LEIBNIZ, Gottfried Wilhelm von

Enciclopedia Italiana (1933)

LEIBNIZ (da preferire questa grafia all'altra Leibnitz), Gottfried Wilhelm von

Giuseppe CARLOTTI
Giovanni Vacca

Spirito multiforme e di attitudini veramente universali, fu grande sopra tutto come scienziato e come filosofo. Nacque a Lipsia il 3 luglio 1646 da Federico, professore di morale e giurisprudenza in quell'università, e da Caterina Schmuck, in un ambiente colto e profondamente religioso. Perdette a sei anni il padre, ma la sua educazione fu sempre ben curata: tuttavia egli fu più che altro un autodidatta. Imparò prestissimo le lingue classiche e ancora ragazzo ne lesse quasi da solo i principali autori, poeti, storici, scienziati, giuristi, filosofi; passò poi ai padri della Chiesa, agli scolastici, agli scrittori del Rinascimento e a quelli della Riforma e Controriforma. In tanti studî il suo spirito, mirabilmente organico, si orientò specialmente verso i problemi speculativi, religiosi e filosofici, seguendo dapprima le dottrine meccaniciste. Compiuti i quindici anni, studiò filosofia a Lipsia con Giacomo Tomasio, matematica a Jena con Erardo Weigel, e conseguì il grado di baccelliere, disputando, fra l'altro, de principio individui (1663); nel 1666 si laureò in giurisprudenza ad Altdorf (de casibus perplexis in iure) e nel 1667, recatosi a Norimberga, s'iscrisse fra i Rosacroce, società segreta che attendeva a studî d'alchimia. Presto però se ne allontanò e, conosciuto frattanto il barone di Boineburg, che godeva di grande autorità presso Giovanni Filippo di Schönborn, elettore di Magonza, se ne meritò la stima e la fiducia e ne ebbe varî incarichi per lavori d'indole religiosa e politica e nel 1672 anche quello di svolgere trattative diplomatiche e finanziarie presso Luigi XIV. Il L. pare non sia riuscito nella sua missione, ma a Parigi, allora veramente il centro intellettuale d'Europa, poté conoscere i migliori ingegni del suo tempo, come Roberval, Malebranche, Arnauld, Nicole, ecc., e approfondire la sua conoscenza delle matematiche. Nel 1673, morto il barone di Boineburg, si recò a Londra e vi strinse relazione con molti scienziati (Boyle, Wallis, Newton, ecc.). Morto anche l'elettore di Magonza, passò ai servigi del duca di Hannover Giovanni Federico di Brunswick-Lüneburg come consigliere e bibliotecario, e nel 1676 tornò in Germania, dopo avere visitato lo Spinoza nella città dell'Aia.

Successo nel 1679 a Giovanni Federico il duca Ernesto Augusto, questi diede al L. l'incarico di redigere una storia della casa di Brunswick, che richiese minuziose e pazienti ricerche in Germania e in Italia. Mentre attendeva a questi e ad altri studî, il L. s'interessava di questioni politiche (favorendo le tendenze autonomistiche dei principi della Germania), dell'opera dei missionarî, specialmente gesuiti, in Cina, dei tentativi di unificare le varie chiese cristiane. Correvano infatti allora trattative fra il nunzio apostolico, varî teologi luterani e cattolici, principi e personaggi autorevoli per una conciliazione fra la Chiesa cattolica e le Chiese riformate: e il L. vi partecipò attivamente sia con lettere alle persone interessate sia con trattazioni di carattere teorico (come il Systema theologicum) che dovevano servire a trovare un terreno comune di intesa sulle questioni essenziali. Ma il generoso tentativo fallì. Intanto egli maturava anche le sue idee speculative e verso il 1684 le sistemava nella forma quasi definitiva e ne faceva l'applicazione a svariati problemi di psicologia, gnoseologia, metafisica, religione, ecc., preferendo però discuterne solo coi suoi numerosissimi corrispondenti; di argomento filosofico, pubblicò solo le Meditationes de cognitione, veritate et ideis (in Act. Erudit. Lips., novembre 1684); negli anni seguenti, mentre attendeva alla storia della casa di Brunswick e a varie raccolte di carattere storico e giuridico, non trascurava di partecipare attivamente alla vita politica, sia per difendere gl'interessi del suo principe, e, morto questo (1698), del figlio Giorgio Luigi, sia per promuovere il progresso civile incoraggiando e consigliando sovrani come Pietro il Grande e Carlo VI, e intensificava anche la sua attività scientifica e filosofica; cadono infatti in questo periodo fra le opere più importanti il Discours de Métaphysique (1685), Si l'essence du corps consiste dans l'étendu (1690 e 1693), varî articoli di critica alle dottrine cartesiane (1693, 1696, 1697, 1701), De primae philosophiae emendatione et de notione substantiae (1694), Systhème nouveau de la nature (1695) coi varî Éclaircissements (1696, 1698, 1702, 1709, 1712), De rerum originatione radicali (1697), De ipsa natura (1698), Considérations sur la doctrine d'un esprit universel (1702), Nouveaux essais sur l'entendement humain (1704), Considérations sur les principes de vie (1705), Essais de théodicée (1710), Monadologie e Principes de la nature et de la grâce (1714), oltre un gran numero di lettere, fra cui particolarmente interessanti quelle ad Arnauld (1686-90) e al padre des Bosses (1706-16). Di queste opere tuttavia pochissime furono pubblicate e, fra quelle di maggiore mole, ricordiamo specialmente la Teodicea.

Gli ultimi anni della vita del L. furono piuttosto tristi: morti quasi tutti i principi suoi protettori e passato l'elettore Giorgio Luigi di Hannover sul trono d'Inghilterra, egli sperò e tentò invano di essere chiamato presso quella corte. Gravi amarezze gli vennero anche dalla polemica suscitata a proposito della sua scoperta del calcolo infinitesimale, il cui merito gli venne contestato dal Newton; ne nacque anche una vivace corrispondenza con Samuele Clarke, scolaro del Newton, la quale si può considerare la più importante degli ultimi anni di vita di L. (1715-16) per l'analisi che vi si fa della nozione di tempo e di spazio.

Mentre declinavano la sua fama e la sua potenza politica, gli veniva meno anche la salute: gravi e frequenti attacchi di gotta finirono per inchiodarlo sulla poltrona; a uno di essi egli soggiacque il 14 novembre 1716, dimenticato quasi da tutti.

Dottrina. - La filosofia di L. si rannoda strettamente a tutto il movimento del pensiero europeo dei secoli XVI e XVII, ma in modo più diretto a Cartesio. Questi, distinguendo la res cogitans dalla res extensa, aveva lasciato in eredità alla speculazione posteriore un difficile problema: come si possono spiegare i rapporti fra l'una e l'altra res in generale in tutta la realtà, e in particolare nell'uomo, dove spirito e corpo formano pure un'unità sui generis? È noto come la scuola cartesiana nello sforzo di trovare una soluzione a questo dualismo giungesse attraverso l'occasionalismo di Geulinx e di Malebranche al panteismo monistico di Spinoza. L., vedendo da una parte che Spinoza non aveva fatto che tirare con logica coerenza le conseguenze già implicite nella definizione cartesiana della sostanza, e osservando dall'altra che nel panteismo spinoziano svaniva il Soggetto, la Libertà, il Valore, si convinse che occorreva riformare il concetto di sostanza in modo da salvare l'infinità di Dio e l'individualità delle creature, l'universale validità della scienza e la soggettività dell'atto conoscitivo.

Egli già per tempo aveva meditato sul concetto di sostanza, poiché fin da giovinetto si era chiesto se non convenisse richiamare il concetto scolastico di forma sostanziale, e all'inizio della sua carriera filosofica, a proposito degli studî fatti sul dogma dell'eucaristia, era stato costretto a ritornare su questo problema. Via via, dopo una fase meccanicistica, egli poté giungere al suo concetto dinamico della sostanza attraverso alla critica del concetto di materia sia nel senso atomistico, ch'era stato rimesso in voga dal Gassendi e in genere da tutta la corrente empiristica, sia nel senso cartesiano di res extensa. Il L. osserva che la res extensa di Cartesio non può costituire sostanza, poiché ciò che è esteso è divisibile e perciò composto e composto di parti alla loro volta estese e divisibili e composte, per ognuna delle quali si potrà ripetere all'infinito il ragionamento; e pertanto o non avrà mai un fondamento reale o deve risolversi in elementi inestesi, semplici, monadi (ens et unum convertuntur): questi elementi, appunto perché inestesi, dovranno essere qualcosa di analogo alla res cogitans. Inoltre, le vere leggi del movimento per le quali non si conserva, come riteneva Cartesio, la quantità di movimento, ma la quantità di azione motrice (energia) e la quantità di progresso (proiezione della quantità di movimento), dimostrano che la nuda estensione non basta a costituire il corpo, ma vi si deve aggiungere la resistenza (cioè l'inerzia e l'impenetrabilità), e inoltre qualcosa di attivo, una forza primitiva, che dia al principio passivo il suo compimento e la perfezione (entelechia). La materia perciò deve considerarsi non come vera sostanza, ma come phaenomenon bene fundatum, il cui fondamento reale è la monade, sostanza inestesa, assolutamente semplice, attiva, la cui essenza è la forza: questa poi, in una sostanza immateriale come la monade, non potrà essere di natura meccanica, ma deve concepirsi come un'attività di natura spirituale cioè come percezione e la sua causa come appetito.

Queste considerazioni portano a risultati importantissimi, poiché: 1°. contro il materialismo, implicitamente o esplicitamente contenuto in ogni forma di empirismo, dimostrano che la materia non è vera realtà, ma ha il suo fondamento in qualcosa di spirituale; 2°. eliminano il dualismo cartesiano fra la res cogitans e la res extensa, riducendo tutte le sostanze a res cogitantes e togliendo quindi la ragion d'essere al monismo panteistico di Spinoza; 3°. fanno vedere l'insufficienza di ogni forma di meccanicismo e la necessità quindi di passare a una concezione dinamica e perciò anche finalistica del reale; 4°. affrettano la dissoluzione del realismo, in quanto rivelano la fenomenicità della natura, intesa come qualcosa di opposto e impenetrabile allo spirito.

Fissato il concetto della monade come sostanza essenzialmente attiva, ne deriva che essa non solo non può ricevere azioni meccaniche dal di fuori ("le monadi non hanno finestre, per cui possa entrare o uscire qualcosa" - Monad., § 7), ma è un autonomo principio di azione, onde passa spontaneamente da una percezione all'altra. In questo passaggio consiste propriamente l'attività della monade e questo passaggio dà luogo a un'infinita gradazione: e poiché anche le monadi sono infinite di numero e tutte diverse (poiché se ve ne fossero due eguali, sarebbero indiscernibili e perciò di fatto coincidenti), l'universo risulta da un complesso di monadi in diverso grado di perfezione e di perfettibilità, dall'infinitesimo, come nella cosiddetta materia inorganica, all'infinito, Dio; analogamente varieranno le percezioni, che dal massimo di oscurità e confusione giungeranno al massimo di chiarezza e distinzione (onniscienza), e l'appetito, che dal bruto e inconscio conato arriverà alla volontà perfetta e sempre reale di Dio.

Le sostanze semplici, aggregandosi, formano delle sostanze composte, organismi di monadi via via sempre più intimamente connesse attorno a una monade dominante, che ne costituisce il centro ideale, quanto più si sale nella scala della realtà; ma e le sostanze semplici e le composte sono poi tutte elementi di un organismo ancora più vasto, che è l'universo stesso, in cui, come negli organismi particolari, ogni elemento esige insieme e esprime ciascun altro e il tutto. Si può quindi dire che le monadi sono specchi dell'universo, in quanto ciascuna esprime e rappresenta nella propria percezione l'universo dal proprio punto di vista, ma le monadi più perfette, gli spiriti, in cui la percezione diventa appercezione (autocoscienza), si possono dire piuttosto specchi di Dio, poiché possono giungere alla conoscenza delle verità eterne, che si trovano nell'intelletto di Dio, comprendere anche il mondo delle altre creature inferiori e dominarlo, e imitare in qualche modo l'opera creatrice di Dio.

Risolta tutta la realtà in un organismo di monadi, la materia qual'è ordinariamente concepita dagli scienziati e dall'uomo comune, non è per ciò annullata; essa ha, per così dire, due aspetti: uno fenomenico e uno metafisico: secondo il primo essa non è per L. né qualcosa di assolutamente continuo (Cartesio) né un aggregato di atomi (Galileo, Bacone, Gassendi), ma divisa in atto all'infinito e perciò elastica, in modo che vi si possa ancora concepire il movimento; secondo l'altro, invece, è un insieme di monadi, ma che il primo punto di vista non sia assoluto, si dimostra osservando che la materia, in quanto estesa, non è vera sostanza (come sopra si è visto), e che perciò in quanto si presenta tale è qualcosa di fenomenico; che il movimento (a prescindere dalla forza) è solo un cambiamento di posto e perciò sempre relativo a un termine considerato in quiete; e che lo spazio e il tempo, che sono come la trama, nella quale ci si connettono i fatti naturali, si riducono a ordine delle coesistenze o delle successioni e perciò sono soggettivi (contro Newton, che ammetteva l'obbiettività ed esteriore realtà dello spazio): la natura è dunque un fenomeno. Saremmo caduti allora in una specie di scetticismo di tipo protagoreo? no: infatti questo mondo di fenomeni, riflettendosi nella percezione delle monadi con più o meno di chiarezza, vi si riflette, sia pure da punti di vista diversi, in modo analogo, sì che c'è un perfetto accordo fra le rappresentazioni che ne hanno gli esseri che lo percepiscono, ed è possibile, quando si proceda secondo ragione, fare anche delle previsioni: esso ha dunque un fondamento reale; e questo è in Dio.

Qual'è questo fondamento? Cartesio, per salvare la contingenza, aveva affermato che le leggi naturali dipendono esclusivamente dall'arbitrio di Dio e sarebbero potute essere diverse, anzi contrarie rispetto a quelle che sono: ma apriva la via allo scetticismo; Spinoza, per assicurare la regolarità e costanza dei fenomeni e perciò la validità della scienza, le aveva ritenute necessarie e tali da potersi ricavare dal concetto della Sostanza Divina con lo stesso rigore logico, con cui il corollario si deduce dal teorema: ma toglieva la libertà e quindi il valore. Il primo riduceva perciò tutti i giudizî a giudizî contingenti (sintetici a posteriori), poiché solo l'esperienza poteva giustificare il legame fra il soggetto e il predicato, il secondo invece a giudizî necessarî (analitici e a priori), poiché il concetto del soggetto conteneva già in sé il predicato. L. cercò di fondere le due esigenze eliminandone le difficoltà e affermò la razionalità del reale mediante l'applicazione del principio di ragion sufficiente.

Questo principio importa che "nessun fatto potrebbe ritenersi vero o esistente, nessuna enunciazione rispondente a verità, senza una ragion sufficiente che giustifichi a priori perché la cosa avvenga così e non diversamente": pertanto le verità di ragione (analitiche) hanno la loro ragion sufficiente nell'identità fra soggetto e predicato (principio d'identità), le verità di fatto derivano dalla volontà di Dio: ma questa non è arbitraria, bensì guidata dal principio del meglio, che importa una necessità non logica, ma morale, una felice necessità, che inclina ma non costringe. Dio avrebbe potuto scegliere, parlando astrattamente, uno qualunque degl'infiniti mondi possibili, ma, guidato dalla sua infinita sapienza e bontà, ha scelto quello che, come organismo di compossibili, realizzasse il massimo di perfezione. In tal modo tutti gli elementi del mondo (ideale in Dio, reale fuori di Dio) sono così intimamente legati da una mirabile armonia, che ciascuno implica in sé tutti gli altri e perciò nelle verità di fatto il legame che unisce il soggetto al predicato non è né arbitrario (Cartesio) né logicamente necessario (Spinoza), ma razionale, in quanto ci riporta alla volontà sapiente di Dio, che ha scelto il migliore dei mondi possibili. Quindi anche in questi giudizî il soggetto contiene in certo modo il predicato (per una necessità morale); ma in un modo tale che non escluda la contingenza, perché, d'altra parte, contenendo esso implicitamente in sé non solo tutto il reale, ma anche tutto il possibile, solo l'infinita sapienza di Dio potrebbe a priori scorgervi il predicato che gli conviene. Tutto ciò spiega anche perché ciascuna monade si possa chiamare specchio dell'universo, perché essa porta implicita in sé, nella infinità dei particolari onde consta, tutta la storia dell'universo sia per quello che vi si è realizzato, sia per quello che vi si realizza in ciascun momento, sia per quello che deve ancora realizzarsi.

L'armonia prestabilita serve ancora al L. per spiegare il problema dei rapporti fra l'anima e il corpo, che Cartesio con la sua definizione della sostanza e la divisione di essa nelle due specie di res cogitans e res extensa aveva insieme posto e reso insolubile. L. diede alla sua dottrina una prima forma popolare nel nouveau systhème de la nature e in altri scritti destinati al gran pubblico, in cui, mettendosi sul terreno cartesiano e sostenendo la perfetta autonomia dell'anima rispetto al corpo e viceversa, affermò che i fenomeni dell'una e dell'altra sostanza nell'uomo, pur essendo indipendenti, si corrispondono come due orologi perfettamente sincronizzati. Ma poiché il corpo, come s'è visto, in quanto res extensa è un fenomeno, che si risolve in un organismo di monadi, il problema dei rapporti fra l'anima e il corpo per L. si riconduce a quello generale dei rapporti fra le monadi, cioè all'armonia prestabilita, come infatti egli fa nelle opere di carattere più scientifico. E siccome ogni monade riflette il medesimo universo e perciò tutte le monadi fra loro si corrispondono si spiega bene come in rapporto a certi atti del corpo sorgano determinati sentimenti nell'anima e viceversa, sebbene non vi sia una diretta azione reciproca.

Dato il concetto della monade, che abbiamo illustrato, è evidente che le azioni che in esse si svolgono sono perfettamente autonome, e in particolare nelle monadi più elevate (spiriti) queste azioni, che vanno dalla percezione all'appercezione (autocoscienza), e in cui consiste, in fondo, ciò che diciamo conoscenza, hanno una propria legge di sviluppo e non ricevono nulla dall'esterno. Il L. quindi, contrapponendosi a Locke e in generale a ogni forma di empirismo, sostiene la teoria delle idee innate: ma, distaccandosi anche dagli altri innatisti, intende le idee innate non come attualmente presenti allo spirito, bensì come virtualità o potenze, secondo il suo concetto di potenza come conatus, cioè come un grado minimo di azione, da cui l'azione segue appena se ne allontanano gli ostacoli; e perciò ammette nello spirito la presenza di piccole percezioni (subcoscienti, diremmo in termine moderno), le quali per la loro simultanea molteplicità e l'alto grado di oscurità e confusione non possono essere appercepite (conoscenza riflessa), e non possono quindi costituire vera conoscenza se non quando si proietti su loro la luce della riflessione; questo è appunto l'ufficio dei sensi, che, se non possono darci idee universali, leggi e principî assoluti, tuttavia risvegliano l'attenzione e la concentrano sopra un punto determinato dell'infinita massa delle percezioni oscure e confuse, con cui si svolge la vita dello spirito, e ci permettono in tal modo di giungere a idee sempre più chiare e distinte con un processo che è sempre autonomo.

Le monadi, poi, in quanto sono sostanze, e perciò qualcosa d'immateriale e di semplice, sono indistruttibili; e perciò non possono nascere che per creazione né perire se non per annichilazione; ma poiché Dio le ha create, vuol dire che ha assegnato a esse un compito (principio di ragion sufficiente) e pertanto non si vede perché debba annichilirle; dunque la nascita e la morte empiriche non sono che fenomeni, evoluzioni, cioè, involuzioni, passaggio da forme di vita subcosciente (percezioni oscure e confuse) a forme di vita più o meno cosciente (idee chiare e distinte) e viceversa, determinato dall'organizzarsi o, rispettivamente, dal disgregarsi delle monadi che formano il corpo degli esseri viventi, mentre l'anima (monade dominante) permane in uno stato transitorio quasi di stordimento, salvo a rientrare nel circolo della vita legata ad altre combinazioni (non metempsicosi, ma metamorfosi). Però le monadi più elevate, gli Spiriti, essendo legate a Dio nel mondo morale, hanno una sorte diversa: create a principio come tutte le altre e preesistenti al proprio corpo come anime animali negli spermatozoi, al momento opportuno vengono trans-create, dotate cioè di ragione e di autocoscienza; e poiché in tal modo mantengono la personalità morale e la responsabilità delle loro azioni, non possono con la morte andare soggette alla sorte generale di tutte le altre monadi, ma, fornite di un rudimento di corpo, che potrà poi svilupparsi di nuovo con la resurrezione, vengono riservate a quella vita immortale di felicità o infelicità, che si sono meritata.

Infatti gli spiriti formano la parte più eletta della creazione, perché essi costituiscono il mondo morale, sì che mentre nel mondo fenomenico Dio appare piuttosto ingegnere e architetto, nel mondo morale appare padre, e mentre lì vigono le leggi del meccanicismo, qui si afferma invece la finalità. Perciò mentre si può dire che tutte le monadi sono autonome, solo degli spiriti si può dire che sono liberi: libertà infatti vuol dire "spontaneità con ragione". L. combatte la teoria cartesiana della libertà come arbitrium indifferentiae (risalente a Duns Scoto) e mostra da una parte come sia astratta e dall'altra come involga il pericolo dello scetticismo se, applicandola a Dio e traendone tutte le conseguenze, si giunga ad affermare, come faceva il Poiret, che non solo le leggi della natura, ma anche quelle della logica e perfino quelle della morale, dipendendo dal puro arbitrio di Dio, sarebbero potute essere non solo diverse, ma addirittura contrarie a quelle attuali; si può infatti sempre temere che Dio muti da un momento all'altro queste leggi; onde tutta la scienza, la logica, la morale sono compromesse, e si spiega come per reazione Spinoza sia caduto nella tesi opposta, affermando la necessità logica di tutta la realtà. Ma il L. col principio di ragion sufficiente aveva affermato la razionalità del reale e mirava perciò a conciliare in una sintesi le due posizioni contrarie; se infatti nulla è senza una ragion sufficiente, anche degli atti volontarî deve trovarsi la giustificazione, e poiché la volontà è un'attività che mira a un fine ed è regolata dal principio del meglio, l'atto di volontà presuppone un giudizio di valutazione, che costituisce il legame fra intelletto e volontà; in Dio, in cui la conoscenza è perfettamente chiara e distinta, la volontà sarà perfettamente libera e l'azione perfettamente buona; negli spiriti creati, in cui alle percezioni chiare e distinte si mescolano percezioni più o meno oscure e confuse, il giudizio di valutazione sarà il risultato non solo dell'attività pura dell'intelletto, ma anche di tutte le spinte razionali e irrazionali che più o meno oscuramente agiscono in essi.

In tal modo L. può risolvere: 1. il problema della prescienza divina: infatti, essendo tutto determinato, Dio, la cui conoscenza non può essere che totale e concreta, sa che un dato fatto si realizzerà (usando il futuro dal punto di vista umano) perché entra come elemento del mondo possibile che la sua volontà buona ha scelto; 2. il problema del male: qui il L., sulle tracce di S. Agostino, distingue un male metafisico, un male morale e un male fisico. Il male metafisico, cioè l'imperfezione radicale della creatura, non è qualcosa di positivo, ma di negativo, cioè una realtà non piena (malum habet causam deficientem, non efficientem) e Dio non ne è la causa, poiché ha creato ciò che c'è di reale, non ciò che c'è di non reale nella creatura, il cui concetto, d'altra parte, implica per necessità logica l'imperfezione. Il male morale, cioè il peccato, è conseguenza della imperfezione della creatura, ma è opera della creatura stessa, la quale nel costituire il giudizio di valore, che precede e determina l'azione, invece di ispirarsi solamente a principî razionali, si lascia trascinare da motivi passionali (percezioni oscure e confuse); ma poiché dipende sempre da lei il rendere sempre più chiara e distinta la propria conoscenza e del resto il giudizio inclina ma non necessita, rimane sempre a essa la responsabilità del male e la possibilità di evitarlo o, commessolo, di sollevarsene. Il male fisico, infine, cioè il dolore, la morte e la dannazione eterna, è la conseguenza e insieme la pena del male morale ed è quindi dipendente anche esso dall'azione della creatura, e se Dio lo sopprimesse mancherebbe a sé stesso, cioè alla giustizia; e se si obietta che il dolore non sempre colpisce chi è l'autore del male, si deve ricordare che la realtà non è una accozzaglia di atomi isolati, ma un organismo di monadi e ch'è reale il singolo solo per il rapporto col totale e perciò tutti siamo solidali e corresponsabili nel mondo in cui viviamo; tutti dunque abbiamo l'obbligo di contribuire attivamente al progresso morale, e perciò anche materiale, di noi e del nostro prossimo e l'indifferenza e l'inerzia di fronte al male è un contributo, sia pure indiretto, al male stesso. Si può tuttavia insistere che a ogni modo, per effetto della creazione, il male si è realizzato; ma si deve riflettere che, sbarrando la via al male, si sarebbe sbarrata anche la via al bene; Dio dunque, non fa il male, ma lo permette come inevitabile concomitante del bene, e dà generosamente anche i mezzi, sia con la grazia ordinaria, sia con quella straordinaria, per ripararvi. Inoltre bisogna tenere presente che spesso il male sembra tale a un primo giudizio affrettato, ma finisce per risolversi in bene, o che spesso Dio ne sa trarre il bene; che il male ci colpisce di più perché meno frequente, mentre meno avvertiamo i grandi beni, di cui godiamo abitualmente; che del resto la nostra esperienza è piccolissima rispetto alla storia, e la terra stessa, su cui la nostra vita si svolge, è come un granellino di sabbia nell'immensità degli spazî, dove i milioni di mondi, che vi esistono, potrebbero contenere una somma di felicità immensamente superiore a tutto il dolore che si trova in terra. Il mondo reale è quindi per L. il migliore dei mondi possibili.

Questa visione ottimistica e moralistica della realtà porta il L. a vedere il mondo stesso della natura come subordinato al mondo della grazia, il meccanismo come uno strumento della finalità. Dio, che è come un architetto rispetto a tutte le sostanze, è invece come un padre in rapporto agli spiriti, i quali costituiscono con lui una società morale (la città di Dio), che è la forma più alta e quasi il coronamento della realtà. Quivi tutto è perfettamente disposto in modo che le leggi della forza e della materia cospirano a eseguire le leggi della giustizia e dell'amore, tutto è così ben coordinato che non v'è peccato senza punizione né buona azione senza ricompensa. Dio vede negli spiriti ciò che gli è più vicino, perché li ha fatti a sua immagine e somiglianza e perciò come da essi ricava più gloria che da tutti gli altri esseri, così per essi si fa uomo e umanamente soffre per redimerli; con ciò egli manifesta nel modo più sublime il suo amore per essi e la sua volontà di renderli quanto più felici è possibile.

Il pensiero del L., conosciuto parzialmente e imperfettamente attraverso la deformazione scolastica e pedantesca del Wolf, poco poté influire sui suoi immediati successori: solo dopo la pubblicazione delle opere più importanti e significative, lasciate dall'autore quasi tutte inedite, avvenuta in varie riprese tra la fine del sec. XVIII e il corso del sec. XIX e del XX (e del resto non ancora finita), se ne può vedere la vigorosa organicità; e si deve riconoscere che esso rappresenta il tentativo più grandioso di sintesi compiuto dalla speculazione europea fra Spinoza e Kant. Vi confluiscono e vi hanno geniale soluzione, come si poteva in una fase ancora precritica del pensiero, i più importanti problemi di quell'età e vi si intravvedono anche esigenze e intuizioni, che preannunciano la filosofia contemporanea. Vi è risolto il dualismo cartesiano fra la res cogitans e la res extensa con la riduzione qualitativa, ma non quantitativa, delle due specie di sostanze a una sola, eliminando il materialismo nelle sue varie manifestazioni e sfuggendo insieme al pericolo del panteismo spinoziano. Con la definizione della sostanza come attività il L. prepara il concetto moderno dello spirito, dà una solida base alla libertà e perciò alla moralità, intravvede il carattere creativo, anzi autocreativo, del pensiero. Alla dissoluzione del vecchio concetto della natura-oggetto (a cui collabora attivamente per la sua parte anche l'empirismo con Berkeley) il L. dà un notevole contributo non solo per il suo concetto della sostanza; ma per l'analisi finissima della nozione di spazio e di tempo, di cui, specie nella corrispondenza col Clarke, sostiene la soggettività e il formalismo, ma evitando di cadere nel soggettivismo di Berkeley e di Hume, e, in fondo, di Protagora, mediante la teoria dell'armonia prestabilita, troppo spesso fraintesa da moderni critici o frettolosi o non bene informati. Nel campo della gnoseologia il bisogno di conciliare i diritti dell'esperienza con l'assolutezza della vera scienza lo porta a intendere le idee innate come virtualità, che, sia pure lontanamente, fanno presentire le categorie kantiane, come, e più, la distinzione fra percezioni oscure e confuse, procedenti dai sensi, e percezioni chiare e distinte, date dalla ragione, si può ravvicinare alla distinzione kantiana fra intuizioni empiriche e concetti dell'intelletto; e se si può osservare che la distinzione si riduce per L. a una semplice differenza di grado, e non di essenza come per Kant, si potrebbe ribattere che ciò dimostrerebbe un oscuro bisogno di giungere a quella più piena unità di senso e intelletto, a cui tende la filosofia contemporanea: ma è pur vero che per arrivare a questa era prima necessaria la distinzione (critica) di Kant. Infine si deve dare il merito a L. di avere, con la geniale applicazione del principio di ragion sufficiente, affermato la razionalità del reale contro il fatalismo spinoziano e contro l'arbitrarietà delle correnti volontaristiche specialmente cartesiane (Poiret): lo sforzo che egli fa per trovare dei giudizî che, pur non essendo analitici, non siano empirici e accidentali, e in cui il legame fra il soggetto e il predicato, pure non essendo logicamente necessario, sia tuttavia a priori, si deve considerare come un chiaro preannuncio della sintesi a priori di Kant; come la teoria leibniziana della potenza, non più passiva e vuota, come in Aristotele, ma attiva e piena (acte empeché, grado minimo di azione), superando il dualismo aristotelico fra potenza e atto, che si era ripercosso fino ad alcuni pensatori del Rinascimento, permette una teoria del progresso e contribuisce a costituire il concetto moderno del divenire come divenire spirituale (autonomo).

Riassumendo si può dunque concludere che il L. non solo sentì le più profonde esigenze speculative del suo tempo, ma in molti problemi precorse l'età nuova; d'altra parte, se si pensa che egli non ha tuttavia superato la fase dommatica e, per quanto concepisca lo spirito come attività, lo vede ancora come da fuori e non veramente al centro della realtà, si deve riconoscere che, come cronologicamente, così logicamente egli rappresenta la fase di transizione fra la metafisica dell'essere e la metafisica del pensiero originata da Kant.

Questo si può anche dire della sua opera di storico. Per intendere la quale bisogna guardare, come s'è fatto per tutto il suo pensiero, non tanto a ciò che fu pubblicato da lui, quanto agli scritti inediti o solo di recente dati alle stampe e ai principî costitutivi del suo sistema. Il L. infatti non è solo l'autore di raccolte di monumenti storici, come il Codex Iuris Gentium diplomaticus (1693), la Mantissa Cod. Iur. Gent. dipl. (1700), le Accessiones Historicae (1698), gli Scriptores Rerum Brunsvicensium illustrationi inservientes (1707, 1710, 1711) e l'ideatore e iniziatore degli Annales Imperii, ripresi poi dopo un secolo dal Pertz; non è solo il critico acuto, che smantella la leggenda della papessa Giovanna e porta tanta luce sull'origine dei Germani e su varî fatti e personaggi storici poco noti o ignorati di tempi antichi e recenti in articoli, monografie, pubblicati in molti giornali scientifici o raccolte occasionali (spesso a fine politico); ché, altrimenti, non si vedrebbe in lui che l'"erudito, sia pure grandissimo, del secolo XVIII", com'è stato affermato da scrittori anche autorevoli.

Ma se si va più a fondo e si studia attraverso agli inediti il progetto grandioso che egli aveva concepito d'inquadrare nella storia generale della Germania, a cominciare dall'età preistorica, e in quella del Sacro Romano Impero la storia della casa di Brunswick; se si osserva il nesso che il L. pone fra il diritto e la storia della civiltà e l'importanza che egli dà alle lingue come rivelatrici della vita e dell'evoluzione dei popoli, e il tentativo, che egli fa per il primo, di costituire a tal fine una linguistica comparata; se si pensi alla sua definizione della monade come "attività autonoma", al suo principio di continuità per cui vi è non solo un continuo graduale passaggio da una monade all'altra, ma è aperto a tutti gli esseri e particolarmente agli spiriti un cammino infinito verso sempre nuovi progressi e nuove perfezioni (Principes de la nature et de la grâce, § 18); se, infine, si dà al principio di ragion sufficiente il valore che esso ebbe per il L. e non quello che, falsandolo, gli attribuì il Wolf, principio, che, come s'è visto, importa la razionalità del reale e perciò della storia, non potrà non riconoscersi che il L. non è soltanto un erudito raccoglitore di documenti, ma un pensatore che ebbe vivo e profondo il senso della storia, anche se non riuscì a mostrarlo in un'opera organica e compiuta, e che se in lui c'è già del Baronio e del Muratori, c'è pure il presentimento del Vico.

L'opera matematica. - Gli studî di L. nella sua gioventù furono prevalentemente filosofici e letterarî. La sua opera giovanile Dissertatio de arte combinatoria (Lipsia 1666) dimostra la sua vasta erudizione, ma non contiene risultati matematici interessanti. Questo scritto prelude ai suoi scritti (rimasti inediti) di logica matematica. Partendo dai risultati della logica medievale, di Buridano, Pietro Ispano, Paolo Veneto, ecc., riuscì ad analizzare i procedimenti della logica deduttiva, adoperati in matematica, e ne fece una notevole applicazione alla geometria in una lettera a Huygens dell'8 settembre 1679. H. Grassmann, nel suo scritto: Geometrische Analyse, geknüpft an die von Leibniz erfundene geometrische Charakteristik (Lipsia 1847), ha analizzato questi studî di L., che hanno condotto da una parte al calcolo geometrico di Grassmann e di Hamilton, e d'altra parte alla moderna logica matematica.

Nel 1672, in Francia, conobbe Huygens e da lui apprese l'importanza del calcolo infinitesimale, la nuova scienza che si stava maturando dopo quasi un secolo di sforzi e di ricerche.

Il primo risultato originale di L. è la scoperta di un'elegante serie:

cioè una quadratura aritmetica del circolo, alquanto più semplice di quella data da J. Wallis, nel 1655, col suo prodotto infinito. L. vi era giunto con un'integrazione per serie, lo stesso mezzo col quale Mengoli aveva dimostrato nel 1659 la divergenza della serie armonica, e Mercator nel 1668 aveva ottenuto lo sviluppo in serie del log (1 + x). Questo risultato, comunicato a Huygens nel 1674, attirò su lui l'attenzione dei matematici inglesi, i quali avevano in quel tempo fatto scoperte assai più importanti. La serie di L. era già stata scoperta da J. Gregory nel 1672 e poteva dedursi come un caso particolare dalle teorie di Newton, da questo comunicate a Barrow nel 1666. Le Lectiones geometricae di Barrow, del 1672, alle quali collaborò Newton, contengono già sotto forma geometrica, un po' oscura, molte regole del nuovo calcolo infinitesimale, integrazione per parti, per sostituzione, cambiamenti di variabili, ecc. Dopo i viaggi in Inghilterra, nel 1673 e nel 1675, L. aveva intuito l'importanza dei risultati a cui erano giunti i matematici inglesi; alcune lettere furono scambiate tra lui e Newton nel 1676.

La prima esposizione di L.: Nova methodus pro maximis et minimis itemque tangentibus, quae nec fractas nec irrationales quantitates moratur, et singulare pro illis calculi genus, pubblicata nell'ottobre 1684 negli Acta eruditorum di Lipsia, costituisce il più importante scritto matematico di L. Esso contiene soltanto le regole più semplici ed elementari del calcolo differenziale, ma espone, con chiarezza mai raggiunta prima, l'essenza del nuovo calcolo, la quale consiste nel considerare le operazioni di derivazione da lui indicata col simbolo "d", posto innanzi al segno di funzione (e poi quelle d'integrazione) come operazioni da eseguirsi sopra funzioni. Newton aveva considerato le quantità variabili che si presentano in geometria e in meccanica, introducendo i concetti di fluente e di flussione (le due parole si trovano già in Galileo e hanno un evidente significato meccanico). Ma l'idea più feconda di funzione, introdotta da L., è puramente analitica e non conserva più traccia del senso geometrico o meccanico da cui è derivata.

Nel 1686 L. introdusse il simbolo S o ʃ, per rappresentare l'integrale di una funzione. Già Mengoli (che L. non cita), nel 1659, nella sua Geometria speciosa aveva studiato le proprietà dell'operazione dell'integrazione, che egli indicava con FO (iniziale di forma) o con O (iniziale di omnia, parola tecnica di Cavalieri). Questi primi scritti di L. condussero Giac. e Giov. Bernoulli a notevoli applicazioni del nuovo calcolo.

Mentre Newton stava scrivendo i Philosophiae naturalis principia mathematica (Londra 1687), nel maggio 1686 Halley, in una lettera a Joh. Chr. Sturm, a Vienna, aveva comunicato alcuni dei risultati più belli di Newton, tra cui la dipendenza delle leggi di Keplero dalla legge di gravitazione universale; L. n'ebbe forse notizia. Egli pubblicò nel febbraio 1689, negli Acta eruditorum il Tentamen de motuum coelestium causis. Quando scriveva, egli era a Roma e aveva tra le mani il libro di Newton come risulta dall'edizione di Gehrhardt delle opere di L. (Math. Schr., 1860, IV, pp. 144-189, 255). L. cercò di far credere di avere applicato i nuovi calcoli al moto dei pianeti e di avere trovato indipendentemente gli stessi risultati di Newton. Ma l'evidente contraddizione tra i principî da cui egli parte (osservata da Huygens e alla quale osservazione egli mai non rispose, lasciando tra i suoi manoscritti degli involuti tentativi di risposta) e gli errori di calcolo commessi, nel tradurre con le sue notazioni la risoluzione dell'equazione differenziale di second'ordine scoperta, dopo uno sforzo di molti anni, da Newton, dimostrano all'evidenza il suo plagio. I matematici inglesi non risposero subito. Soltanto nel 1693 Wallis pubblicava le due lettere di Newton a L. del 1676, senza alcun commento. Sorse allora tra i matematici inglesi e quelli del continente una lunga polemica, la quale si chiuse con la pubblicazione di un Commercium epistolicum, pubblicato a cura della Società Reale di Londra, nel 1712, e ristampato con aggiunte nel 1722 e nel 1725 (un'edizione completa con note critiche è stata pubblicata da J.-B. Biot, Parigi 1856). Da esso emerge una grave, esatta e inconfutabile accusa. Gli scritti di L. (Acta erud., 1688): Epistola de lineis opticis, schediasma de resistentia medii et motu proiectilium gravium in medio resistente, e il successivo Tentamen de motuum coelestium causis furono da lui pubblicati "quasi ipse quoque praecipuas Newtoni de his rebus propositiones invenisset, idque diversa methodo qua vias novas geometricas aperuisset et librum Newtoni tamen non vidisset. Hac licentia concessa, auctores quilibet inventis suis facile privari possunt".

Una testimonianza non sospetta di un amico e difensore di L., cioè Huygens, rileva questo grave difetto del carattere di L. in una lettera a De l'Hôpital, del 9 aprile 1693: "Monsieur Leibniz est assurément très habile, mais il a avec cela une envie immodérée de paroître, comme cela se voit encore... lorsqu'il parle de son analyse des infinis; du probleme des loxodromies, que Jac. Gregorius avoit résolu longtemps devant lui, dans ses Exercitations géometriques; des lois harmoniques des mouvements planétaires, où il a suivi l'invention de Mr. Newton, mais en y meslant ses pensées, qui la gastent; de sa construction de la chainette, qu'il veut préférer à celle de Mr. Bernoulli, comme si ce n'estoit pas la meme chose de reduire cette construction à la dimension de la ligne parabolique, ou à la quadrature de l'hyperbole, ou à la description de la logarithmique. Encor suis je fort en doute, pour des raisons que je pourrois alléguer, s'il n'a pas tiré sa construction de celle de Mr. Bernoulli".

Le ricerche matematiche di L. sono brevi note, contenute specialmente negli Acta eruditorum e nella vasta corrispondenza, soprattutto quella coi fratelli Bernoulli.

Spetta a L. il merito di avere divinato la teoria delle equazioni differenziali e di averne dato i primi saggi, subito seguiti da quelli di Bernoulli e dell'Italiano Gabriele Manfredi. Un'altra delle più belle divinazioni di L. è quella del calcolo delle variazioni, sviluppato cinquant'anni dopo da Eulero e da Lagrange.

I problemi della determinazione della curva brachistocrona e della catenaria, proposti da Galileo e risolti dai Bernoulli, contengono, osservò L. negli Acta erud., 1697 (Math. Schr., V, p. 334), qualche cosa che supera di gran lunga i vecchi problemi di massimo, o di minimo. In questi nuovi problemi infatti si ricerca non più un solo numero o un solo punto che goda di una certa proprietà, ma la forma di un'intera curva che abbia in grado massimo una certa proprietà. Questo metodo, dice L. (Acta erud., 1700; Math. Schr., V, p. 347), di somma importanza, è stato per la prima volta adoperato da Newton nel 1687 nella ricerca del solido di minima resistenza, e poi da Bernoulli; esso forma la parte più elevata delle ricerche dei massimi e minimi ed è sommamente utile nelle applicazioni geometriche, meccaniche e fisiche.

Mentre le intuizioni di L., di carattere generale, sono geniali, egli non dimostra di possedere che una mediocre attitudine al calcolo algebrico. Sono numerosi gli errori del Tentamen del 1689, già rilevati da Newton e poi da Lagrange. È singolare la sua affermazione (Acta erud., 1702; Math. Schr., V, p. 359), che ʃ dx/(1 + x4) non è integrabile e dà origine a una nuova specie d'immaginarî, mentre Newton, nella famosa lettera dell'ottobre 1676, aveva dimostrato con esempî numerici di conoscere il valore di quest'integrale. Così, forse per disattenzione, L. stampò (Acta erud., 1692; Math. Schr., V, p. 280) che un circolo diventa osculatore a una curva piana in un suo punto quando in esso si riuniscono quattro intersezioni, invece di tre, come doveva dire e osservarono subito Huygens, Bernoulli e De l'Hôpital.

L. rilevò l'importanza e la semplicità dell'aritmetica binaria, ma non citò la Rhabdologia di Nepero (Edimburgo 1617), la quale contiene già, col nome di Arithmetica localis, la stessa illustrazione. I mss. inediti di L. contengono varî tentativi di dimostrazioni di teoremi di aritmetica superiore, tra cui notevole la dimostrazione di un teorema fondamentale enunciato da Fermat e riscoperto dopo un secolo da Eulero. È singolare che L. non abbia pubblicato questo importante risultato. Egli conosceva i manoscritti di B. Pascal che aveva avuto in prestito dagli eredi. Soltanto dopo la pubblicazione degli scritti inediti di L. sarà possibile ricercare se in essi si ritrovi qualche traccia dei ragionamenti del matematico francese. Pure inediti sono rimasti alcuni scritti sulla teoria dei determinanti (X, p. 692). L. dedicò molto tempo alla costruzione di una macchina per calcolare, e riuscì anche a farne eseguire alcuni modelli, i quali superano di gran lunga i tentativi di B. Pascal. Non è tuttavia da dimenticare che una macchina moltiplicatrice era già stata descritta da Samuele Morland, nel 1662 (v. calcolatrici, macchine, VIII, p. 353).

L. ha cercato, nella sua lunga vita, piuttosto di scoprire le leggi dello spirito umano che non le leggi della natura; ha cercato soprattutto di perfezionare l'arte d'inventare, lasciando ai contemporanei e ai posteri la cura di seguire e sviluppare le sue idee, spesso appena accennate. L'opera sua va apprezzata anche negli scritti, da lui ispirati dei matematici europei del sec. XVIII.

Ediz.: Abbiamo menzionato nel testo le opere più importanti pubblicate mentre il L. era ancora in vita; delle numerose opere pubblicate dopo la sua morte ricorderemo solo le edizioni fondamentali: Oeuvres philosophiques latines et franåaises de feu M.r de L., a cura di R. E. Raspe, Amsterdam e Lipsia 1765; Opera omnia, a cura di L. Dutens, Ginevra 1768, tomi 6 in voll. 7; Opera philosophica quae exsant, a cura di J. E. Erdmann, Berlino 1840; Oeuvres de L., a cura di A. Foucher de Careil, Parigi 1859-75, voll. 7; Die Werke von L., a cura di Onno Klopp, Hannover 1864-1884, voll. 11; Oeuvres philosophiques de L., a cura di P. Janet, voll. 2, 1ª ed., Parigi 1866; 2ª ed., ivi 1900; Philosophische Werke, Lipsia 1873, voll. 4 (in Philosophische Bibliothek); Die philosophischen Schriften von G. W. L., a cura di C. J. Gerhardt, Berlino 1875-1890, voll. 7 (finora l'edizione migliore e più completa); Sämtliche Schriften und Briefe, in corso di pubblicazione, a cura della Preussische Akademie der Wissenschaften (Allgemeiner politischer und historischer Briefwechsel, I [1668-76], 1923; II [1676-79], 1927; Philosophische Briefwechsel, I, 1926).

Raccolte parziali (s'indicano le più comuni): L.s Deutsche Schriften, a cura di Dr. Guhrauer, Berlino 1838-40, voll. 2; Lettres et opuscules inédits de L., a cura di A. Foucher de Careil, Parigi 1854; Nouvelles lettres et opuscules inédits de L., a cura di A. Foucher de Careil, Parigi 1857; Mitteilungen aus L. ungedrukten Schriften, a cura di G. Mollat, Lipsia 1803 (contiene anche note per una lingua filosofica universale, la Caracteristica universalis); Opere varie, scelte e tradotte da G. De Ruggiero, Bari 1912; Antologia Leibniziana, a cura di G. Carlotti, Messina 1923; 2ª edizione, 1924.

Singole opere: Nouveaux essais sur l'entendement humain (Avant-propos et livre premier), a cura di E. Boutroux, Parigi 1886; Nuovi saggi sull'intelletto umano, tradotti da E. Cecchi, Bari 1909, voll. 2; La Monadologie, a cura di E. Boutroux, Parigi 1881 (ma più volte ristampata); La Monadologie, a cura di D. Nolen, Parigi 1881; 2ª ed., 1887; La Monadologie, a cura di E. Segond, Parigi 1883; La Monadologie, a cura di C. Piat, Parigi 1900; Discours de Métaphysique, a cura di H. Lestienne, 1907; Protogaea, a cura di L. Scheidt, Gottinga 1749; Protogée ou de la formation et des révolutions du globe, a cura di B. de Saint-Germain, Parigi 1859.

Non esiste ancora una soddisfacente edizione degli scritti matematici di L. Sono assai imperfette l'edizione contenuta nel terzo volume delle Opera Omnia, Ginevra 1767, e quella di Gerhardt, Berlino 1849, Halle 1863. Incompleto è pure: Der Briefwechsel von G. W. Leibniz mit Mathematikern, I, Berlino 1899.

Bibl.: Oltre ai capitoli relativi dei manuali di storia della filosofia (come p. es. Kuno Fischer, W. Windelband, H. Höffding, E. Zeller), si possono consultare le seguenti opere: C. Secrétan, La philosophie de L., Parigi 1840; G. Bertereau, L. considéré comme historien de la philos., Parigi 1843; G. E. Guhrauer, G. W. Freiherr von L., eine Biographie, voll. 2, Breslavia 1846; M. Nourrison, La philosophie de L., Parigi 1860; A. Foucher de Careil, L., la philosophie juive et la cabbale, Parigi 1861; F. Bonifas, Étude sur la Théodicée de L., Parigi 1863; P. Nolen, La critique de Kant et la métaphysique de L., Parigi 1876; P. H. Ritter, De Monadenleer van L., Leida 1882; Selver, Entwicklungsgang der Leibnizschen Monadenlehre, Lipsia 1885; L. Stein, L. und Spinoza, Berlino 1890; G. Hartmann, L. als Jurist und Rechtsphilosoph, Tubinga 1892; B. Russel, A critical Exposition of the Philosophy of L., Cambridge 1900; L. Couturat, La logique de L. d'après des documents inédits, Parigi 1901; E. Cassirer, L.s System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, Marburgo 1902; A. Foucher de Careil, Mémoire sur la philosophie de L., con introd. di A. Fouillée, Parigi 1905, voll. 2; J. Baruzi, L. et l'organisation religieuse de la terre, Parigi 1907; A. Görland, Der Gottes begriff bei L., Giessen 1907; Carra de Vaux, L., Parigi 1908; É. van Biéma, L'espace et le temps chez L. et chez Kant, Parigi 1908; L. Davillé, L. historien, essais sur l'activité et la méthode historique de L., Parigi 1909; J. Baruzi, L., avec de nombreuses textes inédits, Parigi 1909; G. Vailati, Scritti, Firenze 1911; G. Carlotti, Il sistema di L., Messina 1923; F. Olgiati, Il significato storico di L., Milano 1929. Per quel che riguarda gli studî di logica matematica si possono consultare: L. Couturat, La logique de L., Parigi 1901; G. Peano, Formulario matematico, Torino 1895-1904; G. Vacca, La logica di Leibniz, in Riv. di matematica, Torino 1903. Per la polemica sulla scoperta del calcolo infinitesimale, si veda l'edizione di J.-B. Biot del Commercium Epistolicum, Parigi 1856; C. J. Gerhardt, Die Entdeckung der Differentialrechnung, Halle 1848; C. J. Gerhardt, Die Entdeckung der höheren Analysis, Halle 1855; H. Sloman, The Claims of Leibniz to the Invention of the Differential Calculus, Cambridge 1860; D. Mahnke, Neue Einblicke in die Entdeckungsgesch. der höheren Analysis, Berlino 1926, e le note di Ph. E. B. Jourdain ad: A. De Morgan, Essays on the Life and Work of Newton, Londra 1914. Per le scoperte aritmetiche, si consultino gli articoli: G. Vacca, Intorno alla prima dimostrazione di un teorema di Fermat, in Bibl. Math., Stoccolma 1894; D. Mahnke, L. auf der Suche nach einer allgemeinen Primzahlgleichung, in Bibl. Math., Lipsia 1912. Sulla macchina per calcolare, si veda R. Mehmke, Calculs numériques, in Encyclop. des sciences math., I, 4ª ed., Parigi 1908, p. 248.