Il Rinascimento. Immagini e teorie del mondo

Storia della Scienza (2001)

Il Rinascimento. Immagini e teorie del mondo

Alfonso Ingegno
Christoph Lüthy

Immagini e teorie del mondo

Cosmologie

di Alfonso Ingegno

Niccolò Cusano

La vicenda scientifica qui descritta è tradizionalmente considerata di estrema complessità perché le diverse teorie cosmologiche di quest'epoca sorgono dalla continuità come dalla rottura con i modelli precedenti. Così gli sviluppi del geocentrismo incidono sul sorgere e sull'affermarsi dell'eliocentrismo; la riflessione sul concetto di spiritus, che rinvia all'Aristotele delle opere naturali ma anche alle discussioni sull'intelletto, subisce una lenta metamorfosi e accompagna il processo di unificazione tra fisica terrestre e fisica celeste. In modo analogo lo sviluppo dell'astronomia porta a una nuova cosmologia. La problematica analizzata in questo capitolo è quindi caratterizzata dall'intreccio tra tutti questi momenti, così come dal loro influire sulla collocazione cosmica dell'uomo e sul suo significato religioso.

Nel De docta ignorantia, Niccolò Cusano (1400/1401-1464) giungerebbe, secondo alcune interpretazioni del suo pensiero, a concepire per la prima volta un Universo non più chiuso e finito. Le difficoltà presentate dalla sua cosmologia dipendono, tuttavia, dalle premesse metafisiche attraverso cui egli arriva a determinare l'unità e l'infinità del divino, per poi fondare su questi elementi la sua particolare speculazione sulla Trinità. In quanto uno, Dio è l'attualità assoluta di tutti i possibili, che coincide nella sua infinità con la possibilità assoluta stessa. Soltanto ciò che è al di là di ogni misura relativa, ciò che non conosce il più e il meno, può accogliere il tutto in unità, in maniera da essere anche la misura assoluta di ogni cosa, in quanto in lui la diversità è la stessa uguaglianza. Coincidenza di massimo e minimo, e quindi coincidenza dei contrari, Dio è allora l'unità che è anche perfetta uguaglianza di sé con sé stesso, e il nesso amoroso che collega tra loro la sua unità e la sua uguaglianza. Nella Creazione, al contrario, ci si ferma sempre al di qua del massimo assoluto come del minimo assoluto, poiché non è possibile che si dia nella sfera della quantità un processo attualmente infinito, che permetterebbe soltanto di uscire dall'ambito di misure relative; non si dà mai dunque la perfetta uguaglianza delle cose con sé stesse.

Come, tuttavia, la spiegazione di tutte le cose possa darsi da Dio, che complica in una unità assoluta il tutto, come possa derivarne qualcosa che dipende interamente da lui ma non può ereditarne l'assolutezza, è un fatto inesplicabile per la mente umana. Può venirci in soccorso il concetto di 'contrazione', se lo poniamo in rapporto con la definizione trinitaria di Dio. Si è detto che Dio è uguaglianza assoluta dell'unità con sé stessa, ed è anche il nesso che lega l'unità e l'uguaglianza. Se si pensa l'Universo, si deve allora pensare l'unità contratta nella pluralità, l'uguaglianza contratta nella differenza, il loro nesso come il movimento che collega tale unità contratta e tale uguaglianza contratta. Ci troviamo di fronte non al massimo assoluto ma al massimo contratto, dal momento che in esso non può mai darsi misura assoluta delle singole cose, perché non può mai darsi attualmente quel processo all'infinito che solo sfocia nel massimo assoluto e nel minimo assoluto, cioè nella coincidenza dei contrari. Se così non fosse, la possibilità della materia coinciderebbe con quella della divinità e sarebbe assoluta.

Per questa via si fanno strada le novità della riflessione cosmologica di Cusano. La possibilità della materia non è assoluta, poiché non ha una forma che coincida con l'atto di tutti gli atti, la forma di tutte le forme; sarà comunque una possibilità contratta, costretta sempre a essere in atto ora questa cosa ora quella cosa. L'infinità che riceve dall'atto sarà essa stessa un'infinità contratta, così come il nesso che unirà potenza e atto. Dal momento che nulla può porsi come limite dell'Universo, si dovrà dunque affermare che esso non è finito né infinito. È illusorio porre allora tra la mente divina e la molteplicità delle cose un'anima mundi che funga da mediatrice, in quanto essa non può possedere gli esemplari del mondo materiale se non distinti tra di loro, e quindi in modo contratto, così come sarà contratta la potenza della materia, destinata a dar luogo a questo mondo e non a un altro, e contratto sarà quello spirito o movimento che, secondo i platonici, collega anima mundi e materia, operando la connessione del tutto.

Non si può dare nulla di assoluto nel mondo fisico, dal momento che non sarà mai possibile ricondurre la differenza delle cose all'unità assoluta che la fonda e a cui essa è congiunta in modo assolutamente indissolubile.

Cusano coerentemente ci nega la possibilità di accedere all'armonia e alla connessione mirabile che Dio ha stabilito tra tutte le cose, ma è tuttavia in grado di trarre alcuni corollari sul movimento radicalmente nuovi. Se non può esistere un movimento assoluto, che conosca la sua assoluta uguaglianza, non sarà possibile parlare di un centro e, tanto meno, di un limite dell'Universo; riprendendo la formula pseudoermetica del Liber XXIV philosophorum, si affermerà piuttosto che soltanto Dio, in quanto sfera infinita il cui centro è ovunque, è l'autentico centro dell'Universo. Sostenere il contrario sarebbe ritenere che si dia nella realtà fisica qualcosa di assoluto, per esempio quel movimento infinito che coincide con la quiete. Non dobbiamo pensare allora che la Terra sia immobile e al centro dell'Universo; che tra essa e una sfera che funga da limite al Cosmo si distenda il movimento.

Quest'ultimo oscillerà sempre tra i due estremi del massimo e del minimo, della quiete assoluta che è anche il movimento infinito. La Terra appare allora come un astro con una dignità pari agli altri, ed essa ha un suo movimento, non occupa una regione di cui si possa dire che è la più bassa, riceve influenze ma è probabile che a sua volta le trasmetta su corpi celesti, i quali sono forse abitati da esseri viventi. Dal momento che tutto si presenta come centro rispetto all'osservatore se non ha un punto fisso di riferimento (che non si dà in assoluto nel Cosmo di Cusano), la Terra avrà anch'essa un suo moto; se gli altri astri sono abitati da esseri perfetti, non è da pensare che gli abitanti della Terra non abbiano una perfezione propria al loro genere.

Nell'impossibilità di cogliere quell'unità che il movimento assegna al tutto, l'uomo può soltanto avvicinarsi a essa, cercando di 'complicare' i punti fissi su cui si orienta nel Cosmo con i movimenti a cui rinviano, nella consapevolezza della relatività di tali punti.

La distanza tra Dio, massimo assoluto, e l'Universo, massimo contratto, sembrerebbe così destinata a non essere mai colmata se non si desse la possibilità di un massimo che fosse nello stesso tempo assoluto e contratto. In effetti, ogni genere trapassa nell'altro grazie alla specie somma dell'uno e alla specie infima dell'altro, senza che sia mai possibile il darsi in tale distesa del massimo, che è anche minimo assoluto. Tuttavia la specie umana è tale da porsi al centro della catena delle creature, ed è mediatrice in quanto presenta tutte le perfezioni delle altre specie. Non è possibile pensare a un individuo della nostra specie che non possa essere superato da un altro in perfezione; se si desse tuttavia un individuo capace di portare all'atto tutte le perfezioni della specie umana e, attraverso di esse, quelle di tutte le creature nella loro stessa infinità, tale individuo, che non potrebbe essere evidentemente che unico, ci porrebbe di fronte a quel massimo contratto che è anche, per il suo attualizzare le specie infinite contratte, massimo assoluto. Quest'uomo perfetto può unirsi allora al Verbo, alla massimità assoluta, senza che il Verbo cessi di essere Creatore, senza che il massimo assoluto e contratto cessi di essere creatura. Ci troveremmo allora di fronte all'unione ineffabile del Verbo con l'umanità, elevata a esso mediante l'unico uomo perfetto possibile. Il primogenito di tutte le creature sarà allora colui che, senza cessare di essere uomo, ricondurrà il Creato alla sua fonte, perché soltanto attraverso di lui, autentico mediatore, il Creato stesso ha potuto distaccarsi da essa. Sulla base della impossibilità per la Creazione di riflettere in modo adeguato unità e trinità di Dio, è risultata allora l'impossibilità di una mediazione cosmica di carattere tradizionale, ché tutto nell'Universo cade al di fuori della sfera dell'infinito, con il riconoscimento della necessità per la Creazione stessa della mediazione del Cristo, capace nella sua perfezione di attualizzare infinitamente il suo intelletto.

Andrà qui sottolineata la differenza, che ci apprestiamo ad analizzare, di Cusano da Marsilio Ficino; questi pure rifletteva sullo spirito cosmico e il movimento, ma li faceva dipendere direttamente da un'anima mundi elevata a punto mediatore di una scala dell'essere che vedeva Dio e materia partecipi di essa come estremi e opposti. Sempre in Ficino, tornava come centrale la riflessione sulla perfezione dell'uomo e sul rapporto tra Trinità e Universo. La speculazione di Cusano non mancherà certo di echi nel Cinquecento, a cominciare dal gruppo di Jacques Le Fèvre d'Étaples o dall'utilizzazione che Giovanni Francesco Pico farà della sua filosofia in senso antiaristotelico. Resta tuttavia centrale la ripresa di Cusano da parte di Giordano Bruno a fine secolo. Soltanto l'affermarsi di una cosmologia che dal moto della Terra traeva la conseguenza dell'infinità dell'Universo permetterà al Bruno di smantellare l'edificio ficiniano come adeguata rappresentazione dell'essere; soprattutto gli consentirà la ripresa e il ripensamento della metafisica e della cosmologia cusaniane nel loro rapporto. Né diversamente si può spiegare il suo ripensamento della nozione di 'uomo perfetto' e della stessa dottrina trinitaria.

Marsilio Ficino

Centrale in Marsilio Ficino (1433-1499) è la concezione di uno spiritus cosmico, di un fuoco celeste presente, sia pure sotto differenti condizioni, in tutte le sfere e nella Terra stessa. Sulla base di questo, cioè di un elemento unificatore, egli giunge ad avanzare l'ipotesi dell'esistenza di un'unica sfera, all'interno della quale è probabile che i corpi celesti possiedano un moto loro proprio. Le stelle non soltanto presentano una rotazione attorno al loro centro, che risulta collegata con la natura stessa dell'anima che le guida, ma è probabile che abbiano, come i demoni, un movimento proprio attraverso il cielo. In tal modo conoscerebbero uno spostamento determinato dal primo mobile ma anche un movimento progressivo tipico degli esseri viventi; tale sfera unitaria è dunque quella dell'anima, vista nella sua funzione vivificatrice. Ma se il coelum è presente, e lo è ovunque come spiritus, non soltanto diviene possibile identificare, come aveva fatto Timeo, cielo e Universo, ma insieme a questa tesi può farsi strada la convinzione che la Terra non rappresenti la faex mundi di cui parlava la cosmologia tradizionale. Questo insieme di elementi rimette in discussione il carattere da attribuire alla centralità della Terra e in genere riapre il problema del vero centro del Cosmo. Se infatti si riconosce un'unica sfera caratterizzata dalla presenza e dalla funzione dello spiritus, di essa farà parte il nostro pianeta non meno di ogni altro astro, e di conseguenza il fuoco potrà essere presentato come il vero centro ideale dell'Universo. Si trattava dunque di liberare la Terra, nei limiti del possibile, da quella condizione subordinata a cui la condannava la sua collocazione nel Cosmo; una collocazione quindi che difficilmente poteva essere ereditata dal Sole. In questo quadro deve essere tuttavia inserita la ripresa dell'affermazione propria dei pitagorici secondo cui la Terra, se vista da lontano, potrebbe apparire simile alla Luna, mentre lo spazio, simile all'aria, si configurerebbe come un'unica sfera popolata di mondi, con stelle non soltanto dotate di un loro moto ma abitate da esseri di condizione più elevata.

Esiste dunque in Ficino una solidarietà tra la presenza in ogni luogo del fuoco celeste e dello spiritus, e la messa in crisi di alcuni dati della cosmologia tradizionale.

Gli umori degli organismi, egli dice, sono dotati di due principî di movimento, uno naturale e uno più propriamente animale, e si riconosce che il secondo è di tipo diverso in quanto ha luogo non in relazione alla maggiore o minore gravità o leggerezza, ma in rapporto al bisogno delle membra. Vi è, in altri termini, un finalismo che presiede alla vita organica che non soltanto è al di fuori, ma può essere contrario alle leggi del movimento comunemente intese. Così nella Theologia platonica si dichiara esplicitamente che l'anima muove gli umori in contrasto con le leggi che muovono i corpi elementari; il significato dell'ascensus e descensus degli elementi, inoltre, finisce esso stesso per identificarsi con il ritorno in linea retta, secondo la distanza più breve, a quello che non solamente rappresenta il loro luogo naturale, ma è anche la sede del moto loro proprio. Conseguente quindi all'asserzione che la tendenza all'alto o al basso non è più veramente intrinseca a essi, è il riconoscimento di un moto che, esso sì, ha veramente tutti i caratteri per essere definito tale, e non può che avere natura circolare. La Terra stessa, se fosse dotata di movimento, si muoverebbe circolarmente, asserzione che non esclude che al limite sia fermo il centro e che le varie parti abbiano moto circolare intorno a esso. Gli elementi che abbiamo ricordato confluiscono così ‒ nonostante tutte le incertezze, anche sul piano astronomico, del discorso di Ficino ‒ in una struttura unitaria, che si dispone a delineare una nuova fisica e a modellare su di essa le dottrine relative allo status metafisico dell'anima.

Ora, il fuoco celeste-spiritus si pone nello stesso tempo come lumen invisibile e come corpo celeste, tale da poter essere considerato per la sua purezza, afferma Ficino sulla scia di Giamblico, corpus quasi non corpus. I suoi attributi fondamentali sono quelli di essere a un tempo insitus et comprehendens, complens et penetrans; soprattutto, esso conserva intatta la sua natura pur intervenendo nei processi di trasformazione propri del mondo sublunare. Il suo ruolo è allora importante non soltanto quale elemento interno ai singoli composti, ma come principio stesso del loro divenire. Il fatto che esso sia medio tra anima e corpo e agente di primaria importanza nei processi organici vale già a livello delle sfere celesti; queste hanno dunque un carattere mediatore rispetto all'azione dell'anima mundi nei confronti dei corpi sottoposti alle vicende della generazione e della corruzione. Se tale elemento rappresenta il vincolo per eccellenza, a esso devono essere demandate le condizioni di una perennità o meno del Cosmo, poiché costituisce appunto il legame tra anime e corpi. In effetti il fluxus e refluxus delle varie parti dell'Universo finisce per riguardare soltanto queste ultime, mentre non sono ammesse perdite al di fuori di esso, proprio per la natura dell'anima e dello spiritus. Se nulla fuoriesce dal Cosmo e il divenire riguarda solamente le parti, è allora possibile riprendere la tesi del Timeo platonico secondo cui il mondo è perenne divenire, stabilità nel mutamento. L'alternativa era dunque tra la cessazione del Cosmo e il suo perpetuo rinnovarsi; la soluzione di Platone, che era divenuta quella di Plotino, di Proclo e dello stesso Gemisto Pletone, poteva quindi essere accettata come probabile nel quadro di una teologia di ispirazione platonica.

Attraverso tutte queste vie diveniva essenziale chiarire il rapporto tra lo spiritus inteso come corpo stesso del cielo, fuoco di natura diversa rispetto a quello elementare, e l'anima. Appare persuasivo sostenere che il corpo celeste agirà con quelle qualità che sono il riflesso della tripartizione presente nell'anima, caratterizzata da una parte intellettuale, dalla vita e dal moto vitale, attributi cui corrispondono nello spiritus il lumen, l'humor e il calor. È a questo livello che si colloca al centro del discorso di Ficino il significato della Natura e delle rationes seminales. Il prodursi della Natura riflette un processo universale, ed evidenzia anch'esso le condizioni per il realizzarsi dell'unione tra anima e corpo. Ogni anima dà vita a una seconda anima, immagine della prima, il cui attributo essenziale è costituito dall'essere in un rapporto più diretto con il corpo. Questa natura vivifica dell'anima permette a ogni livello, quello delle anime celesti come quello dell'uomo, la sua 'copula' con il corpo. Nel caso particolare dell'anima del mondo, tale sua emanazione viene a coincidere con la Natura stessa nella sua accezione più propria, e quindi con il mondo delle rationes seminales. Ci troviamo di fronte a un'arte naturale insita in tutte le cose, capace di dare forma dall'interno alla materia, a differenza dell'arte dell'uomo, che dà forma dall'esterno a una materia che assolutamente non le appartiene.

Ultimo degli enti di carattere divino, la sua caratteristica peculiare è quella di suscitare corpi dalla materia venendo a contatto con essa, eseguendo ciò che le viene dettato in maniera simile a quella con cui nell'uomo lo spiritus imaginarius obbedisce alla ragione che è volta a operare. Forma e principio di generazione, è essa che, legando anima intellettuale e materia, fa sì che il mondo sia uno, un composto unitario che, dovendo essere perfettissimo, non potrà avere che una forma perfetta, vivente e dotata di senso. Per questa via, le notiones intellectus dell'anima giungono attraverso i semina rerum alle singole forme delle cose; in altri termini, le forme exprimuntur nell'anima intellettuale, imprimuntur nella Natura, concipiuntur nella materia. Va osservato che per questa via le rationes seminales non sono propriamente né rationesimaginationes ma piuttosto immagini, il loro mondo si caratterizza per essere plenus imaginum.

Dunque l'anima non può agire sul corpo e neppure unirsi, copularsi a esso per vivificarlo, senza emettere una seconda anima, che fa sì che dal corpo si sprigioni lumen e con esso il potere di generare. Ma il corpo del cielo è spiritus, e da esso derivano sia il calor sia il lumen e l'humor che provvedono alla vita del Cosmo; in tal modo viene a svilupparsi un rapporto tra il mondo delle rationes seminales e lo spiritus in cui viene visto lo strumento concreto per mezzo del quale l'anima dà al corpo del tutto la sua forma. Così dalle rationes seminales insite nell'anima del mondo siamo ricondotti a quello spiritus che è il corpo stesso del cielo, senso per eccellenza della Natura, destinato ad alimentare il tutto.

La distinzione dello spiritus dalla seconda anima del Cosmo, la Natura, diveniva dunque problematica in Marsilio Ficino, definita come atto della prima, era il principio vivifico e generatore che coincideva con il movimento; l'azione della Natura dipendeva infatti da esso e principio del moto era la vita. Ci si chiede quindi se in Ficino sia possibile separare in modo netto il mondo delle rationes seminales da quello dello spiritus, e questo dal cielo. Natura, mundus seminarius, spiritus, ignis, coelum, lumen potevano dunque essere legittimamente identificati su questa strada. Le rationes seminales sono così divenute principio specifico di moto e di generazione. Come garanti del perdurare delle specie e del prodursi degli individui, esse sembrerebbero rendere superfluo il ricorso alle stelle per spiegare l'azione e l'influsso delle qualità occulte; resta però l'ambiguità presente nel concetto di quel coelum che è insieme ubique, e nel legame tra rationes seminales e corpo divino del mondo.

Il processo di copula e unificazione tra anima e corpo è d'altra parte identico nel caso dell'uomo e in quello cosmico, e nell'uomo coincide con il processo di discesa dell'anima attraverso le sfere, grazie all'acquisizione di un corpo celeste. Ma come l'anima mundi finiva per unirsi con i cieli e per vivificare attraverso di essi il mondo sublunare, così l'anima dell'uomo vivifica in primo luogo il suo corpo celeste, dà vita attraverso di esso a quello aereo e con entrambi al corpo terreno. È questa la discesa delle anime descritta nel Timeo, discesa con cui esse, attraverso i diversi veicoli acquisiti, scelgono i moti fatali cui saranno sottoposte nella vita terrena. Il ritorno dell'anima avverrà, viceversa, deponendo un corpo di terra e aria, per salire in un corpo di aria più pura, tra i demoni eterei, finché, dotata di quello celeste, non divenga compagna dell'anima universale.

Ficino, come risulta chiaro, cercava di individuare a tutti i livelli il lento degradare dell'intelligibile nel sensibile, le vie attraverso cui il primo dà vita al secondo, all'interno di una scala dell'essere in cui ciascun livello è a sua volta via di accesso al livello superiore. Di qui il fatto che il privilegio ontologico riconosciuto all'anima razionale (nel cui genere rientrava quella dell'uomo) si sovrapponesse al suo privilegio cosmologico, quello appunto di unificare sensibile e intelligibile. Ne scaturivano anche i due volti della speculazione di Ficino, per cui ciò che è via di accesso al mondo superiore e a tutto ciò che è al di sopra del corporeo, può essere nello stesso tempo strumento di dominio su di esso, poiché il tutto è vivente e animato. Certo l'anima dell'uomo poteva restare irretita nella trama del sensibile, ma il rapporto con esso poteva trasformarsi in utilizzazione dei poteri dell'anima del mondo sul corporeo, mediante gli strumenti offerti in ultima analisi dalla magia e dall'astrologia. Con la riabilitazione della magia all'interno del sapere dotto, l'uomo ritrovava una diversa possibilità di agire sulla Natura, pur circoscritta per la sua intima pericolosità al possesso di un sapere iniziatico. Le possibilità che si aprivano all'uomo risiedevano allora nella capacità da parte dell'anima razionale di far proprie nella loro totalità le idee, i modelli esemplari delle cose che l'anima mundi imprime come immagini nei cieli, dando luogo ai grandi ritmi cosmici con cui governa nel tempo il mondo.

In questa prospettiva si collocava anche il tentativo ficiniano, destinato a grande fortuna, di una fusione tra ciclo classico ed escatologia cristiana, che preludeva a una rilettura delle più riposte verità religiose sotto la maschera di una conciliazione tra l'autentico sapere degli Antichi e il cristianesimo. Di qui anche la particolare antropologia ficiniana, oscillante tra la teorizzazione di quel temperamento perfetto cui si dischiudano eccezionali poteri contemplativi, profetici e operativi, e la riflessione sui due tipi di malinconia, alimentata dagli pseudoaristotelici Problemata, ma arricchita fino a dare nuova vita alla nozione di 'genio'. Era inevitabile che questa visione animistica del tutto, in cui la riduzione della frattura tra mondo celeste e mondo sublunare è resa funzionale alle possibilità dell'uomo di ricongiungersi con l'unità suprema, potesse essere vista come preludio alla rivoluzione astronomica, come uno dei momenti essenziali di preparazione alla grande svolta che si compie nel Cinquecento con i primi tentativi di unificazione tra fisica terrestre e fisica celeste. Una risposta a questo problema, inevitabilmente approssimativa per la sua complessità, è esposta nelle pagine che seguono.

Giovanni Pico della Mirandola

L'interesse profondo che guidava Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) nella sua opera contro l'astrologia (pubblicata postuma nel 1496) era la netta separazione tra il mondo spirituale dell'uomo, soggetto esclusivamente alla volontà divina, e il mondo naturale. L'astrologia si presentava infatti come il tentativo più compiuto di contaminazione tra due ambiti eterogenei fra loro, e il suo aspetto più rilevante risiedeva nel tentativo di riassorbire in un determinismo naturale l'intero mondo dell'uomo, dall'atto della volontà fino al destino, caduco come quello di ogni evento naturale, delle religioni.

Pico aveva così il merito di porre in rilievo il carattere di filosofia della storia, oltre che di filosofia della Natura, che aveva assunto l'astrologia, che come tale aveva imposto la sua autorità nei campi più diversi del sapere, dalla medicina alla filosofia per giungere alla stessa teologia. La risposta di Pico consisteva nel contrapporre a essa l'autentica cosmologia elaborata dai filosofi, e fraintesa nei suoi fondamenti primi. L'errore fondamentale dell'astrologia risiedeva infatti nel fare dei cieli la causa di eventi particolari. In realtà i cieli agiscono soltanto come cause universali, ed è unicamente alla materia e ai luoghi che deve essere demandata la funzione di specificare tale azione universale, determinando l'effetto individuale. Luce, moto e calore sono gli strumenti attraverso i quali il mondo celeste agisce, e non possono quindi essere efficaci che entro la sfera del corporeo; tutti i tentativi di ricondurre all'influenza celeste fenomeni quali la profezia, il miracolo, le stesse religioni, e in particolare quella cristiana, vanno condannati come privi di senso, nella consapevolezza che se i cieli non sono causa di ciò che è loro superiore non ne possono neppure essere segno.

Una delle caratteristiche salienti del tentativo di Pico, la cui opera, propiziata dal Savonarola, restò incompiuta, consisteva nella ricerca di una dimensione storica del proprio discorso. L'astrologia era nata da una astronomia errata, quella degli Antichi, il cui presunto sapere riposto, esaltato anche da Ficino e, in un primo tempo, dallo stesso Pico, si riduceva appunto a un miscuglio privo di rigore di astronomia, medicina superstiziosa e magia. All'interno di tale prospettiva storica, Pico sottolineava con efficacia che agli errori degli Antichi in campo astronomico l'astrologia aveva aggiunto l'indebita trasformazione di punti, linee, cerchi immaginari, che pur potevano avere un valore ai fini del calcolo, in realtà dotate di una efficacia fisica, che doveva essere considerata puramente illusoria. Gli stessi sviluppi dell'astronomia non facevano che confermare con le loro incertezze la validità del suo discorso. Non soltanto il moto e la posizione dei pianeti sono ancora sconosciuti, ma il loro ordine e in genere il numero delle sfere celesti non sono determinati con precisione; è possibile che esistano pianeti per noi invisibili e movimenti sconosciuti delle sfere, oltre a quelli, nuovi, che i Moderni ritengono di aver osservato per la prima volta. Di qui era scaturito il ricorso all'esistenza di una nona e poi di una decima sfera; ora, tutto questo era sufficiente, se vero, a rendere falsa l'astrologia degli Antichi, ma faceva crollare anche quella dei Moderni se tali sfere, dotate evidentemente di una loro valenza fisica, erano trattate dagli astrologi come ininfluenti.

Qui la polemica di Pico raggiunge il massimo della sua efficacia, ma rivela anche il suo limite e mette in luce il punto di maggior rilievo ai fini del nostro discorso. Cosmologia e astronomia appaiono come due ambiti che possono essere separati tra di loro e che anzi non devono interferire; in particolare la cosmologia sembra conclusa in sé stessa, non suscettibile di modificazioni da parte delle osservazioni astronomiche. Mentre fa uso delle incertezze dell'astronomia e dei suoi sviluppi per invalidare l'astrologia, Pico non si accorge che in tal modo chiama in causa la stessa struttura del Cosmo; analogamente non lo sfiora l'idea che la struttura tradizionale da lui delineata possa essere infirmata o venire ricondotta essa stessa alla sua genesi storica, che già in partenza si rivelava problematica su punti decisivi; basti pensare a quello dell'origine e della trasmissione del calore da parte dei cieli, una spina nel fianco dei grandi commentatori di Aristotele, come Pico mostrava di sapere molto bene. Tutto questo ben si accompagna qui alla sua indifferenza nei confronti del tentativo di Ficino di giungere a una sorta di relativizzazione della frattura tra mondo celeste e mondo sublunare. È importante tuttavia sottolineare l'interesse anche da parte di Pico per la nozione di spiritus, la cui trattazione restava confinata in un ambito che non doveva superare i limiti del corporeo e in particolare della vita degli organismi animali. Alla luce, che prepara e dispone alla vita, segue un calore celeste emesso da tutte le stelle, che penetra, riscalda e ordina tutto. È come se questo contenesse in sé in modo eminente le qualità elementari, che nulla possono senza la sua azione; generando le sostanze degli elementi, esso fa vivere le qualità dei corpi inferiori con le loro cause prossime. Il cielo si conferma così come l'efficiente universale rispetto alla materia e al luogo, ma in ciò che vive vi è bisogno del soffio di tale calore, di quello spirito sottilissimo, medio tra anima e corpo, che si genera nel seme ma richiede il soccorso dello spirito celeste cui è affine. Affinità particolare con il calore celeste ha lo spirito dell'uomo, vapore tenue e sanguigno rispondente alla perfezione al cielo, sempre riscaldato da tale calore. Le reminiscenze aristoteliche qui presenti, riconducibili al De generatione animalium (II, 3, 736b), potevano ricongiungersi all'insegnamento di Ficino, ed erano in ogni caso destinate a grandi sviluppi. La frattura con Ficino, cui si è già accennato, sulla validità di un antico sapere riposto, in cui l'autore della Theologia platonica vedeva addirittura una sorta di consapevolezza del mistero cristiano, mostra tuttavia come Pico cercasse ormai di reagire a tendenze diffuse, operando una rigida separazione di campi che annullasse fittizie continuità storiche. Nello stesso tempo egli chiarisce, involontariamente, la ragione segreta dell'efficacia delle credenze astrologiche.

Queste dovevano appunto la loro incidenza al numero dei campi del sapere in cui erano intervenute con un relativo successo nel fornire la spiegazione proprio di ciò che sembrava sottrarsi a una regola e presentare i caratteri dell'eccezionalità. Se l'astrologia faceva dei cieli la causa di eventi individuali, era pur vero che ciò accadeva soltanto alla luce del ripetersi di una più o meno ampia situazione celeste, nel presupposto di una trama sottostante a ogni evento che aveva il carattere della ciclicità. Ciò spiega come lungo tutto il Cinquecento, talora negli stessi autori, l'impossibilità di una compiuta conoscenza dei cieli si accompagni alla fiducia nella verità dell'astrologia, fiducia non intaccata dal riconoscimento dei suoi errori e delle sue imprecisioni, cui si cerca di porre rimedio. Così sarà per esempio in Gerolamo Cardano, che tentava di far rinascere l'arte dalle sue fondamenta, servendosi anche, tacitamente, dell'opera di Pico, disprezzata a parole ma di cui si teneva conto nel tentativo di adeguare l'astrologia stessa ai mutamenti che il quadro dei cieli presentava rispetto all'Antichità. Soprattutto l'astrologia darà luogo a rinnovati tentativi di fusione tra concezione ciclica della storia ed escatologia cristiana, un fenomeno di dimensioni europee di cui Campanella sarà soltanto un esempio saliente, per non dire della sua rilevanza tanto nella riflessione sul fato quanto negli sviluppi della stessa astronomia.

Pietro Pomponazzi

L'opera di Pietro Pomponazzi (1462-1525) rappresenta la conferma della legittimità dei timori religiosi di Pico; essa indica anche come l'aprirsi della crisi dell'aristotelismo potesse incontrarsi con i temi imposti dalla Riforma. Nel De incantationibus, Pomponazzi nega l'esistenza dei demoni e cerca di ricondurre la presenza di qualità occulte, così come le vicende religiose dell'uomo e la sorte del cristianesimo, a un generale determinismo astrale retto dalle intelligenze celesti. Egli polemizza con Pico e crede di poter salvare, all'interno del quadro aristotelico adottato, tanto l'astrologia quanto la libertà dell'uomo rivendicando l'autonomia del sapiente nei confronti dei cieli, grazie alle sue facoltà superiori. Complemento necessario di tale tesi è tuttavia che la stragrande maggioranza degli uomini sia soggetta alle facoltà inferiori, e quindi all'influenza astrale. Il fine pratico-morale che, nel De immortalitate animae, egli aveva assegnato come il solo consono a una umanità destituita di uno scopo ultraterreno, si trasformava così in una tesi problematica che metteva in discussione anche il ruolo del sapiente. Anche se soltanto quest'ultimo è colui che compie il bene in senso proprio, non sembra sottrarsi egli stesso all'universale determinismo; d'altra parte la consapevolezza che il sapiente ha dei processi cosmici e naturali non è sufficiente a fornirgli un senso generale delle vicende dell'uomo e ad assegnargli quindi una funzione precisa. Tali problemi si riflettono in modo drammatico nel suo De fato, de libero arbitrio et de praedestinatione. La filosofia di Aristotele, se resa coerente con le sue premesse, sfocia in un determinismo radicale. Tuttavia queste premesse riposano in ultima analisi sul Libro VIII della Physica, vale a dire su un unico presupposto, l'esistenza di un motore immobile, che non appare dimostrato in modo inequivocabile.

Pomponazzi cerca così di sottrarre la volontà umana a quel determinismo universale cui la condannerebbe la sua dipendenza dall'intelletto; nel tentativo di aprirsi una nuova strada, egli abbatte storici steccati tra filosofia e teologia, finendo per relativizzare entrambi i campi e rendendo problematico il rapporto tra conoscenza e morale. La pretesa superiorità del sapiente non è annullata, ma lo riduce all'isolamento, dal momento che egli non è in grado di portarsi al livello delle intelligenze e può soltanto constatare la vicenda cosmica e ciclica che esse regolano senza scoprirne il fine; contemporaneamente la strada prescelta modifica il rapporto stesso tra sapiente e moltitudine, alimentando il dubbio che il male non sia sempre il frutto di ignoranza. I problemi cui la riflessione di Pomponazzi va incontro chiariscono come, anche per la sua diffusa influenza, la riflessione cosmologica potesse incontrarsi a un certo punto con i problemi che la Riforma sollevava, e che investivano la natura stessa del cristianesimo. Così sarà per Marcello Palingenio Stellato, per Girolamo Fracastoro e in parte per lo stesso Cardano.

Astronomia e cosmologia

A Padova, tra la fine del XV e gli inizi del XVI sec., riprende vigore la discussione sulla frattura che si era creata tra astronomia matematica e cosmologia aristotelica. Ne è prova tra l'altro il rinnovato interesse per l'opera di Alpetragio, De motibus caelorum, ristampata a Venezia nel 1531. Tale discussione trovava uno dei punti costanti di riferimento in alcuni celebri testi di Averroè.

Questi sottolineava il carattere soltanto ipotetico di eccentrici ed epicicli e prospettava la necessità di tornare a stabilire un accordo tra la reale struttura dei cieli, indicata da Aristotele, e la descrizione matematica dei movimenti celesti, che a tale struttura non poteva non corrispondere, data la superiorità di natura dei cieli stessi. Il ricorso a eccentrici ed epicicli rispondeva certamente a esigenze di calcolo e riconduceva, tra l'altro, le anomalie che apparivano nel moto dei pianeti sul piano della regolarità geometrica. Tuttavia, esso non riusciva a connettere in modo persuasivo i dati dell'osservazione e i risultati ottenuti attraverso le ipotesi utilizzate con una struttura fisica che fosse compatibile non soltanto con la cosmologia aristotelica ma con una visione unitaria dell'Universo. Veniva meno inoltre anche il presupposto, indiscusso, con cui si guardava ai movimenti celesti, e cioè che essi fossero circolari e uniformi, nel momento in cui si ricorreva a espedienti come l'equante.

La cosmologia aristotelica presentava d'altra parte due punti di aggancio fondamentali tra fisica e matematica: il movimento del primo mobile, destinato a garantire l'eternità del movimento dei cieli e, in secondo luogo, l'inclinazione dell'eclittica, dell'orbita descritta dal Sole nei confronti dell'equatore celeste, inclinazione che determinava la diversità della vita del mondo sublunare, una diversità che scaturiva dalla stessa costanza della causa che presiedeva a essa. Saranno proprio questi i due punti che la rivoluzione astronomica farà saltare nel corso del XVI sec., ma va osservato che già la conoscenza di nuovi fenomeni celesti metteva in forse, se non la realtà, certo la misura di essi e li inquadrava in un ambito cosmologico nuovo. La scoperta di un movimento proprio delle stelle fisse e contrario a quello giornaliero della sfera celeste aveva condotto a postulare una nona sfera; dal momento che tale movimento presentava un mutamento periodico di direzione, si era postulata l'esistenza di un'ulteriore decima sfera. Si aggiunga che la diversa valutazione della precessione degli equinozi non soltanto rendeva difficile stabilire la misura dell'anno solare ma si ripercuoteva sulla durata da assegnare al grande anno del mondo, il ritorno di tutti gli astri alla posizione originaria di partenza. Ciclo cosmico, questo, cui erano legate tutte le speculazioni riguardanti i ritmi dell'Universo e la stessa storia dell'uomo indagata con mezzi astrologici.

Gli sviluppi dell'osservazione sembravano dunque accrescere e non diminuire l'incertezza nella nostra conoscenza dei cieli; se essi avevano conseguenze dirette sul piano cosmologico, venivano a sovrapporsi al dato fondamentale già ricordato, il fatto cioè che non si riuscisse a ricondurre i movimenti planetari a un insieme unitario e coerente, che permettesse di stabilire con certezza, tra l'altro, l'ordine e la distanza dei pianeti dalla Terra. È la situazione dell'astronomia quale viene descritta da Pico per invalidare la correttezza delle previsioni astrologiche, ma soprattutto è la situazione che viene descritta da Copernico e Fracastoro nelle lettere dedicatorie premesse alle loro opere.

La scissione tra i due ambiti, quello fisico e quello matematico, registrata da Averroè, tendeva dunque a ripresentarsi non soltanto in un quadro mutato, ma in maniera tale da porre il problema della loro interdipendenza come essenziale per il progresso dell'astronomia stessa. La richiesta di tornare a sovrapporre fisica e matematica non era certo una novità e si collocava in un quadro tradizionale aristotelico: tuttavia essa assume ora il significato del richiamo a una soluzione unitaria in cui venga emergendo un nesso inscindibile tra una rinnovata struttura cosmologica, adottata quale punto di partenza, e gli sviluppi matematici conseguenti a essa. Si poteva certo continuare a tenere separati i due ambiti, riaffermando la validità dei presupposti cosmologici tradizionali oppure l'utilità ai fini del calcolo delle ipotesi adottate; si poteva anche, come di fatto avvenne, rivendicare la realtà fisica di eccentrici ed epicicli. Tuttavia sembra possibile affermare che l'astronomo stesso faccia sua la convinzione che si possa ricostruire l'edificio dell'Universo soltanto attraverso una trasformazione della cosmologia tradizionale; una trasformazione che spesso assume come sua verifica la capacità di restare fedeli ad alcuni presupposti indiscussi, come quello del moto circolare uniforme dei cieli, di fatto non rispettati dall'astronomia tradizionale.

Da questo punto di vista risulta di per sé illuminante il rapporto ambiguo, ma di estrema importanza, esistente tra il sapere degli Antichi e i tentativi di rinnovamento globale dell'astronomia che hanno luogo nei primi decenni del XVI sec., tentativi pur caratterizzati dall'estrema diversità delle soluzioni adottate. Per Girolamo Fracastoro (1483 ca.-1553) si tratta di ritornare all'insegnamento del Timeo platonico, interpretato con l'aiuto del commento di Proclo, per risalire alle conoscenze degli antichi Egizi e del mitico Ermete. Di fatto è poi Giovan Battista Della Torre, l'amico e sodale delle cui ultime volontà Fracastoro si fa esecutore, che ha compreso i due moti segreti dei cieli che gli Antichi avevano soltanto intuito. Così Niccolò Copernico (1473-1543), in uno dei suoi testi più celebri, l'epistola dedicatoria del De revolutionibus a papa Paolo III, afferma di aver adottato il moto della Terra quale ipotesi di partenza per ricostruire la realtà dei movimenti celesti sulla base delle testimonianze rimasteci relative alle concezioni dei pitagorici.

Tuttavia, l'insegnamento dei pitagorici sottostava alla consegna del silenzio; ciò che ha compiuto Copernico, la saldatura tra un'ipotesi iniziale e un sistema unitario del Cosmo, rappresenta qualcosa di radicalmente nuovo non soltanto rispetto a quell'edificio dai disiecta membra che è l'astronomia moderna (anche Fracastoro parla di essa come di un monstrum) ma rispetto a ciò che ci è rimasto dei sistemi antichi. Per entrambi ‒ Fracastoro è esplicito in proposito ‒ l'impresa astronomica ha qualcosa che è al limite delle forze umane e coincide con la capacità di gettare lo sguardo sulla parte più riposta della Creazione, quella che la divinità ha nascosto all'uomo; essa ha qualcosa a metà tra l'eroismo filosofico che Bruno attribuisce a Copernico e il rischio dell'empietà. Così, nella prima stesura degli Homocentrica, è il fratello Marcantonio che compare a Giovan Battista Della Torre per rivelargli, secondo il modello ciceroniano del Somnium Scipionis, ciò che l'occhio umano da solo non potrebbe mai discernere.

Qualcosa che non viene riproposto nell'edizione a stampa dell'opera; nella dedicatoria di essa la pietas di Fracastoro verso l'amico scomparso, il suo consegnare alle stampe le scoperte del primo, si mescolano a cautele di ogni tipo che non salveranno l'autore dall'accusa di empietà. Georg Joachim Rhaeticus nella De libris revolutionum Copernici narratio prima non esitava a parlare di Copernico come di colui che, come un cieco, in possesso soltanto del bastone della matematica, aveva avuto bisogno della guida di una mano superiore per condurre a compimento la sua impresa. Copernico sapeva che avrebbe avuto tra i suoi avversari teologi e peripatetici; una reazione religiosa ci fu, immediata, non soltanto da parte di Lutero e di Filippo Melantone in Germania ma, come ora sappiamo, anche in Italia.

Tali tentativi di riforma globale dell'astronomia hanno dunque in comune alcuni presupposti indiscussi, legati alla perfezione dei cieli; a loro volta le ipotesi adottate dovevano trovare una verifica della loro validità nella capacità di rispettare realmente i già citati presupposti.

Nello stesso tempo, soltanto un punto di partenza cosmologico diverso poteva permettere di formulare in termini corretti i movimenti celesti, giungendo a dare un'immagine unitaria e armoniosa dell'Universo. Si osservi come nel giovanile Commentariolus, Copernico già presenti il moto della Terra non soltanto come ipotesi reale ma come lo strumento autentico per riuscire a riordinare la sfera celeste; il discorso sviluppato è soltanto cosmologico, ma è tale da poter trovare la sua autentica conferma unicamente in un'adeguata descrizione matematica dei movimenti celesti, qui appena postulata. Nel De revolutionibus, sempre nell'epistola dedicatoria, si afferma che il moto della Terra poteva essere adottato legittimamente come ipotesi astronomica da porsi accanto alle altre, anche se non se ne fosse accettata la portata reale. Ma la rivendicazione del fatto che mathemata mathematicis scribuntur, inteso come atteggiamento di difesa nei confronti di teologi e peripatetici, sarebbe sufficiente a indicare il valore reale dell'eliocentrismo. Soltanto attraverso quest'ultima via diveniva possibile ovviare agli inconvenienti ai quali aveva dato luogo l'adozione di eccentrici ed epicicli o quella di sfere tra loro concentriche, soluzioni che avevano condotto alla separazione tra astronomia e realtà. In questa prospettiva acquistano senso sia l'epistola dedicatoria sia l'intero primo libro dell'opera. Quest'ultimo era volto dapprima a sgomberare il campo dalle obiezioni tradizionali al moto della Terra, indicando la possibilità di esso, per poi mostrare come soltanto attraverso l'adozione di tale ipotesi il Cosmo potesse riacquistare un volto unitario, armonioso e coerente. Di qui il carattere insostituibile del discorso cosmologico e nello stesso tempo i limiti voluti entro cui esso viene a essere confinato. Le obiezioni di Aristotele e Tolomeo sono ridotte al minimo, e più precisamente a ciò che potrebbe avere una valenza fisica immediata in relazione all'astronomia. Si tratta in primo luogo di mostrare la possibilità del moto della Terra e di illustrare la plausibilità delle conseguenze che ne derivano sul piano fisico, ma restringendo il discorso ai soli movimenti celesti. In tal modo appare con chiarezza il fine voluto: soltanto attraverso la soluzione adottata, esclusiva di ogni altra sul piano fisico, diviene possibile elaborare una teoria matematica dei moti planetari quale Copernico si appresta a offrire nei libri successivi, una teoria cioè capace di restare ben salda all'assetto reale del Cosmo e di dare quindi ragione delle apparenze, riconducendole alla loro radice reale. Per questa via, diviene indispensabile trasferire alla Terra i moti attribuiti alla sfera stellata, ridotti a semplici apparenze, così come accade per le presunte irregolarità nel moto dei pianeti. Così il primo libro dell'opera, una volta demolite le ipotesi contrarie al moto della Terra, presuppone gli sviluppi successivi dell'opera stessa e affida a essi la conferma della sua validità. Alla fine la descrizione che Copernico propone dei movimenti celesti gli permetterà di mostrare la relazione tra i vari pianeti, quel rapporto tra le loro velocità e le loro distanze dalla Terra che l'astronomia tradizionale non era in grado di chiarire.

L'impresa di Copernico, si è detto, ha dei presupposti, il moto circolare uniforme dei corpi celesti non meno dell'unità del Cosmo come un insieme armonico e coerente, presupposti che una volta dimostrati vengono a porsi come la verifica autentica della verità della strada imboccata. È noto che su questo punto Copernico non evita incoerenze che sono tuttavia di estremo rilievo per gli sviluppi successivi della cosmologia: l'assenza di una parallasse delle stelle fisse lo costringe a porre una enorme distanza tra esse e Saturno, e questo elemento di fatto mette in forse la regolarità armoniosa del Cosmo che egli rivendica come sua conquista. Ciò costringe Copernico a parlare di un Universo 'immenso', nel momento stesso in cui l'ultima sfera, così dilatata nelle sue dimensioni, non risponde più ad alcuna funzione fisica reale. Se l'Universo è divenuto immenso, egli lascia allora al filosofo naturale la decisione sulla infinità o meno di esso, infinità che è diventata irrilevante per quanto concerne la descrizione dei moti planetari. Forse in tali parole è ravvisabile una sfumatura di ironia; è certo tuttavia che quando egli riafferma che mathemata mathematicis scribuntur, ci troviamo di fronte a un atto di difesa nei confronti di chi pretendesse di introdurre criteri di verità che non fossero astronomici nel giudicare della sua opera, ma è anche l'insegna di un lavoro che soltanto per quella via poteva trovare il suo compimento.

I risvolti cosmologici che accompagnano il moto della Terra senza poter ricevere una trattazione matematica sono, tuttavia, come è ovvio, radicali. Ritenere che Copernico non fosse consapevole di questo fatto, della rottura profonda che egli introduceva sul piano fisico, sarebbe far torto alla sua intelligenza; certo non è da pensare che egli pretendesse di esaurire gli enormi problemi che sollevava con le brevi osservazioni sulla natura del moto circolare, sull'impulso delle parti a unirsi al tutto nel corpo della Terra, sull'immensità del Creato, osservazioni che scaturivano tutte dal carattere fisico dell'ipotesi di partenza, e che erano destinate d'altra parte a essere riprese e sviluppate in futuro. Così, egli operava di fatto una unificazione tra sfera sublunare e sfera celeste cambiando i connotati di entrambe, sebbene non rientrasse nel suo progetto approfondirne i caratteri. L'eredità che egli lasciava sul piano cosmologico comportava dunque un lavoro immane. Sembra certo che sia stata la sua autorità di astronomo, a prescindere dalla verità o meno dell'ipotesi adottata, a tenere vivo il suo insegnamento fino alla ristampa del De revolutionibus nel 1566, accompagnata dalla De libris revolutionum Copernici narratio prima di Rhaeticus e dalle speculazioni astrologiche sulle variazioni dell'eccentricità solare che vi erano unite (un punto, questo dell'astrologia, su cui Copernico aveva mantenuto un assoluto silenzio). È tuttavia un errore di prospettiva quello che induce a ritenere lento il processo che lo condurrà al centro della discussione tanto astronomica che cosmologica. Basti pensare che i fenomeni celesti del 1572 e del 1577 già riaprono, tra infinite incertezze, il discorso sulla struttura del Cosmo e ripropongono l'attualità delle sue idee.

Si è già osservato che due in particolare erano i punti attraverso cui cosmologia e astronomia si saldavano in Aristotele, e varrà la pena di notare che entrambi sono cancellati in Copernico. Venivano infatti a cadere la necessità del moto della sfera delle stelle fisse e, insieme a essa, l'esistenza stessa di un'orbita del Sole. Il primo punto era tale da porre in crisi il rapporto che si era sviluppato tra fisica e metafisica sulla base della filosofia aristotelica; il secondo farà ricercare nella Terra e nel suo moto la causa delle variazioni che hanno luogo sulla sua superficie, ma Copernico costringerà a rielaborare in genere la teoria dei grandi cicli cosmici fin dalle sue radici. Occorre d'altra parte notare che anche il tentativo di Fracastoro, destinato certo a un fallimento scientifico ma anche a ottenere notevole influenza, non lasciava immutate nessuna delle due teorie ora ricordate.

Girolamo Fracastoro

L'astronomia di Fracastoro, basata su sfere omocentriche e sulla negazione della realtà di eccentrici ed epicicli, poteva apparire come un ritorno privo di senso al passato, un tentativo anacronistico destinato inevitabilmente al fallimento. L'estrema difficoltà della sua opera ha poi favorito giudizi sommari e liquidatori. È facile tuttavia accorgersi che anche nel suo caso ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso da una semplice risposta alla richiesta di Averroè. Come per Copernico, anche per Fracastoro il punto di partenza non è di carattere ipotetico; esso assume progressivamente i tratti di una nuova cosmologia sulla base dei tre soli movimenti possibili nel Cosmo. Soltanto l'individuazione della reale struttura del Cosmo può dare allora la possibilità di costruire l'edificio matematico dell'astronomia. I movimenti circolari e perfetti delle sfere concentriche sono assicurati da tre sfere superiori al cielo delle stelle fisse. Il primo mobile fornisce il moto diurno a tutto l'Universo, il Circumducens causa l'abbassamento dell'eclittica regolando le ere della vita terrestre, il Circitor si inserisce nel moto del grande anno, spiegando il mutare della storia umana. Giovan Battista Della Torre identificava nell'equatore celeste e nell'eclittica i due cerchi dell'Identico e del Diverso di cui parlava Platone: a essi corrisponderebbero il movimento dell'equatore celeste intorno ai poli e il moto in latitudine dell'eclittica, e cioè il progressivo e perenne abbassarsi dell'orbita descritta dal Sole verso e oltre l'equatore celeste, moto in latitudine comune alle orbite di tutti i corpi celesti e uno dei tre moti fondamentali del Cosmo. Qualora l'inclinazione dell'eclittica restasse ferma, le stagioni non muterebbero, per Fracastoro, mentre essa si sposta da nord a sud e verso l'equatore per poi superarlo.

In quanto comune a tutti i corpi celesti, compresa la sfera delle stelle fisse, tale moto permette allora a ogni sfera di esercitare la sua influenza attraverso tempi lunghissimi su tutti i punti della Terra (un dato, questo, di cui si ricorderà Bruno quando cercherà di fissare le grandi trasformazioni della vita sul nostro pianeta trasferendo a esso i moti già attribuiti alla sfera delle fisse). I rilevanti mutamenti che hanno luogo nella storia avverrebbero invece sulla base del grande anno del mondo e dei cambiamenti prodotti in esso dall'azione del Circitor, anno del mondo che sarebbe il moto proprio alla sfera delle stelle fisse, opposto a quello naturale per i pianeti.

Il moto proprio dell'eclittica dovuto al Circumducens regolerebbe dunque il mutare della vita sulla Terra e il succedersi delle diverse ere geologiche, e come mediatore tra il divenire terrestre e l'uniformità dei moti celesti garantirebbe l'unità e la perfezione del tutto. La Natura verrebbe così spiegata sulla base del rapporto di necessità che si instaurerebbe nei cieli tra la sfera dell'Identico e quella del Diverso; non occorrerebbe allora rinviare al di là di essa, non soltanto per postulare l'unità del tutto, ma per spiegare i grandi cicli della storia dell'uomo e della Natura stessa. La relativa autonomia rispetto alla metafisica, che acquisterebbe così il Cosmo di Fracastoro, introduce tuttavia alla novità più rilevante della sua cosmologia, che ha un risvolto astronomico tale da modificare la concezione della vita sulla Terra. La stessa perfezione matematica che caratterizza i movimenti dei cieli quale privilegio della loro regione, dovrebbe permettere di rendere conto in modo nuovo del loro nesso con la Terra; in tal modo viene recuperata l'auspicata coincidenza tra matematica e fisica celeste attraverso l'identificazione dell'intero Universo con un Cosmo chiuso in sé stesso e regolato da leggi.

Ma l'unità dei cieli ha fatto posto al prodursi di mutationes, al darsi di qualcosa di nuovo come suo momento costitutivo, poiché nella vicenda cosmica la sfera del Diverso non sembra garantire una indefinita ciclicità, e quindi un finalismo che presieda alla vita del mondo sublunare e a quella dell'uomo. Gaspare Contarini obiettava a Fracastoro che soltanto la fissità dell'obliquità dell'eclittica poteva garantire le condizioni per la conservazione della vita sulla Terra. Per Fracastoro, era proprio la sua mutevolezza che avrebbe permesso al Sole di influire, attraverso le variazioni del suo movimento, su ogni punto della Terra, rendendo possibili tutti i tipi di generazione. È questo il punto più delicato della sua riflessione, per le conseguenze che ne traeva. Già a partire dalla Syphilis sive morbus Gallicus e dalla prima redazione degli Homocentrica, egli prevedeva una ciclicità dovuta alla mutazione delle orbite planetarie e in particolare dell'orbita del Sole, tale da rigenerare la vita in modi sconosciuti e inquietanti, con la comparsa di mostri e di generazioni spontanee e incontrollate; tutto questo avrebbe dovuto condurre a un cataclisma finale e all'estinguersi dell'Universo. Il destino stesso dell'uomo e quello della Natura potevano apparire come qualcosa di oscuro, e Fracastoro non riuscì a sottrarsi all'accusa di empietà mossa da Giulio Cesare Scaligero alla Syphilis, dal momento che introduceva un mutamento nell'ordine divino dei cieli. Fracastoro divulgava, secondo le sue affermazioni, le scoperte di Della Torre, che tuttavia non aveva voluto renderle pubbliche, pur in un ambiente come quello veneto aperto alle novità e sensibile al problema specifico, come mostrano le discussioni fortemente critiche che accolsero gli Homocentrica già nella prima stesura (l'edizione a stampa censurerà le conclusioni più ardite) e che coinvolsero uomini come Contarini, Marco Antonio Flaminio e il celebre aristotelico Ludovico Boccadiferro.

Teologia e cosmologia

Alla fine degli anni Trenta del Cinquecento ha luogo in Italia una discussione sulla grazia in cui intervengono uomini come Contarini e Flaminio, cui Fracastoro era legato in maniera diversa. Tale discussione ha particolare rilievo, anche se sfocia nel fallimento del tentativo di compromesso sul problema cruciale della giustificazione operato dal Contarini nei colloqui di Ratisbona nel 1541. Che negli stessi anni Fracastoro scriva un dialogo sulla grazia, giuntoci incompleto e rimasto inedito, non sorprende, ma pone il problema di un possibile nesso tra cosmologia e riflessione religiosa in Italia negli anni che vanno dal 1530 al 1540.

La prosecuzione del dibattito sull'immortalità dell'anima non era soltanto uno scolastico perpetuarsi delle contese sulle forme in cui ha luogo la conoscenza umana, ma presenta elementi nuovi, oltre ad arricchirsi di motivi che hanno a che fare con la crisi religiosa in atto. Si aggiunga che la speculazione di Pomponazzi continua a esercitare il suo influsso in questi anni, sia per l'equilibrio che egli ha rotto tra riflessione filosofica e pensiero teologico sia per la drammaticità dei problemi che aveva lasciato irrisolti. Tali problemi sono relativi al determinismo cosmologico cui sarebbe sottoposta la volontà umana in una prospettiva filosofica e, più in generale, con il rapporto tra conoscenza e morale.

In questa prospettiva assume notevole rilievo il poema di Marcello Palingenio Stellato (1500/1503-1543 ca.), lo Zodiacus vitae, considerato ora come esempio della letteratura didascalica del periodo, ora come uno dei momenti salienti del processo che conduce dal mondo chiuso all'Universo infinito, cosa che sarebbe confermata dalla estesa discussione che gli dedicò il Bruno nel De immenso. In realtà i due aspetti sono uniti tra loro dal messaggio religioso contenuto e trasmesso attraverso la sua particolare cosmologia. Palingenio Stellato si presenta come ispirato da una illuminazione superiore; la discussione di temi pomponazziani e l'eco della stultitia di Erasmo, elevata a simbolo della conoscenza umana, lo conducono su posizioni eterodosse. Egli non esaurisce la sua carica polemica nei versi di un pur acceso e forte anticlericalismo e sembra essere al corrente, se non di testi, certo di posizioni assunte dalla Riforma.

Soprattutto, formula il suo messaggio religioso attraverso le linee particolari della sua visione dell'Universo. Tale messaggio radicalizza il contrasto tra mondo intelligibile e Universo corporeo, facendo del primo un mondo infinito di pura luce abitato da esseri incorporei, espressione della infinita potenza divina. Ma con altrettanta forza egli ribadisce la separazione tra il mondo celeste, regno di pure forme unite a una materia perfetta, e il mondo sublunare che è il regno della stultitia dell'uomo, incapace di afferrare il bene e quindi di compierlo, schiavo di una condizione infernale. In nome della infinità del mondo intelligibile, Palingenio non si discostava dalla cosmologia e dall'astrologia tradizionali; la sua era una illuminazione interiore che riduceva l'uomo e il suo mondo a ciò cui soltanto un intervento inesplicabile poteva dare senso e assicurare la salvezza. Il problema del male è il tema predominante di Palingenio, che separa la moltitudine dominata dalla stultitia, costituita da quegli asini bipedes che sono gli uomini, dai pochissimi sapienti.

I primi, privi del retto giudizio, cadono nel peccato, mentre i secondi fanno uso della loro libertà adeguandosi a quella catena causale che è il fato e che esprime la volontà del Creatore. Ma essi stessi, particolare decisivo, non possono elevarsi al sapere e al bene senza l'aiuto divino. La divinità è l'anello primo di una catena causale che non può essere infranta, una catena che contempla il progressivo degrado ontologico delle cause a mano a mano che si discende nella scala dell'essere. La libertà dell'uomo è allora obbedienza corretta alla volontà divina, mentre l'anima che cede ai richiami del sensibile non si rende libera rispetto a tale catena causale e a tale volontà, ma le viene realizzando in quanto il peccato porta con sé la sua pena. La divinità può così essere assolta da una volontà positiva del male attraverso le due vie cui abbiamo accennato, purché si tenga presente che senza il suo aiuto non è dato sottrarsi a una condizione infelice. In effetti, nessuno è sapiente e quindi veramente buono. Bruno rifiuterà il rigido dualismo operato da Palingenio, ma sarà sensibile all'affermazione della potenza infinita di Dio, che come tale non può non produrre che un effetto infinito. Semplicemente, metterà in discussione l'applicazione di tale tesi al solo mondo intelligibile, che non aveva più senso per lui se concepito come separato. L'opera di Palingenio è tuttavia importante proprio per questo aspetto: essa prelude ai tentativi che la rivoluzione astronomica sollecita di ripensare in modo nuovo il rapporto tra mondo sensibile e mondo intelligibile. Se Palingenio Stellato sembra confermare l'intreccio tra riflessione religiosa e discussione cosmologica, lo stesso intervento, edito postumo, dell'erasmiano Celio Calcagnini (1479-1541) sul moto della Terra e l'immobilità del cielo (Quod coelum stet, terra moveatur, 1544), oltre che riflesso delle idee copernicane che cominciavano a circolare, potrebbe essere stato letto in una chiave che non lo limitasse al ruolo di semplice divertissement.

Se nella cosmologia di Fracastoro, censurata nelle sue conclusioni ultime, l'uomo sembra abbandonato a sé stesso all'interno di un Universo che tende alla sua estinzione, parrebbe che questo possa aprire la strada a una riflessione religiosa autonoma. Come si è ricordato, Fracastoro interviene nella discussione sulla predestinazione che ha luogo tra Flaminio e Contarini, e il suo intervento sembra suggerire soluzioni nei limiti del possibile filosofiche. Egli tenta di salvare prescienza divina e libertà umana e cerca di sottrarre Dio dall'accusa di essere causa del peccato. La pena sarebbe una conseguenza soltanto indiretta della sua volontà, derivata dal fatto che Egli solo può rendere virtuosi dispensando la grazia. Questa viene analizzata considerando la sua azione sul libero arbitrio, concepito dapprima come materia di essa e poi come potenza attiva. Nel primo caso l'uomo rientra attraverso il suo temperamento fisico e gli eventi della sua vita in un determinismo naturale che farebbe della grazia un dono completamente gratuito; nel secondo caso Fracastoro esclude la possibilità di una nostra cooperazione di fronte a quello che è il decreto inesplicabile di Dio, ma cerca di salvare tanto la libertà dell'uomo che, possedendo la grazia, compie il bene, quanto quella di chi, privo di essa, resterebbe libero perché non costretto a scegliere il male. È possibile che Fracastoro scinda i due campi, quello religioso e quello cosmologico, ma veda una connessione tra di essi nell'universale determinismo che regola il tutto.

Anche per Cardano è decisivo, agli inizi, ripercorrere la lezione filosofica di Pomponazzi, non meno di quanto lo sia la lettura di Erasmo. Cardano è tra i più consapevoli del rinnovamento culturale che si sta compiendo in questi an-ni in tutti i campi; soprattutto è pienamente cosciente del fatto che la rottura rappresentata dalla Riforma costituisce una svolta storica senza ritorno, e giunge a dire che essa coincide con la necessità di una rilettura radicalmente nuova della Scrittura. In una prospettiva di questo tipo, le sue conclusioni antropologiche e cosmologiche possono apparire illuminanti. Se la scala naturae di ascendenza aristotelica realizza a ogni livello la sua finalità, sembra che tale finalismo si interrompa proprio con la specie umana. Questa appare incapace di rapportarsi al livello superiore che le compete quale termine da imitare, vale a dire il livello degli dèi. L'uomo sembra così destinato ad attingere il suo fine soltanto in un numero limitato di individui e non nella specie, condannata a quella insipienza che la conduce al male. L'esperienza filosofica e scientifica di Cardano è troppo complessa per essere interpretata soltanto alla luce delle novità religiose presenti in Europa e, con una curvatura particolare, in Italia negli anni tra il 1540 e il 1550. Sembra tuttavia imporsi l'importanza di un capitolo di storia della cultura dedicato al rapporto tra filosofia italiana e Riforma, così come è già avvenuto in maniera approfondita per il rapporto tra filosofia italiana e Controriforma. Il primo potrebbe contribuire a gettare nuova luce sul secondo, proprio per l'intreccio che già presenta tra religione, cosmologia e collocazione dell'uomo nell'Universo.

Gerolamo Cardano

È notevole che un pensatore come Cardano (1501-1576) veda nella rinascita dell'aristotelismo uno dei fenomeni salienti della filosofia dell'ultimo secolo. Anche per lui la conoscenza dei commentatori greci ha d'altra parte contribuito in misura rilevante a mutare il volto della filosofia di Aristotele e soprattutto è servita, secondo un apparente paradosso, a intaccarne l'autori-tà, mostrando l'ampio ventaglio delle difficoltà del suo pensiero in tutti i campi del sapere. La rinascita in atto delle scienze naturali riapre inoltre la possibilità di confrontare tra loro i piani diversi della speculazione dello Stagirita, per rilevarne le incongruenze e il problematico rapporto con l'esperienza. Si tratta di sviluppi che diverranno operanti al massimo livello in Telesio.

Cardano non esclude che possano darsi mutamenti nei cieli e ha dei dubbi sulla natura sublunare delle comete, un elemento che è destinato a essere ripreso dalla letteratura successiva. Egli, che è radicalmente scettico sull'ipotesi copernicana, si meraviglia che l'uomo sia in grado di giungere a una descrizione dei movimenti che hanno luogo nei cieli senza conoscere la natura di questi. Ma il punto decisivo in una prospettiva cosmologica è rappresentato dalla assimilazione compiuta da Cardano tra i fenomeni del movimento e quelli della vita e della generazione.

L'unico misto che i sensi ci attestano è per lui quello costituito da terra e acqua, ed è agendo su di esso che il calore solare ci permette da solo di spiegare con la sua azione tutti i processi del divenire. Viene così individuato il ponte che unisce i diversi regni della Natura e il nesso che si stabilisce tra l'organico e l'inorganico, tra ciò che è animato e ciò che apparentemente è inanimato.

Di fatto egli interpreta il De generatione animalium e il celebre passo cui si è già fatto riferimento nel senso che il calore animale, che è congiunto allo spiritus e ha un nesso con l'anima, è letteralmente quel calore celeste con cui secondo Aristotele avrebbe solo proporzione. Esso non è qualcosa di sublunare, ma è l'elemento attivo in grado di operare tutto animandolo e dandogli vita. Il fuoco elementare cessa allora di sussistere come elemento a sé, autonomo e indipendente, e questa innovazione, che ha per Cardano importanza decisiva, è sufficiente a scalzare tanto la teoria aristotelica del movimento quanto il nesso istituito tra le qualità e gli elementi della tradizione. Non si tratta evidentemente di una unificazione tra fisica terrestre e fisica celeste, dal momento che il calore solare non ha un carattere elementare, ma di un processo generale mediante il quale mistione e generazione vengono a sovrapporsi tra loro.

In tal modo diviene centrale non soltanto il testo di Aristotele appena ricordato ed esteso nel suo significato, ma il parallelismo tra esso e le posizioni di Ippocrate, al cui recupero Cardano è tutto intento: l'anima è calore o il calore è il suo stesso strumento, e il moto dei corpi celesti è affidato all'anima stessa, oppure al processo per cui il calore dà luogo alla sottigliezza della materia e questa al movimento. Ricostruendo i livelli in cui si articola la Natu-ra, egli vede realizzata in ciascuno di essi una finalità autonoma, che tuttavia è pur sempre riconducibile da un lato al livello immediatamente superiore quale termine da imitare, dall'altro alla forbice sempre diversa che si istituisce tra finalità e necessità, Natura e materia. Ogni grado della Natura realizza allora la sua perfezione a seconda dei tipi diversi di generazione, ma il finalismo che sottostà al tutto non soltanto non è antropocentrico ma, come si è visto, sembra interrompersi proprio nel caso dell'uomo. Questi è inserito nella Natura in modo tale da rispettarne i meccanismi e certo non cessa per questo di porsi al limite superiore di essa. L'alternativa che si poneva a Cardano era allora quella di riassorbire la nostra specie in quel generale animismo che ci riconduce ai processi fisici regolati dal calore oppure ricercare una via diversa che ne salvasse la specificità. Ma se ogni livello della Natura realizza il suo fine imitando quello superiore, l'uomo viene a trovarsi di fronte a un modello, quello divino, che appare per definizione irraggiungibile. Nella stragrande maggioranza degli individui la sapienza e la probità che ne discende si capovolgono così nel loro contrario, poiché la base organica che ci costituisce si rivela insufficiente allo scopo. In quanto l'uomo è il più caldo e umido tra gli animali, è superiore a ogni altro essere vivente, ma non dispone di quella perfetta mescolanza tra gli umori che assicurerebbe il raggiungimento del suo fine e la sua perfezione. La finalità che la Natura non raggiunge nella specie dovrebbe allora realizzarsi in pochi privilegiati individui. Egli nega la possibilità dell'homo perfectus della tradizione averroistica, capace di attualizzare nella sua totalità l'intelletto possibile; una dottrina che aveva sedotto Pico ma a cui non era stato forse insensibile Ficino. Si ricorderà d'altra parte la caratterizzazione che Cusano dava dell'intelletto del Cristo. Ma Cardano negava anche la possibilità del darsi di un temperamento perfetto quale si era affacciato nella tradizione medica, spesso incontrandosi con l'ideale di una perfezione di natura contemplativa. Egli cerca tuttavia in modo tortuoso di salvare queste due concezioni e il loro rapporto, introducendo nuovi elementi. Da un lato, un fattore temporale si inserisce nell'accesso alle verità eterne e alla loro contemplazione, dall'altro elementi fisici deteriori, quali la malinconia, vengono ricollegati a una sfera superiore. Tutto questo avrebbe un valore unicamente secondario, ai fini del nostro discorso, se non costituisse per un verso la conclusione di un processo storico, per un altro una delle chiavi per capire il modo in cui filosofi come Bruno e Campanella concepiscono il loro ruolo profetico nel percorso di rinnovamento generale del sapere che cercano di realizzare.

Bernardino Telesio

È tuttavia con Bernardino Telesio (1509-1588) che la polemica antiaristotelica sfocia in un risultato di assoluto rilievo, vale a dire l'abbattimento della separazione tra fisica terrestre e fisica celeste. Campanella accuserà Telesio di incoerenza per aver mantenuto le sfere dell'astronomia tradizionale. In realtà Telesio è scettico sulla possibilità di una conoscenza matematica dei moti celesti e ciò coincide in lui con un richiamo al limite conoscitivo dell'uomo, limite che trova riscontro anche nella priorità data al senso rispetto alle altre facoltà. Una priorità che incide anche sul suo progetto di indagare la Natura iuxta propria principia, senza sovrapporle astratte costruzioni speculative ma ricostruendone i processi a partire da quel livello che ci accomuna a essa.

Da questo punto di vista, nel tornare a dissociare programmaticamente matematica e fisica, astronomia e cosmologia, è evidente che Telesio ritiene indebito sovrapporre i due ambiti, dal momento che il primo è al di sopra della nostra portata e non può quindi risolvere problemi fisici. Attraverso un procedimento esegetico, nel quale le difficoltà di Aristotele riscontrate dai commentatori sono chiamate a confermare le sue conclusioni ‒ prima tra tutte la difficoltà di spiegare come il Sole attraverso il movimento possa produrre quel calore di cui è destituito ‒ Telesio non si limita a ricercare l'autentico pensiero dello Stagirita sui punti dubbi ormai innumerevoli della sua fisica e della sua cosmologia; cerca invece di mostrare che un Aristotele reso coerente con sé stesso avrebbe dovuto identificare nel caldo e nel freddo le prime due 'nature agenti'. Da un lato infatti la contrarietà tra forma e privazione risulta del tutto astratta rispetto al divenire naturale; dall'altro le due coppie di qualità che nella loro opposizione dovrebbero dar luogo, per Aristotele, alla generazione degli elementi, presuppongono un valore attivo del secco e dell'umido che i testi stessi aristotelici, oltre che l'esperienza, vengono a invalidare. Telesio riconosce dunque nel caldo e nel freddo le due qualità originarie che sono i principî stessi del divenire, ma ciò che dà al suo discorso un livello generale capace di investire la fisica aristotelica è l'immediata traduzione cosmologica della sua posizione, insieme al riconoscimento che il calore solare non è altro che calore igneo, elementare. Attraverso questa via, la polemica antiaristotelica diviene un punto di partenza irrinunciabile per la filosofia della Natura italiana, oltre ad avere un'eco europea. Le forme della tradizione peripatetica cedono il luogo alle qualità e queste a quella contrarietà originaria costituita dal caldo e dal freddo, le due nature agenti incorporee che hanno la loro sede nel Sole e nella Terra. In particolare, rispetto all'immobilità e pesantezza della Terra, l'azione primigenia del calore celeste si manifesta attraverso la luce. Esso è la sostanza del Sole, nel momento in cui si riconosce che gli è propria l'azione del riscaldare come gli è naturale quella del movimento (il principio del movimento non rinvia ad altro neppure per gli esseri viventi, per i quali non sarà necessario postulare l'esistenza di motori immobili come le anime).

Se caldo e freddo implicano un'azione reciproca, essi presuppongono d'altra parte un'unica mole corporea capace di ricevere entrambe le loro azioni, mole corporea che in quanto modellata da esse non può essere confusa con quel prope nihil che era la materia prima aristotelica, già implicitamente rifiutata, in parallelo con il rigetto della forma e della privazione quali agenti di mutamento. Telesio era perfettamente consapevole del fatto che per questa via la teoria aristotelica del movimento veniva meno. Rifiutandosi di ricorrere ad anime motrici dei corpi celesti e in particolare del Sole, egli punta piuttosto su quella sensibilità elementare che conduce ciascuno dei contrari a cercare di conservarsi e amplificarsi; in altre parole non destituisce le due nature di qualcosa che sembra psichico, sebbene si riduca all'avvertimento di ciò che può favorire o danneggiare la propria conservazione. Le due nature tendono allora ad amplificarsi, cercano cioè di garantire la propria conservazione assimilando a sé stesse la natura contraria con cui lottano, grazie a un processo che rivela la presenza del senso in esse.

Si tratta di un elemento essenziale per la sua filosofia da ogni punto di vista. Come è noto, nelle prime due edizioni della sua opera (1565, 1570) egli limitava la sua indagine a un terreno esclusivamente cosmologico e fisico, anche se essa era tale da rivoluzionare la fisica aristotelica, colpendone alla radice i concetti che la legavano appunto a una diversa cosmologia. Anche per Telesio il punto di partenza era l'Aristotele delle opere naturali e anche per lui assumeva un valore determinante il richiamo al testo del De generatione animalium, in cui si poneva in rapporto lo spiritus presente nell'organismo con il calore celeste. Ma se quest'ultimo conservava ancora per Cardano un qualcosa di divino e veniva identificato con una oscillazione significativa ora con l'anima ora con lo strumento di essa, per Telesio ha luogo una immediata identificazione: questo lo conduce, nella terza e ultima edizione dell'opera, a porre al centro della sua antropologia, attraverso la sensibilità universale, il concetto di spiritus. La reazione reciproca che ha luogo tra caldo e freddo implica la presenza del senso, anche se è necessario riconoscere che esso è molto più acuto e sottile nel Sole che nella Terra. Nel momento in cui il senso rinvia nell'uomo allo spiritus, risulta allora che soltanto astrattamente posso separare in quest'ultimo un momento puramente passivo, di semplice ricezione, da un momento attivo concepito come risposta allo stimolo ricevuto. Entrambi non hanno bisogno di rinviare a qualcosa di diverso dallo spiritus inteso nella sua materialità. Per Telesio è possibile risalire da questa coincidenza all'errore primo di Aristotele, quello di aver separato sensibile e intelligibile precludendosi la via per ricongiungere i due regni, mentre occorreva partire dal primo, il sensibile, per riconoscere la fondamentale identità di natura di ogni processo conoscitivo. In tal modo la sua critica ad Aristotele, nata per rinnovare la filosofia naturale, rivela tutta la sua ampiezza.

È dunque nell'ultima edizione dell'opera, che ha come titolo De rerum natura iuxta propria principia (1586), che egli mostra come la portata della critica cosmologica investa l'intero edificio della filosofia. Addentrandoci nello studio dell'uomo, scopriamo infatti che il senso è misura e strumento della nostra conoscenza, in quanto è riflesso esso stesso del processo cosmico fondamentale. Esso delimita allora la sfera della nostra possibilità di conoscere nel momento in cui questa appare correlativa alla purezza o meno dello spiritus dell'individuo, quale risultante della lotta tra le due nature nell'organismo. In tal modo tutte le distinzioni di facoltà all'interno dell'uomo, così come quelle tra anime o intelletti diversi ‒ siano essi attivi o passivi, unici per la specie o moltiplicati secondo gli individui ‒, si rivelano distinzioni soltanto verbali, incapaci di operare differenziazione alcuna tra gli esseri viventi, poiché ci si trova di fronte soltanto alla diversità che ha acquistato lo spiritus nell'organismo. Confermando il carattere radicale, a onta della esteriore prudenza, di tutta la sua speculazione, Telesio finisce così per ricondurre anche le differenze di carattere morale a una base organica e naturale.

Il modo in cui avviene l'unificazione tra fisica terrestre e fisica celeste lo pone, d'altra parte, di fronte ad alcuni dei problemi più acuti della sua filosofia. Egli ha spezzato il nesso tradizionale tra fisica e metafisica, ma se non vuol cadere in una sorta di materialismo in cui si risolva la totalità dei fenomeni, deve postulare l'azione della divinità a livello cosmico come a livello dell'uomo, un'azione che non risulta più sufficientemente motivata sul piano filosofico. Così deve presupporre l'intervento della divinità dall'esterno e dall'inizio, per impedire alle due nature agenti di annullarsi, regolando sia il movimento del Sole che la sua distanza dalla Terra. Qualcosa di simile accade per l'uomo, per cui si invoca l'esistenza di un'anima di origine superiore, non più soltanto e semine educta, che tuttavia non assolve più a nessuna funzione specifica conoscitiva o morale.

Veniva tuttavia cadendo, insieme alla metafisica aristotelica, lo sviluppo che essa aveva ricevuto attraverso la teoria delle intelligenze celesti; tramontava il nesso che Aristotele aveva stabilito tra eternità del movimento e moto della sfera delle stelle fisse, insieme al legame tra l'obliquità dell'eclittica e il divenire del mondo sublunare. Erano, questi ultimi, i due punti, come si è accennato, attraverso cui Aristotele aveva in modo particolare legato la sua cosmologia all'astronomia. Sono i due punti che venivano spazzati alla radice da Copernico, ma essi erano eliminati, sia pure per vie molto diverse, anche da autori come Fracastoro e, appunto, da Telesio: ennesima riconferma, questa, dell'importanza degli sviluppi del geocentrismo per la rivoluzione astronomica. Telesio, in particolare, negava il legame tra obliquità dell'eclittica e divenire terrestre, affermando che una stessa causa, il Sole, non poteva produrre effetti tra loro contrari come le stagioni soltanto in base alla diversità della sua distanza.

Con un passo che doveva risultare decisamente innovatore, Campanella trasformava la dottrina della sensibilità universale in un animismo generalizzato, capace di fondare le sue teorie metafisiche, e quindi di superare i limiti della speculazione di Telesio. Nel suo Cosmo l'apparente regolarità matematica è oggetto della ricerca dell'astronomo che ignora, a cominciare da Copernico, come i mutamenti celesti, che si sono resi osservabili attraverso il tempo, siano anomalie reali prodotte dalla volontà divina nel governo del Cosmo; un atteggiamento, questo, assai diffuso alla fine del secolo. Ma i due punti sopra ricordati, e che venivano meno tanto sul piano astronomico quanto su quello cosmologico, rendono senza alcun dubbio più semplice comprendere l'affacciarsi di sistemi che potremmo definire 'infinitisti' in cui, nell'incertezza delle conoscenze astronomiche, si cerca di ridefinire il rapporto tra mondo sensibile e mondo intelligibile. Permettono anche di comprendere il punto di partenza di Bruno, vale a dire l'immediata equiparazione tra moto della Terra e infinità dell'Universo.

Il platonismo

All'interno del quadro delineato, particolare importanza assumono le osservazioni relative alla comparsa di una stella nova e di una cometa nel 1572 e nel 1577. La difficoltà di far rientrare entrambi i fenomeni nel quadro della cosmologia aristotelica, fa spesso parlare di miracolo, di creazioni ex novo da parte della divinità; di qui le spasmodiche attese astrologiche che i due eventi suscitano, quasi fossero una conferma definitiva del versetto dell'Apocalisse che parlava di "cielo nuovo e Terra nuova". L'interesse per eccezionali fenomeni astrologici aveva attraversato tutto il secolo ma ora la stella e la cometa sembrano segno di radicali mutamenti politici e religiosi. Per chi ritiene che essi annuncino i tempi ultimi, le attese oscillano tra quella dell'avvento dell'Anticristo e quella della seconda venuta, spirituale, del Cristo stesso. In particolare questi fenomeni vengono collegati con la settima grande congiunzione dall'inizio del mondo, quella che avrebbe dovuto avere luogo nel 1584 con mutamento di triplicità, cioè con il passaggio dal trigono acqueo a quello igneo, come era accaduto al tempo del Cristo: sarebbe stato, questo, il settimo e ultimo tempo predicato dall'Apocalisse, e il Cristo sarebbe venuto con la spada a uccidere la bestia.

D'altra parte, la stessa evoluzione nei confronti dell'astrologia da parte di Tycho Brahe, ci avverte dell'incidenza cosmologica di tali osservazioni. Riproducendo lo scritto che egli aveva dedicato alla stella del 1572 nei suoi Progymnasmata ed eliminandone la parte astrologica, riconosceva ormai che gli orbi celesti non avevano una loro realtà, che le comete non erano fenomeni propri del mondo sublunare, di carattere igneo e generati nella parte superiore dell'aria, e si affidava all'esattezza delle osservazioni astronomiche e alle dimostrazioni geometriche che era possibile ricavarne. A sua volta Bruno, discutendo tali fenomeni nel De immenso, si inchinava all'autorità degli astronomi sommi del suo tempo ma tendeva altresì a sottolineare l'identità di natura tra comete, terre e pianeti, che solamente le ragioni ottiche permettevano di poter distinguere.

Se si tiene conto dell'insieme di elementi, anche gli ultimi, che siamo venuti enumerando, le cosmologie di Patrizi, Bruno e Campanella presentano, pur nella diversità degli obiettivi, alcune radici comuni. Innumerevoli fili li legano certamente a un passato più remoto, sebbene tra essi e gli autori che si affermano nella prima metà del secolo si ponga l'esperienza di Telesio, con il suo rinnovamento cosmologico ma anche con i problemi metafisici e gnoseologici che si accompagnavano a esso. Pesa certo su di essi la situazione politica e religiosa che si è venuta cristallizzando in Italia ed Europa e i loro tentativi vanno letti costantemente alla luce delle possibilità offerte da essa. Rispetto a tale situazione, essi agiscono nel senso che soltanto una rinnovata cosmologia di carattere decisamente antiaristotelico possa riaprire il discorso sulla pace e sulla riunificazione religiosa. Più precisamente, sono gli sviluppi della cosmologia e dell'astronomia che alimentano nuove metafisiche, che a loro volta, in un nesso indissolubile, tendono a reinterpretare tali sviluppi. Il problema che, in forme molto diverse, presentano questi autori è d'altra parte quello del loro rapporto con il platonismo.

Francesco Patrizi (1529-1597) aveva insegnato filosofia platonica a Ferrara, in un ambiente sensibile durante tutto il secolo a tematiche astrologico-astronomiche ma anche a interessi religiosi al limite dell'eresia. Prima della Nova de universis philosophia, egli aveva tentato nelle Discussiones peripateticae un ripensamento dell'intero corpus degli scritti di Aristotele; aveva anche cercato di ricostruire quello che gli sembrava l'ordine ideale dei dialoghi platonici. Nella Nova de universis invitava il pontefice Gregorio XIV a servirsi della sua opera perché divenisse, in mano ai gesuiti, uno strumento di pacificazione ideologica e religiosa di carattere universale; un invito di cui sarà ancora consapevole Athanasius Kircher. La Scolastica segnava il dominio di Aristotele negli ultimi tre secoli e Patrizi aveva cercato nelle Discussiones di definire il rapporto della filosofia peripatetica tanto con quelle presocratiche che con la tradizione ficiniana della pia philosophia. Così, nella Nova de universis, poteva presentare in chiave antiaristotelica una sorta di concordia universale del sapere che si estendeva a Platone e alla filosofia orientale, di cui il suo pensiero si presentava come interprete e armonizzatore.

Patrizi pensava a una filosofia che fosse in grado di elevarsi dal livello del senso ‒ vale a dire il lume emanato dalla luce ‒ per risalire all'Universo celeste e da questo ai mondi della pura forma, per poi tornare a dedurre da questi la realtà dei mondi inferiori. L'esistenza di uno spazio infinito riempito dal lume emanato dalla luce è in grado di spiegare i processi della vita nel mondo materiale, la struttura dell'unico cielo e dei corpi celesti con i loro moti, e la natura della regione incorporea sede degli enti eterni.

Egli crede nella rotazione della Terra ma non è copernicano; aderisce però alla tesi di un Universo infinito in cui la mediazione tra luce intelligibile e luce sensibile, agente di ogni processo fisico, sfoci in una filosofia dotata di una valenza insieme religiosa e scientifica. Un dato, questo, presente anche nel Bruno. Prima della condanna della Nova de universis, Patrizi era stato chiamato a Roma, alla Sapienza, a insegnare filosofia platonica (1591), quando ormai era aperto il dibattito sulla legittimità o meno di accordare tra loro dottrina cristiana e insegnamento platonico. La discussione verteva sul peso da dare alle posizioni patristiche sul problema. A esse fa riferimento Patrizi come al mezzo per combattere l'aristotelismo imperante nelle scuole e sostituirvi un platonismo dalle tinte fortemente ermetizzanti. Alla patristica si rifarà costantemente Campanella in senso antiaristotelico, mentre per Bruno il confronto con il platonismo e l'ermetismo si configura come ricerca del fraintendimento del sapere e della religione degli antichi da parte del cristianesimo.

Giordano Bruno

Giordano Bruno (1548-1600), nella Cena de le Ceneri, presenta Copernico come un eroe del pensiero, come colui che ha saputo opporsi alla cieca credenza del senso comune non meno che alla filosofia tradizionale. L'analisi magistrale dell'epistola anonima, scritta da Andreas Osiander, premessa al De revolutionibus, epistola di cui era ancora ignoto l'autore, rivendica la portata reale del punto di partenza di Copernico, il moto della Terra. Di qui, e dalla conseguenza che Bruno ne trae, l'infinità dell'Universo, ha origine una svolta decisiva per la filosofia, destinata a rinnovare tutti i campi del sapere; una svolta che rinvia alla missione storico-religiosa del Bruno, a cui non è facile sottrarre un carattere profetico. Copernico in effetti ha sviluppato soltanto sul piano astronomico-matematico la portata della sua scoperta, mentre Bruno è colui che è chiamato a illuminarne le conseguenze fisiche e cosmologiche, destinate a mutare la nostra nozione della divinità e il suo rapporto con gli uomini.

Colpisce in Bruno il fatto che il moto della Terra coincida immediatamente con la tesi dell'infinità dell'Universo, un Universo composto da innumerevoli sistemi solari simili al nostro. Egli connette l'illusione dei sensi, rafforzata a torto dalla ragione, per cui la Terra appare a noi come il centro immobile di ogni movimento, con l'osservazione, che egli poteva trovare tanto in Cusano quanto in Copernico, per cui non è possibile senza un punto di riferimento fisso stabilire tra due sistemi quale di essi sia in movimento. Cusano, più di Copernico, poteva aiutarlo a trarre la conclusione decisiva, quella per cui l'equidistanza delle stelle fisse dalla Terra è soltanto un'illusione ottica. Questa è l'origine per Bruno della credenza in un Cosmo chiuso e finito, con tutte le conseguenze che ne erano scaturite sul piano filosofico e religioso e che avevano acquistato un ruolo centrale nella vita dell'uomo. Bruno pensa in primo luogo all'illusione di un mondo intelligibile separato da quello corporeo, un regno della perfezione sede di una divinità a noi estranea, oscura e minacciosa nell'espressione delle sue ipotetiche volontà.

Certo, alla conclusione dell'infinità dell'Universo egli poteva giungere attraverso altre vie. In primo luogo, la Terra di Copernico era divenuta un pianeta, un astro al pari degli altri, senza che il grande astronomo sviluppasse, se non sommariamente, le linee di una unificazione tra fisica terrestre e fisica celeste. Diviene, quest'ultimo, il grande compito del filosofo naturale, che opererà nel caso del Bruno estendendo al tutto la legge del divenire, in un momento in cui appariva ancora problematico operare tale unificazione su una base matematica. In secondo luogo, si verificava il venir meno di una funzione specifica da attribuire alla sfera delle stelle fisse. Bruno dissolve, come si è accennato, non soltanto tale funzione ma l'esistenza stessa di questa sfera. Egli comprende allora che con la caduta della cosmologia aristotelica viene a mancare anche un'astronomia che aveva tentato di restare fedele alle sue linee, e proprio per questo aveva finito da un lato per allontanarsi dalla realtà, dall'altro per approfondirne gli errori. Soprattutto veniva meno la metafisica dello Stagirita; venivano cioè dileguandosi il concetto di un primo motore immobile che trascinasse con sé l'Universo e la teoria, con essa associata, di intelligenze motrici delle sfere celesti.

Su questa strada, che lo obbligava a rivedere il rapporto tra fisica e metafisica, Bruno ripensa il significato dell'opera di Cusano. Egli ne trae ispirazione per concepire la relazione tra Dio e l'Universo come relazione tra l'infinita potenza attiva della divinità e una infinita potenza passiva, la cui esistenza non può non corrispondere alla prima e che Bruno, a differenza di Cusano, non esita ad attribuire alla materia di un Universo infinito. Il rapporto tra Dio e Universo diviene un rapporto necessario, se una causa infinita non può dar luogo che a un effetto infinito, se la potenza infinita di Dio indica che in lui potere e fare non possono essere disgiunti. Qui Bruno si riallacciava, modificandola, alla lezione di Palingenio, giungendo a concepire la coincidenza tra anima mundi e materia, tra atto e potenza, poiché considerando l'Universo nella sua infinità non possiamo più scindere la infinita potenza passiva della materia da quella attiva della divinità. Così conclusioni metafisiche e conclusioni cosmologiche vengono a costituire in lui una sorta di circolo, e la divinità risulta insieme diversa e coincidente rispetto all'Universo fisico. L'unità della sostanza resta per noi incomprensibile, nel suo parteciparsi a tutto senza esaurirsi in nessuna cosa, nel suo fare tutto che coincide con la sua potenza di farsi tutto. Ne deriva l'uso euristico, ancora una volta suggerito da Cusano e valido sia per il mondo della Natura che per quello dell'uomo, della coincidenza dei contrari, di anima mundi e materia; poiché sono essi che nella loro azione, che li vede come inscindibili, danno luogo a quel perenne trasformarsi di tutte le cose attraverso il quale si rendono comprensibili e chiare le leggi del divenire. Queste ultime sono appunto riflesso della unità dei contrari e della loro coincidenza assoluta nell'unità incomprensibile della sostanza, quale si rende parzialmente accessibile nella mutevolezza del divenire.

Tale ispirazione metafisica si prolunga dal De la causa, principio et uno nel De l'infinito universo et mondi; non si trattava più soltanto di indicare la differenza tra l'infinità della divinità, coincidenza di atto e potenza nell'eterno, e l'infinità dell'Universo, che sussiste soltanto spazialmente e nel tempo, ma di negare la possibilità di separare potentia absoluta e potentia ordinata in Dio. Pensare che egli limiti con la sua volontà la potenza di creare infiniti mondi, significa non riconoscere che in Dio gli attributi si convertono l'uno nell'altro, che non possono essere infiniti, che se egli può vuole e dunque in lui libertà e necessità coincidono. Una conclusione teologica che, se mal compresa o insegnata ad arte al fine di ingannare i più che non possono comprenderla, distruggerebbe con il suo determinismo le regole stesse della convivenza civile. Quelle regole che discendono da una corretta concezione della divinità ma che devono essere adattate alla moltitudine per divenire efficaci, come accadeva nella religione degli Antichi, che erano capaci di utilizzare il graduale comunicarsi del divino al tutto per tradurlo nell'utilità dell'uomo. Sarà la grande polemica sviluppata dal Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante, contro la Riforma e il cristianesimo in generale; una religione, questa, che è caduta nell'idolatria proprio perché ha smarrito la vera nozione della divinità, collegando la sua esistenza a un mondo separato, dal quale regolerebbe oscura e minacciosa quel mondo chiuso e finito in cui si crede incarcerato l'uomo.

Come filosofo naturale, è dal rapporto tra il Sole e la Terra che Bruno parte per tentare di ricostruire la struttura del nostro come di ogni altro sistema solare. Sulla scia di Copernico, egli traduce i movimenti tradizionalmente attribuiti alla sfera delle stelle fisse nei movimenti della Terra. Ma se il moto diurno e quello che descrive l'orbita annuale intorno al Sole rispondono allo svilupparsi della vita sul nostro pianeta, una spiegazione altrettanto finalistica interviene nel chiarimento (nella Cena) di un terzo e quarto moto della Terra, destinati ad assicurare quelle variazioni che hanno luogo nel lungo periodo. Bruno ha certo qui presente, come in altri luoghi della sua opera, gli Homocentrica di Fracastoro, interlocutore non casuale del De l'infinito universo et mondi. Come si è visto Fracastoro aveva inteso assicurare l'influenza delle sfere celesti su ogni punto della Terra: qui Bruno opera nei suoi confronti attribuendo ai moti della Terra, nel loro rapporto con il Sole, l'identico effetto.

Ma ormai si trattava di mettere in luce come ogni dimostrazione dell'unicità e finitezza del Cosmo elaborata da Aristotele contro i presocratici si basasse su un presupposto che nessuno di essi aveva fatto proprio, quello della immobilità della Terra. Era tale presupposto che aveva guidato tacitamente ogni conclusione di Aristotele relativa al movimento, alla distribuzione degli elementi nell'Universo fisico, all'esistenza di un limite di questo stesso Universo, concepito come necessità logica derivata dalle nozioni di luogo e di spazio. Nello sviluppare la sua polemica, Bruno può così teorizzare ‒ a partire da una base metafisica che sopperisce soltanto parzialmente al limitato numero delle conoscenze cosmologiche ‒ un Universo in cui uno spazio senza limiti, dotato di una capacità di ricevere non inferiore a quella della regione che accoglie la Terra, diventa seno e ricetto in cui trovano il loro luogo infiniti soli attorno a cui circuiscono infinite terre. Se i concetti di spazio, luogo, movimento, gravità e leggerezza vengono mutando radicalmente, è perché Bruno li ripensa in relazione a ciascun astro e a ciascun sistema solare come funzionali a quel finalismo che può garantire, mediante il movimento e il divenire, la vita sui pianeti. Centrale diviene allora il possesso di un principio motore per ciascun corpo celeste, identificato con l'anima di esso, che provveda, in primo luogo, a garantire con la sua intelligenza le distanze tra soli e terre, e successivamente la trasmissione del calore; contemporaneamente l'opposizione di Telesio tra il principio del caldo e quello del freddo, che Bruno ha presente, tende a essere riassorbita e poi rivista all'interno di una nuova teoria degli elementi.

Aria, terra e fuoco costituiscono un unico corpo, quello della Terra. In esso predomina l'acqua, che consente agli atomi dell'arida di agglutinarsi, mentre risultano composti i corpi stessi dei soli, questi riscaldano grazie a quell'elemento umido agendo sul quale la fiamma produce calore. Bruno, che ha costantemente presente Lucrezio sia nel De l'infinito universo et mondi che nel De immenso, ha di fronte a sé una machina mundi che sembrerebbe poter conservarsi nel suo perenne divenire grazie all'azione materiale degli elementi, anche l'anima motrice degli astri infatti può ridursi a un semplice sensus occultus che li guida, e quindi allo spiritus.

Questa impressione potrebbe essere rafforzata dal fatto che lo spazio, il vuoto in cui si librano gli astri descrivendo i loro movimenti, senza che sussista gravità alcuna dei loro corpi nei confronti della regione in cui si muovono, è riempito da aër, da spiritus, da quella sostanza sottile che penetra nei corpi celesti e insieme li avvolge. Tale sostanza entra in essi a causa dell'inane e fornisce nella sua purezza, senza mai perdere la sua natura, ciò che consente la trasformazione degli elementi tra loro. Uno spiritus, quello cosmico, che non va confuso con l'aër nuvoloso e torbido presente nella Terra e membro di essa, ma che, come è puramente passivo quando occupa lo spazio permettendo la trasmissione del calore, così inserendosi nei corpi celesti garantisce quel moto senza cui la stessa trasformazione degli elementi non può aver luogo. Bruno ha presente Lucrezio nel delineare il rapporto tra ciascun mondo e lo spazio, e anche estende alla nuova cosmologia i caratteri fondamentali dello spiritus ficiniano, che è appunto insitus, interiectus così come complens, comprehendens. Torna dunque a farsi problematica la distinzione di tale spiritus cosmico dalla stessa anima motrice dei corpi celesti. Così, nel quadro di un universale divenire, Bruno assume il finalismo come chiave interpretativa dei moti della vita degli infiniti sistemi solari, avendo sempre presente come punto di riferimento un modello organico che eredita ancora una volta suggestioni lucreziane. Egli si avvia cioè a una concezione fisica che sembrerebbe poter poggiare sui soli elementi, ma poi vede all'opera nel finalismo del tutto una superiore intelligenza, vero primo motore immobile, un'anima del tutto da cui possono essere separate soltanto astrattamente le anime degli astri, come di tutto ciò che è vivente.

La dottrina della inconoscibile unità della sostanza favorisce così due direzioni possibili di ricerca, che tornano a incrociarsi tra loro: una prima che consiste nel privilegiare un principio spirituale agente sulla materia, pur senza negare a questi una comune radice metafisica; una seconda che tende a chiarire in termini esclusivamente fisici i problemi del divenire, e che può essa stessa trovare appoggio in quella inconoscibile sostanza capace di fare tutto e di farsi tutto. Di qui l'asserita legittimità di più vie nella ricerca fisica, anche se Bruno continuerà a poggiare la sua riflessione sull'esistenza di un principio attivo e di uno passivo nel Cosmo; di qui anche il perenne riaffiorare di una saldatura problematica tra fisica e metafisica, che l'incertezza dei dati cosmologici non fa che accentuare ulteriormente. Si vedano in proposito le oscillazioni relative all'eternità o meno dei singoli mondi; essi, composti elementari, soggetti come tutti gli organismi a un fluxus e refluxus di materia che dovrebbe condurli alla fine all'estinzione, sono per natura dissolubili: è però possibile che la divinità intervenga, in un modo che si richiama a Platone e Ficino, a garantire la loro sussistenza. Si veda anche come alla negazione di un mondo intelligibile separato e luogo delle idee ‒ concezione legata per Bruno alla ipostatizzazione che l'uomo compie degli universali, una volta che questi siano separati dalle concrete manifestazioni in cui solo vivono ‒ corrisponda il tentativo di una localizzazione di questo stesso mondo intelligibile.

Lo spazio infinito tende a divenire la sede stessa di Dio, l'ineffabile pater luminum comprehendens tenebras, il cui corpo sarebbe lo spiritus, mentre gli astri sono identificati con gli angeli. Resta in ogni caso il fatto che l'Universo bruniano si presenta come un tutto vivente e animato, destinato ad alimentare una concezione magica della Natura che finisce per incidere in profondità sui modi in cui concepire la conoscenza umana.

Cusano aveva parlato di un Dio che si collega alle creature mediante un Universo contratto, così come di un Universo contratto che si ricollega a Dio mediante le creature, ma alla fine era soltanto il Cristo che poteva realizzare tale mediazione, unendosi come massimo contratto e assoluto, unico possibile uomo perfetto, al Verbo, riconducendo il Creato alla sua fonte. Per Bruno tale mediazione è garantita dal fatto che la Natura è immagine adeguata del divino. Si tratta allora di riuscire a realizzare tale mediazione facendo coincidere in noi ‒ in un processo che è, sia pure finitamente, infinito, cioè privo di un limite superiore ‒ i due contrari, atto e potenza che danno vita al Cosmo e che si riflettono, nella loro stessa scissione, nella conoscenza umana. Occorreva, in altri termini, giungere a quella coincidenza tra sapienza e amore che rinvia a un'unica fonte, la potenza primigenia del tutto, essa sì destinata a restare preclusa per sempre allo sguardo del pur 'eroico' furioso. Bruno dunque ripensava la teologia trinitaria di Cusano, negli Eroici furori, nel momento in cui proponeva sé stesso come quel massimo contratto aspirante a varcare la soglia che lo separava dal massimo assoluto. Nello stesso tempo, indicava anche le linee secondo cui interpretare il perenne divenire delle cose che irrompe dal piano della Natura in quello della storia e dell'uomo. Si trattava di volta in volta di individuare il costante avvicinarsi dei contrari a quella coincidenza che non si dà mai nella sua purezza sul piano fisico e sul piano conoscitivo, ma è il criterio per interpretare la Natura, così come quel mondo umano che da essa scaturisce, senza esaurirsi in essa.

Tommaso Campanella

È probabile, non affatto certo, che Tommaso Campanella (1568-1639) abbia steso l'Apologia pro Galilaeo nel 1616 (essa fu pubblicata soltanto nel 1622), prima di conoscere il decreto del Sant'Uffizio che a quella data condannava la dottrina di Copernico, pur senza far cenno alla posizione di Galileo. La difesa che questi aveva intrapreso delle posizioni del Sidereus nuncius si era rivelata dunque priva di efficacia. Ma l'opera del pisano apparsa nel 1610 sconvolgeva, prima ancora che i sistemi nei quali gli uomini avevano cercato di inquadrare la struttura del Cosmo, i dati stessi elementari della conoscenza dei cieli; Galileo rivelava tra l'altro che la via lattea conteneva un numero imprecisato di stelle e che Giove possedeva alcuni satelliti, una scoperta, quest'ultima, che eliminava una presunta anomalia su cui avevano insistito gli avversari di Copernico, il fatto che soltanto la Terra possedesse un satellite. L'equidistanza che Campanella assume nell'Apologia tra le tesi contrarie e quelle a favore del copernicanesimo, dichiarando la loro equivalenza di fronte alla Scrittura, era certo una scelta politica, volta a non danneggiare l'opera e l'uomo messi in discussione, legittimandone la ricerca. Vi è tuttavia una radice più complessa della sua posizione: egli è partito dalla filosofia di Telesio, quindi dal suo geocentrismo, ed è su di essa che ha innestato convinzioni per lui decisive, in primo luogo la credenza nel progressivo avvicinarsi del Sole alla Terra, con la conseguente estinzione di questa e la consummatio mundi. Il vero obiettivo di Campanella può allora essere ricercato rifacendosi alle posizioni delineate nella Città del Sole. In quest'opera, l'organizzazione razionale della vita umana chiede già all'osservazione dei cieli (osservazione che sfocia in una teologia astrale) gli strumenti attraverso cui la razionalità umana possa dispiegarsi adeguandosi alla Natura, che non è contraddetta dal cristianesimo. Si tratta infatti di realizzare quella religiosità naturale implicita nell'uomo che coincide con la razionalità del messaggio del Cristo.

Il punto saliente dell'Apologia diviene allora l'invito a separare competenza teologica e competenza scientifica secondo finalità ben diverse da quelle espresse da Galileo in testi celebri, in primo luogo la lettera a Cristina di Lorena. Galileo tendeva a separare i due ambiti e a legittimare una ricerca libera da presupposti teologici in quanto garantita dall'autonomia, pur non assoluta, del suo oggetto. Inizia così l'episodio saliente del conflitto tra filosofia italiana e Controriforma, in cui si palesa come la Chiesa abbia ormai colto tutte le potenzialità eversive di un rinnovamento generale del sapere che passi nel suo aspetto più palese attraverso la rivoluzione scientifica. In realtà, rispetto a Galileo, Campanella pensava che soltanto una lettura autonoma dei due libri, quello della Scrittura e quello rivelato da Dio nei cieli, due libri che era necessario dunque leggere in base ai caratteri peculiari con cui erano stati scritti, potesse condurre a una loro decifrazione, e quindi alla individuazione del rapporto autentico che essi intrattenevano sul piano della rivelazione.

Ci troviamo di fronte al nucleo più autentico del pensiero di Campanella: le due scritture che Dio ha concesso all'uomo non sono assolutamente concluse, il loro discorso si sviluppa ancora nel tempo in modo che i segni celesti che ci vengono inviati illuminino l'autentico significato delle profezie contenuto nella Scrittura e viceversa. La necessità di leggere i due libri secondo la lingua e i caratteri in cui sono stati scritti conduce così Campanella a una ricerca del significato astrologico e quindi religioso delle nuove scoperte, o se si vuole lo conduce a quella fusione tra ciclo e astrologia che trova, all'interno della sua opera, l'espressione più chiara negli Articuli prophetales. La scoperta di un nuovo assetto del Cosmo muterebbe il significato dei segni celesti e sarebbe essa stessa il segno al più alto grado della provvidenza divina.

Negli Articuli prophetales, egli prende posizione contro Copernico (già attaccato nella Città del Sole), sebbene questi abbia accertato con una cura e una precisione superiori rispetto a ogni altro astronomo tutti i fenomeni che sono venuti emergendo nei cieli attraverso il tempo. Anche Copernico è caduto però nell'errore comune, ha creduto di poter ricondurre a regolarità matematiche eventi che rispondono semplicemente all'arbitrio e alla volontà divini; non ha riconosciuto cioè il carattere di autentiche anomalie celesti a una serie di mutamenti cosmici, ma ha cercato la loro ragione credendo di poterli sottoporre a regole cicliche immutabili.

Si trattava, invece, di mostrare come soltanto attraverso periodi lunghissimi di tempo venissero alla luce quei fenomeni che esprimevano i disegni divini e facevano dei cieli un libro scritto appunto da Dio. Un libro che annunciava nel modo più chiaro, prima ancora dell'estinzione della Terra, il secondo avvento spirituale del Cristo, destinato a unificare l'umanità e a restaurarne la natura originaria.

In generale, se consideriamo il piano fisico, Campanella cerca di restare fedele ai due principî della cosmologia telesiana, il caldo e il freddo, concepiti come i due contrari che rinviano ai primi corpi, il Sole e la Terra. Così da un lato egli inserisce la loro azione nel quadro di quelle influenze superiori, necessità, fato e armonia, che regolano in modo intelligente il mondo materiale, discendendo dalle tre primalità divine; dall'altro resta comunque fermo all'immobilità della Terra, oltre che al carattere igneo dei cieli, con tutte le conseguenze che questo comportava sul piano fisico, medico e astrologico.

L'astrologia non potrebbe essere fondata sulla presenza dei quattro elementi in cielo, poiché gli astri possono dare soltanto calore, e l'influenza di aspetti, luoghi celesti, ecc. tende a essere ricondotta a un legame più o meno diretto con il calore solare. Si aggiunga che la differenza dei quattro temperamenti tradizionali era divenuta per Telesio differenza dello spiritus lucido, caldo, mobile e sottile nei diversi individui; una dottrina che è ribadita da Campanella nel libro cosmologico della Theologia ed è riproposta come chiave per spiegare l'attitudine fisica che si richiede per profetare. Ma Campanella, che trasformava in negazione lo scetticismo di Telesio sulla possibilità di giungere a una struttura matematica dei moti celesti, ereditava da lui il fondamento geocentrico della sua cosmologia, connettendolo a dottrine determinanti per il suo profetismo. Il suo disagio dinanzi alle novità astronomiche viene alla luce con chiarezza in testi capitali quali la ricordata Cosmologia, nelle Quaestiones physiologicae, nella Metaphysica. Campanella sceglie come linea di difesa l'asserzione che tanto il geocentrismo telesiano quanto l'eliocentrismo dei 'nuovi pitagorici', Copernico e Galileo, potevano accordarsi legittimamente con il significato della Scrittura: quelli che egli chiama 'centro dell'amore' e 'centro dell'odio' potevano, dunque, scambiare la loro collocazione cosmica senza mettere in forse quella fine dei tempi che in lui era associata al millenarismo.

Tuttavia, le novità galileiane non si limitavano a porre in contrasto geocentrismo ed eliocentrismo, ma sembravano rafforzare la plausibilità di una cosmologia come quella del Bruno, che Campanella conosceva molto bene e che presentava tratti ben più inquietanti dal punto di vista teologico. Così nella Cosmologia non esclude la possibilità della composizione elementare dei corpi celesti, l'eventualità dell'esistenza di sistemi solari simili al nostro oltre che di principî autonomi di movimento. Certo, egli scopre sempre un accordo di tutte le diverse versioni con l'esposizione della Genesi. Ma intanto la lettura di Tycho si sovrappone a quella di Galileo e i pianeti di Giove mostrano come il sistema Terra-Luna non sia unico e isolato; diveniva così più difficile ricondurre l'intera vicenda cosmica al semplice rapporto tra la Terra e il Sole, rispetto al quale Mercurio e Venere tendono anch'essi ad assumere il carattere di satelliti. In particolare, di fronte alla possibilità che le stelle fisse siano al centro di sistemi solari con pianeti o satelliti a noi invisibili, egli si trova davanti a un limite che né la filosofia naturale né l'astronomia matematica possono superare. Sembra, ora che il secolo è avanzato, che la cosmologia sia finita in un vicolo cieco, ma tutto questo non disarma la pretesa campanelliana di continuare a profetare sulla base di alcuni dati che gli appaiono certi, i mutamenti non regolari che il nostro sistema del mondo continua a conoscere. È, questa, la posizione espressa tra l'altro nella grande e per certi versi conclusiva Metaphysica. Nella imprecisione dei calcoli sulla durata del mondo, sulla lunghezza dell'anno cosmico, che in ogni caso non sarebbe destinato a riportare gli stessi eventi, l'unica certezza continua a essere in quest'opera l'estinzione per fuoco del mondo, dal momento che il Sole si sta avvicinando alla Terra e vi è una diminuzione della sua eccentricità. Non sappiamo però a partire da quale punto avverrà la combustione e, se anche lo sapessimo, ignoreremmo quando il Sole vi perverrà, per la differenza di velocità nel suo avvicinarsi. Se tutto il cielo muta al cenno di Dio e i segni della fine sono chiaramente espressi in esso, un'astronomia non è possibile, ma gli astronomi, a cominciare da Copernico, continuano ad assegnare cerchi fittizi e librazioni impossibili, attribuiscono quiete al Sole e moto alla Terra per oscurare la verità fisica ed evangelica; affermano che tutto persevera dall'inizio e che le anomalie sono destinate a riprodursi, mentre fu osservato sempre il contrario, e la causa certissima di tutto questo è preconizzata dal vangelo. Nessuna ragione ci spinge poi ad affermare che fuori di questo mondo ce ne siano altri; per quanto in passato abbia ritenuto il contrario, e che la potenza divina non potesse esaurirsi nella Creazione del nostro mondo, Campanella ritiene ora che quei sistemi non siano materiali e corporei come la Terra e i pianeti, e che fuori del nostro Universo ci siano enti di altra natura. Non sembra lecito attribuire a Dio la creazione di tanti sistemi caratterizzati dal dolore e dalla corruzione, mentre appare plausibile postulare, con Platone, un mondo intelligibile le cui essenze ci siano sconosciute.

Così Campanella è partito dall'empietà di aristotelici e astronomi, che credevano in un Universo eterno e immutabile, per ritrovarsi di fronte a cosmologie che rovesciavano la fisica telesiana o che, asserendo infiniti mondi, aprivano problemi teologici immani senza che né la filosofia naturale né la riflessione astronomica gli potessero fornire risposte conclusive. Nel cuore stesso del suo programma si apriva una crisi che egli cercava di risolvere con mezzi speculativi ma che rappresentava la crisi di un'intera cultura.

Nella Metaphysica egli sembra sincmro nel chiudere il discorso sulla possibilità di infiniti sistemi solari, una conclusione che lo poneva in accordo, d'altra parte, con i decreti della Chiesa. Resta tuttavia un'impressione di fondo. L'incertezza dell'astronomia ha colpito Campanella nel punto vitale della sua riflessione, quello in cui si delineava il suo messaggio profetico. Nonostante egli ne salvi la sostanza, con l'annuncio del secondo avvento del Cristo, con il suo millenarismo preludio ai tempi ultimi, si fa forte nel lettore la convinzione di un sapere che non ha più un ancoraggio certo e sicuro per far spazio a quelle novità, riassumibili nel progetto provvidenziale del riscatto stesso di tutta l'umanità, cui Campanella intendeva dar voce attraverso la mole imponente delle sue scritture.

La filosofia naturale

di Christoph Lüthy

L'espressione 'filosofia naturale' nel Rinascimento assume due differenti significati. Da un lato, essa si riferisce a una disciplina accademica e al corpus di dottrine professato nelle università europee nel lasso di tempo che va dal 1400 al 1600. Dall'altro lato, l'espressione è spesso impiegata per designare l'esatto opposto, vale a dire le molteplici tendenze intellettuali che si opposero al paradigma dominante nelle università e tentarono di proporre modelli alternativi di spiegazione della Natura. Dal momento che i due significati appena elucidati indicano sviluppi completamente contrapposti, essi saranno discussi separatamente.

Philosophia naturalis fu, anzitutto, il nome di una disciplina curriculare la cui base testuale era fornita dai libri naturales di Aristotele. Come tale, essa era parte integrante della sintesi aristotelica di metafisica, fisica, psicologia e logica che era insegnata in tutte le università rinascimentali. In quanto disciplina accademica, essa rimase molto più fedele alle sue radici medievali che non altre branche del pensiero scolastico. Infatti, mentre nel corso del Rinascimento la logica, la metafisica, la politica e l'etica subirono notevoli modifiche, l'insegnamento della filosofia naturale conobbe soltanto cambiamenti di accento, di metodologia e di presentazione.

Lo storico interessato alle radici della scienza moderna cede spesso alla tentazione di sopravvalutare l'impatto dei vari attacchi sferrati ai principî della filosofia naturale di Aristotele da neoplatonici, stoici, epicurei, scettici ed ermetici. Appare dunque necessario fare due chiarimenti preliminari. In primo luogo, il sentimento antiaristotelico che si sviluppò nella prima parte del Rinascimento non toccò, inizialmente, la filosofia naturale di Aristotele, bensì l'etica, la logica e la metafisica. Fu soltanto nella seconda metà del XVI sec. che l'attenzione critica cominciò a essere esplicitamente rivolta alla concezione tradizionale della filosofia naturale aristotelica. In secondo luogo va sottolineato che sebbene molti di questi attacchi appaiano, a posteriori, gravidi di promesse di nuovi albori scientifici, in realtà essi rimasero tra di loro non coordinati, e furono quindi incapaci di sostituire il vecchio sistema con una nuova visione, coerente e unitaria, della Natura. Fu soltanto nella seconda metà del Seicento che l'affermarsi di nuovi metodi sperimentali, di un'analisi matematica dei processi naturali e dei nuovi principî metafisici, riuscì a sferrare un serio colpo al nucleo della filosofia naturale aristotelica e a causarne la caduta.

Non si può certamente negare che nel corso del Rinascimento abbia avuto luogo una rottura insanabile della visione medievale del mondo. Trovare la filosofia naturale aristotelica in una posizione abbastanza indisturbata può pertanto risultare sorprendente. Tuttavia, uno sguardo ravvicinato ai tre fattori chiave che, durante il XV e XVI sec., minarono la sintesi intellettuale medievale ‒ la scoperta del nuovo mondo, l'Umanesimo e la Riforma ‒ dissolverà tale perplessità.

Per ciò che riguarda le scoperte geografiche, pur essendo vero che esse fecero crollare una volta per tutte la credenza che gli autori antichi avessero avuto una conoscenza completa ed esaustiva del mondo, il loro peso si fece sentire negli ambiti della geografia e della storia naturale piuttosto che in quello della filosofia naturale.

Per quel che riguarda gli umanisti, essi erano per lo più retori, filologi o moralisti, interessati alla storia e alla letteratura, all'etica e alla politica, in breve alle 'cose umane', assai meno inclini invece allo studio degli oggetti naturali e dei principî fisici che ne governavano il comportamento; molti disprezzarono apertamente la filosofia naturale in quanto questa appariva loro un soggetto arido e tecnico. Se si fa eccezione per alcuni aspetti della metafisica e dell'epistemologia neoplatoniche, fu soltanto negli ultimi decenni del XVI sec. che gli umanisti cominciarono a rivolgere il loro interesse alla filosofia naturale e a influenzare con il loro atteggiamento critico i manuali universitari.

Per ciò che attiene infine alla Riforma, sia Martin Lutero (1483-1546) sia Giovanni Calvino (1509-1564) ebbero parole di disprezzo per Aristotele e per la filosofia naturale aristotelicamente intesa. Per ironia della sorte, tuttavia, furono le dispute teologiche su questioni quali la presenza di Cristo nell'eucarestia a richiedere un continuo ricorso al vocabolario aristotelico della filosofia naturale, in base al quale, già a partire dal 1215, era stato formulato il dogma della transustanziazione. Filippo Melantone (1497-1560), il 'Precettore di Germania', e Teodoro di Beza (1519-1605), la sua controparte calvinista, considerarono la filosofia aristotelica indispensabile per la formazione del clero protestante e per il mantenimento della chiarezza dottrinale ed esegetica. Verso la fine del XVI sec., sia nell'Università di Wittenberg sia in quella di Ginevra si insegnava, anche se con accento differente, la filosofia naturale in conformità con i libri naturales di Aristotele.

Se l'insegnamento universitario rimaneva fondamentalmente aristotelico, quasi tutti gli sviluppi antiaristotelici avevano luogo fuori dalle mura universitarie. Tuttavia, almeno se applicata alla filosofia naturale, l'immagine del Rinascimento come di una rinnovata battaglia tra aristotelici e platonici è fuorviante, dal momento che non possiamo mettere sullo stesso piano i due gruppi che si contrapponevano. Mentre infatti nessun novator con un diploma universitario ignorava i principî di Aristotele, al contrario, un filosofo universitario poteva tranquillamente ignorare Giamblico, Ermete Trismegisto o Lucrezio. Il predominio della terminologia aristotelica all'interno delle istituzioni educative, che continuò ininterrotto fino alla fine del XVII sec., fece sì che i più famosi antiaristotelici iniziassero le loro carriere partendo da un'ottica peripatetica. Questo stato di cose è espresso con chiarezza nelle lamentele di Juan Luis Vives (1492-1540), uno tra i critici più espliciti della dialettica aristotelica, il quale scrive con disappunto che nella sua prima giovinezza gli educatori gli impiantarono nella mente in modo talmente profondo il seme della pazzia aristotelica, con tutti i suoi concetti vuoti, "che in nessun modo riesco a separarmene" (In Pseudo-Dialecticos, I, p. 272).

Non solo Aristotele rimase al centro dell'insegnamento universitario della filosofia naturale, ma vi rimase in modo esclusivo. Nel Rinascimento, il solo caso di un professore di filosofia naturale non aristotelico è quello di Francesco Patrizi (1529-1597), che insegnò filosofia platonica a Ferrara dal 1577 al 1591 e alla Sapienza di Roma dal 1591 fino alla morte. Ma il fatto stesso che Patrizi trovasse necessario pubblicare una dettagliata confutazione della filosofia aristotelica prima di procedere alla presentazione del suo sistema, è un segno del vigente monopolio aristotelico. Tuttavia, fatta eccezione per Patrizi, i novatores non furono, di professione, insegnanti di filosofia naturale, preferirono invece sviluppare le loro idee controcorrente vestendo i panni di medici, teologi, filologi, literati, riformatori. I loro interessi avevano poco a che fare con la necessità, avvertita dagli 'uomini di scuola', di presentare l'intero corpo di conoscenze sulla Natura in un modo deduttivo e metodologicamente coerente. Fu solamente nel tardo XVI sec. che qualcuno di questi novatores cominciò a venire incontro alle esigenze educative. Per la maggior parte, comunque, essi svilupparono le loro idee senza un vero intento pedagogico e senza mai coordinarsi fra di loro. Infatti, "la caratteristica più tipica del pensiero rinascimentale fu la sua nozione costantemente mutevole di filosofia, del suo ambito, del suo scopo, dei suoi oggetti e del suo metodo" (Vasoli 1988, p. 61).

Nel definire 'Rinascimento' i duecento anni che si aprirono con la nascita di Niccolò Cusano (1400/1401) e terminarono con la morte di Giordano Bruno (1600), chiamiamo in causa due nomi che rappresentarono al meglio l'indipendenza degli intellettuali del Rinascimento dagli interessi pedagogici dei filosofi universitari. Pur attraverso modalità completamente differenti, Cusano e Bruno furono accomunati dalla ricerca della divinità assoluta dietro gli aspetti individuali e visibili del mondo creato, dall'adesione a una teoria emanazionista della Creazione, ma anche da un profondo senso di scetticismo riguardo alla capacità dell'uomo di conoscere le vere essenze delle cose create. Come conseguenza, i due filosofi condivisero anche una posizione critica nei confronti del realismo ingenuo che stava a fondamento dell'epistemologia e della filosofia naturale aristoteliche. Essi criticarono la concezione della natura tipica del loro tempo, e Bruno, di fatto, ebbe un ruolo considerevole nel promuovere una cosmologia eliocentrica, come pure nel difendere certe nozioni stoiche e atomistiche della materia e della causalità (Cusano, De Beryllo, capp. 16-31; Bruno, De l'infinito universo et mondi; De immenso). Nondimeno, per nessuno dei due lo studio della Natura fu fine a sé stesso, ma rappresentò soltanto un aspetto di una ricerca che si spingeva verso verità assai più universali o cosmiche. Il cardinale Cusano, il mistico erudito, e Bruno, l'eretico panteista, aspiravano entrambi a un rinnovamento della teologia che fosse più funzionale alla metafisica e alla psicologia che alla filosofia naturale. Nonostante le sue discussioni con i professori delle Università di Parigi e di Oxford e il breve insegnamento a Wittenberg, Bruno non fu assolutamente uomo di università. È significativo notare che, se i suoi scritti abbondano di frecciate sprezzanti contro la pedanteria del discorso dotto, nella sua sporadica attività di professore, Bruno non poté far altro che insegnare la filosofia aristotelica.

Se andiamo alla ricerca delle radici della scienza del XVII sec. scopriamo che esse si trovano assai meno sul terreno del neoplatonismo rinascimentale, o nello scontro di sistemi contrapposti, di quanto comunemente si presupponga. Le discipline scientifiche dell'età moderna sono il risultato di interessi periferici rispetto a quelli dei grandi metafisici e moralisti del Rinascimento. Queste discipline moderne discendono dai risultati pratici di studi, osservazioni ed esperimenti appartenenti ai campi disciplinari dell'astronomia, della medicina, dell'alchimia e della meccanica. Sebbene agissero ai margini della filosofia naturale stricto sensu intesa, questi sviluppi disciplinari con forza sempre maggiore cominciarono a entrare in rotta di collisione, con le spiegazioni peripatetiche degli eventi naturali. La medicina e l'astronomia, come discipline curriculari, incisero, prima e con maggior forza, sui filosofi della Natura accademici. I risultati sperimentali dell'alchimia e i modelli matematici della meccanica, benché ben avviati verso un impianto teorico già alla fine del XVI sec., iniziarono a influenzare l'insegnamento della filosofia naturale solamente nel secolo successivo.

Le pagine che seguono intendono perciò fornire una risposta ai seguenti interrogativi: quale fu la struttura della filosofia naturale aristotelica nel corso del Rinascimento? Perché essa fu così resistente agli attacchi? Quali sviluppi ebbe la filosofia naturale in questo periodo? Quali furono le implicazioni, per la filosofia naturale, dei sistemi rivali che emersero nel corso del XV e del XVI sec.? Infine, quali furono gli sviluppi empirici che, nell'ultima parte del Rinascimento, sfidarono apertamente la filosofia naturale tradizionale?

La definizione di filosofia naturale

I titoli dei libri naturales aristotelici indicano l'ampiezza del campo che apparteneva alla sfera della filosofia naturale. Mentre la Physica formulava i principî generali di tutti i cambiamenti naturali, il De caelo et mundo, il De generatione et corruptione, i Parva naturalia, il De partibus animalium, il De generatione animalium, i Meteorologica e il De anima costituivano la parte speciale della filosofia naturale che trattava i principî e le proprietà dei generi particolari dei corpi naturali. La filosofia naturale conteneva, in altre parole, i principî delle scienze che noi conosciamo separatamente come astronomia, chimica, meteorologia, botanica, biologia, zoologia, fisiologia, anatomia, meccanica, fisica e psicologia. Il suo approccio ai fenomeni naturali combinava in sé scopi e obiettivi di varie discipline filosofiche; i suoi principî primi derivavano dalla metafisica, il suo interesse per l'anima come proprium dell'uomo era condiviso dalla teologia, la sua spiegazione dell'interazione tra sfere celesti e terrestri riguardava l'astronomia e l'astrologia, e le sue teorie del moto e della visione interagivano con le tradizioni medievali in meccanica e in ottica.

Nonostante vi fossero i presupposti per un attrito disciplinare, la filosofia naturale aristotelica rimase quasi inattaccabile, e ciò per diverse ragioni. Anzitutto, l'Occidente latino aveva accettato e sviluppato ulteriormente la codificazione averroista dei libri naturales di Aristotele in un corpo coerente di conclusioni vere e certe, un sistema chiuso di cui la metafisica era il suggello. Ciò assicurò una struttura gerarchica e un lessico omogeneo il cui destino fu indipendente dalla verifica o dalla falsificazione di singoli enunciati osservativi. Alla solidità complessiva del sistema contribuì anche il metodo degli scolastici di isolare difficoltà particolari in quaestiones separate. Questa abile neutralizzazione permise alla struttura dottrinale di non prestare il fianco a tali difficoltà.

Un'ulteriore ragione della grande stabilità della filosofia naturale scolastica risiede nel suo preteso diritto di appoggiarsi sui tre pilastri dell'autorità, della ragione e dell'esperienza. Fino al tramonto del curriculum tradizionale nel tardo XVII e nel XVIII sec., le principali autorità rimasero quelle che Patrizi chiamava ironicamente il Senatus popolusque peripateticus, vale a dire Aristotele e i suoi commentatori. Per 'esperienza', a sua volta, si intendeva l'osservazione quotidiana piuttosto che qualsiasi tipo di sperimentazione tesa alla verifica di ipotesi. Una tale considerazione della 'esperienza' implicava ciò che oggi chiameremmo un approccio all'osservazione pesantemente 'carico di teoria', poiché l'evidenza era raccolta al fine di corroborare la teoria stessa. La 'ragione', infine, era definita come l'assenso intellettuale alla logica del sistema, dopo che questo era stato studiato in modo estensivo. In altre parole, l'intreccio di questi tre fattori fu tessuto in modo così sistematico che ciascuno di essi era rafforzato attraverso gli altri. Tale intreccio riuscì quindi a garantire al sistema una struttura abbastanza monolitica e impermeabile alla nuova evidenza, e questo è sufficiente a spiegare, al tempo stesso, la longevità del modello peripatetico.

È un fatto curioso che l'entusiasmo del tardo XVI sec. per un metodo rigoroso di presentazione e di insegnamento abbia reso il modello peripatetico assai meno flessibile di quanto non fosse stato prima. Mentre nelle edizioni dei commentari tipicamente rinascimentali, l'interpretazione di un autore accompagnava e dunque seguiva l'argomento del testo aristotelico ristampato, il nuovo tipo di manuale, cursus o systema, provava a ridurre i contenuti dell'intero corpus peripatetico a una struttura unificata. Quando, negli anni Novanta del Cinquecento, i commentatori di Coimbra iniziarono a stampare l'ultima edizione importante del commentario aristotelico includente i libri naturales, l'età dei libri di testo era già cominciata. Si assistette a una proliferazione di lavori che promettevano ambiziosamente di presentare e d'insegnare un qualsiasi argomento, compresa la filosofia naturale, in un modo più metodico e sistematico di quanto non fosse stato fatto in precedenza.

Almeno tre sono le ragioni che stanno dietro a questo sviluppo della manualistica.

a) La riorganizzazione del sapere seguita alle divisioni confessionali, che rese necessario allineare la filosofia alle rispettive vedute dottrinali che tali divisioni dovevano difendere. Tale sviluppo iniziò con la riorganizzazione da parte di Filippo Melantone della successione dei tópoi per gli studenti luterani negli Initia doctrinae physicae dictata in Academia Witebergensi (1549).

b) Il nuovo interesse per la pedagogia e per la presentazione grafica, suscitato dalla riforma della logica di Pietro Ramo (1515-1572) e, in seguito, dai metodi pedagogici di Comenio (Jan Amos Komenský, 1592-1670). Ramo avviò l'usanza generale delle sciagraphiae ‒ ossia tavole di dicotomie che mostravano l'interrelazione dei concetti ‒ che portò alla semplificazione della terminologia aristotelica, complessa e spesso polisemantica.

c) Il tentativo di usare il vocabolario sistematico delle scuole come uno strumento per organizzare e strutturare in trattati enciclopedici il corpo di una conoscenza antica e moderna in continua evoluzione.

Se è vero che tali sviluppi portarono a un progresso dei metodi pedagogici nelle discipline curriculari, è però anche vero che essi finirono con il rafforzare ulteriormente la rigidità concettuale della loro terminologia. Questo effetto di irrigidimento può essere osservato in un autore come Johann Heinrich Alsted (1588-1638), il quale provò a ridurre la filosofia naturale aristotelica, alchemica, biblica e platonica a quattro distinte sciagraphiae che rimandavano le une alle altre. Ma la totale mancanza di elasticità della struttura da lui impiegata rese comunque inutile questo tentativo concordista (Systema phisicae harmonicae). Pur risultando ostico per lo studente alle prime armi, lo stile frammentario delle quaestiones sulla filosofia naturale aveva consentito ai pensatori medievali di rispondere alla varietà delle esperienze naturali in una maniera più flessibile. Stando alla visione comune degli autori di manuali del tardo XVI sec., il fine dell'insegnamento non consisteva nel dimostrare e neppure nello scoprire qualcosa di nuovo, ma piuttosto nell'ordinare e spiegare le dimostrazioni disponibili; l'obiettivo che tali autori si proponevano di raggiungere era la presentazione comprensibile dei sistemi di dimostrazione già esistenti. Così inteso, il compito dei filosofi naturali in quanto educatori era, per definizione, contrario all'integrazione dell'evidenza negativa all'interno del sistema.

Nonostante l'estrema diversità di provenienza confessionale e filosofica, i manuali del Tardo Rinascimento furono in tutta Europa abbastanza simili nei contenuti e nella terminologia, al punto da fornire un'immagine chiara e compatta dell'essenza e della struttura della disciplina. Innanzi tutto, gli autori erano generalmente d'accordo sul fatto che la filosofia naturale andasse definita come una 'scienza speculativa'. Ma cosa intendevano con questa definizione? In primo luogo, lo status di scientia implicava che la filosofia naturale fosse parte integrante di un sistema le cui conclusioni erano certe, universali e vere, in quanto derivate da una dimostrazione sillogistica che partiva da principî e cause, entro un dato dominio di enti reali. In che modo, però ‒ si domandavano spesso gli autori di manuali ‒ una tale aspirazione alla certezza poteva essere compatibile con la natura singolare e modificabile di tutti i fenomeni naturali e con la natura probabilistica della conoscenza che noi abbiamo di questi fenomeni?

La loro risposta per lo più era che la filosofia naturale studiava fenomeni particolari non in quanto particolari, ma perché essi esemplificavano nature universali; che il carattere transeunte e non eterno della realtà sensibile non invalidava le proposizioni universali su di essa formulate; e che, infine, in ogni scienza non era necessario dimostrare tutte le singole conclusioni. In realtà, l'obiettivo della filosofia naturale come scientia fu, sempre e dovunque, afferrare l'essenza di ogni specifico corpo naturale e delle sue proprietà in termini della sua forma distintiva e delle sue cause essenziali (Tartaretus, Commentarii …, f. iir). È comprensibile che la filosofia naturale così intesa si prestasse a reificare gli universali: la tentazione costante di trattare gli enti naturali sullo stesso piano degli enti logici e di fare una "filosofia naturale senza natura" si manifesta già nel dibattito medievale sugli universali. Come si vedrà più oltre, la nozione di conoscenza abbracciata dai naturalisti rinascimentali come Gerolamo Cardano differiva nettamente dall'approccio logico delle scuole. Invece di cercare qualità universali, i naturalisti rivolsero la loro attenzione alle qualità uniche, trovando nei fenomeni rari una guida molto più sicura per decifrare i segreti della 'natura sottile'. Tale metodo non poteva soddisfare le esigenze dei filosofi naturali, che si prefiggevano come obiettivo l'integrazione dei fenomeni in un sistema deduttivo attraverso la loro universalizzazione.

Ricordiamo che nella definizione data sopra di filosofia naturale, il predicato qualificante era 'speculativo'. La filosofia naturale aristotelica concepiva sé stessa non come una scienza tecnica (o applicata), ma come un campo di indagine puramente teorico (o autosufficiente). Nell'Europa del Nord, dove le università seguivano il modello parigino in cui il curriculum delle arti era propedeutico allo studio della teologia, si pensava che l'utilità della filosofia naturale aristotelica consistesse nell'accrescere la nostra conoscenza della Creazione e quindi il nostro amore per Dio. In Italia, invece, dove la maggior parte delle università seguiva il modello bolognese per cui la filosofia naturale era più legata alla facoltà di medicina, i manuali accentuavano la funzione che la filosofia naturale aveva nello studio dell'arte della guarigione. Nei paesi luterani i filosofi naturali cominciarono, dalla metà del XVI sec., a imitare il modello di Wittenberg, collegando la filosofia naturale al riconoscimento del governo provvidenziale di Dio sulla Natura. Ciò implicò una rinnovata attenzione per l'astronomia e l'astrologia, considerate come un complemento necessario nello studio dell'ordine celeste stabilito da Dio. La filosofia naturale era inoltre legata all'anatomia, e non le era estraneo un approccio 'fisico' all'agostiniana ricerca della conoscenza di sé stessi.

Comunque, nonostante questi riferimenti all'utilità della conoscenza dei principî della Natura, tanto l'ideale baconiano della manipolazione della Natura quanto il programma dei filosofi meccanicistici di porre tale conoscenza a servizio dell'uomo, sono assenti dalla filosofia naturale aristotelica. Lo stesso può essere detto della matematica la cui utilità fondamentale per la fisica sarà conosciuta soltanto nel secolo successivo. Se è vero, infatti, che la filosofia naturale, nel corso del Rinascimento, emulò l'impianto assiomatico proprio dei sistemi dimostrativi matematici, essa tuttavia non fece uso della matematica. L'unica eccezione a questa regola sembra essere rappresentata dalla tradizione dei commentari alle pseudoaristoteliche Quaestiones mechanicae che si sviluppò a partire dalla seconda metà del XVI secolo. Nonostante l'importanza che questo scritto ebbe per la rinascita degli studi matematici del XVI sec., due ragioni si oppongono a una sopravvalutazione del peso di tale eccezione. In primo luogo, l'interesse rinascimentale per questo testo fu confinato quasi interamente all'Italia del Nord, e deve essere fatto risalire al tempo in cui il cardinale Bessarione (1403 ca.-1472) lo incluse nel suo Corpus Aristotelicum ‒ che servì da base per l'editio princeps greca, la cosiddetta aldina (1495-1498). In secondo luogo, sebbene tre successivi professori all'Università di Padova ‒ Pietro Catena, Giuseppe Moleto, e soprattutto Galileo Galilei (1564-1642) ‒ abbiano tenuto lezioni sulla Mechanica nella seconda metà del XVI sec., non sembra che la rilevanza di tale opera per la filosofia naturale fosse riconosciuta. La ridefinizione del ruolo della matematica nel dominio della fisica e la creazione della fisica matematica ebbe inizio soltanto nel XVII sec., e raggiunse il suo apice con i Philosophiae naturalis principia mathematica di Isaac Newton (1642-1727), il cui titolo, del resto, è una chiara indicazione del capovolgimento della gerarchia tra le varie discipline.

Infine, poiché la filosofia naturale non fu la sola scienza speculativa (la matematica, per esempio, era definita nello stesso modo), essa richiedeva qualche ulteriore specificazione che ne completasse la definizione. La specificazione era questa: la filosofia naturale aveva come particolare argomento il mondo, in quanto naturale e soggetto al cambiamento. Come i professori di filosofia naturale amavano sottolineare, i termini philosophia naturalis o scientia naturalis erano sinonimi di physica, un neologismo latino coniato per tradurre l'aristotelico phýsis (la cui radice, il verbo phýō, significa 'crescere' o 'svilupparsi'). Sulla base di questa etimologia erano spiegate sia la definizione della disciplina sia il suo ambito, che si estendeva a tutti gli oggetti naturali che avevano un'innata tendenza a muoversi, terrestri o celesti, animati o inanimati. In aggiunta, la disciplina era ripartita in una parte generale e in una speciale; la parte generale considerava i principî e le proprietà comuni a tutti i corpi, vale a dire materia, forma, quantità, qualità, luogo, tempo e moto, secondo quanto veniva indicato nella Fisica di Aristotele, mentre la parte speciale si occupava dei principî e delle proprietà di generi particolari dei corpi naturali come specificato nei libri naturales.

L'ilemorfismo

Come è ben noto, l'analisi aristotelica di un oggetto naturale parte dal concetto di sostanza, col quale Aristotele designa gli oggetti nella loro individualità e concretezza, come, per esempio, 'Giovanni', 'questo tavolo' o 'questa statua'. L'esse della sostanza è per se (in sé), mentre tutti gli altri principî (quantità, qualità, luogo, relazione, ecc.) sono 'accidenti', in quanto il loro è un esse per aliud (essere in altro).

Questo significa che mentre Giovanni è 'sostanzialmente' 'Giovanni', dal momento che non può essere altrimenti, il suo essere in un certo luogo in un certo tempo è, invece, puramente relativo a determinate circostanze. Sebbene le sostanze siano gli ultimi enti empirici conosciuti dai sensi, esse possono essere analizzate ulteriormente nelle due componenti logiche, cioè la forma (morphḗ) e la materia (hýlē). Ad Aristotele si attribuiva anche la postulazione della 'privazione', come di un terzo principio per designare ciò che viene perso quando una forma sostanziale è creata, ma nell'Occidente latino questo principio non ebbe alcun ruolo costitutivo e alla maggior parte dei commentatori esso sembrò come un tassello che non riusciva a inserirsi nel sistema essenzialmente dualistico della filosofia naturale.

Tale sistema dualistico, detto 'ilemorfismo' per la sua analisi dei corpi in termini di 'materia' e di 'forma', rappresentava il cuore della filosofia naturale scolastica. A grandi linee, un'analisi ilemorfica del particolare uomo 'Giovanni' procede in questo modo. Il livello più elementare è rappresentato dalla 'materia prima', entità logica senza alcuna realtà fisica, pura indeterminatezza, necessaria come sostrato logico per le 'forme'. 'Informando' la materia prima, le forme danno origine ai corpi particolari. Per esempio, le due qualità di umido e di freddo, che insieme costituiscono la forma dell'elemento dell'acqua, producono l'acqua quando si uniscono alla materia prima. In questo modo, mentre la forma garantisce che il sostrato logico sia 'specificato', la materia prima 'individua' la forma in un modo tale che 'quest'acqua' sarà distinta da 'quell'acqua'. Aristotele, che aveva accettato la teoria empedoclea degli elementi, ammetteva quattro elementi sublunari, cioè l'aria, l'acqua, il fuoco e la terra, ciascuno dei quali era definito da una coppia delle quattro qualità primarie (caldo, freddo, umido, secco).

Salvo rare eccezioni, per i presocratici l'ultimo livello di analisi era rappresentato da elementi che a volte erano identificati con atomi. Aristotele, invece, non considerava stabile nessuna sostanza. La teoria logico-fisica dell'ilemorfismo gli permise di postulare che lo stesso sostrato individuale potesse servire varie forme alternativamente. La cosiddetta 'trasformazione sostanziale', per usare l'esempio preferito di Aristotele, spiegava il processo di evaporazione in termini di trasformazione dell'acqua nell'aria. Sotto l'influenza del calore, l'acqua, che è materia prima 'informata' dalla coppia delle qualità primarie di umido e di freddo, diviene aria non appena il 'freddo' è sostituito dal 'caldo', giacché umido e calore sono le qualità della forma dell'aria. In realtà, come mise in rilievo Jacopo Zabarella (1533-1589), il concetto stranamente astratto di 'materia prima' aveva come sua sola evidenza empirica il processo di trasformazione sostanziale (De rebus naturalibus libri XXX, pp. 134-230, soprattutto il cap. 3). Non appena si negò che il risultato dell'evaporazione dell'acqua fosse l'aria, questa dottrina si trovò in serie difficoltà.

Contrariamente agli atomisti, i quali consideravano la generazione e la distruzione dei corpi naturali come gli effetti prodotti dall'unione e dalla separazione degli atomi, l'aristotelismo scolastico interpretò tali processi come la 'generazione' e la 'corruzione' delle forme sostanziali che erano definite come il solo tipo di cambiamento proprio della sostanza. Tutti gli altri tipi di mutamento come l''aumento', la 'diminuzione' e il cambiamento di posto ('moto locale') furono definiti qualitativi.

Questo appena illustrato costituiva il livello più semplice di analisi. La forza dell'ilemorfismo consisteva tuttavia nella possibilità di ripetere la stessa dialettica di materia e di forma, a partire dagli elementi fino alla sostanza più alta (nel nostro esempio, l'uomo particolare conosciuto come Giovanni). Il secondo livello era quello dei composti semplici, dove i quattro elementi si mescolavano formando sostanze omogenee: per esempio, i quattro umori, le pietre e i metalli, le sostanze organiche come i capelli o le ossa.

Aristotele non è sempre coerente nel descrivere cosa accada agli elementi che si uniscono nei composti. Tuttavia, sebbene i suoi Meteorologica, e in particolare il Libro IV, possano far sospettare che egli abbia accettato nozioni corpuscolari, tale ipotesi non regge se si considerano i continui attacchi che egli rivolse agli atomisti. Infatti, il filosofo sosteneva contro l'opinione di Democrito e di Leucippo che i corpi misti non fossero composti da atomi indivisibili, ma da una nuova forma. Senza una tale forma mixti (forma del composto), le nuove qualità specifiche dei composti e così pure la loro coesione risultavano infatti incomprensibili.

Il terzo livello logico, dopo la formazione dei composti omogenei, è rappresentato dai corpi complessi. Per tornare al nostro esempio, Giovanni non è composto da una sola forma mixti, ma da una collezione di organi. Affinché queste parti eterogenee lavorino insieme organicamente, il nostro individuo richiede forme ulteriori. Come essere organico, egli necessita in primo luogo di una 'anima vegetativa' come tutte le piante e tutti gli animali. Come creatura capace di reagire agli stimoli esterni, necessita in aggiunta di una 'anima sensitiva', al pari di tutti gli animali; infine, come membro della suprema specie degli esseri umani dotati di ragione, ha bisogno di una 'anima razionale'. La dialettica di materia e di forma permette che ciascun livello sia considerato come materia rispetto all'anima superiore. Al livello più alto, allora, Giovanni può essere analizzato come il prodotto congiunto della materia di un corpo umano particolare e di un'anima razionale. Se l'anima razionale dovesse essere considerata individuale o collettiva, fu una questione molto dibattuta, spesso legata alla battaglia sull'averroismo.

Da un punto di vista moderno, il problema principale dell'ilemorfismo è che esso confonde categorie logiche della metafisica, dell'epistemologia e della fisica. Se tale problema era già stato avvertito dai commentatori greci, esso appariva ancora più serio ai latini, dal momento che la loro parola forma traduceva almeno tre differenti termini greci (eĩdos, lógos, tò tí ẽn eĩnai) che si riferivano all'apparenza, alla struttura e alla definizione specifica. La definizione di forma data nel Libro VII della Metafisica (1041b) come "ciò in virtù del quale la materia è qualcosa di determinato", indica il nucleo soggiacente a questi vari significati: la forma è la fonte di specificità. Ma la 'specificità', per Aristotele, non è esattamente un predicato logico, significa piuttosto la forza fisica interna che porta la materia a mettere in atto la sua potenza. Il groviglio di criteri logici e ontologici che ne risulta emerge con chiarezza nelle definizioni date da Tommaso d'Aquino: "qualsiasi cosa da cui una cosa deriva la propria esistenza […] può essere chiamata forma. […] Perché la forma porta l'esistenza in atto, stabiliamo che la forma è atto […]. La generazione è il movimento verso la forma […]. La forma compie la generazione […]. Tutte le definizioni e la conoscenza hanno luogo attraverso forme" (De principiis naturae, 1, 37-39; 42-43; 47; 2, 3; 78-79).

Una tale concatenazione di logica e ontologia finì per diventare la fonte di problemi senza fine; come poteva lo stesso principio che definiva la materia spingerla, a un tempo, a diventare ciò che essa nominalmente già era? In altre parole, come poteva la forma dell'albero di ciliegio essere anche la forza che faceva crescere il seme nell'albero di ciliegio? Questa tensione fu continuamente presente ai commentatori, per i quali la categoria logica della forma apparteneva al quadruplice schema delle cause (formale, efficiente, finale, materiale) come una specie di agente e come una qualche causa emanativa che agiva su sé stessa. Una tale inclusione di operazioni immanenti all'interno di questo quadro implicò l'estensione della nozione tradizionale aristotelica di causalità efficiente.

A complicare le cose interveniva il fatto che il dualismo stesso di materia e di forma era connesso anche alla coppia concettuale di potenza e di atto. Ricordiamo che la parola latina physica deriva dal verbo greco 'crescere', 'svilupparsi'. Se tutti i processi naturali sono da noi visti in analogia con la crescita organica, allora essi devono essere intesi non soltanto come diretti a uno scopo, ma anche come realizzazioni del potenziale intrinseco. Il seme si sforza di diventare un albero di ciliegio in quanto cerca di mettere in atto la sua natura formale. Questo, allora, spiega le implicazioni intrinsecamente teleologiche dell'ilemorfismo.

Le tendenze meccanicistiche del XVII sec. mineranno le forti implicazioni teleologiche della filosofia naturale aristotelica, mettendo in dubbio non soltanto l'esistenza di cause formali, ma perfino quella di cause finali, le cosiddette 'cause di cause'. Ovviamente, nel caso degli agenti conoscenti, cause formali e cause finali sono differenti, mentre non è così per agenti non conoscenti. Ciò spiega perché la causa finale fosse talvolta presentata in termini antropocentrici, come quando si assumeva che le comete esistessero per purificare l'atmosfera e per migliorare la salute delle cose viventi. Quando invece tali benefici risultavano misteriosi, come nel caso di insetti velenosi, erano spesso invocati principî come la necessaria completezza della Creazione. Sovente, comunque, cause formali e finali venivano a coincidere: la causa finale era il risultato delle qualità intrinseche di una sostanza.

Lo sviluppo della teoria aristotelica della materia: 1400-1600

Abbiamo sottolineato in apertura come la cornice concettuale della filosofia naturale sia sopravvissuta complessivamente intatta dal Medioevo al primo periodo della modernità. Qui dobbiamo aggiungere che il XVI sec. fu, in realtà, testimone di un aumento considerevole delle pubblicazioni dei commentari aristotelici. Come è stato già messo in rilievo, furono composti più commentari su Aristotele nel secolo che va da Pietro Pomponazzi a Galilei che nel millennio compreso tra Boezio e Pomponazzi. A scrivere questi commentari erano i recentiores, contro i quali si svilupperà la scienza del XVII secolo.

Nonostante questa nuova fioritura dell'aristotelismo, l'immagine ironica di una Scolastica che dibatte in eterno, rintracciabile a partire da Giordano Bruno e Thomas Hobbes fino alla letteratura contemporanea, non è completamente falsa. La Scolastica medievale aveva lasciato in eredità al Rinascimento scuole di pensiero rivali, tra le quali le più chiaramente identificabili erano la via antiqua e la via moderna. Le loro interpretazioni della filosofia naturale erano così divergenti che in molte università del XV e del XVI sec. furono istituite due cattedre per insegnare le due 'vie'. Sebbene queste due viae non si possano strettamente definire scuole ‒ l'insegnamento di Giovanni Duns Scoto (1274 ca.-1308) fu, per esempio, sostenuto da entrambe le parti ‒ ma si configurassero piuttosto come ampie correnti, è corretto dire che i moderni del XV sec. si consideravano generalmente nominalisti, dal momento che sostenevano che gli universali fossero concetti astratti senza alcun riferimento esterno. Essi si rifacevano agli insegnamenti di Marsilio di Inghen (1330 ca.-1396), Giovanni Buridano (1290 ca.-1358 ca.) o a quelli di Guglielmo di Ockham (1280 ca.-1347). Gli antiqui, spesso identificati con i reales, sostenevano di contro che gli universali fossero in qualche modo radicati nella realtà, e seguivano di solito Alberto Magno (1193 ca.-1280) e Tommaso d'Aquino. Se prendiamo per esempio l'ordine dei Principi Sassoni, ci rendiamo conto che la battaglia sullo status degli universali non fu affatto una questione intellettuale confinata in una torre di avorio. Tale ordine, infatti, impose all'Università di Colonia di allontanarsi dal tomismo per imboccare la via moderna, in modo da fermare l'avanzata dell'eresia di Praga che era associata al riformatore Jan Hus (1382 ca.-1415) e basata in parte sulla logica realista di John Wyclif (1330 ca.-1384 ca.). La salomonica soluzione di Colonia di istituire due cattedre si diffuse velocemente anche altrove, non soltanto nell'Europa del Nord ma anche a Padova, dove la via Thomae era associata ai domenicani e la via Scoti ai francescani.

A questa diversità, ereditata, di viae medievali si devono aggiungere due sviluppi specificamente rinascimentali: primo, lo sforzo di trovare sotto il peso dei barbarici commentari latini il vero e genuino Aristotele greco, testimoniato per esempio dal tentativo di Jacques Le Fèvre d'Étaples di restaurare la 'sacra filosofia' della fisica aristotelica; secondo, la riscoperta e diffusione dei commentari greci ad Aristotele non studiati in precedenza. Allo stesso tempo s'identificarono i tentativi di riconciliare Aristotele con le Scritture, con Platone, con i pensatori presocratici, o con Galeno. Tutte queste iniziative fecero in modo che il dibattito filosofico rimanesse vitale e variegato, e quindi non è sorprendente scoprire che le preoccupazioni dei filosofi della Natura nel XV e nel XVI sec. varino a seconda del tempo e del luogo. Eppure, per ragioni che sono già state prefigurate e che ora devono essere affrontate in dettaglio, l'ilemorfismo come metodo d'indagine implicava l'esistenza di confini concettuali che la filosofia peripatetica non poteva oltrepassare. Volgendoci ora agli sviluppi della teoria della materia durante il Rinascimento, troveremo che fu in particolare la teoria delle 'forme' a rendere impossibile ogni riconciliazione con nozioni platoniche, atomiste e stoiche.

Tali sviluppi sono contrassegnati da tre quaestiones che rivestono un particolare interesse storico, sulle quali fermeremo ora la nostra attenzione. La prima riguarda lo status della materia; la seconda il destino ontologico delle forme che fanno parte di un composto; e la terza l'interpretazione del cosiddetto minimum. In particolare, ci si chiederà se il Rinascimento abbia sviluppato soluzioni particolari a tali questioni e se esse abbiano aperto la strada a una concezione corpuscolare della Natura.

Il problema dello status della materia

Abbiamo già visto come la teoria ilemorfica implicasse che materia e forma fossero presenti in modo indivisibile in tutti i corpi naturali e che non fossero separabili in atto. Aristotele aveva spiegato nel Libro VIII della Metafisica (1045b) che "la materia prossima e la forma sono una sola e medesima cosa, l'una, però, in potenza, l'altra in atto".

La relazione tra le due componenti logiche dei corpi naturali rimase però altamente problematica in tutta la storia dei commentari aristotelici, e ciò a causa di due precise ragioni. Da un lato, tale difficoltà fu dovuta alla succitata polivalenza del concetto di forma, che significava essenza, definiens, causa e fine del divenire in atto. Dall'altro lato, dai commentari ellenistici fino a quelli cristiani, le forme aristoteliche furono spesso interpretate alla luce delle idee platoniche. Mentre sia forma sia idea erano traduzioni del termine greco eĩdos, le 'idee' platoniche esistevano indipendentemente dalla materia ed erano poste fuori dal mondo degli oggetti naturali. Dall'opinione di Calcidio, secondo cui le forme specifiche di Aristotele erano le cause formali che tenevano legate tali 'idee' al mondo materiale, fino all'identificazione cristiana di anima razionale e di anima immortale dell'uomo, si manifesta una tendenza latente a reificare le formae e a renderle incorporee.

Questa reificazione di un concetto logico fece in modo che le origini delle forme apparissero profondamente misteriose e lasciò il concetto complementare di materia in un precario status di non-esistenza ontologica. Come un critico del XVII sec. mise in evidenza: "è raro che tre filosofi insieme possano raggiungere un accordo su questo argomento, anche se sono tutti d'accordo che la forma sia ciò che dà essere a una cosa […] Qualcuno ritiene che la forma sia tratta dalla potenza della materia; altri, dalla diversa composizione degli elementi; altri, dal temperamento; […] altri, che essa sia inclusa in uno spirito seminale; […] qualcuno ritiene che la forma sia puramente celeste e venga dalle stelle" (De Clave, Paradoxes, pp. 404-406). Si noti che l'ultima delle spiegazioni elencate dal De Clave procede e forma coeli, derivando cioè le forme dalle circostanze celesti. Le altre spiegazioni cercano comunque l'origine della forma e materia, cioè nella base materiale. Focalizziamo perciò il nostro sguardo sui vari tentativi rinascimentali di elevare lo status della materia dalla condizione di mera potenza a quella di un principio attuale e attivo.

Dobbiamo qui considerare un numero di quaestiones indipendenti. Ricordiamo, prima di tutto, che all'interno della gerarchia dialettica di materia e di forma, la materia prima ha uno status unico, essendo il solo tipo di forma a essere incorporea. Abbiamo visto che fu riconosciuto, da Zabarella e da altri, come la sola dimostrazione fisica dell'esistenza di questa categoria logica fosse fornita dalla trasformazione sostanziale. Mentre il problema del referente della 'materia prima' era stato avvertito come tale fin dall'inizio, lo scarto che si veniva a creare tra la materia prima e gli elementi formati spinse Averroè a introdurre tra i due livelli una 'materia comune' (poi chiamata 'forma materiale' o 'forma del corporeo'). Questa espressione si riferiva alla materia come pura estensione spaziale, una categoria interessante anche perché fornisce una premessa importante alla definizione cartesiana dei corpi come res extensa, e come questa fu un ibrido tra un principio logico e un principio fisico. Notevole si presenta comunque la critica nominalista a tale moltiplicazione degli enti formali. Duns Scoto provò a rimuovere sia le cosiddette 'ragioni seminali' (i principî formali latenti nella materia) sia le forme degli elementi che si diceva sussistessero nei corpi composti. Invece di accumulare varie forme entro la stessa materia, attribuì alla materia stessa un certo, limitato, grado di esistenza, di attualità e d'intelligibilità. Guglielmo di Ockham, da parte sua, sostenne che "materia e forma non sono universali, ma singolari", così che ciascuna cosa è essenzialmente la forma che ha acquisito (Philosophia naturalis, ed. Theulus, p. 18).

Una terza ragione dello sviluppo di teorie della materia dipese dall'antico dibattito sul legame tra le forme terrestri e la forma dei cieli (forma coeli). Aristotele aveva descritto il moto celeste come la causa ultima di tutti i cambiamenti terrestri. Per spiegare la provenienza delle forme reificate, fu conveniente rendere questo legame causale più diretto, e a questo scopo le teorie neoplatoniche dell'emanazione e dell'astrologia furono entrambe di aiuto. Secondo una tradizione di commentari che si inaugurò con Avicenna, le intelligenze che risiedevano nella sfera lunare erano considerate le dispensatrici delle forme, e Alberto Magno dichiarò che "tutte le forme delle sostanze sono impartite dalla potenza dei cieli" (De mineralibus, I, 1, 6, ed. Wyckoff). Nel corso del risveglio astrologico del Rinascimento, questo concetto fu ulteriormente sviluppato. I legami onnipresenti scoperti tra il microcosmo umano e il macrocosmo celeste non potevano che rafforzare la nozione che l'essenza (e quindi le 'forme') giù sulla Terra fossero i riflessi, o i prodotti diretti, delle forme più trascendentali, cercate e trovate nei cieli. Gli scritti dei medici Jean-François Fernel (1497-1558) e Giulio Cesare Scaligero (1484-1558) insistettero parimenti sull'origine celeste delle forme. Ma nelle loro mani la teoria subì un interessante mutamento, influenzato forse dal recupero del concetto stoico di etere come agente fisico che lega le sfere celesti e terrestri. Da un lato, i due chiamarono la forma la 'quintessenza' e il 'quinto elemento' e la legarono all'etere incorruttibile o alla materia dei cieli, introducendo con ciò un'interpretazione più fisica delle forme. Dall'altro lato, entrambi gli autori videro nell'anima il modello della forma che Fernel chiamava 'divina'. Mentre Scaligero seguiva Temistio, commentatore greco del IV sec., nel chiamare la forma, come l'anima, "l'architetto del proprio domicilio", per Fernel "l'origine delle forme è data immediatamente dai cieli, poi dalle Intelligenze, e alla fine da Dio". Scaligero affermò che poiché "la forma ha il potere di agire […], è sciocco attribuire alla materia la forza e l'affezione da cui la forma è distinta" (Fernel, De abditis rerum causis libri II, II, I 8, II 2; Scaligero, Exotericarum exercitationum liber XV, ex. 6 e 346). Purtroppo, la ricerca storica non sembra ancora aver districato gli sviluppi, nel XVI sec., del concetto fisico di spirito, che si preannuncia in tali riflessioni e che riveste un ruolo centrale nel pensiero di autori del primo Seicento come Sebastiano Basson (1579 ca.-dopo il 1625) (cfr. Philosophiae naturalis adversus Aristotelem libri XII).

La nozione di una diretta dipendenza degli enti terrestri dalle costellazioni celesti entrò in conflitto non soltanto con le varie sensibilità religiose, ma anche con certe posizioni filosofiche e mediche. La tradizione scotista, per esempio, continuò a porre in rilievo che nelle sostanze composte vi era un concorso di materia e di forma. Le tradizioni galenica e araba, a loro volta, insistettero sul contributo che le qualità apportavano al temperamento e all'armonia delle forme.

Per entrambe queste tradizioni, la materia era qualcosa di indipendente e di attivo in quanto capace di afferrare una forma oppure di sviluppare una forma dalla sua propria potenza. Ancora una volta, nozioni stoiche e neoplatoniche furono invocate per rafforzare questa comprensione più attiva della 'materia come potenza'. Le 'ragioni seminali' (lógoi spermatikoí) che i neoplatonici avevano mutuato dagli stoici e che gli scolastici conoscevano attraverso Agostino, portarono all'opinione per cui i cieli aiutavano la materia soltanto permettendo alle forme inattive e latenti di maturare. Questa opinione, sebbene fosse attaccata duramente sia da Duns Scoto sia da Guglielmo di Ockham, aveva ispirato, all'inizio del XIII sec., Bonaventura e Ruggero Bacone.

Molti degli autori di manuali del tardo Cinquecento e del primo Seicento accordarono la loro preferenza alla dottrina che considerava la materia prima come qualcosa di minimamente attivo, piuttosto che all'opinione tomista secondo cui la materia prima era 'potenza pura'. Preferendo tipi di dualismo a un ilemorfismo stretto, essi ammettevano che la materia prima avesse una certa indipendenza e priorità ontologiche, senza le quali essa non sarebbe stata in grado di eseguire le sue funzioni, cioè essere soggetta alla generazione, ricevere le forme e contribuire ai composti sostanziali.

'Composti' e minima naturalia

Nell'ambito del dibattito generale sullo status della materia e della forma, due questioni ricevettero una particolare attenzione: il problema della natura degli elementi nei composti e quello, correlato, della natura dei minima naturalia. L'attenzione per tali questioni fu dovuta ai crescenti interessi degli alchimisti e dei medici, sensibili al problema della composizione dei corpi in sostanze più semplici, in relazione sia alla composizione di diete e farmaci, sia all'elaborazione di predizioni e spiegazioni di esperimenti chimici.

Il problema dei composti naturali si era presentato ai commentatori aristotelici sin dall'inizio. Secondo Aristotele, tutti i corpi naturali sono composti in quanto prodotti dai quattro elementi, acqua, terra, fuoco e aria. Un composto, tuttavia, non è costituito fisicamente dalla giustapposizione o sintesi (sýnthesis) dei vari elementi. Per Aristotele, infatti, gli elementi non permangono in quanto tali nel composto, ma scompaiono lasciando il posto a una nuova forma, chiamata 'forma del composto'. Se parliamo di 'oro', non parliamo di un agglomerato di particelle, ma di una nuova sostanza che è, per qualità e apparenza, differente da ciascuno degli elementi che intervengono a comporla. Aristotele è convinto che questa differenza non consista nel nome, ma nella costituzione fisica, e difatti egli respinge vigorosamente l'idea degli atomisti come Democrito e Leucippo secondo cui una persona con una vista molto acuta, come il Linceo della mitologia, sarebbe in grado di percepire gli atomi degli elementi la cui composizione dà luogo alla nuova sostanza dell'oro. Per Aristotele, un vero composto deve essere costituito di parti omogenee (omoiomerés), visto che se esso fosse, al contrario, una sintesi di componenti eterogenee, sarebbe un mero agglomerato e mancherebbe di una forma sostanziale unificante (De generatione et corruptione, 328a).

Sebbene la teoria della 'forma del composto' (forma mixti) avesse il vantaggio di spiegare perché l'oro fosse così radicalmente differente da ciascuno degli elementi che lo componevano, essa lasciò i commentatori alle prese con difficoltà non secondarie. Gli interrogativi principali erano: come poteva la riduzione logica delle sostanze in materia e forma essere compatibile con l'analisi fisica in termini di elementi? Da dove proveniva questa forma mixti? Qual era la sua relazione con gli elementi che intervenivano nella composizione? Perché era talvolta possibile recuperare le sostanze componenti, come nel caso delle leghe i cui metalli costituenti si potevano separare di nuovo? Ciò non implicava che, all'interno della forma mixti emergente, persistessero in qualche modo le forme degli elementi? Secondo Aristotele, le forme degli elementi componenti erano distrutte in atto, ma la 'loro potenza persisteva' (sṓzetai gàr ē dýnamis autõn). In questo caso, quale significato assumeva la potentia? (ibidem, 327a-b). Significava forse qualche possibilità logica, o piuttosto il potere di agire? Ma, allora, come potevano le forme continuare ad agire se i corpi a cui erano state associate non esistevano più?

Il Medioevo ereditò questi interrogativi insieme alle due soluzioni conflittuali di Averroè e di Avicenna. Come Zabarella correttamente riassunse nel suo Liber de mistione: "Avicenna pensava che le forme degli elementi persistessero intatte nel composto, non essendo danneggiate in nessun modo, ma che le loro qualità non persistano intatte ma fossero limitate e distrutte dalle loro reciproche attività e passività". Di contro, "Averroè pensava che, proprio come la forma sostanziale rimaneva in atto nel composto, altrettanto facessero le qualità, ma entrambe (forme e qualità) fossero distrutte, limitate e ridotte a uno stato intermedio". Dal momento che, in entrambi i casi, il problema era rappresentato dalla classica separazione fisica delle forme o delle qualità dalle sostanze, le discussioni nell'Occidente latino proseguirono. "Scoto ‒ così continua Zabarella ‒ pensava che sia le forme sia le qualità o gli elementi fossero interamente distrutti nel composto e che una nuova forma del composto generasse anche una nuova qualità che era poi il temperamento del composto", mentre "Tommaso d'Aquino e i filosofi più recenti sostengono che le forme degli elementi non soltanto non persistono affatto nel composto, ma sono completamente distrutte, mentre le qualità rimangono, indebolite d'intensità e ridotte ad uno stato intermedio" (Liber de mistione, pp. 409-411). Il Rinascimento aveva così ereditato quattro posizioni classiche:

a) Avicenna insegnava che gli elementi conservavano la loro natura all'interno dei composti, perdendo però, in parte o totalmente, la loro potenza e qualità;

b) Averroè sosteneva che le forme sostanziali fossero esse stesse ridotte, così che, all'interno di un composto, il fuoco, per esempio, diveniva fuoco in uno stato più debole di intensità (in esse rimisso);

c) Tommaso d'Aquino aveva raggiunto la conclusione che soltanto le potenze (virtutes) potessero persistere in un composto, ma non gli stessi elementi;

d) Duns Scoto aveva trovato superfluo assumere qualsiasi pluralità di forme e di elementi nei composti, fossero essi intatti o indeboliti. Secondo tale interpretazione, le nuove qualità semplici del composto erano il risultato diretto delle semplici qualità dei componenti, ottenute attraverso la loro convenientia (Opera omnia, ed. Wadding, XIII, p. 11).

A questo quadro si deve aggiungere una quinta importante opinione, sia pure radicale e minoritaria:

e) Wyclif negava la premessa secondo cui una giustapposizione di particelle degli elementi fosse incompatibile con una forma unificata. Egli riteneva sufficiente assumere che le particelle che si univano fossero tenute insieme dalla sopravveniente forma mixti.

La questione riguardante la costituzione dei composti era stata appassionatamente dibattuta nel XIV sec., e le principali posizioni appena presentate erano state chiaramente distinte. Tuttavia, non si arrivò ad alcun consenso, dal momento che il vocabolario delle forme e delle qualità non permetteva alcuno sviluppo soddisfacente, in quanto "il problema fu uno dei punti di non ritorno per la filosofia naturale scolastica, e fu qui che venne ingaggiata un'aspra battaglia contro la filosofia delle forme e delle qualità, una battaglia per la quale la stessa Scolastica aveva già affilato le armi" (Maier 1952, p. 139). Questa battaglia, soprattutto per ragioni pratiche, fu ancora una volta rinnovata nel tardo XV sec. e soprattutto nel XVI secolo. Da un lato, un interesse empirico crescente per i principî che regolavano i composti, dall'altro lato, una nuova disponibilità di commentari greci alla Fisica e di testi presocratici portarono a un risveglio della quaestio "se gli elementi rimangono nel composto" (an elementa maneant in mixto).

In contrasto con i precedenti dibattiti sulla natura dei composti, questa volta l'argomento venne a intrecciarsi, specialmente in Italia, con la teoria peripatetica dei minima naturali. Tale teoria deriva da un numero di passi differenti, e abbastanza marginali, nell'opera di Aristotele.

a) Nel Libro I della Physica (187b-188a), Aristotele stabilisce che tutte le parti naturali sono di dimensione limitata, sia in grandezza sia in piccolezza. In concreto, c'è un'estensione al di sotto della quale la carne cessa di essere carne.

b) Nel Libro VI del De sensu et sensibili (446a), Aristotele spiega che anche le piccole parti invisibili di un corpo contribuiscono alla sua qualità generale, ma aggiunge che se queste minuscole particelle fossero separate, esse si dissolverebbero nel mezzo circostante (dialýointo eis tà periéchonta) e assumerebbero una nuova forma. Infine, nel Libro VII della Physica (249a-250b), Aristotele parla di ciò che nel Medioevo venne chiamato il minimum actionis; c'è, spiega il filosofo, un minimo di forza al di sotto del quale nessuna reazione può essere prodotta.

Per i filosofi del Medioevo questi minima non avevano nulla a che fare con i minima materiali, ancor meno con gli atomi. Si pensava che i passi di Aristotele si riferissero ai minima qualitativi, vale a dire ai limiti imposti all'effettività della materia piuttosto che alla loro dimensione fisica o figura. Soltanto occasionalmente la reificazione delle forme e delle qualità portò a una comprensione dei limiti qualitativi in termini di contorni spaziali. Sia Egidio Romano (1245-1316) sia Ruggero Bacone (1214 ca.-1292) credettero, per esempio, che il continuum fisico fosse infinitamente divisibile in quanto continuum, ma non in quanto sensibile e fisico.

Anche Alberto Magno paragonò i minima agli atomi democritei. Nel XIV sec., Nicola di Autrecourt, le cui tesi atomiste furono censurate dalla Chiesa nel 1346/1347, considerò le qualità accidentali come "certi corpi indivisibili" (quaedam corpora atomalia). Ma queste posizioni furono molto rare e complessivamente ai minima si attribuì un significato molto distante dalle strutture corpuscolari. Duns Scoto, per esempio, rifiutò qualsiasi limite alla divisibilità sia rispetto alla quantità (quanta secundum quod quanta) sia rispetto alla qualità (quanta secundum quod naturalia), in base all'argomento che non esisteva nessuna ragione intrinseca (ratio intrinseca) per la quale la divisione non potesse procedere oltre un certo limite.

Se, durante gli ultimi decenni del Rinascimento, il problema del composto si congiunse con un'interpretazione 'minimista' della materia e delle qualità, ciò fu dovuto a una quarta definizione che Aristotele aveva fornito dei minima. I corpi, egli aveva spiegato, esercitano più fortemente un'azione reciproca se sono divisi in piccole parti ed era questo il motivo per il quale i liquidi erano reagenti così efficaci (De generatione et corruptione, I, 328a). Un piccolo cambiamento di accento ‒ dal minimo di attività al minimum attivo ‒ fu sufficiente a trasformare il minimum in un quasi-corpuscolo. Alessandro di Afrodisia, che nel suo De mixtione aveva mostrato come il minimismo aristotelico ilemorfico potesse essere armonizzato con l'atomismo e la fisica stoica, aveva prefigurato un tale sviluppo, quando aveva spiegato che i liquidi si congiungono più facilmente in quanto "facilmente divisibili. Infatti, essi si dividono l'un l'altro prima di essere uniti e sono giustapposti insieme come corpuscoli, interagendo così più facilmente e velocemente, ed essi diventano rapidamente un unico corpo sia nel sostrato sia nella qualità ‒ un corpo che, in atto, non è nessuno dei corpi che sono stati composti, ma che, in potenza, è ciascuno di essi […]. Prima i costituenti si dividono l'un l'altro e in seguito, per la loro giustapposizione come corpuscoli, diventano malleabili e sono unificati e assimilati per forma e per somiglianza" (Emerton 1984, p. 76). Una visione simile della materia si stava sviluppando a opera degli aristotelici dell'Italia del Nord, comunemente associati alla Scuola di Padova.

Gli scrittori che svilupparono maggiormente il minimismo nell'ambito di una teoria corpuscolare delle forme, furono Pietro Pomponazzi (1462-1525), Alessandro Achillini (1463-1512), Agostino Nifo (1473-1538), Giulio Cesare Scaligero (1484-1558) e Jacopo Zabarella (1533-1589). Secondo Achillini, per esempio, gli elementi quando vengono mescolati, si decompongono nelle loro parti più piccole, venendo a stare ognuno vicino all'altro, e in questa sistemazione assumono la nuova forma del composto, sopra la propria forma indebolita (Opera omnia, II, art. 3). Un'opinione simile fu sostenuta da Pomponazzi. Anche per lui la giustapposizione delle parti degli elementi minimali costituiva uno dei gradi del composto. La sua dottrina secondo cui ciascuna di queste parti veniva a riflettere tutte le quattro forme degli elementi, e in più la nuova forma del composto, si attirò le critiche severe di Francesco Piccolomini (1520-1604), il quale attaccò la definizione che Achillini e Pomponazzi avevano dato del composto come una "giustapposizione delle parti minimali". È interessante notare che contro di loro Piccolomini adoperò lo stesso argomento usato da Aristotele contro gli atomisti: ciò che essi descrivevano non "era un composto", ma "un qualche agglomerato e confusione di enti" (Librorum ad scientiam…, pp. 851-852). Nifo, a sua volta, pensava che Averroè avesse sostenuto che ogni "crescita, generazione e alterazione avesse luogo per mezzo dei minima" (Expositio, f. 97v), mentre Zabarella provò a quantificare i 'gradi' degli elementi quando "le forme distrutte e danneggiate trasmigrano in uno stato intermedio" all'interno di un composto (Liber de mistione, pp. 423-424).

Il legame tra il problema della mixtio e il minimismo portò a un interesse esplicito per l'organizzazione della struttura dei corpi materiali. Nifo affermò che "la disposizione è detta essere l'ordine di ciò che ha parti, o in luogo, o in potenza, o nella forma" e che tale "disposizione delle parti deve essere compresa in termini della figura del tutto" (Expositiones in Aristotelis libros metaphysices, p. 328). Dietro la svolta verso un'analisi strutturale della materia, si possono scorgere "gli inizi di una reinterpretazione corpuscolare della forma in termini di modello e di struttura, le cui implicazioni per la teoria della materia e per gli studi sui cristalli sarebbero state riconosciute nel secolo seguente da Gassendi e Boyle" (Emerton 1984, p. 99).

Sebbene nel XVII sec. ci siano stati tentativi di reinterpretare i 'minimi naturali' di Aristotele in termini di atomi democritei (Zülich, Disputatio physica de minimis naturae), sarebbe errato considerare tali tentativi come coerenti. Né è corretto leggere l'interpretazione padovana della mixtio o dei minima in chiave neoatomista, poiché i padovani ponevano piuttosto l'accento sul ruolo delle forme peripatetiche e sull'infinita divisibilità della materia, almeno in potenza. Tuttavia, sarebbe anche errato applicare al Rinascimento l'ipotesi formulata da alcuni storici del pensiero medievale, stando alla quale l'atomismo e il minimismo sarebbero stati fenomeni del tutto indipendenti. È infatti innegabile che le opinioni che Achillini e Pomponazzi avevano del processo della formazione del composto implicassero una comprensione più spaziale e visiva delle forme degli elementi. La prova di ciò sta nel fatto che gli atomisti del XVII sec. citavano volentieri la perifrasi della definizione aristotelica di composto dovuta a Scaligero. Laddove Aristotele aveva affermato che "la mistione è unificazione delle cose mescolabili dopo che queste hanno subito un'alterazione" (Hē dè mĩxis tõn miktõn alloiothḗntōn énosis, 328b), Scaligero definiva il composto come "il moto dei corpi minimali verso un reciproco contatto così da produrre un'unione" (motus corporum minimorum ad mutuum contactum, ut fiat unio; Exotericarum exercitationum liber XV, ex. 101). Sebbene lo stesso Scaligero rifiutasse l'atomismo, conosciuto attraverso Lucrezio e Diogene Laerzio, e insistesse sul ruolo della forma mixti, la sua definizione del composto fu tuttavia l'unica usata da molti atomisti del XVII sec., che altrimenti rifiutavano queste forme come superflue. Coloro che aspiravano a riconciliare le opinioni corpuscolari dei composti con un'analisi aristotelica delle forme, potevano sentirsi incoraggiati allorché, distolta la loro attenzione dalla Fisica o dal De generatione et corruptione dove Aristotele rifiuta esplicitamente le strutture corpuscolari, essi la rivolgevano alle Meteore, dove invece troviamo una visione più corpuscolare dei composita. Infatti, è in particolare nel Libro IV delle Meteore, la cui attribuzione ad Aristotele è ancora dubbia, che si parla di particelle e di pori nel contesto della spiegazione dei vari tipi di liquefazione (385a-b). Proprio sulla base di tali nozioni, Alessandro di Afrodisia aveva tentato, ben prima della Scolastica padovana del Rinascimento, di congiungere l'atomismo con il pen-siero di Aristotele.

La riconsiderazione del ruolo di Aristotele

Appena ci volgiamo dal Cosmo concettualmente rigido e ben definito della filosofia naturale scolastica alle varie correnti non aristoteliche, rinveniamo una notevole varietà di idee e di speculazioni nascenti che è assai difficile raggruppare e sistematizzare. Le fonti e le motivazioni che portarono ai loro sviluppi furono così eterogenee, i loro obiettivi spesso così distanti dagli interessi della filosofia naturale, che le nostre etichette 'neoplatonismo', 'ermetismo', 'cabalismo', 'lullismo', 'stoicismo', 'atomismo', 'naturalismo italiano', ecc., non trovano alcun chiaro referente, ma mostrano di avere piuttosto un mero valore euristico. Infatti, nessuno di questi 'ismi' corrisponde a un vocabolario coerente e ben definito, per non dire a uno specifico metodo o sistema.

Una figura come Bruno, per esempio, si può classificare sotto tutte le sette etichette appena date ma, nel contempo, egli è talmente unico nella sua sintesi che probabilmente non può essere considerato rappresentativo di nessuna di esse. Allo stesso modo, se è vero che sia Marsilio Ficino sia Johannes Kepler si qualificano per diversi motivi come neoplatonici, tuttavia essi hanno poco in comune in termini di interessi, di metodi e di credenze scientifiche sulla relazione tra il mondo celeste e quello terrestre. Qui di seguito dovremo allora mettere un po' di ordine nel mondo variegato delle speculazioni rinascimentali, nella consapevolezza che le etichette che attribuiamo a tali speculazioni spesso non sono altro che vaghi indicatori di tendenze intellettuali.

I principali eventi storici e intellettuali che hanno causato questo allargamento di prospettive filosofiche e scientifiche sono ben noti e sono già stati discussi nei capitoli precedenti. L'invenzione della stampa e la conseguente produzione di libri a basso costo portò all'ampliamento sociale dei gruppi che potevano avere accesso ai libri. Nello stesso tempo, fattori economici favorirono la creazione di uno strato sociale di bassa nobiltà, mercanti e cittadini, che poteva riscoprire l'otium o scholḗ dell'Antichità e godere dell'attività filosofica abitualmente associata a questo tempo libero. L'esplorazione di regioni sconosciute dell'Africa e dell'Asia e la scoperta del nuovo mondo portarono a riconsiderare l'eredità intellettuale dell'Antichità e contribuirono all'elevazione morale della curiosità umana allo status di una virtù. Tale mutamento si esprime nel modo più evidente nella trasformazione del motto Nec plus ultra, collegato una volta alle Colonne d'Ercole e all'iberica Finis Terrae, nell'intraprendente Plus ultra, condiviso tanto dall'imperatore Carlo V e quanto dal cancelliere filosofo Francis Bacon.

All'interno di questo sviluppo globale di una classe laica di curiosi, otiosi, studiosi, virtuosi e magi intellettualmente attivi, alcuni fattori particolari sono necessari a spiegare le specifiche correnti di cui le seguenti sezioni tratteranno. Una grande importanza ebbe lo sviluppo degli studi classici che, concentrandosi principalmente sulla ricostruzione storica e letteraria del passato greco e latino, inaugurarono una totale rivalutazione del canone ricevuto. Non soltanto il lavoro di critica testuale degli editori del Rinascimento condusse a una più capillare e veloce diffusione della conoscenza ricevuta, ma il nuovo zelo degli umanisti nel ricercare libri portò a ritrovamenti importanti come nel caso del De rerum natura di Lucrezio scoperto da Poggio Bracciolini (1380-1459), nella seconda decade del XV sec., nella regione del lago di Costanza. Il latino elegante con cui Lucrezio era riuscito a esprimere un complesso sistema filosofico veniva da molti messo a confronto con il rigido e 'barbaro' linguaggio degli scolastici. Mentre alcuni, come Le Fèvre d'Étaples, ritenevano si dovesse sfrondare l'autentico Aristotele da duemila anni di commentari superflui, la maggior parte degli umanisti considerava Aristotele un cattivo maestro. Durante il Rinascimento un coro di voci attaccò Aristotele in modo severo, ma furono rari i tentativi di sostituire il suo insegnamento con un sistema migliore; Ramo ci provò nell'ambito della logica e della dialettica, Patrizi nell'ambito della filosofia naturale. La maggior parte degli altri attacchi ebbe o scopi troppo limitati per poter scuotere le fondamenta della filosofia peripatetica, o fu troppo idiosincratica per poter raccogliere ampi consensi.

All'inizio questi attacchi si rivelarono piuttosto sterili, dal momento che se era facile minare l'autorità di Aristotele, era però difficile trovarne una che la sostituisse. A chi si doveva guardare? Gli antiaristotelici rinascimentali erano tutt'altro che d'accordo nel rispondere a questa domanda. Alcuni propugnavano il ritorno a una posizione agostiniana, guardando con sospetto a tutta la conoscenza pagana e suggerendo che l'autentica conoscenza dovesse essere cercata dove la vera rivelazione si era espressa, cioè nella Bibbia, o anche in quei filosofi antichi vicini a Dio. Questo tentativo di oltrepassare Aristotele, visto come filosofo teologicamente non ispirato, è uno degli impulsi che sono alla base di ciò che è stata chiamata la 'tradizione ermetica'. Il legame tra la religiosa Gerusalemme e la filosofica Atene fu ottenuto attraverso il mistico Egitto, la fusione di rivelazione e speculazione scaturì da una genealogia della saggezza rivelata, nella quale Ermete Trismegisto, Orfeo, Zoroastro e Mosè avevano il ruolo di sibillini profeti filosofici.

Un'importante implicazione della ricerca rinascimentale della prima philosophia fu rappresentata dal capovolgimento dell'asse temporale. Mentre i filosofi delle università vedevano la storia della filosofia attraverso la valutazione dossografica che Aristotele aveva dato dei suoi predecessori, e ponevano il filosofo al vertice della linea ascendente del pensiero presocratico, la visione 'ermetica' della storia della filosofia implicava un'ottica esattamente contraria: Aristotele era considerato appartenere già a un periodo di decadenza, nel quale la maggior parte dei significati originali delle verità rivelate era andato perduto. Ciò implicava, naturalmente, che la presentazione dossografica della storia della filosofia fornita da Aristotele fosse errata. Anche un aristotelico ortodosso come Pierre Sinson (m. 1606), il quale insegnava filosofia naturale all'Accademia dei Gesuiti di Pont-à-Mousson nell'ultimo decennio del XVI sec., sospettava che "Aristotele avesse derubato questi antichi delle loro armi in modo da sconfiggerli più facilmente disarmati" (Basson, Philosophiae naturalis adversus Aristotelem libri XII, p. 13), lanciando un'accusa sollevata con forza ancora maggiore da pensatori antiaristotelici come Bruno, Cardano, Campanella, Telesio e Patrizi.

Il congiungersi di questa nuova curiosità per la filosofia prearistotelica con il recupero, reale o presunto, di testi antichi portò a una rivalutazione dei presocratici, e segnatamente di Democrito, Pitagora e Ippocrate. Per poter aggirare la supremazia di Aristotele in filosofia naturale, si formarono varie alleanze storiche. Il conte Ludovico Nogarola affermò in un empito patriottico ‒ "poiché sono italiano" (Epistola, p. 29) ‒ che Pitagora aveva insegnato la filosofia agli Italiani e che Timeo di Locri, il pitagorico da cui Platone aveva mutuato la propria filosofia naturale, rappresentava l'autentico frutto dell'antico pensiero italico. Molti medici rinascimentali si opposero ad Aristotele e a Galeno, appoggiandosi a Ippocrate. Al riguardo, furono molto importanti le traduzioni dal greco delle lettere pseudoippocratiche, nelle quali Ippocrate è rappresentato come il discepolo di Democrito da cui apprende il metodo dell'anatomia comparata. La quasi simultanea traduzione di un'altra opera pseudodemocritea, l'alchemico De arte magna (1573) di Domenico Pizzimenti, portò all'affermarsi dell'immagine di Democrito come il padre, non soltanto dell'atomismo, ma anche dell'anatomia e dell'alchimia. Questa fusione, nella persona di un leggendario Democrito, di tre tradizioni altrimenti slegate ‒ la medicina ippocratica, l'alchimia e l'analisi corpuscolare della materia ‒ cominciò a dare i suoi frutti nei lavori di fisici alchimisti come Andreas Libau (Libavius) e Daniel Sennert (1572-1637) per poi raggiungere il suo apice, nel XVII sec., con la Zootomia Democritea (1645) di Marco Aurelio Severino, dove l'analisi alchemica e quella microanatomica venivano indicate come i passi decisivi verso una scissione dei corpi a livello dei corpuscoli costituenti.

Uno dei risultati di tali tentativi di riabilitare i filosofi presocratici fu la decisione, presa dalla Sorbona nel 1601, di indagare sulla validità delle obiezioni di Aristotele ai precedenti filosofi. Tuttavia, durante il Rinascimento, la vittoria più grande non fu riportata da Democrito, né da Pitagora o Ippocrate, ma da Platone. Un senso di sdegno morale fu espresso da molti autori rinascimentali, i quali ritenevano scandaloso che Aristotele, dopo un apprendistato ventennale sotto Platone, avesse assunto una posizione critica nei confronti del suo maestro.

Ciò ci conduce al neoplatonismo rinascimentale. Fino all'ingresso in Europa del Corpus Aristotelicum, nel XII e nel XIII sec., Platone, sia pure indirettamente, aveva dominato il pensiero occidentale tanto come autore quanto come auctoritas. Cristianizzato durante i primi secoli e scelto come interlocutore privilegiato dai Padri della Chiesa, egli approdò al Rinascimento ancora una volta come un autore il cui pensiero si mostrava infinitamente più compatibile con la religione e con la rivelazione. La ripresa degli studi greci, iniziata a Firenze e presto diffusasi in tutta Europa, il contatto con gli ultimi esponenti del platonismo bizantino ai Concili di Basilea e di Firenze, l'influenza, prima e dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, dei dotti greci e dei manoscritti (con la conseguente diffusione di tutte le opere di Platone e dei più importanti platonici) portarono alla riscoperta di un autore il cui linguaggio era appassionato e suggestivo e l'immaginazione contagiosa. Un confronto tra maestro e allievo sembrava mostrare che Aristotele avesse ispezionato la Terra, mentre Platone avesse rivolto lo sguardo ai cieli. È importante allora evidenziare che fu appunto il Platone celeste, non il filosofo naturale della seconda parte del Timaeus, ad aver ispirato i pensatori rinascimentali. Per meglio dire, più che di Platone stesso, si deve parlare del platonismo sviluppatosi attraverso autori più sensibili a temi religiosi. Secondo Marsilio Ficino, erano stati Plotino, Porfirio, Giamblico e Proclo ad aver fatto chiarezza e portato a maturazione ciò che era stato stabilito da Platone soltanto implicitamente (Ficino, Opera et quae hactenus existere, 1641, I, p. 602). Quest'ampia estensione del platonismo fece in modo che una schiera di correnti mistiche varcasse la soglia del pensiero rinascimentale. Un tale neoplatonismo onnicomprensivo si espresse, anzitutto, nelle speculazioni metafisico-religiose che avevano soltanto implicazioni indirette per la filosofia naturale. Pletone, il primo platonico bizantino a sferrare un attacco al predominio aristotelico in Occidente, escluse espressamente dalla sua critica la filosofia naturale, mentre Ficino elogiò Platone per la sua tensione verso il divino e rimproverò tutti gli altri filosofi per aver volto i propri interessi all'imperfetto mondo naturale (ibidem, p. 613). Questa irriverenza per il mondo fisico spiega il motivo per cui fu solamente nel Tardo Rinascimento che specifici elementi platonici riuscirono a influenzare, in sinergia con altri componenti, la filosofia naturale vera e propria. L'atomismo democriteo e la teoria di Platone delle particelle materiali si rinforzavano a vicenda; la nozione platonica di anima mundi, congiunta con l'etere stoico, produsse nuove teorie cosmologiche, astronomiche e fisiche, e l'idealizzazione platonica della matematica aiutò i sistemi dimostrativi di Euclide e di Archimede a ottenere quello status epistemologico e ontologico su cui farà affidamento la fisica matematica che si svilupperà poi nel corso del XVII secolo.

È stato giustamente rilevato che le vivaci esplorazioni della speculazione rinascimentale andarono in tutte le direzioni senza produrre neppure una parvenza di "una riconoscibile unità o di un centro fisso intorno al quale i vari movimenti potevano essere organizzati" (Cassirer 1994, p. 74). Il fatto stesso che alcuni tentarono di ritornare a qualche forma di filosofia originaria o al mondo del neoplatonismo cristiano, mentre altri cercarono di erigere sistemi completamente nuovi, rivela una preoccupazione per il problema dell'autorità. Quali libri devono essere letti per trovare la verità? Il libro della rivelazione, il libro della sapienza antica, o piuttosto il libro della Natura? E se il libro da leggere è il libro della Natura, i suoi caratteri sono scritti nelle costellazioni celesti, nelle forme degli oggetti di questo mondo, nella composizione dei corpi naturali, o nella sfera ideale delle relazioni matematiche?

È noto che la ricerca sia di autori che incarnassero l'autorità, sia dell'autenticità di verità testuali andò oltre le metafore e riguardò il mondo in carne e ossa delle autorità secolari e religiose. Sulla scia di strategie controriformistiche, la censura colpì anche i filosofi della Natura. Soltanto tra i protagonisti italiani della nuova filosofia naturale, gli ultimi trent'anni del XVI sec. videro Cardano arrestato e processato (1570-1571), Bruno imprigionato e messo al rogo (1592-1600), l'opera di Telesio condannata (1593), la Nova de universis philosophia di Patrizi messa all'indice (1594), e Tommaso Campanella prigioniero dell'Inquisizione (1599-1628).

Il Cosmo incantato

Per Jacob Burckhardt il Rinascimento rappresentò il passaggio dall'universalismo medievale all'individualismo moderno. Nonostante la sua visione sia stata soggetta a una critica serrata, siamo ancora portati a credere che lo spirito di buona parte del pensiero rinascimentale abbia implicato un passaggio generale da un'analisi aristotelica delle condizioni oggettive a un interesse agostiniano per gli stati psicologici dell'esperienza. Se può risultare difficile definire la mentalità di un'intera epoca, è tuttavia innegabi-le che le visioni di Paracelso, Cardano, Bruno o Campanella trassero i loro significati da "un'ispirazione più alta della natura stessa" (Ingegno 1988, p. 245). Per riuscire ad afferrare gli aspetti della filosofia naturale che appaiono tra i più audaci all'interno della speculazione rinascimentale, è essenziale comprendere la vocazione profetica avvertita da diversi novatores del Rinascimento. Nessuno dei quattro autori sopra citati fu un filosofo della Natura tout court; essi erano consapevoli che la loro missione andava oltre tali scopi, percepiti come umili, per includere piuttosto la riforma delle condizioni religiose e sociali.

Per quale motivo il pensiero religioso e metafisico ha avuto implicazioni per la filosofia naturale? La ragione è che l'ampio spettro delle interdipendenti speculazioni neoplatoniche, cabalistiche, ermetiche e astrologiche racchiudeva una visione del mondo che chiameremo il "Cosmo incantato".

La vicenda del neoplatonismo bizantino ebbe inizio con l'attacco di Giorgio Gemisto Pletone (1355 ca.-1452) alla simbiosi occidentale tra la teologia e la metafisica aristotelica, e proseguì nel circolo umanista del cardinale Bessarione e tra i platonici fiorentini. La visione del mondo di Pletone apparteneva a una tradizione che si era affermata nel corso del tempo come uno sviluppo ulteriore dell'insegnamento di Platone. Il Cosmo di Pletone consisteva in due movimenti opposti: la gerarchia di forze che partiva dal mondo e si estendeva verso una complessa gerarchia di forze celesti era l'immagine speculare dell'emanazione divina, che invece si spandeva dal puro essere ideale fino alla materia più scura. Era un dovere dell'anima umana, collocata nel mezzo, muoversi in alto verso le forme divine. Ficino e molti platonici fiorentini dopo di lui seguirono questo programma. Per loro, la metafisica cristiana della luce di Dionigi Areopagita, con la sua concomitante gerarchia di forme discendenti dell'essere, offriva la dimostrazione dell'accordo di fondo tra Ermete Trismegisto, Platone e Plotino, da un lato, e la rivelazione cristiana dall'altro. Anche se una tale sintesi attraeva per ragioni teologiche, essa aveva ovvie implicazioni per la psicologia e la filosofia naturale. La Theologia Platonica di Ficino si volge, per esempio, contro l'epistemologia aristotelica, laddove afferma che "la mente non può fabbricare la vera definizione di essenza a partire dalle immagini accidentali delle cose, ma essa la costruisce partendo dalle ragioni riversate in essa dall'inizio di tutte le cose" (XI, cap. 3). L'anima, intesa come un luogo dove il raggio divino discendente si solleva dal mondo corporeo circostante e ritorna alle regioni più alte da dove è venuto, necessita del contatto con il mondo esterno soltanto in quanto quest'ultimo offre alle verità innate l'occasione di essere utilizzate e comprese.

Nonostante l'origine in parte cristiana di tali nozioni, l'ipostatizzare verità più alte come se fossero di origine divina portò alla divinizzazione dei corpi celesti. In una successione di eventi imprevedibile, il culto del Sole che troviamo come tema ricorrente, particolarmente nella tradizione ermetica e in Bruno e Campanella, può aver favorito lo sviluppo del modello eliocentrico e certamente contribuì a fornirgli il supporto.

Sebbene in una tale visione lo sguardo interiore fosse rivolto verso il cielo e gli occhi contemplassero la rotazione dei corpi celesti semidivini che determinavano il destino della storia e dell'uomo, il mondo inferiore, in quanto copia imperfetta, poteva ancora fornire importanti indizi sulle verità celesti. In altre parole, il fatto che la corrispondenza tra le sfere agisse in entrambe le direzioni rese possijile risalire dal comportamento dei corpi terrestri ai principî celesti direttivi. Qui sta infatti una delle differenze rivelatrici tra il 'mondo incantato' e i tradizionali principî astrologici e peripatetici; mentre per questi ultimi le sfere più alte influenzavano il mondo sublunare in modo unidirezionale, così che il meglio che si poteva ricavare dallo studio dell'astrologia era evitare eventi infausti, alcuni modelli basati sulla magia tipici della cosmologia rinascimentale sostenevano invece la causalità reciproca. Alla base della credenza nell'interconnessione causale di tutti gli enti naturali e soprannaturali c'era una visione animistico-organica del Cosmo come di un essere animato. Ciò implicava non soltanto che tutti i livelli degli enti corporei e spirituali fossero legati come parti di un ampio organismo, ma anche che il Cosmo si sviluppasse secondo uno scopo intelligibile. Sebbene le relazioni tra i fenomeni naturali non fossero sempre ovvie a prima vista, esse potevano essere scoperte attraverso uno studio attento dei segni di simpatia e antipatia che questi producevano in reciproca relazione.

Tale credenza nella reciproca connessione simpatetica tra tutte le cose naturali costituì la base della nascente magia naturale. Il magus del Rinascimento, disvelando questi legami all'interno del mondo incantato, poteva attivarne i segreti e usarne a proprio vantaggio le forze intrinseche. Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), per il quale la magia rappresentò la forma più alta di conoscenza che l'individuo nobilitato spiritualmente potesse raggiungere, vide nell'attivazione delle proprietà segrete il disvelamento della presenza divina nella cose. Una nozione simile di magia naturale fu sviluppata da Agrippa di Nettesheim (1486-1535), il cui De occulta philosophia sembrò garantire una grande efficacia allo studio delle simpatie segrete tra tutte le cose. In stretta connessione con l'astrologia e con la comprensione della dipendenza celeste dei corpi terrestri, la magia naturale di Agrippa promette di risvegliare i poteri superiori assopiti nelle cose inferiori. Il suo duplice aspetto di conoscenza speculativa e di intervento pratico elevò la magia naturale al "punto più alto della filosofia naturale" (p. 352).

Non è facile stabilire quando la visione religiosa del 'mondo incantato' iniziò a cedere il passo a una comprensione scientifica, e ancora più difficile è capire in che modo la strana combinazione di intuizione religiosa, di analisi causale e di analisi metodica dei fenomeni abbia potuto dar vita a più di uno degli elementi cruciali della scienza moderna. A svolgere un ruolo importante fu certamente una concezione detta magia naturale come quella di Pico, che incoraggiò una sperimentazione metodica. Un evento più complesso è la trasformazione graduale, dal XIV al XV sec., del concetto di anima mundi. Molto della scienza moderna ai suoi albori non è altro che l'elaborazione delle leggi attraverso cui l'anima determina le proprietà e i comportamenti dei corpi terrestri e celesti. Se le corrispondenze potevano essere cercate sia nelle relazioni numeriche ‒ un esercizio di estrema importanza che connette i calcoli pitagorici di un Timeo di Locri e del Timeo di Platone alla famosa incapsulazione delle sfere celesti dentro i solidi regolari da parte di Kepler ‒ sia nei codici cabalistici, allora esse potevano essere cercate anche nel meccanismo fisico. È qui che il peso della 'visione del mondo incantato' per la filosofia naturale si fa sentire maggiormente. Troviamo che lo spiritus, nel XV sec. quasi esclusivamente connesso con la platonica anima mundi, cominciò a essere progressivamente identificato, nel corso del XVI sec., con il pneuma stoico. Come tale, esso aveva quindi qualità fisiche.

Le qualità occulte e la sottigliezza della Natura

È decisivo comprendere che la 'visione del mondo incantato' condusse a un cambiamento di attenzione verso i fenomeni rari e anomali nonché a una nuova messa a fuoco delle qualità occulte. Infatti, molti novatores ritenevano che gli aristotelici avessero trascurato gli aspetti più reconditi e misteriosi della Natura, esercitando i loro occhi soltanto sui suoi aspetti ovvi, non problematici. Lo studio delle forze occulte da parte dei novatores non portò solamente a nuove scoperte nel campo del magnetismo, dell'alchimia o della farmacologia. Se si considera che lo studio sul magnetismo di William Gilbert (De magnete) si occupa della qualità occulta par excellence, è importante comprendere in quale maniera un tale lavoro empirico abbia potuto emergere dagli interessi per la magia naturale incarnati nel De occulta philosophia di Agrippa.

Cos'è esattamente 'una qualità occulta'? Contrariamente alle qualità sensibili come, per esempio, 'verde', 'caldo' o 'liquido', furono considerate occulte quelle qualità che non potevano essere riconosciute dai sensi e le cui cause erano ignote e probabilmente non collegate ai quattro elementi da cui erano formati i corpi. Esempi tipici includevano i poteri magnetici, quelli medici, alchemici o astrali di un dato corpo. Va detto, del resto, che l'attenzione verso tali fenomeni, la loro derivazione da influenze celesti e il loro legame con la magia naturale, non furono un'invenzione di Agrippa, di Ficino e di Pico, ma risalivano al periodo ellenistico. Secondo la lista di Agrippa, i padri della magia naturale erano Zoroastro, Trismegisto, Giamblico, Proclo, Sinesio, al-Kindī, Alberto Magno, Ruggero Bacone e Raimondo Lullo. Opere come il De mineralibus di Alberto Magno, o il De universo di Guglielmo di Alvernia, il De occultis operibus naturae di Tommaso d'Aquino testimoniavano l'interesse che i fenomeni occulti avevano continuato a suscitare anche durante il Medioevo.

Tuttavia, è vero che la filosofia naturale di stampo aristotelico spinse queste tendenze ai margini del dibattito; l'aristotelismo, prendendo nota di tali effetti inspiegabili, generalmente non poteva evitare di guardarli con sospetto poiché la loro natura eccezionale faceva in modo che essi non potessero essere dedotti da principî universali, e quindi non potevano venire incontro ai criteri della conoscenza scientifica. Come aveva affermato di Aquinate: "l'uomo non è competente a giudicare le azioni interiori che sono nascoste, ma soltanto i movimenti esterni che sono manifesti" (Summa theologiae, 1a. 2ae. 91. 4).

Mentre il sistema aristotelico lasciava soltanto uno spazio marginale alle qualità eccezionali esibite dai corpi individuali, le qualità occulte divennero l'autentica ossessione e l'interesse centrale dei filosofi del Rinascimento. Agrippa di Nettesheim, il cui De occulta philosophia (1533) era basato sulla ricerca delle cause nascoste, accusò gli aristotelici di aver fatto troppo affidamento sull'esperienza sensoriale, a discapito della ricerca della ragione. Nessuna semplice deduzione era possibile in questo contesto, ma soltanto l'osservazione diligente e la collezione di casi.

In nessun autore l'enfasi sull'unico e sul raro è così chiara come in Gerolamo Cardano. Al posto di ciò che egli considerava le vuote astrazioni aristoteliche di 'materia' o 'privazione', Cardano collocò la specificità del fenomeno naturale individuale, l'unico ludus naturae (Ars magna). Distinguendo la 'conoscenza naturale' dalla 'conoscenza umana', Cardano postulò l'uso delle facoltà razionali per comprendere e usare la Natura. Nella sua autobiografia si vantò di essere stato il primo uomo ad aver piegato la Natura ai propri fini; l'intenzione del suo celebre De subtilitate (1550) era quella di esporre il significato di sottigliezza, un termine che egli definiva come un particolare processo intellettuale attraverso il quale le cose sensibili sono percepite attraverso i sensi e le cose intelligibili sono comprese dall'intelletto, anche se con difficoltà. Tuttavia molti dei più importanti fenomeni che avvengono in Natura sono, continua Cardano, estremamente difficili da capire. Quindi, conclude, se l'oscurità crea difficoltà, il suo libro sceglie di discutere soltanto l'argomento più oscuro.

Il magnetismo e i fenomeni elettrici

Lo studio dei fenomeni elettrici e specialmente dei fenomeni magnetici fu particolarmente importante per lo sviluppo di concetti non aristotelici di analisi naturale. Da un lato, queste 'qualità' non potevano essere derivate da altre qualità ed erano pertanto osservabili soltanto nei loro effetti, cioè non direttamente in quanto esse erano le qualità occulte paradigmatiche; dall'altro lato, lo studio di queste qualità offriva un'area di vivace sperimentazione.

Quanto all'elettricità, essa rimase nel migliore dei casi ai margini della filosofia naturale medievale, e sembra corretto dire che il Rinascimento non aggiunse nulla alle opinioni trasmesse dall'Antichità. Soltanto con William Gilbert (1540-1603) l'elettricità fu posta su di un fondamento indipendente. Diversa è la situazione del magnetismo. Tanto il Medioevo quanto il Rinascimento dedicarono, infatti, grande attenzione a uno spettro di fenomeni che non soltanto riguardava i fisici e gli astronomi, ma che aveva risvolti pratici per i marinai; la Luna, si pensava, agisce come un magnete sulle maree dell'oceano e sull'anima umana, mentre l'ago della bussola, puntato verso il cielo del Nord, è indispensabile per i naviganti. L'importanza della bussola per i marinai, che crebbe enormemente quando i metodi di navigazione lungo costa dovettero essere adattati alle tecniche di traversata a mare aperto dell'Atlantico, portò non soltanto a una fioritura di teorie sulla natura della calamita e delle sostanze magnetiche in genere, ma anche alla geometrizzazione e strumentazione delle scoperte osservate. Poiché il magnetismo è un fenomeno sia locale (magneti) sia globale (attrazione polare), esso forniva una base feconda sulla quale potevano incontrarsi tecniche geometriche, filosofiche, astronomiche e sperimentali. Non ci si deve quindi sorprendere se il De magnete (1600) di Gilbert è spesso visto come il vessillifero di una nuova fisica, in quanto considerazioni di filosofia naturale, calcoli fisico-matematici e un approccio sperimentale si congiunsero prefigurando un nuovo modo di fare scienza.

Nel Medioevo si erano sviluppati due filoni di pensiero sul magnetismo. Un primo filone proveniva dai commentari aristotelici, in cui il magnetismo era interpretato come una 'proprietà naturale' inerente a certi corpi, con una corrispondente sensibilità al magnetismo da parte dei corpi attratti. Il secondo tipo di spiegazione fu sviluppato nel lavoro di Pietro di Maricourt (Pietro Peregrino, attivo nella seconda metà del XIII sec. ca.), dove per la prima volta i due elementi della sperimentazione e dell'analisi matematica venivano congiunti. Quest'ultima tradizione trovò la sua continuazione nei lavori di Giambattista Della Porta (1535 ca.-1615) a Napoli e dell'inglese Robert Norman (attivo nel tardo Cinquecento). Il magnetismo divenne per il Rinascimento non soltanto un argomento alla moda, ma fu usato come base per la concezione di una natura animata e per speculazioni che legavano il microcosmo con il macrocosmo proprio attraverso corrispondenze magnetiche.

Un tale sviluppo si trova prefigurato in Cusano, il quale interpretò la calamita come la madre o il principio del ferro, capace di attrarre quest'ultimo attraverso un sottile 'spirito attivo', portatore della forma specifica della stessa calamita. Il ferro, pensava Cusano, rispondeva a questo spirito in un modo che assomigliava alla risposta consapevole dell'anima cristiana alla grazia di Dio. Sebbene Cusano conoscesse il lavoro di Pietro di Maricourt, egli calò la sua teoria, proprio come aveva fatto con l'ottica e la geometria, in un contesto teologico e metafisico. Cusano si interessò all'argomento perché il magnete gli appariva una metafora utile per spiegare la partecipazione di Dio al mondo sensibile.

La credenza secondo cui erano le influenze celesti, della stella polare o del cielo del Nord in generale, a spiegare il comportamento della bussola, dominò il XV secolo. Tale credenza fu abbandonata da marinai e matematici dopo il primo viaggio di Colombo (1492), durante il quale per la prima volta fu notata l'inclinazione dell'ago della bussola. Nel 1530, Alonso de Santa Cruz preparò ciò che sembra essere stata una mappa delle inclinazioni della bussola. Quest'opera apparve estremamente importante, poiché alimentava la speranza di determinare in base a tale mappa la longitudine nel mare. Nonostante gli sforzi per verificare sperimentalmente il magnetismo terrestre, molti fisici del XVI sec. continuarono ad usare, sviluppandole, le concezioni del secolo precedente. I tentativi di Girolamo Fracastoro, Cardano e Scaligero di costruire una visione del mondo basata sulla rete di simpatie magnetiche, facevano affidamento soprattutto sulle influenze celesti, com'era abituale prima del viaggio di Colombo, sebbene attribuissero un'importanza centrale ai fenomeni magnetici, cosa che non si riscontra in precedenti sistemi esplicativi. Nel De sympathia et antipathia (1550) di Fracastoro, la teoria aristotelica dei luoghi naturali ‒ ossia la tendenza degli elementi a raggiungere la loro sfera naturale ‒ fu spiegata in termini di animazione magnetica. Fracastoro, sostenendo che i corpi potevano produrre effetti reciproci attraverso il contatto, provò a scoprire se questo accadeva nel caso della calamita e del ferro sulla base di un effluvio materiale o per mezzo di qualche sostanza spirituale. Sebbene Fracastoro considerasse gli effluvi atomistici un'opzione esplicativa e citasse al riguardo Democrito, Epicuro e Lucrezio, egli si sentì costretto a cercare una soluzione più aristotelica, postulando così l'esistenza di "specie spirituali che sono sostanze" (cap. 4). Egli riteneva che tali emanazioni sostanziali fossero dappertutto, e le sue teorie che reificavano le qualità primarie gli permisero di spiegare il motivo per cui oggetti di temperamento simile si attiravano reciprocamente emettendo queste specie spirituali. Interessante è il suo tentativo di sviluppare un concetto di forza (vis) che era in contraddizione con la tradizionale interpretazione peripatetica dell'attrazione magnetica nei soli termini di moto naturale.

In Cardano, di contro, troviamo un'interpretazione molto più vitalistica del magnetismo. La calamita attira per la forza della sua anima, e simmetricamente il ferro è attirato dalla calamita perché essa fornisce nutrimento, proprio come l'aria è il nutrimento dell'uomo e l'etere lo è delle stelle. 'Appetito' ha qui il duplice significato di 'movimento verso' e di 'fame' (De subtilitate, VII). Scaligero, nella sua lunga e aspra replica, criticò Cardano per aver espresso tale opinione, sostenendo, tra l'altro, che l'anima della calamita avrebbe dovuto essere più forte e sviluppata dell'anima umana, dal momento, infatti, che era impossibile per un essere umano produrre tali effetti su un qualsiasi corpo a parte l'unico corpo umano a cui era unito. La spiegazione in termini di 'appetito' non poteva dar conto, inoltre, della costanza e insaziabilità dell'attrazione; quella fornita da Scaligero si basava invece sui 'principî interni' del ferro che lo spingevano verso la calamita come la sua 'matrice' e come il luogo naturale della sua perfezione (Exotericarum exercitationum liber XV, ex. 102, 112, 113, 344). Il vitalismo di Cardano fu sviluppato in varie direzioni sia da Maurolico sia da Telesio, trovando uno sviluppo parallelo anche nella visione paracelsiana del magnetismo. In questi casi, spiegazioni vitalistiche basate su una qualche sorta di 'appetito' nutritivo (e nel caso dei naturalisti italiani anche su una teoria del calore vitale) servirono a spiegare il desiderio di congiungersi alla calamita da parte dei corpi magnetizzati.

Nella seconda edizione della Magia naturalis di Della Porta, un intero libro di 56 capitoli è dedicato al magnetismo. Della Porta considera le calamite come composti di pietra e metallo, nei quali il metallo prova ad avere la meglio sulla pietra attirando, allo scopo, ulteriore metallo dall'esterno. Nonostante una tale opinione vitalistica del magnetismo, Della Porta può essere considerato come l'unico autore, prima di Gilbert, ad aver usato metodi sperimentali e geometrici per sviluppare la sua teoria. Come Maurolico, egli crede che la direzione nord-sud dell'ago della bussola sia dovuta all'orientazione nord-sud delle miniere da cui il materiale magnetico è stato estratto. Della Porta, che spiega l'attrazione e la repulsione in termini di 'amore reciproco', 'simpatia naturale' e 'antipatia' trasportata dallo 'effluvium di una virtù' attraverso la sua sfera (o 'circolo della sua virtù'), nota che gli effetti cambiano a seconda dei materiali che sono collocati tra la calamita e il ferro, proponendo inoltre alcuni modi per misurare con una bilancia la forza di attrazione e repulsione (cap. 7).

Della tradizione inglese, oltre a Gilbert, dobbiamo menzionare Robert Norman, il cui trattato intitolato The new attractive mostra un'attitudine sperimentale sviluppata con chiarezza. Come Cusano, Norman distingueva tra "la sostanza, la virtù e l'operazione" del magnete, ma sebbene disperasse di poter trovare mai la causa efficiente di questo fenomeno, tentò di quantificare la forza esercitata dalla calamita sul pezzo di metallo, e viceversa, in termini del peso dei due corpi. Come la maggior parte dei contemporanei, incluso il suo compatriota William Barlow (The navigators supply), il magnetismo fu per lui il fenomeno occulto per eccellenza. L'importanza di Norman consiste nelle sue acute osservazioni piuttosto che in una concettualizzazione dei fenomeni osservati. Notando le varie inclinazioni dell'ago del compasso nell'area di Londra, egli provò a escogitare metodi che avrebbero consentito ai navigatori di trovare la loro posizione lungo linee uguali d'inclinazione (The new attractive).

Secondo la maggior parte degli storici, fu soltanto con il De magnete di Gilbert che ebbe inizio lo studio moderno del magnetismo e dell'elettricità. Ma in realtà Gilbert mirava ancora più in alto, perché la sua speranza era quella di sviluppare una filosofia naturale che fosse compatibile con una cosmologia non tolemaica. Indipendentemente dal suo successo, va notato che Gilbert, così facendo, finì con l'assoggettare l'intero Cosmo alla stessa analisi magnetico-elettrica. Dovendo spiegare sia il moto rettilineo della discesa gravitazionale sia il moto circolare della Terra, Gilbert teorizzò che "il globo della terra è aggregato e coeso da sé stesso elettricamente" mentre "è diretto e ruotato magneticamente" (De magnete, p. 60). Se la sua derivazione elettrica della gravitazione verso la Terra incontrò un grande ostacolo nel fatto che l'aria, che avrebbe dovuto servire come suo supporto, non mostrava alcuna qualità elettrica, la sua teoria del magnetismo si mostrò invece più efficace. Considerando la Terra come un enorme magnete, egli eseguì esperimenti su di un piccolo magnete sferico (chiamato non a caso 'terrella') per dimostrare come il moto rotatorio della direzione e dell'inclinazione magnetiche fosse più naturale dei moti aristotelici verso l'alto e verso il basso. Il moto circolare non veniva in questo modo confinato alle sfere celesti, ma era considerato "innato al globo terrestre, e naturale a esso" (ibidem, p. 219). Per eseguire coerentemente il suo programma, egli doveva sviluppare una nuova teoria degli elementi che si adattasse alla sua cosmologia magnetica. Andando contro le tradizionali distinzioni tra pietre e metalli, così da poter derivare, da un'origine comune, pietre cariche elettricamente e ferro sensibile magneticamente, Gilbert postulò che l'elemento fondamentale fosse la "vera terra", "fornita di una forma primordiale e predominante", in virtù della quale "essa persiste con un vertice fisso e ruota con un moto necessario e una tendenza intrinseca a girarsi" (p. 42). Tutti gli altri elementi erano i prodotti delle esalazioni terrestri, con le loro specifiche forme sempre nascoste nella matrice terrestre, e quindi riducibili a essa. Nonostante l'influenza che la sua filosofia magnetica esercitò sui pensatori successivi, la teoria degli elementi, che cercava di combinare una teoria della materia peripatetica con alcune nozioni alchemiche, incontrò un successo più limitato.

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