Il comunismo

Dizionario di Storia (2010)

Il comunismo

Massimo L. Salvadori

Per comunismo si intende una dottrina la quale sostiene che il massimo benessere per l’umanità è conseguibile unicamente mediante la formazione di una società basata sull’abolizione della proprietà privata e la gestione collettiva dei mezzi di produzione; e che da questo evento sono destinati a conseguire la fine dei contrasti tra le classi sociali, uno sviluppo dei beni materiali tale da assicurare a ciascuno la soddisfazione di tutti i suoi bisogni, la formazione di una società omogenea e armonica, e la pace civile all’interno degli Stati e il venir meno delle ragioni dei conflitti tra gli Stati. La storia del comunismo ha avuto inizio nell’antichità ed è culminata nel Novecento nella costituzione di regimi che si sono proposti senza successo di trasformare l’utopia originaria in una concreta realtà.

Tracce significative di utopie comuniste, in cui si vagheggiava il ritorno a una mitica «età dell’oro», sono rinvenibili fin dall’antichità in testi cinesi del 5°-3° sec. a.C., nella Repubblica di Platone (427-347 a.C.), nelle dottrine della setta ebraica degli esseni (2° sec. a.C.-1° sec. d.C.). L’ideale della comunione dei beni fu altresì presente nel cristianesimo delle origini, come testimoniano gli Atti degli apostoli e il pensiero di s. Agostino (354-430) e di s. Ambrogio (340 ca.-397). Dopo di allora non vennero mai meno correnti radicali ed ereticali cristiane che attaccavano la proprietà privata in quanto fonte di ingiustizia e avidità ed esaltavano la comunione dei beni come premessa necessaria dell’autentico spirito fraterno e della rigenerazione spirituale dell’uomo. Ne furono significativi rappresentanti i «circoncellioni», braccianti cristiani che nel 4° sec. attaccarono nell’Africa settentrionale le proprietà dei grandi latifondisti romani, i movimenti «millenaristici» medievali dei taboriti, dei patarini, dei catari, dei valdesi e di frange dei francescani. Singoli esponenti del comunismo in età medievale furono in Italia Gioacchino da Fiore (1145 ca.-1202) e fra’ Dolcino (1250 ca.-1307), in Inghilterra John Wyclif (1320 ca.-1384) e in Boemia Jan Hus (1369 ca.-1415).

A dare un rinnovato impulso alle tendenze comunistiche all’inizio dell’Età moderna furono da un lato alcune correnti estremistiche della Riforma protestante – emerse con Thomas  Müntzer nel corso della guerra dei contadini (1524-26) in Germania e con gli anabattisti di Münster – e dall’altro il pensiero di Thomas Moore (1478-1535), il lord cancelliere d’Inghilterra fatto giustiziare da Enrico VIII per il suo rifiuto di abiurare la fede cattolica, autore del saggio Utopia (1516), il quale auspicava l’avvento di una società retta da un piano avente quale scopo di promuovere in maniera razionale la pubblica felicità mediante il godimento in comune dei beni materiali. Circa un secolo dopo il calabrese Tommaso Campanella (1568-1639) pubblico La città del Sole (1602), in cui si affidava a una teocrazia, diretta dai più sapienti, il governo di una comunità egualitaria. Nel Seicento il comunismo si arricchì di due importanti capitoli. Il primo fu costituito dallo «Stato comunistico» fondato in Paraguay dai gesuiti, che, volendo sottrarre gli indios alla schiavitù, organizzarono delle comunità basate sul lavoro collettivo obbligatorio, sulla ripartizione tra le famiglie dei beni prodotti e sull’educazione religiosa. Il secondo fu costituito in Inghilterra durante le guerre civili dagli «zappatori», cosiddetti perché presero a coltivare terre pubbliche in nome del diritto di tutti al lavoro e ai suoi frutti. Ma fu nel Settecento che anzitutto in Francia le dottrine comunistiche assunsero un particolare vigore. A predicarle furono dapprima pensatori isolati, quali il parroco Jean Meslier (1664-1729), che, convertitosi all’ateismo, denunciò la proprietà privata come fonte di tutte le ingiustizie; Morelly (denominazione di un ignoto) e Gabriel Bonnot de Mably (1709-85), secondo i quali ragione, felicità e giustizia richiedevano la comunità dei beni. A introdurre però il comunismo nel vivo della lotta politica e sociale fu nel corso della Rivoluzione francese Francois-Noel Babeuf (1760-1797), detto Gracco, che patrocinò un comunismo agrario e artigianale individuando nel quarto stato, formato da lavoratori poveri, contadini senza terra, piccoli artigiani, emarginati, il soggetto atto a rivoluzionare la società e a porre fine alle disuguaglianze tra le classi mediante l’insurrezione e la «dittatura». I babuvisti, lanciato un Manifesto degli eguali, misero in atto nel 1797 una «congiura», che, sanguinosamente repressa, porto Babeuf alla ghigliottina.

Nella prima metà del 19° sec. la Rivoluzione industriale mise in primo piano la «questione sociale», vale a dire gli effetti da quella prodotti sui rapporti tra capitalisti ricchi e operai impoveriti. Quanti sostenevano che soltanto l’abolizione della proprietà privata o quanto meno il suo controllo da parte della collettività e del potere pubblico avrebbe potuto risolvere tale questione e procurare il benessere generale vennero chiamati socialisti; ed essi si divisero infine in «riformisti», che si aspettavano l’avvento del socialismo da un processo di trasformazioni graduali, e «rivoluzionari», che invece ritenevano che l’arma per far nascere la nuova società fosse un potere dittatoriale inteso a spezzare le resistenze di conservatori e reazionari. I comunisti diedero vita all’ala più radicale del socialismo internazionale. I loro teorici più eminenti, fondatori del comunismo contemporaneo, furono i tedeschi K. Marx (1818-1883) e F. Engels (1820-1895). Essi pubblicarono insieme nel 1848 il Manifesto del partito comunista e Marx nel 1867 Il capitale. Dalla loro opera prese origine il «marxismo». Le tesi fondamentali della loro dottrina, che si proclamò «scientifica» in contrapposizione al «socialismo utopistico», erano le seguenti: lo sviluppo capitalistico è destinato prima a provocare la miseria crescente dei lavoratori e poi a culminare in una crisi generale di sistema; l’arma dell’emancipazione dei lavoratori guidati dai comunisti è una lotta senza compromessi contro la classe dominante fino a culminare nella «rivoluzione sociale» che abbatterà il capitalismo; la «dittatura del proletariato» costituirà lo strumento del passaggio al socialismo mediante la forza dello Stato e la collettivizzazione dei mezzi di produzione; al socialismo seguirà la costruzione del comunismo, il cui compimento porterà alla fine di ogni conflitto sociale e politico, all’esaurimento della funzione stessa dello Stato, a uno sviluppo economico in grado di assegnare i beni «a ciascuno secondo i suoi bisogni», al trionfo della razionalità e della scienza materialistiche e al venir meno delle forme retrive della mentalità e del costume, a partire da quelle legate alla religione. Marx ed Engels si aspettavano che la rivoluzione sarebbe partita dai Paesi più industrializzati, dove il proletariato era più sviluppato e agguerrito, e si sarebbe da ultimo estesa al resto del mondo, così da eliminare anche le guerre tra gli Stati. Sennonché la storia ha smentito questa previsione, poiché le rivoluzioni comuniste sono avvenute non nei Paesi sviluppati ma in quelli più o meno arretrati.

La prima grande rivoluzione comunista coronata da successo ha avuto luogo nella Russia zarista nell’ottobre 1917. Guidata da Vladimir Il´ič Lenin (1870-1994), capo del partito «bolscevico», consolidatasi al potere dopo una terribile guerra civile, essa portò alla formazione dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. L’erede di Lenin, Joseph Vissarionovic Stalin (1879-1953), trasformò l’URSS in una grande potenza, che, dopo la vittoria sulla Germania nel 1945 e la conquista dell’Europa orientale, dove sorsero altri regimi comunisti, divenne sino alla fine degli anni Ottanta del Novecento la superpotenza in competizione con gli Stati Uniti. La seconda grande rivoluzione fu quella cinese, il cui leader fu Mao Zedong (1893-1976), che fondò nell’ottobre 1949 la Repubblica popolare cinese. In Asia regimi comunisti vennero successivamente creati nella Corea del Nord, nel Vietnam e in Cambogia. Nell’America Latina la rivoluzione del 1959 portò Cuba a trasformarsi sotto la guida di Fidel Castro (n. 1927) in un Paese comunista. Le rivoluzioni erano dunque avvenute tutte in Paesi arretrati; e in ciascuno di questi gli ideali originari di dar vita a una società libera dallo sfruttamento economico, impegnata nella costruzione di una «democrazia proletaria» e in grado di creare un sempre crescente benessere andarono incontro a uno scacco totale. L’abolizione della proprietà privata mise l’intera economia nelle mani dello Stato, il potere divenne monopolio del Partito comunista, che stabilì la propria dittatura e assunse il pieno controllo di ogni aspetto della vita sociale. Per questa via l’Unione Sovietica diventò il primo Stato «totalitario» e il totalitarismo una caratteristica comune degli Stati comunisti.

La contrapposizione tra il mondo comunista e quello capitalistico è terminata tra il 1989 e il 1991 con il crollo degli Stati comunisti nell’Europa dell’Est e lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Continuano bensì a sopravvivere regimi comunisti in Vietnam, nella Corea del Nord, a Cuba e soprattutto in Cina. Ma la loro è una forza residuale, come mostra in particolar modo il caso della Cina. Questa negli ultimi decenni ha mantenuto in vigore la dittatura del Partito comunista, ma sul piano sociale si è aperta in maniera via via più profonda alle pratiche capitalistiche, così creando le condizioni di un grande sviluppo economico. In tutto il mondo capitalistico dopo la Rivoluzione russa del 1917 hanno operato partiti comunisti, collegati all’Unione Sovietica tra il 1919 e il 1943 tramite la Terza internazionale. In Europa i più importanti sono stati quelli di Germania, Francia e Italia, ma nessuno di essi è stato in grado di accedere al potere. Attualmente sono tutti scomparsi o in via di estinzione.

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