TARTINI, Giuseppe

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TARTINI, Giuseppe

Pierpaolo Polzonetti

– Nacque a Pirano d’Istria, dove fu battezzato l’8 aprile 1692, secondogenito maschio di Caterina Zangrando, di antica famiglia piranese, e di Giovanni Antonio, nativo di Firenze, giunto a Pirano nel 1678, sovrintendente delle saline per conto della Repubblica veneta.

Dei restanti cinque figli giunti all’età adulta, il primogenito, Domenico, succedette al padre nell’officio, Antonio fu arciprete, Pietro notaio, le due sorelle si accasarono. Grazie allo stato sociale della famiglia, il giovane Giuseppe poté godere di una buona educazione, dapprima in città presso i padri filippini (1698-1703), indi nelle Scuole pie di Capodistria (1704-07), dove prese qualche lezione di violino e si dedicò con fervore alla scherma. Destinato a vestire l’abito dei minori conventuali, lo rifiutò per iscriversi all’Università di Padova (1708), nella «facoltà giurista» (Petrobelli, 1968, p. 147), senza peraltro completare gli studi. Il 29 luglio 1710 – il padre era morto da poco – sposò la padovana Elisabetta Premazore, ventenne, di modesta estrazione. Subito dopo il matrimonio, in circostanze non perfettamente chiarite e non senza contrarietà da parte del vescovo di Padova, si ritirò nel convento francescano di Assisi, segretamente accolto dal custode padre Giovanni Torre, piranese, suo parente.

Negli anni della giovinezza, Tartini non si dedicò ex professo allo studio della musica, ma tanto la cultura umanistica quanto la bravura nella scherma dovettero giovare alla formazione di un musicista sui generis, che poté poi accedere a circoli intellettuali e sociali esclusivi, prendendo parte a dibattiti di teoria e filosofia della musica, situandosi all’avanguardia della pratica esecutiva violinistica e sviluppando sia la tecnica sia la struttura dell’arco. Di sicuro, nell’infanzia e nell’adolescenza la musica rappresentò un’esperienza fruttifera: nei suoi trattati e in alcune composizioni affiorano tracce della «musica della dalmata nazione» (così designa i canti popolari nel Trattato di musica secondo la vera scienza dell’armonia, Padova 1754, p. 151) e delle laudi francescane ascoltate forse con il padre, eletto nel 1699 «sindaco e procuratore» del convento di S. Francesco a Pirano.

Ad Assisi, dove rimase fino al decesso di padre Torre (1713), si dedicò alla pratica del violino e studiò il contrappunto sotto la guida del boemo Bohuslav Matěj Černohorský, primo organista nel convento di S. Francesco. Si ricongiunse brevemente con la moglie a Venezia tre anni più tardi. E lì, nel luglio 1716, avvenne l’incontro, folgorante, con la musica e la tecnica violinistica del fiorentino Francesco Maria Veracini (di poco più grande di lui). Dal 1713 i primi ingaggi come violinista furono nei teatri d’opera marchigiani, ad Ancona, Fano e Camerino, oltre che nell’orchestra della basilica assisiate. L’esperienza nei teatri e nelle chiese lo portò a sviluppare una sensibilità particolare per la musica vocale, ch’egli mise poi a partito nella musica strumentale, approdando allo stile cantabile che lo contraddistinse. Come riferì egli stesso, nell’anno 1714, ventiduenne, scoprì in Ancona il fenomeno acustico del ‘terzo suono’, in cui due suoni acuti perfettamente intonati generano un suono basso armonicamente correlato (in termini acustici, è il cosiddetto suono differenziale). Ne fece poi il cardine della sua teoria musicale e «regola fondamentale di perfetto accordo per i Giovani della sua scuola nell’anno 1728 incominciata in Padova» (G. Tartini, De’ principj dell’armonia musicale contenuta nel diatonico genere, Padova 1767, p. 36).

Questo fenomeno gli apparve come una vera rivelazione dei misteri della natura. Jean-Jacques Rousseau, nel Dictionnaire de musique (1768), reputò il sistema armonico di Tartini superiore a quello di Jean-Philippe Rameau in quanto più ‘naturale’: se la teoria di Rameau si fondava infatti sul basso, quella di Tartini muoveva dal registro più alto, là dove risiede la melodia, connaturata per Rousseau al linguaggio primigenio. Tartini indagò anche il potere della musica di suscitare reazioni emotive condizionate: nel Trattato di musica (p. 135) descrive un episodio di fascinazione collettiva, paragonabile alla trance, osservato nel teatro di Ancona.

Il legame con l’Ordine francescano da un lato, con la nobile famiglia veneziana dei Giustiniani dall’altro – Tartini fu insegnante di Girolamo Ascanio, cui dedicò poi le dodici Sonate a violino e violoncello o cimbalo dell’opera I stampata da Michel-Charles Le Cène (Amsterdam 1734) – furono determinanti nel procurargli, nel 1721, il lusinghiero incarico di «primo violino e capo di concerto» nella basilica di S. Antonio di Padova (il Santo), dove prestò servizio fino al 1765, mantenendo in seguito l’onorario vitalizio. Con l’ingaggio a Padova la fama del grande virtuoso crebbe esponenzialmente. Ricevette ripetute offerte di lavoro dall’estero, ma salvo alcuni ingaggi a Praga, dove si recò per le feste dell’incoronazione di Carlo VI a re di Boemia (estate 1723) e ritornò poi fino al maggio del 1726 al servizio del conte Francesco Ferdinando Kinsky, cancelliere del regno, Tartini non abbandonò mai il posto a Padova.

Il Santo era in quegli anni un polo di ricerca sulla teoria musicale, coltivata dai maestri di cappella Francesco Antonio Calegari e Francesco Antonio Vallotti. Il Tartini teorico appartiene a questa stessa tradizione, al crocevia tra scienza moderna, ricerca matematico-acustica e intenso misticismo. La basilica francescana aveva peraltro investito ingenti risorse per promuovere la produzione e la pratica di musica strumentale (vantava una delle migliori orchestre d’Europa): lo sviluppo della musica strumentale rientrava in un progetto di evangelizzazione e apertura ecumenica, in quanto reputata capace di superare le barriere linguistiche e culturali. L’evangelizzazione aveva peraltro contraddistinto la missione del santo predicatore lusitano in Italia nel XIII secolo, generando tra l’altro il culto per la reliquia della sua lingua, collocata nella cappella delle reliquie inaugurata dal vescovo Carlo della Torre di Rezzonico, poi Clemente XIII, nel 1745; ma già nel 1712 la basilica aveva commissionato ad Antonio Vivaldi un concerto per violino per la festa della Lingua del Santo (R 212 in Re maggiore), e molti concerti di Tartini furono anch’essi dedicati alla sacra Lingua (cfr. Polzonetti, 2014).

Intorno al 1740 lo stile esecutivo di Tartini cambiò, virando dal virtuosismo strumentale brillante verso una più intensa cantabilità strumentale. Di fatto il violinista-compositore spostò il fulcro del concerto dall’Allegro all’Adagio. In linea con la ricerca di uno stile strumentale eloquente, Tartini annotava dei motti poetici in margine ai concerti e alle sonate, ricorrendo talora alla scrittura cifrata per tenerli segreti (cfr. Durante, 2007). Charles Wiseman, musicista inglese a Roma, riferì a Charles Burney che Tartini possedeva un «supernatural gift» nel far cantare lo strumento («His adagio was the most cantabile and divine», in C. Burney, A general history of music, 1789, a cura di F. Mercer, II, London-New York 1935, p. 446). D’Alembert, che condannava la musica strumentale perché incapace di produrre un significato, considerava la sonata di Tartini denominata Didone abbandonata (forse riferendosi all’Op. I, n. 10 in sol minore, g10 nel catalogo Brainard, 1975) come un’eccezione, definendola un monologue dall’intenso potere drammatico (Polzonetti, 2014, pp. 435-438).

Tartini si mosse solo occasionalmente da Padova: suonò a Verona (dicembre 1722), alla Steccata di Parma (marzo 1728), a Camerino per s. Venanzio (maggio 1735), fu a Roma tra il 1733 e il 1738, nel 1725 a Ferrara e a Bergamo nel 1740 (qui subì un insulto muscolare al braccio sinistro). A Padova ricevette visite di numerosi viaggiatori stranieri, tra cui Charles de Brosses (1739; Viaggio in Italia, Roma-Bari 1973, pp. 150 s.) e l’architetto inglese George Dance (1765?), che di lui tracciò un vivido ritratto a lapis (Durante, 2017a, pp. 30-32). Da Padova tenne rapporti con committenti, dedicatari, letterati ed eruditi italiani e stranieri, segnatamente con il francescano bolognese Giambattista Martini – nel 1751 gli sottopose per un parere il Trattato di musica e glielo inviò poi stampato –, con il conte Giordano Riccati, architetto e matematico trevigiano versato nella teoria musicale (il loro copioso Commercio di lettere intorno ai principj dell’armonia, ed. a cura di L. Del Fra, Lucca 2007, durò dal 1759 al 1768) e con Francesco Algarotti, che gli commissionò delle sonate per Federico di Prussia (1749) e dei concerti per il principe Ferdinando Filippo Lobkowitz (1750).

Morì a Padova il 26 febbraio 1770, per una cancrena a un piede (Petrobelli, 1968, p. 13).

Fu sepolto, accanto alla moglie, in S. Caterina d’Alessandria. Burney, in viaggio in Italia alla ricerca di notizie e materiali per la sua storia della musica, passò per Padova nel luglio-agosto seguente (The present state of music in France and Italy, London 1771, pp. 120-137; trad. it. Viaggio musicale in Italia, Torino 1979, pp. 121-131): poté soltanto incontrare il violoncellista Antonio Vandini, dal 1722 collega e amico del violinista (nell’aprile del 1769 era andato ad abitare in casa di Tartini, rimasto vedovo); da lui apprese alcune notizie biografiche e lo ascoltò suonare nello stile cantabile che contraddistingueva Tartini e la sua cerchia.

Già in vita Tartini fu acclamato come sommo compositore e violinista. La sua fama europea fu alimentata dai trattati di teoria musicale e di prassi esecutiva, dal vasto carteggio con intellettuali di spicco e da un’attività didattica che a partire dal 1727-28 si concretò nella cosiddetta scuola delle nazioni, cui accorrevano studenti provenienti da diversi Stati italiani e transalpini. Alcuni di costoro, come Johann Gottlieb Naumann, propagarono gli insegnamenti del maestro anche nel campo della teoria e filosofia della musica. Altri, come Maddalena Lombardini Sirmen, alla quale Tartini impartì una lezione di violino per corrispondenza (la Lettera datata 5 marzo 1760 apparsa in L’Europa letteraria, t. 5, parte II, 1° giugno 1770, pp. 74-79, fu tradotta e pubblicata in inglese da Burney a Londra nel 1779), hanno lasciato documentazioni preziose di prassi esecutiva. Il postumo Traité des agrémens de la musique (Paris 1771) ebbe vasta fortuna in Europa; Tartini aveva preferito non pubblicarlo, ma ne circolavano varianti manoscritte redatte dai suoi studenti (Leopold Mozart vi aveva attinto a man bassa fin dal 1756).

La produzione musicale di Tartini si concentra essenzialmente in due generi: il concerto per violino e orchestra d’archi (con rare presenze dei fiati) e la sonata per violino con o senza accompagnamento di basso. Tartini scrisse anche alcuni pezzi da chiesa (Tantum ergo, Salve regina, Stabat mater, un Miserere eseguito a Roma nel 1768 per Clemente XIII, e alcune laudi spirituali d’impronta popolare, affini alle laudi francescane), sonate a tre o quattro, e rari concerti per altri strumenti (flauto, violoncello). Nella stragrande maggioranza le sue composizioni sono pervenute in testimoni manoscritti: su di esse l’autore tornò più e più volte, anche a distanza di decenni, talché le date di composizione non sono facili da stabilire. Per esempio, i Sei concerti Op. II apparvero nel 1733 ad Amsterdam, ma le filigrane degli autografi suggeriscono che il compositore tornò a lavorarci su dopo il 1739, in una concezione della composizione musicale intesa non già come testo fissato, ma come processo creativo aperto, in cui invenzione, stesura, esecuzione e ornamentazione estemporanea sono fattori determinanti sì, ma non del tutto determinati.

Concerti e sonate non sempre si attengono alla distinzione consueta, ‘da chiesa’ o ‘da camera’. Anche i concerti che presentano un tempo iniziale veloce (la maggioranza), elemento distintivo dei generi da camera, venivano eseguiti in basilica; viceversa i lavori che iniziano con un tempo lento (in particolare le sonate) venivano spesso utilizzati in accademie o in privato. D’altra parte durante le funzioni religiose un lavoro strumentale in più tempi non veniva quasi mai dato per intero: si selezionava il movimento che meglio si addicesse ai momenti della funzione religiosa e all’affetto dominante in una data festività del calendario liturgico. Nei concerti perlopiù si alternano le sezioni del ‘tutti’ orchestrale agli episodi solistici, ma con una notevole varietà di soluzioni: contrapposizione tematica, variazione di elementi tematici del ritornello, monotematismo. Fin dall’Op. II si osservano procedimenti che perdurarono su tutto l’arco della produzione tartiniana. Spesso Tartini fonde organicamente le sezioni del ‘tutti’ e del ‘solo’, ripete invariati nel ‘tutti’ elementi del ‘solo’: anziché stimolare il confronto, esprime collaborazione, comprensione, empatia. Nella sezione centrale dell’Allegro ‘tutti’ e ‘solo’ si alternano più strettamente, oppure il solista interloquisce con il ‘tutti’. Talvolta l’orchestra commenta sottovoce le note del ‘solo’, come fosse il bisbiglio di una congregazione durante la predica. Il solista risparmia l’acme del virtuosismo per la conclusione del movimento, dove si addensano figurazioni velocissime e bicordi: esemplare la cadenza dell’ultimo tempo nel sesto concerto nell’Op. II (1733; n. 46 del catalogo Dounias, 1935), contrassegnato come «capriccio». In gran parte dei concerti il tempo centrale, l’Adagio, acquista una notevole autonomia, assurgendo a fulcro della composizione, teatro di un virtuosismo dell’espressione. Le melodie cantabili sono semplici, ma gli abbellimenti potevano raggiungere complessità vertiginose, come risulta dalle versioni ornate superstiti (in particolare nel ricco fondo di provenienza padovana oggi a Berkeley, Jean Gray Hargrove Music Library): alla melodia si sovrappongono qui una o più varianti di floride, rigogliose ornamentazioni, che tuttavia non offuscano il profilo ritmico della melodia di partenza. Dalle parti staccate dei concerti si desume che la pratica esecutiva includeva sperimentazioni timbriche circa la variazione di densità delle masse sonore, mediante incremento o sfoltimento della compagine di suonatori (è il caso dello splendido Concerto in si minore, D. 125). La scrittura contrappuntistica, quando presente, risponde a un illuministico criterio di economia e chiarezza. Pari pari il linguaggio armonico predilige il genere diatonico (da Tartini ritenuto più ‘naturale’ del cromatico), il ricorso parsimonioso alle modulazioni (considerate ‘artificiose’) e una scelta di configurazioni accordali attenta all’effetto nello spazio architettonico. Altamente suggestivo è l’uso occasionale degli accordi vuoti (senza terza), che inducono all’ascolto un senso di apertura e pace (così, per esempio, la sonorità finale del Larghetto nel citato Concerto D. 125).

La musica di Tartini rimane imperniata su principi di semplicità, limpidezza, cantabilità, leggerezza. Non mancano però saggi di alto virtuosismo, come nel caso dell’Arte del arco (titolo usato in un’edizione non vigilata dall’autore, apparsa a Parigi intorno al 1757), una serie di variazioni su una gavotta dell’Op. V di Arcangelo Corelli, che nel Novecento si tramutò da studio didattico a pezzo di bravura concertistico. Beninteso, nel campo delle sonate, per Tartini, come per tanti altri compositori coevi, il modello dominante, con il quale cimentarsi in termini creativi, è appunto Corelli. Vistosa eccezione è la più famosa delle sonate tartiniane, Le trille du diable, uscita postuma nell’Art du violon di Jean-Baptiste Cartier (Paris 1798; Brainard g5), piuttosto anomala per l’arcaica alternanza e addizione di episodi dall’agogica diversa, di conio precorelliano. Stando alla leggenda tramandata dall’astronomo Jérôme Lalande e diffusa da Burney, il compositore si sarebbe sforzato di fissare su carta le reminiscenze di un suo incontro in sogno con il diavolo, esecutore di una sonata «so singularly beautiful» (C. Burney, The present state..., cit., pp. 121-123; trad. it. pp. 123 s.). Sembrerebbe paradossale che un compositore tanto devoto venga oggi ricordato soprattutto per un pezzo ‘diabolico’: eppure anche questo episodio pare ispirarsi all’agiografia di s. Antonio, del quale si narra che gli apparve il diavolo in sogno (Polzonetti, 2014, p. 439). Comunque sia, la leggenda alimentò il persistente mito di Tartini nell’immaginario romantico e contemporaneo, anche come personaggio di balletti e melodrammi e financo di fumetti del mistero (Durante, 2017a, pp. 88-90).

Alcuni brani, come le 26 piccole sonate per violino e violoncello e per violino solo (ms. 1888/I della Biblioteca Antoniana di Padova), dovettero essere concepite in primis per il diporto dell’autore, che amava suonarli accompagnato dall’amico Vandini al violoncello, o anche da solo. Nel manoscritto si segnalano casi di trascrizione di musiche di tradizione orale, tra cui molte varianti dell’‘aria del Tasso’, diffusa tra gondolieri e barcaioli nella laguna veneta. Qui la complessità ritmica del fraseggio non oscura ma anzi riproduce il fluido ductus dei versi tasseschi, e la semplicità della tessitura non impedisce, anzi incrementa, l’impressione che il suono possa abbattere muri, fisici e sociali, e proiettarsi in spazi aperti.

Fonti e Bibl.: La bibliografia su Tartini è compendiata in S. Durante, T. studies: the state of the art, in Ad Parnassum, XI (2013), 22, pp. 1-10. La ricostruzione della biografia, effettuata collazionando le diverse redazioni dell’eulogia funebre di Francesco Fanzago (Padova 1770) con la documentazione archivistica ed epistolare, si deve a P. Petrobelli, G. T.: le fonti biografiche, [Wien] 1968. Per l’epistolario, cfr. G. Malagò, G. T.: lettere e documenti biografici (edizione multilingue, in corso di pubblicazione). Per la catalogazione delle musiche, cfr. M. Dounias, Die Violinkonzerte G. T.s, Wolfenbüttel 1935; P. Brainard, Le sonate per violino di G. T.: catalogo tematico, Padova-Milano 1975; M. Canale, I concerti solistici di G. T. Testimoni, tradizione e catalogo tematico, diss., Università di Padova 2010; nonché, sommariamente, le voci di P. Petrobelli, in The new Grove dictionary of music and musicians, XXV, London-New York 2001, pp. 108-114, e M. Giuggioli, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, 2017, https://www. mgg-online.com/article?id=mgg12719&v=2.0 &rs=mgg12719 (23 aprile 2019). Cfr. inoltre: S.A. Hoyer, Casa Tartini di Pirano, Pirano 1992; P. Petrobelli, T., le sue idee e il suo tempo, Lucca 1992; T.: il tempo e le opere, a cura di A. Bombi - M.N. Massaro, Bologna 1994; P. Polzonetti, T. e la musica secondo natura, Lucca 2001; S. Durante, Tartini and his texts, in Studi su Mozart e il Settecento, Lucca 2007, pp. 167-207; P. Polzonetti, T. and the Tongue of Saint Anthony, in Journal of the American musicological society, LXVII (2014), pp. 429-486; G. T. and research into his life, works, and time, a cura di M. Kokole - M. Talbot, in De musica disserenda, X (2014), 1, monografico; A. Lohri, Kombinationstöne und Tartinis ‘terzo suono’, Mainz 2016; M. Cossu, Le edizioni del Novecento de “L’Arte dell’arco” di T., in Studi musicali, VIII (2017), pp. 151-193; S. Durante, T., Padova, l’Europa, Livorno 2017a; Id., G. T. nella rete dei savants, in Padua als Europäisches Wissenschaftszentrum von der Renaissance bis zur Aufklärung, a cura di D. von Engelhardt - G.F. Frigo, Aachen 2017b, pp. 195-204.

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