie filosofiche e retorico-erudite, Fabri de Die ci dà dell'alchimia, lo colloca al crocevia tra le linee e i problemi della ricerca alchemica tardo-medievale e i loro sviluppi differenziati nell'Età moderna: l'accentuazione del ruolo dell'etica nella trasmutazione, esemplificato attraverso il suggestivo racconto di vicende che illustrano il rapporto esaltante ma rischioso fra alchimisti e potenti; il riconoscimento che il sapere dell'alchimia è in parte divino, ispirato e profetico; il peculiare rapporto fra alchimia e magia in cui è la prima a caricarsi dell'ampiezza di fini, della potenza e dell'alone sacrale attribuito alla seconda, pur senza perdere il suo carattere di 'razionalità'. Alla fine del trattato, l'alchimia ‒ la cui univocità semantica Fabri de Die sembrava postulare nella quaestio aristotelica della prima parte ‒ diventa quasi soltanto un polo di aggregazione di citazioni bibliche, favole mitiche, riferimenti ad antichi poeti; tuttavia, questi stessi temi non sono approfonditi e non forniscono né una vera e propria visione 'spiritualistica' dell'opus né un'allegoria che a esso alluda. Piuttosto, la scrittura di Fabri produce effetti di arricchimento e ampliamento delle tematiche discusse che, anche se non portano ad alcun risultato concreto‒ come nota il papa, se infine prorompe nel grido: "Ma chi oggigiorno può dire, ho il vero elixir?" (De lapide philosophorum, f. 253v) ‒,tuttavia preservano e tramandano il sapere alchemico organizzandolo e amplificandolo in modo tale che possa essere fruito sia per il puro piacere dell'erudizione sia per le esigenze di quanti continuano ad affannarsi all'opus a scopi pratici (metallurgici, farmacologici) o spirituali; sono precisamente le linee che si renderanno pienamente autonome nelle ricerche alchemiche dei secc. XVI e XVII.

Paracelso e la ricezione delle sue dottrine

di Wolf-Dieter Müller-Jahncke

La vita irrequieta di Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, più conosciuto come Paracelso (1493/1494-1541), e le controverse dottrine medico-farmaceutiche contenute nelle sue opere (molte delle quali scritte in tedesco), spiegano perché ben poche di queste opere siano state pubblicate quando l'autore era ancora in vita. Al periodo trascorso a Strasburgo (1526-1527) risale lo scritto Von den ersten dreien Principiis oder Essentiis, in cui veniva esposta per la prima volta la dottrina dei tria principia. Il Liber de vita longa, scritto intorno al 1526, affrontava il tema del prolungamento della durata della vita e proponeva una serie di ricette e di droghe attraverso le quali sarebbe stato possibile raggiungere l'età di 140 anni. Il primo scritto che Paracelso riuscì a far pubblicare fu il Vom Holtz Guaiaco gründlicher Heylung (Vienna, 1529), dedicato all'uso terapeutico del legno di guaiaco (Lignum Guajaci), che dall'inizio del XVI sec. fu usato con alterni successi per curare la sifilide. Mentre, per esempio, Ulrich von Hutten (1488-1523) nel De guaiaci medicina et morbo gallico liber unus (1519) aveva elogiato tale rimedio, Paracelso ne contestava l'efficacia, sostenendo inoltre che l'importazione del guaiaco avesse favorito principalmente gli interessi economici delle grandi case commerciali di Augusta, in particolare quelle dei Fugger e dei Welser. La controversia che ne seguì (1530) con la Facoltà di medicina di Lipsia, pronunciatasi ‒ senza dubbio dietro pressione dei commercianti ‒ in favore dell'uso del legno di guaiaco, impedì la pubblicazione degli altri scritti di Paracelso sull'argomento.

Al 1530 risale Das Buch Paragranum, che esponeva la teoria dei "quattro pilastri" della vera medicina, ossia l'astronomia, la filosofia, l'alchimia e la virtù personale del medico. Nel 1535 apparve Von dem Bad Pfeffers, un'operetta appartenente al genere degli scritti di balneologia ‒ al tempo molto diffusi ‒, che trovavano sempre un editore disposto a pubblicarli; non fu invece pubblicata l'opera Von der Bergsucht und anderen Bergkrankheiten, che pure può essere considerata uno dei primi, importanti trattati dedicati alle malattie professionali dei minatori e dei metallurgisti. Nel 1536 fu pubblicata a Ulm, e sempre nello stesso anno ad Augusta, la Große Wundartzney, opera che attesta una vasta competenza nella cura delle lesioni esterne e contiene altresì un esteso elenco di rimedi. Restarono per contro inedite, e tramandate soltanto in versione manoscritta, l'Astronomia magna (nota anche come Philosophia sagax), terminata nel 1537, in cui Paracelso presentava una summa delle sue teorie mediche, e gli scritti della cosiddetta Trilogia di Carinzia, redatti l'anno successivo, uno dei quali è dedicato alle malattie 'tartaree' (vale a dire le patologie dovute al prodursi di concrezioni minerarie all'interno dell'organismo umano). Sono giunti solamente pochi manoscritti autografi attribuibili con certezza a Paracelso, mentre abbondano le versioni di copisti e allievi che furono pubblicate in parte già alla fine del XVI sec., per lo più in traduzione latina. Una prima edizione completa delle opere di Paracelso (la cosiddetta in quarto basilense, in 5 volumi) fu pubblicata tra il 1589 e il 1591 ‒ per iniziativa di Ernesto di Baviera ‒ dal medico di Glogau Johannes Huser (1545 ca.-1604 ca.); i manoscritti sui quali si basava tale edizione, tuttavia, sono andati perduti. Tra il 1922 e il 1933 fu pubblicata, a cura dello storico della medicina di Lipsia Karl Sudhoff (1853-1936), un'edizione critica in 14 volumi degli scritti di medicina e di scienza naturale di Paracelso; allo storico delle religioni Kurt Goldammer (1916-1977), di Marburgo, si deve invece l'edizione critica, iniziata nel 1955, dell'altrettanto imponente corpus dei suoi scritti teologico-filosofici.

In Das Buch Paragranum, o Liber quatuor columnarum artis medicae, la cui composizione risale al 1530, Paracelso offriva per la prima volta un compendio delle sue teorie eziologiche e terapeutiche, secondo le quali il medico doveva padroneggiare tutte le scienze che costituivano i pilastri della medicina: "Se voglio dunque trattare il fondamento della medicina devo ricavare le cose che rappresentano questo fondamento. Così sono costretto a ravvisare ogni fondamento nella filosofia, nell'astronomia e nell'alchimia" (Das Buch Paragranum, ed. Sudhoff, VIII, p. 137).

Alla filosofia, all'astronomia e all'alchimia si aggiungeva come quarto pilastro l'abilità personale del medico, la sua virtus, che derivava da Dio e gli veniva rivelata dalla Natura. Attraverso questi quattro pilastri il medico era in grado di diagnosticare le malattie e di trovare i rimedi adeguati, senza attenersi alla tradizionale patologia umorale o alla dottrina dei gradi (v. I, La scienza greco-romana, capp. VI e XIV), ma partendo dalla conoscenza dell'uomo 'esterno' e dell'uomo 'interno'; la corrispondenza che si ritrovava nell'uomo stesso tra macrocosmo e microcosmo, tra "anatomia interna" e "anatomia esterna" indicava al medico la via da seguire.

Già in Das Buch Paragranum, dunque, era delineata quell'immagine dell'uomo che Paracelso sviluppò ancora più chiaramente nella Philosophia sagax, secondo la quale la malattia era determinata non soltanto dagli elementi o dagli umori, ma anche dall'"astro" formatosi nell'uomo quale principio ideale. Questo 'firmamento interno' corrispondeva a quello esterno, di cui il medico doveva conoscere i corsi per diagnosticare correttamente una malattia; infatti, un medico esperto nei fenomeni naturali (le stagioni, le costellazioni e le proprietà dei pianeti) non avrebbe potuto formulare una diagnosi errata poiché l''esterno' era contenuto anche nell''interno'. Egli poteva dunque ricollegare alla pioggia "l'origine della flussione, della lienteria, della dysenteria e della diarrhoea" (Philosophia sagax, ed. Sudhoff, XII, p. 176); tuono e vento gli segnalavano colica e torsiones (dolori addominali); le malattie tartaree (tartarus) erano collegate a grandine e lampi; le malattie femminili alla posizione del pianeta Venere, e così via.

Tuttavia il medico non era in grado di curare le malattie provenienti direttamente dal cielo (Himel), poiché ciò spettava alla medicina adepta, alla quale solamente gl'iniziati potevano accedere. Il medicus adeptus era "un farmacista nel firmamento che rappresenta il firmamento e per conto del firmamento agisce" (ibidem, p. 189), i rimedi di cui doveva servirsi provenivano quindi dal firmamento e gli erano svelati dalla Natura, che valeva più di qualunque tradizione. Soltanto la Natura, infatti, riconosceva le malattie e forniva anche le ricette dei farmaci, il medico che avrebbe seguito la luce della Natura sarebbe stato pertanto in grado di trovare le terapie adeguate. I farmaci dovevano essere preparati in base all'astro del corpo interno e non in base a qualità, gradi o umori, poiché sia le malattie sia i rimedi derivavano dagli astri interni; così, il segno zodiacale dello Scorpione come astro interno guariva la puntura dello scorpione; ciò che riguardava il cervello era sotto il dominio della Luna; la milza era invece sotto il dominio di Saturno (v. cap. V; v. anche La scienza bizantina e latina, cap. XXVII, par. 4).

Tale principio analogico era presente anche nella farmacopea paracelsiana fondata sull'alchimia, il terzo pilastro della medicina. Soltanto gli arcana scoperti con l'ausilio dell'alchimia, in quanto sostanze incorporee, potevano essere utilizzati come rimedi; infatti, assumendo, per così dire, una 'natura astrale', essi potevano di conseguenza essere efficaci contro le malattie. L'alchimia otteneva la separazione dell'astro dal sostrato corporeo attraverso il fuoco, e in questo processo l'alchimista doveva osservare il corso del 'firmamento esterno' al fine di preparare correttamente gli arcana da utilizzare nel 'firmamento interno'.

Le complicate teorie mediche di Paracelso, nelle quali era implicita una concezione ontologica della malattia, trovarono un'eccentrica integrazione nella sua dottrina dei tria principia, che segnò l'abbandono delle concezioni tradizionali della materia.

Al centro della concezione paracelsiana della materia vi era la dottrina dei tria principia o tria prima, ossia zolfo (sulfur), mercurio (mercurius) e sale (sal), principî che erano contenuti nei quattro elementi ‒ terra, aria, fuoco e acqua ‒ i quali a loro volta derivavano dall'yliaster o Caos originario. Ciascun elemento possedeva una "matrice" (Mutter) che lo trasformava in sostanze corporee e conteneva altresì i tre principî, che dal punto di vista chimico corrispondevano alla combustione (zolfo), alla condensazione (mercurio) e alla calcinazione (sale). Nella teoria della materia di Paracelso, tuttavia, i quattro elementi avevano un'importanza assai minore dei tre principî, intesi non tanto come agenti tangibili quanto piuttosto come cause incorporee che producevano dinamicamente le trasformazioni materiali all'interno del microcosmo.

Un altro aspetto importante della chimica e della farmacopea paracelsiane era rappresentato dai processi di distillazione attraverso i quali uno spiritus volatile poteva essere estratto da un corpo solido. Per questa ragione egli definiva l'alchimia come una scientia separationis, o ars spagyrica, che aveva il compito di estrarre dai corpi una quinta essentia impalpabile; nella distillazione dei metalli, per esempio, si attuava la separazione tra un residuo, che nella terminologia di Paracelso corrispondeva al sale, e un distillato che ‒ sempre secondo tale terminologia ‒ poteva essere costituito da zolfo e mercurio. Sottoponendo questo distillato a un nuovo processo di distillazione, i componenti zolfo e mercurio si separavano e da essi, attraverso ulteriori trattamenti, si poteva ricavare la quinta essentia.

Per Paracelso, dunque, il compito dell'alchimia quale quarto pilastro della medicina consisteva nel fornire al medico i rimedi per curare le malattie: "Non è già come tutti dicono che l'alchimia fabbrichi oro e argento, in essa imprendi a fabbricare gli arcana e dirigerli contro le malattie; quel che allora ne esce è il fondamento" (Das Buch Paragranum, VIII, p. 185).

In questo programma erano già presenti i germi teorici che furono sviluppati dalla generazione medica successiva in un nuovo ambito di attività, come la preparazione di farmaci attraverso processi chimici.

Uno dei principali meriti di Paracelso nel campo della medicina consiste nell'avere richiamato l'attenzione su un più largo uso dei minerali nella materia medica; sottoponendoli a trattamenti alchemici e farmaceutici, si ottenevano infatti quei rimedi che egli chiamava arcana e ai quali Das Buch Paragranum attribuiva la massima efficacia terapeutica: "Dal momento che gli arcana sono tutta quanta la medicina [...] nient'altro è che gli arcana" (ibidem, p. 186). Poiché secondo Paracelso il mondo esterno, o macrocosmo, si rispecchiava nell'uomo come microcosmo, oltre agli astri, alle piante e agli animali all'interno dell'uomo si trovavano anche i minerali; le malattie provocate dai minerali 'interni' potevano dunque essere curate attraverso minerali 'esterni', o loro preparati. Paracelso citava diversi arcana: l'arcanum lapidis philosophorum, che, come la pietra filosofale con i metalli, 'tingeva' il corpo restituendogli la salute; l'arcanum mercurii vitae, che rigenerava il corpo conferendogli nuove energie; il mercurius essentificatus, l'ossicloruro di antimonio, derivato dalla sublimazione di cloruro mercurico con antimonio, e infine la tinctura, che al pari degli elixiria e delle quintae essentiae agiva sul corpo umano come farmaco universale.

Un altro gruppo di farmaci era rappresentato dai magisteria, ottenuti prevalentemente dai metalli ma anche dalle pietre preziose, dalle perle, dai coralli, dalle piante, dal vino o dal sangue; trattati con composti dell'oro, i magisteria davano l'aurum potabile, farmaco al quale i medici successivi avrebbero attribuito grande efficacia terapeutica.

Paracelso fu inoltre uno dei primi medici del XVI sec. a basare la sua teoria farmacologica sulla dottrina della signatura rerum, che fu ulteriormente sviluppata all'inizio del secolo seguente. Nel Libro IX del De signatura rerum (composto nel 1537 ma pubblicato solo nel 1584), intitolato De signatura rerum naturalium, egli esponeva la sua teoria dei segni, secondo la quale si distinguevano tre tipi di signatura, ossia quella impressa dall'uomo, quella derivante dagli archei e infine quella prodotta dagli astri. Tra gli esempi di signatura di origine umana Paracelso citava le sigle impresse dagli artigiani per firmare i loro manufatti, i colori delle insegne esibite dai soldati, le monete coniate dalle autorità, e i segni fatti dal farmacista sui suoi vasi per evitare confusioni: "e anche nei vasi e nei barattoli delle farmacie, vedete come questi siano tutti indicati e segnati con nomi diversi sulle etichette, poiché se così non fosse, chi potrebbe riconoscere i vari liquores, gli sciroppi, olea, pulveres, semi, unguenti, e in summa tutti i simplicia?" (De signatura rerum, ed. Sudhoff, XI, p. 375).

La signatura impressa dagli astri, invece, era visibile nella fisionomia di un individuo, che derivava sia dall'astro 'esterno' sia da quello 'interno' dell'uomo. Ancora più importante della physionomia era però, secondo Paracelso, la signatura delle piante, dei minerali e degli animali, poiché per il suo tramite il medico poteva stabilire l'età e l'efficacia terapeutica di una determinata pianta. Lo spiritus risiedeva nella radice, e permaneva anche dopo la morte della pianta; solamente quando si distruggeva la radice la pianta perdeva i suoi poteri curativi; questi poteri diminuivano con l'invecchiare della pianta poiché lo spiritus si ritirava nuovamente nelle radici mentre i segni esterni "le linee, le nervature, le grinze, i solchi e simili si accentua[va]no" (ibidem, p. 387). Dal signum signatum di una pianta, dunque, il medico poteva dedurre le proprietà terapeutiche e utilizzarle per curare le malattie corrispondenti. Le signaturae si ritrovavano però anche nei metalli, come potevano sperimentare, secondo Paracelso, soprattutto i minatori; in proposito, egli rinviava alla simbologia dei colori propria della tradizione alchemica e della mineralogia, che insegnava a capire dai colori delle rocce, nonché da quelli delle piante e degli alberi che crescevano su un determinato terreno, i metalli che vi erano sepolti.

La teoria della signatura fu poi ripresa e sviluppata nella Philosophia sagax, nell'ambito della quale fu presentata come parte dell'astronomia naturale; Paracelso sostenne che essa sarebbe stata d'aiuto in particolare al medico quale signator nello studio delle proprietà di tutte le cose naturali: "e dunque i signatores hanno trovato molti medicamenta, remedia e altre vires nelle cose naturali, e chi non dice la proprietà delle erbe dalla signatura, non sa quel che dice" (De signatura rerum, XII, p. 173).

Sostenitori e avversari della chemiatria

Con Paracelso ebbe inizio l'era della 'iatrochimica' o 'chemiatria' (anticamente anche 'chimiatria'), una dottrina medica che da un lato interpretava i processi fisiologici in termini chimici, dall'altro lato proponeva l'uso di rimedi chimici per la cura delle malattie.

Poiché le opere di Paracelso scritte in tedesco, ma anche le loro traduzioni latine, rimasero per la maggior parte inaccessibili alla maggioranza dei medici dell'epoca a causa del linguaggio bizzarro e oscuro, una 'prima generazione' di chemiatri ‒ cui si devono anche le prime edizioni parziali o le traduzioni latine delle opere di Paracelso ‒ si prefisse il compito di redigere lessici che spiegassero la terminologia paracelsiana. Nel 1566 apparve in lingua tedesca l'Onomasticon Theophrasti Paracelsi di Adam von Bodenstein (1528-1577), opera che ebbe numerose edizioni successive; nel 1574 Michiel Schütz (Toxites) (1515-1581) pubblicò gli Onomastica II primum philosophicum, medicum synonymum ex variis vulgaribus linguis alterum Theophr. Paracelsi ... vocum ... explicatio, che si prefiggevano principalmente di spiegare i neologismi medico-chemiatrici coniati da Paracelso. A Gerhard Dorn (seconda metà del XVI sec.) si deve un Dictionarium Theophrasti Paracelsi (1573), sempre in latino, dedicato anch'esso al chiarimento dell'apparato terminologico paracelsiano. A von Bodenstein, Schütz e Dorn si rifece Martin Ruland il Vecchio (1532-1602) nel suo Lexicon alchemiae (1612) ‒ curato dal figlio, Ruland il Giovane (1569-1611) ‒ che rispetto alle opere precedenti poneva maggiormente l'attenzione sui concetti chemiatrici paracelsiani. Questi lessici contribuirono senza dubbio a rendere accessibili a una seconda generazione di chemiatri le opere di Paracelso, che erano oscure non soltanto dal punto di vista linguistico.

Tra i medici che già alla fine del XVI sec. si richiamarono alle idee di Paracelso vi fu Leonhard Thurneysser zum Thurn (1530-1597), che seppe unire all'esercizio della professione medica un'abile attività imprenditoriale. Autore degli Archidoxa (1569), della Quinta Essentia (1570) ‒ in cui si descriveva anche la preparazione di rimedi chemiatrici ‒ del Pison (1571), che illustrava i metalli e i minerali presenti nelle acque di numerosi fiumi e laghi, Thurneysser, chiamato a Berlino da Giovanni Giorgio (1571-1598), principe elettore di Brandeburgo, prese a esercitare (nelle stanze del 'Graues Kloster') una pratica medica basata soprattutto sulla diagnosi delle urine, attraverso un processo di distillazione di sua invenzione, che consentiva di analizzare campioni di urina inviati anche da pazienti lontani. Convinto sostenitore nella prassi medica della chemiatria, ricusava sistematicamente le dottrine dei galenici. Non diversamente da Paracelso, nella preparazione dei rimedi (allestì anche una farmacia che vendeva a caro prezzo i nuovi farmaci chemiatrici) si fondava su tre principî che deduceva dall'analisi dei tre regni della Natura per svilupparne le proprietà terapeutiche; a seconda del principio cui erano associati, i farmaci secondo Thurneysser si dividevano in tre gruppi: (1) sale, polvere, tartaro, croco e magnete, con proprietà saline; (2) essenze, acque, liquores, nonché il mercurium philosophorum, associati al mercurio; (3) tinture, oli, balsami e magisteria, mumia e spiritus, soggetti al principio dello zolfo. Le dottrine terapeutiche di Thurneysser erano inoltre basate sull'astrologia e i suoi due trattati di iatromatematica ‒ gli Archidoxa e la Historia und Beschreibung influentischer elementischer und natürlicher Wirckungen aller fremden und heimischen Erdgewechssen ‒ si rifacevano anche alla dottrina paracelsiana della signatura.

Queste teorie suscitarono molte critiche e trovarono un deciso avversario nel professore di medicina di Greifswald, Franziskus Joël (1508-1579), il quale rifiutava decisamente qualunque commistione tra magia e chemiatria, sebbene nei suoi Opera medica (Amburgo, Lüneburg, Rostock, 1616-1631) ‒ pubblicati postumi dallo zio Franz Joël III ‒ descrivesse numerose ricette per la preparazione di rimedi chemiatrici paracelsiani. Le critiche espresse da Joël nelle 37 tesi del De morbis hyperphysicis et rebus magicis (Rostock, 1580 e 1599) erano dirette quindi anche contro Thurneysser, giudicato, al pari di Paracelso, per nulla attendibile; entrambi infatti si sarebbero serviti di un demone, o spiritus familiaris, per formulare profezie e pronostici astrologici.

Oltre a ciò, Thurneysser avrebbe imprigionato il diavolo in una sfera di cristallo, così come ‒ a quanto si diceva ‒ Agrippa di Nettesheim lo avrebbe portato con sé racchiuso in un anello e Paracelso nell'elsa della spada. Le opere di chemiatria di Joël furono pressoché prive di risonanza, ma le accuse contro Thurneysser, secondo le quali questi avrebbe praticato la magia nera, ebbero un'influenza durevole e fecero sì che per lungo tempo il medico e farmacista svizzero fosse considerato il prototipo del ciarlatano che intratteneva rapporti con gli spiriti maligni.

Un tentativo di conciliare i principî paracelsiani con la medicina del XVI sec. fu compiuto dal medico umanista Johann Guinter von Andernach (1505 ca.-1574) nel De medicina veteri et nova tum cognoscenda tum faciunda commentarii duo, pubblicato a Basilea nel 1571. Con Paracelso ‒ affermava Guinter ‒ la chemiatria come ars chemica è entrata di diritto nel novero delle discipline mediche e se è vero che l'uso di rimedi alchemici era noto già in passato ‒ come attesterebbero anche le note di Galeno indirizzate a Pisone, in cui si raccomandava il ricorso a rimedi ottenuti col fuoco ‒, tuttavia il fondatore della chemiatria va considerato in ultima istanza Paracelso, in quanto è stato il primo ad aver introdotto questo metodo terapeutico nella medicina del suo tempo. L'alchimia ‒ secondo Guinter ‒ consentiva di estrarre succhi, linfe e sali non soltanto da erbe, legni e radici, ma anche da mucillagini, fossili, perle, coralli, pietre preziose e altri materiali; col fuoco si potevano poi ottenere gas e quintessenze dai corpi solidi. Nel trattamento di patologie maligne che non potevano essere curate con i rimedi tradizionali, l'impiego di farmaci chemiatrici dimostrava la massima efficacia.

Guinter era prodigo di elogi per i rimedi chemiatrici e tuttavia si scagliava con veemenza contro il loro impiego da parte dei ciarlatani, osservando che spesso a servirsene erano individui privi di qualunque preparazione scientifica; i farmaci ottenuti col fuoco si dimostravano, infatti, efficaci nella cura di gravi patologie, ma avrebbero potuto essere estremamente dannosi se usati senza le adeguate cognizioni.

In Johann Guinter von Andernach emerse per la prima volta quella contrapposizione tra 'galenisti' e 'paracelsisti' che avrebbe dominato la letteratura medico-farmaceutica dell'epoca successiva. Medico umanista, egli restava legato alle dottrine mediche degli Antichi, e tuttavia la sua farmacopea era mutuata da Paracelso, del quale riprendeva, per esempio, alcune ricette per preparare composti dell'antimonio e del mercurio, nonché un aurum potabile. Senza dubbio Johann Guinter, in virtù della sua autorità come professore di medicina a Parigi (sulla sua importanza nel campo della medicina v. anche cap. XIV, par. 2), a differenza di Leonhard Thurneysser zum Thurn diede un contributo decisivo alla diffusione delle idee di Paracelso sia in Germania che in Francia.

Il contributo di Tommaso Erasto (1524-1583) nel campo della medicina non è meno importante della sua attività di teologo, sebbene talvolta egli sia ricordato quasi esclusivamente ‒ e riduttivamente ‒ per i violenti attacchi alle dottrine e alla persona stessa di Paracelso. Certamente i suoi anatemi contro quest'ultimo, definito "bestia, porco che grugnisce, beone e mago", restano impressi più della critica radicale alle teorie paracelsiane da lui condotta nelle Disputationes de medicina nova Philippi Theoprasti Paracelsi, che pubblicò fra il 1572 e il 1574 con lo scopo di difendere la medicina galenica. In particolare, Erasto criticava i preparati chemiatrici di antimonio e mercurio, affermando che il fuoco usato nella preparazione dei farmaci avesse proprietà più distruttive che terapeutiche. Alla dottrina dei tre principî e alle teorie mediche e farmacologiche paracelsiane erano costantemente contrapposte la medicina e la scienza naturale galenico-aristoteliche, le quali ‒ secondo Erasto ‒ costituivano i fondamenti più sicuri della prassi medica. Egli negava pertanto l'esistenza di forze occulte, rifiutando altresì l'impiego dell'astrologia nella medicina. La critica ai pronostici e alle predizioni astrologiche, così come alla iatromatematica in generale ‒ sviluppata in particolare nella Defensio libelli Hieronymi Savonarolae de astrologia divinatrice (Ginevra, 1569), diretta contro lo iatromatematico Christoph Statmion (1509 ca.-1585) ‒ dimostra chiaramente il tentativo di dissociare la medicina e la farmacopea dalle correnti ermetico-astrologiche, che secondo Erasto avevano nel magnus Paracelso l'esponente di maggiore spicco.

Un'altra critica alla chemiatria, che essendo basata su solide argomentazioni, superava il piano delle invettive personali, fu espressa dal medico Andreas Libau o Libavius (1555-1616). Nonostante il titolo, la sua Alchemia, pubblicata a Francoforte sul Meno nel 1579 (in una seconda edizione del 1606 il titolo fu trasformato in Alchymia), si rivela un fondamentale trattato di chimica generale, cui Libau fece seguire nel 1615 due opere di commento e di spiegazione, il Syntagma selectorum e l'Appendix necessaria.

Nell'Alchemia Libau si proponeva di offrire un panorama della chimica contemporanea sia agli allievi dei ginnasi sia agli studenti di medicina, e ‒ oltre che alle dottrine aristoteliche ‒ si richiamava ai tre principî di Paracelso, pur attribuendovi un'importanza secondaria. L'opera è articolata in due sezioni, la prima dedicata all'Encheria, o scienza della manipolazione (il greco encheiría, ‒ cheír, mano ‒ è propriamente 'pratica', 'manipolazione'), la seconda ai processi chimici. L'Encheria consisteva nella padronanza del fuoco e degli strumenti quale fondamento indispensabile per il lavoro del chimico, e nella prima sezione si trovano dunque istruzioni dettagliate su singole manipolazioni, nonché sulla regolazione della temperatura. Il secondo libro dell'opera, intitolato Chemia, verte invece sulla preparazione di magisteria, estratti e "specie composte", e fornisce istruzioni accurate e precise per la preparazione di varie sostanze chimiche. I magisteria incorporavano, secondo Libau, le sostanze ancora imprigionate nella materia, dalle quali si potevano ottenere gli estratti. Le "specie composte" corrispondevano ai cosiddetti composita chimici e avevano una maggiore efficacia terapeutica dei composita galenici.

Il principale merito di Libau è senz'altro quello di aver fornito un compendio enciclopedico delle conoscenze chimiche del suo tempo e di essere stato uno dei primi ad associare in una stessa opera mineralogia, chemiatria e chimica applicata (per es., a proposito della tecnica di fabbricazione del vetro). Tuttavia, il suo tentativo d'inquadrare in un sistema 'chimico' i risultati basati in parte sull'osservazione, era destinato al fallimento, in quanto numerosi fenomeni non erano spiegabili con le teorie dell'epoca. Ebbe successo, invece, il tentativo di liberare i concetti della chimica e della chemiatria dal linguaggio arcano di alcuni alchimisti, nonché la sua critica all'opinione corrente secondo la quale tutto avrebbe dovuto essere distillato. Se è vero che le opere di Libau non favorirono l'affermarsi della chemiatria, tuttavia in ultima analisi nemmeno l'ostacolarono; piuttosto, esse fornivano una 'guida' ai processi chimici che poteva risultare utile a medici e farmacisti orientati verso la chemiatria nella preparazione dei farmaci.

La Basilica chymica di Oswald Croll

All'inizio del XVII sec. si moltiplicarono le opere di medicina e farmacopea mirate a diffondere la chemiatria e a difenderla contro i 'galenici' quali rappresentanti dell'antica farmacopea restituita dagli umanisti nella sua purezza originaria; tra i medici della 'seconda generazione' chemiatrica emerse senza dubbio la figura di Oswald Croll (1560-1608), la cui opera principale può essere considerata la Basilica chymica, trattato di chemiatria la cui editio princeps venne pubblicata postuma a Francoforte nel 1609. In particolare nella Praefatio admonitoria, di oltre cento pagine, Croll (che grazie al sostegno finanziario del principe Cristiano I von Anhalt-Bernburg aveva allestito a Praga un vero e proprio laboratorio chemiatrico), professava la sua adesione alle dottrine di Paracelso e alla chemiatria, descrivendone diffusamente le teorie e i metodi. Riprendendo la dottrina dei tre principî, sosteneva che il vero medico filosofo dovesse avere una conoscenza approfondita ed esaustiva del macrocosmo 'esterno' al fine di comprendere il microcosmo 'interno' all'uomo. I quattro elementi classici rappresentavano per così dire le colonne portanti del mondo esterno, ma Croll non li intendeva come costituenti materiali dell'Universo, bensì come regioni cosmiche o matrices, composte di spirito e materia. Gli elementi, a loro volta, erano formati dai tre principî ‒ sale, zolfo e mercurio ‒ che controllavano così i processi chimici e fisiologici del macrocosmo. La seconda parte della Basilica chymica era dedicata alla pratica chemiatrica e in essa Croll presentava numerose ricette chimiche per la preparazione di farmaci 'paracelsiani'. A differenza delle precedenti opere dedicate alla chemiatria, la Basilica di Croll dava chiare indicazioni sulle materie prime dei preparati senza però precisarne le quantità, cosa che avrebbe permesso di seguire metodi omogenei e certi nella preparazione dei singoli farmaci.

Sempre nel 1609, Croll pubblicò a Francoforte sul Meno il trattato De signaturis internis rerum seu de vera et viva anatomia majoris et minoris mundi, nel quale ‒ riprendendo le teorie della signatura formulate da Paracelso e dall'italiano Giambattista Della Porta (1535 ca.-1615), la cui opera Phytognomonica era stata pubblicata già nel 1588 ‒ dimostrava per mezzo di numerosi esempi in quale modo piante, animali o minerali rivelassero attraverso la loro signatura esterna le proprietà terapeutiche di cui erano dotati. In base al principio secondo il quale 'il simile cura il simile', le malattie di determinate parti del corpo potevano essere curate dalle piante il cui nome contenesse il nome di quella parte del corpo (per es., Pulmonaria officinalis per curare le malattie dei polmoni), oppure che presentassero una somiglianza morfologica con la parte stessa (per es., gli 'occhi di gambero' per la cura delle malattie degli occhi).

Al pari della Basilica chymica ‒ di cui apparvero numerosi commentari, tra cui nel 1643 quello del chemiatra di Marburgo Johannes Hartmann e nel 1684 quello del medico e farmacista di Norimberga Johannes Hiskia Cardilucius (attivo nel 1676-1697) ‒ il De signaturis di Croll godette sino al Settecento di una certa popolarità. Anche nel XX sec., col diffondersi delle cosiddette medicine alternative, si è assistito a una rinascita dell'interesse per quest'opera.

Johannes Hartmann e il Laboratorium chymicum publicum di Marburgo

Professore di chemiatria nel 1609 all'Università di Marburgo (dopo esserlo stato di matematica e medicina) Johannes Hartmann (1568-1627) era fermamente deciso ad assicurare alla nuova scienza un posto consolidato accanto alle altre discipline universitarie. Uomo eminentemente pratico, egli rifiutava ogni commistione tra la chemiatria e le dottrine astrologiche o ermetiche. Conformemente al suo motto, dogmata non iuro in Paracelsi aut scita Galeni, vera utriusque placent, falsa utriusque iacent! (non giuro fedeltà né ai dogmi di Paracelso, né ai principî di Galeno, le verità di entrambi trovano riconoscimento, le falsità passano inosservate), Hartmann poneva la chemiatria interamente al servizio della medicina e il suo insegnamento nel Laboratorium chymicum publicum comprendeva, oltre alle lezioni teoriche, una parte pratica relativa alle tecniche di preparazione dei farmaci. Le copie di un diario che Hartmann tenne tra il 10 luglio e il 10 settembre del 1615 e dal 6 al 10 gennaio dell'anno successivo, indicano come fosse organizzato il lavoro nel suo laboratorio; nel corso di un trimestre, basandosi sulla Basilica chymica di Oswald Croll, gli studenti imparavano a preparare opium, laudanum opiatum e il cosiddetto 'oro potabile inglese'. Le esercitazioni erano messe a verbale e le osservazioni degli studenti, integrate con le sue spiegazioni, annotate su un quaderno. Hartmann attribuiva grande importanza all'esattezza dell'osservazione, pretendendo persino veglie notturne dagli studenti nel caso di lavori particolarmente lunghi e complessi; nello stesso tempo imponeva l'obbligo di non divulgare all'esterno i metodi di preparazione dei farmaci chemiatrici. Tale obbligo si trova specificato all'inizio del diario di lavoro ed è sottoscritto dagli studenti provenienti dalla Polonia, dalla Slesia, dalla Danimarca e dalla Prussia che frequentarono i trimestri invernale ed estivo del 1615-1616. Il laboratorio era finanziato sia con i proventi della vendita dei preparati chemiatrici, sia con l'onorario pagato dagli studenti.

Oltre ai commentari al Tyrocinium chymicum di Jean Béquin e alla Basilica chymica di Oswald Croll, Hartmann ha lasciato pochi scritti. La sua unica opera autonoma, la Praxis chymiatrica ‒ pubblicata postuma nel 1633 ‒ consisteva in una raccolta di ricette in cui si descrivevano anche i metodi di preparazione dei farmaci. In una breve introduzione Hartmann illustrava la sua concezione di una terapia 'chimica' che doveva essere scelta in base alla diagnosi precisa dal medico, il quale, partendo dalla sua conoscenza della chemiatria, provvedeva a preparare i rimedi (specifica ed euporista) e a somministrarli al paziente.

L'editio princeps del 1633 della Praxis chymiatrica si deve al figlio di Hartmann, Georg Eberhard, e al professore di medicina di Lipsia Johann Michaelis (1606-1667). L'opera ebbe sino al 1659 altre cinque edizioni che furono pubblicate in diverse città. Nel 1663 Johann Anton van der Linden (1609-1664), professore di medicina dell'Università di Leida, ne curò un'edizione riveduta; mentre nel 1677 Johannes Hiskia Cardilucius, che aveva edito anche la Basilica chymica di Oswald Croll, ne pubblicò a Norimberga una nuova versione con il titolo Officina sanitatis sive praxix chymiatrica. Conrad Johrenius (1653-1716), professore di medicina a Francoforte sull'Oder, pubblicò, infine, due edizioni delle opere complete di Hartmann, apparse rispettivamente nel 1684 e nel 1690.

Con la Basilica chymica di Croll e la Praxis chymiatrica di Hartmann i medici e i farmacisti del XVII sec. ebbero a disposizione due trattati di chemiatria fondamentali, i quali, oltre a fornire una guida alla preparazione di farmaci chemiatrici contenevano anche concezioni ermetiche e teorie mediche paracelsiane, e indussero alcuni autori a tentare una conciliazione tra medicina 'galenica' e medicina 'ermetica'.

L'affermarsi della chemiatria. La conciliazione tra 'galenici' e 'paracelsiani'

Nel 1606, e dunque prima della pubblicazione delle fondamentali opere di Croll e di Hartmann, l'editore Sebastian Henripetri aveva pubblicato a Basilea il Principiorum chymicorum examen ad generalem Hippocratis, Galeni, caeterorumque Graecorum ad Arabum consensum institutum di Jakob Zwinger (1569-1610), professore di medicina a Basilea.

Jakob Zwinger proveniva da una stimata famiglia di medici di Basilea il cui capostipite fu Theodor Zwinger il Vecchio (1533-1588) e ‒ come già il padre e lo zio, Theodor Zwinger il Giovane ‒ può essere annoverato tra i medici umanisti che contribuirono a dare lustro alla Facoltà di medicina della città. Mentre Theodor Zwinger il Vecchio, detentore della cathedra theoretica, si era dedicato soprattutto alla medicina teorica, Jakob volse le sue preferenze alla pratica. I suoi studenti lo accompagnavano nelle visite ai pazienti e frequentavano le lezioni private di medicina e chemiatria che egli teneva nella sua casa. Qui si svolgevano anche attività di laboratorio, come attesta l'Epistola dedicatoria del Principiorum chymicorum examen, indirizzata ai medici Leonhard Dold di Norimberga e Friedrich Egs di Rheinfelden. Il programma di Zwinger è annunciato nell'Epistola, che si apre con una citazione da Cicerone: "È segno di ricchezza di spirito riuscire a condurre il potere della parola in sfere diverse, cosicché gli altri la accettino". La massima ciceroniana era applicata anche ai seguaci della chemiatria, le cui dottrine secondo Zwinger andavano accettate senza riserve. I teorici della medicina e i filosofi avrebbero dovuto dare il benvenuto alla nuova disciplina, senza più attribuirle la posizione subordinata in cui era stata relegata sino ad allora negli studi di medicina.

Pur richiamandosi alla medicina aristotelica, Zwinger invitava i medici della sua generazione a riconoscere i 'nuovi' principî del mercurio, dello zinco e del sale quali elementi costitutivi della materia. La prefazione, infarcita di citazioni tratte dalle opere di Ippocrate, Aristotele e Avicenna, rivela la formazione umanista dell'autore, ma i riferimenti a Paracelso e alla chemiatria indicano altresì il desiderio di Zwinger di conciliare la medicina tradizionale con quella paracelsiana. Dopo una disquisizione etimologica sul termine 'chimica', Zwinger cercava di dimostrare come già gli Antichi conoscessero le virtù terapeutiche dell'antimonio, del mercurio e dello zolfo; merito di Paracelso sarebbe stato quello di aver reintrodotto nella farmacopea contemporanea i rimedi chimici. L'opera non esercitò un'influenza significativa ‒ segno ne è l'assenza di ulteriori edizioni ‒, tuttavia Jakob Zwinger può essere comunque annoverato tra gli autori che nella contrapposizione tra la medicina umanistico-galenica e quella paracelsiana presero decisamente posizione in favore della chemiatria.

Non desta sorpresa il fatto che a Wittenberg, la principale università protestante dell'Impero, la chemiatria sia stata recepita con grande lentezza. Se Melantone si era pronunciato a favore dell'introduzione dell'astronomia e dell'astrologia nel curriculum delle discipline insegnate nelle scuole e nelle università riformate o di nuova fondazione, aveva però preso nettamente le distanze dalle dottrine magiche o alchemiche. Tuttavia, soprattutto con gli Initia doctrinae physicae ‒ che apparvero nel 1549 a Wittenberg ed ebbero numerose edizioni successive ‒ il praeceptor Germaniae diede un contributo fondamentale all'introduzione delle scienze naturali anche nelle università tedesche. Nemmeno Kaspar Peucer (1525-1602), il genero di Melantone, dimostrò un particolare interesse per la chemiatria; nell'inventario della sua biblioteca figurano numerosi testi di medicina e di astronomia, ma pochissimi trattati di alchimia, tra cui un'edizione del De vita longa attribuito a Paracelso e le Disputationes di Erasto. Tuttavia non è da escludere che l'interesse di Peucer per le scienze naturali abbia contribuito, anche dopo il suo arresto per dissidi religiosi, a mantenere vive nell'Università di Wittenberg le istanze di rinnovamento.

Un analogo interesse per le scienze naturali emerge nel De chymicorum cum Aristotelicis et Galenicis consensu ac dissensu liber (1619) di Daniel Sennert (1572-1637), che già nel 1611 aveva pubblicato a Wittenberg un trattato di medicina dal titolo Institutionum medicinae libri V. Il lavoro sulla chemiatria era dedicato al margravio di Brandeburgo Christian Wilhelm, e nella lettera dedicatoria Sennert constatava come negli ultimi anni in Germania si fossero sviluppate diverse scuole di medicina; mentre i seguaci della medicina galenica ‒ che si rifacevano all'autorità di Galeno e di Avicenna ‒ spesso rifiutavano di seguire i nuovi indirizzi di pensiero, la maggioranza dei medici dell'epoca non si peritava di usare fiale, storte e alambicchi. L'autentico fondatore della nuova medicina era da considerarsi, affermava Sennert secondo un topos oramai diffuso, Theophrast Paracelso, poiché sebbene la chymia fosse stata trattata anche in passato, nessuno prima di lui aveva messo in discussione i fondamenti della vecchia medicina. Soltanto Paracelso aveva osato contrapporsi alla medicina tradizionale fondando una nuova dottrina, di cui si era dichiarato apertamente 'principe'; grazie alle sue promesse fantastiche, tra cui quella della pietra filosofale, Paracelso era riuscito a conquistarsi un vasto seguito, che lo venerava come guida e maestro. Sennert gli rimproverava di non essersi limitato all'attività medica, ma di essersi cimentato anche con problemi di teologia, minacciando di dare una lezione anche a Lutero e al papa, oltre che a Galeno e a Ippocrate. Nell'opera di Sennert, però, venivano criticate in particolare le concezioni magiche contenute negli scritti pseudoparacelsiani, secondo le quali quando veniva a mancare l'aiuto di Dio occorreva rivolgersi al diavolo. In questo caso il riferimento era alla Philosophia sagax e se ne criticavano aspramente le 'nuove' dottrine magiche alle quali si ispiravano Valentin Weigel, Oswald Croll e altri autori che cercavano di scalzare la religione cristiana con idee eretiche. Sennert non risparmiava critiche a Weigel e Croll, accusandoli di aver trascurato le scienze e le accademie per dedicarsi a quella che essi chiamavano magia 'naturale' e alla cabala; entrambi contavano piuttosto di acquisire il sapere nei loro laboratori attraverso gli esperimenti con i metalli, oppure speravano in ispirazioni o rivelazioni segrete, nonché in comunioni, comunicazioni e soccorsi reciproci tra gli spiriti. Poiché anche queste dottrine erano state diffuse sotto il nome dei chymici, l'autentica chymia aveva finito per essere rifiutata, o perlomeno guardata con sospetto da molti medici; Sennert, in qualità di medico e chimico (gli si deve l'introduzione dello studio della chimica nelle università), si sentiva in dovere di epurare la scienza dalle fantasticherie e dalle assurde dottrine di Paracelso, non da ultimo per tutelare i giovani studenti.

Contro Sennert prese posizione il chemiatra Gregorius Martini in un'operetta, Commentatiuncula in librum qui inscribitur de chymicorum cum Aristotelicis et Galenicis consensu ac dissensu caput XI, pubblicata nel 1621 a Francoforte sull'Oder da Friedrich Hartmann. Egli si proponeva di dimostrare che la medicina paracelsiana non era in contraddizione con quella galenica, come aveva sostenuto Sennert, affermando che certe asserzioni di Paracelso andavano intese in parte come allegorie o similitudini. Martini cercava dunque di ricondurre i tre principî di Paracelso ai quattro elementi aristotelici ‒ incentrando l'attenzione soprattutto sui solfati ‒ e dedicava una dettagliata trattazione al vetriolo, cui attribuiva alcune proprietà dello zolfo. È degno di nota il fatto che nell'opera di Martini comparisse già la nozione di 'flogisto', che egli identificava con una "sostanza incombustibile che si sprigiona" da determinati composti.

Un ultimo tentativo, peraltro vano, di ostacolare il diffondersi della medicina parcelsiana fu compiuto da Hermann Conring (1606-1681), erudito professore di medicina, nell'opera De Hermetica Aegyptiorum vetere et Paracelsicorum nova medicina, pubblicata a Helmstedt nel 1648.

Conring sosteneva che le 'sette' paracelsiane, come egli le definiva, avessero falsificato i testi ermetici. Innanzi tutto contestava l'autenticità degli scritti attribuiti a Ermete Trismegisto ‒ già messa in questione da Isaac Casaubon (1559-1614) ‒ asserendo che questi non potevano risalire alla stessa epoca in cui si riteneva fosse vissuto il dio egizio, ma sarebbero stati composti più tardi. Lo stesso valeva, a suo avviso, per le opere di Paracelso, di cui spesso risultava impossibile verificare l'autenticità. Vanamente, secondo Conring, l'antica arte farmaceutica veniva attaccata dai seguaci di Paracelso, tanto più che la stessa chemiatria non poteva essere definita una vera scienza; le dottrine di Paracelso ‒ in particolare la sua filosofia naturale e la dottrina dei tre principî ‒ erano assurde e prive di qualunque fondamento, la fama di Paracelso si doveva attribuire esclusivamente alla sua pretesa infondata di poter fabbricare l'oro e all'ingannevole successo nell'uso dei farmaci.

Contro Conring, in difesa della chemiatria prese posizione nel 1668 il medico danese Ole Borch (Olaus Borrichius, 1626-1690) con la Dissertatio de ortu et progressu chemiae. Nel 1669 Conring pubblicò una seconda edizione ampliata del De Hermetica medicina, dedicata al ministro delle finanze francese Jean Baptiste Colbert, che conteneva in appendice una difesa contro gli attacchi di Borch. Questi rispose a sua volta con lo scritto Hermetis Aegyptiorum et chemicorum sapientae ab Hermanni Conringii animadversionibus vindicata (1674), in cui ribadiva nuovamente la validità della dottrina paracelsiana dei tre principî e della chemiatria in generale.

Per comprendere appieno la controversia tra galenici e paracelsiani, tuttavia, occorre ricordare la grande importanza assunta dai metalli e dai loro preparati farmaceutici nella materia medica del XVII sec.; accanto al mercurio, al bismuto e al piombo, cui venivano attribuite proprietà curative, l'antimonio in particolare assunse un ruolo centrale nella terapia dei medici e dei farmacisti dell'epoca.

L'antimonio, farmaco guida del XVII secolo

Verso l'inizio del XVI sec. i medici avevano cominciato a manifestare un particolare interesse per l'antimonio (stibium). Oltre all'efficacia terapeutica dei suoi derivati, usati come diaforetici, lassativi ed emetici, era già nota all'epoca anche la sua proprietà di separare l'oro, il 're dei metalli', dalle impurità e dalle scorie. L'antimonio era conosciuto principalmente come antimonium (trisolfuro di antimonio) e come oleum antimonii (tricloruro di antimonio), da cui si otteneva il mercurius vitae (miscuglio di ossido e ossicloruro di antimonio); vi erano poi i flores antimonii, composti di anidride antimonica.

Sull'importanza dell'antimonio nella metallurgia avevano già richiamato l'attenzione Peter Kertzenmachen (prima metà del XVI sec.) nell'Alchemie und Bergwerk, apparso a Strasburgo nel 1535, e il chimico e metallurgista Vannoccio Biringuccio (1480-1538), che nel suo trattato De la pirotechnia libri X (Venezia, 1540) ne aveva descritto l'impiego nella raffinazione dell'oro e aveva illustrato l'uso dei suoi composti nella preparazione di leghe, tinte e medicamenti. Tuttavia fu Paracelso a richiamare decisamente l'attenzione dei medici sui composti dell'antimonio. Già negli Elf Traktate um Ursprung, Ursachen, Zeichen und Kur einzelner Krankheiten, risalenti al 1520 ca. e pubblicati nel 1564 a Colonia dal medico paracelsiano Theodor Birckmann, Paracelso forniva le prime ricette a base di antimonio e negli scritti successivi attribuì a questo metallo un grande valore terapeutico. Nei frammenti in tedesco presenti nei cinque libri del De vita longa, pubblicati a Strasburgo nel 1574 da Georg Forberger (1543 ca.-1604 ca.), Paracelso osservava nel capitolo De magisterio antimonii: "Così come l'antimonio purifica l'oro, nella stessa forma e maniera purifica anche il corpo. Poiché esso contiene l'essentia, che non lascia nulla di impuro in ciò che è puro. E non v'è esperto di tutti i testi archidossici, né spagirico che potrà mai arrivare a conoscere a fondo la forza e le virtù dell'antimonio" (De vita longa, ed. Sudhoff, III, p. 306).

E anche nella Große Wundartznei del 1536, che fu pubblicata quando l'autore era ancora in vita ed ebbe una discreta diffusione, venivano elogiate le proprietà dell'antimonio.

Tra il 1599 e il 1604, ossia dopo che molte opere di Paracelso erano già state pubblicate, Johann Thoelde (1565 ca.-1624) pubblicò un corpus di scritti attribuiti al monaco Basilio Valentino. Come prima opera del corpus valentiniano (che peraltro, secondo gli studiosi, con tutta probabilità è costituito da scritti di diversi autori del XVI sec.), Thoelde pubblicò a Eisleben nel 1599 il trattato Von dem grossen Stein der uhralten Wesen, unito alle Zwölf Schlüssel; quindi, dopo altri scritti, apparve a Lipsia nel 1604 il Triumphwagen Antimonii, che rappresenta in un certo senso la chiave di volta del corpus valentiniano. Se il trattato Von dem grossen Stein concerneva la produzione dei farmaci alchemici universali sulla base della dottrina dei quattro elementi e dei tre principî paracelsiani, il Triumphwagen Antimonii era dedicato interamente ai composti dell'antimonio e alle loro applicazioni terapeutiche; nonostante il gergo alchimistico che caratterizzava alcuni passaggi dell'opera, le ricette lasciavano trasparire le cognizioni chemiatriche dell'autore.

Dopo quella di Thoelde, si ebbero sino al XVIII sec. varie edizioni in tedesco delle opere complete di Basilio Valentino, nonché un gran numero di traduzioni e commentari che attestano la popolarità di questi scritti, in particolare del Triumphwagen Antimonii, alle cui ricette i medici e i farmacisti dell'epoca attingevano spesso per le loro terapie.

Thoelde ‒ come si è detto ‒ curò anche l'edizione e il commento degli scritti sull'antimonio di Alexander von Suchten (1520 ca.-1590 ca.), il cui trattato Liber unus de secreto antimoni apparve nel 1570 a Strasburgo e venne ripubblicato nel 1604, ampliato di un libro, con il titolo Clavis alchemiae. Proclamandosi seguace di Paracelso, in quest'opera Suchten poneva l'antimonio al centro della sua terapia; d'altra parte, l'adesione alla chemiatria e l'importanza dell'antimonio quale farmaco di massima efficacia venivano ribadite anche negli Antimonii mysteria gemina. Alexandri von Suchten, das ist: von den Großen Geheimnussen deß Antimonii, pubblicati da Johann Thoelde con una prefazione di Michael Toxites.

L'uso terapeutico dell'antimonio fu sviluppato da Adrian Symenicht (o Seumenicht) von Mynsicht (1603 ca.-1638), nel cui Thesaurus et armamentarium medico-chymicum, apparso ad Amburgo nel 1631, si forniva per la prima volta la ricetta del tartaro emetico. Da tempo era noto che l'antimonio e i suoi composti erano solubili nel vino e la bevanda che se ne otteneva esaltava le preziose proprietà purgative dei composti dell'antimonio, ma le imprecisioni nel dosaggio causavano sempre l'insorgere di complicazioni. Il tartarus emeticus, per contro, potendo essere somministrato in dosi esatte, divenne uno dei farmaci chemiatrici preferiti e trovò ben presto accoglienza anche nelle farmacopee.

Volendo dare una valutazione complessiva dell'influenza esercitata dalle opere di Paracelso e dalla sua "nuova medicina" tra la fine del XVI e l'inizio del XVII sec., si può affermare che le dottrine mediche paracelsiane vennero accolte lentamente ma stabilmente nel canone della medicina tradizionale. Nonostante le notevoli resistenze da parte dei tradizionalisti, la concezione ontologica della malattia e i tre principî vennero accettati dalla maggioranza dei medici del XVII secolo. Continuò a sussistere, d'altra parte, un deciso rifiuto delle dottrine magiche se non 'demoniache' presenti nell'opera di Paracelso, soprattutto tra gli esponenti dell'ortodossia sia cattolica sia protestante. Tuttavia, furono proprio queste dottrine ‒ che si ricollegavano alle correnti neoplatoniche, cabalistiche e neopitagoriche della prima metà del XVI sec. ‒ a suscitare l'interesse delle cerchie eterodosse, che non di rado videro in Paracelso l'iniziatore di una 'terza Riforma'. Il fascino esercitato dal Paracelso mago e alchimista sopravvisse assai più a lungo delle sue dottrine mediche, che divennero obsolete con la scoperta della 'grande circolazione' da parte di William Harvey e con l'affermarsi dei metodi induttivi nelle scienze naturali e nella medicina.

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