STUPARICH, Giani

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 94 (2019)

STUPARICH (Stuparovich), Giani

Cristina Benussi

STUPARICH (Stuparovich), Giani. – Primogenito di Marco, uomo d’affari dalmata di Lussino, e di Gisella Gentili, triestina di origine ebraica, nacque il 4 aprile 1891 a Trieste, porto franco dell’Impero asburgico, luogo etnicamente misto in cui una forte componente autoctona slovena non contraddiceva l’italianità preminente della cultura cittadina.

Crebbe sotto le cure materne insieme con i fratelli più giovani Carlo (v. la voce in questo Dizionario) e Bianca e, dopo aver frequentato il ginnasio superiore comunale in lingua italiana Dante Alighieri di Trieste, si iscrisse all’Università di Praga. Qui poté seguire da vicino la nascita di un progetto politico che la Boemia ceca, appartenente allo stesso Impero, stava elaborando per consentire a quella nazione di trovare una propria forma d’autonomia, sostenuto da Tomáš Garrigue Masaryk, fondatore nel 1900 del partito popolare ceco e nel 1918 primo presidente della Repubblica cecoslovacca. Cominciò dunque a inviare, dal gennaio del 1912, una serie di articoli sulla situazione politica e culturale ceca a La voce di Giuseppe Prezzolini: la prospettiva era quella di un appartenente alla minoranza italiana che non escludeva un rapporto collaborativo con gli slavi.

Socialista, guardava a Giuseppe Mazzini e al suo appello all’unità di pensiero e azione, nonché di popolo e di nazione, sottintendendo dunque anche il rispetto di ogni autonomia etnica. Finalità dichiarata era infatti la creazione di un’Europa federalista, come auspicava anche Carlo Cattaneo. Tuttavia, la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia mostrò tutta l’inattualità del suo disegno e delle sue aspirazioni.

Si era intanto trasferito a Firenze, dove frequentò l’ambiente vociano, in cui si agitavano interventismi molto diversi tra loro. Stuparich era molto vicino a Gaetano Salvemini che, da posizioni di sinistra, auspicava una guerra capace di agevolare l’autoaffermazione dei popoli, una volta caduto l’impero mitteleuropeo. Nel 1914, alla scoppio della guerra, anche Giani, come Scipio Slataper, si era infatti convinto che fosse giunto il momento di combattere l’Austria rigida e imperialista degli Asburgo. Si laureò in letteratura italiana discutendo una tesi su Machiavelli in Germania, e poco dopo pubblicò anche il suo primo saggio, La nazione czeca (Catania 1915), che raccoglieva e ampliava spunti già apparsi nei suoi articoli, e che fu poi modificato e ripubblicato con la grafia La nazione ceca (Napoli 1922).

Alla dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, come altri giovani concittadini, passò il confine e nel maggio del 1915 si arruolò come volontario insieme con il fratello Carlo e Slataper. Sottotenente nel 1° reggimento dei Granatieri di Sardegna, fu spedito sul Carso, poi sull’altopiano di Asiago dove, sul monte Cengio il 30 maggio 1916, morì Carlo e dove lui, poco lontano, il giorno dopo venne fatto prigioniero.

Aveva appena scritto la Prefazione alla traduzione approntata dal fratello dell’Epistolario (1919) di Heinrich von Kleist. Sconvolto e sentendosi in colpa per la perdita, non riuscì più a continuare il suo taccuino di guerra, che aveva portato con sé fin dalle prime giornate sul Carso, e che divenne fonte di episodi e commenti per la sua trilogia di guerra – Colloqui con mio fratello (Milano 1925), Guerra del ’15. (Dal taccuino d’un volontario) (Milano 1931) e il romanzo Ritorneranno (Milano 1941) – composta e pubblicata in anni in cui la censura fascista non permetteva commenti pessimisti, che pure, tra le righe, Stuparich riuscì a veicolare. Il suo bloc-notes rivelava invece il profondo disagio di un giovane che non poteva prevedere quanto diversa sarebbe stata la Grande Guerra rispetto a quelle immaginate: e parlava dei massacri di massa grazie alle nuove tecnologie, della vita degradata nella sporcizia delle trincee, dell’incertezza dei comandi che a volte sbagliavano clamorosamente strategie e tattiche, dell’impreparazione delle truppe contadine, il cui spirito di ubbidienza era tuttavia ammirevole. Ma rivelava anche il forte senso del dovere verso la patria cui era dovuto sacrificio, mentre andava delineando un ethos più circoscritto a valori esistenziali propri di una condizione originaria inquieta e comunque difficilmente conducibile a chiarezza.

Quando, medaglia d’oro al valor militare, fece ritorno a Trieste nel 1918, gli fu difficile riconoscere in quell’italianità reale la propria italianità ideale, tanto più che la città, la cui floridezza di porto franco costituiva ormai solo un ricordo, era gravata da una pesante crisi economica. Fece in tempo a condannare la violenza fascista che ben presto si abbatté sugli slavi e sulle loro istituzioni culturali, e che azzerò quella abitudine alla convivenza, usuale nella vita cittadina. Nel febbraio del 1919 sposò Elody Oblath, ebrea, una delle tre amiche di Slataper, da cui ebbe tre figli: Giovanna (nata nel 1919), Giordana (nata nel 1921) e Giancarlo (nato nel 1923). Dal 1921 iniziò la sua carriera d’insegnante come professore d’italiano nello stesso liceo che lo aveva visto studente, dedicandosi contemporaneamente a un’intensa attività di saggista e di scrittore.

Curò la raccolta degli scritti lasciati dal fratello, Cose e ombre di uno (Roma 1919), una biografia dell’amico morto in guerra poco prima di Carlo, Scipio Slataper (Firenze 1922), con cui aveva lungamente condiviso passioni e ideali. Introdusse e annotò, dopo averli raccolti, anche gli Scritti letterari e critici (Roma 1922), nonché gli Scritti politici (Roma 1925) dell’autore del Mio Carso (1912), quasi a voler approfondire attraverso un dialogo postumo i motivi che lo avevano portato ad arruolarsi, rimanendo poi tragicamente solo, unico superstite dei tre.

Il suo impegno civile e politico, ovviamente, rimase silente e, mentre il fascismo si rafforzava, provò a indagare proprio le ragioni di una così profonda discrepanza tra le illusioni dell’attesa e la concretezza della realtà, anche nella vita: tra i Racconti (Torino 1929) c’era Un anno di scuola, che ricorda la propria educazione sentimentale e umana allorché, nel suo ultimo anno di liceo, arrivò in classe l’unica allieva femmina. Lui, come gli altri, immaginò ben altre prospettive rispetto alle intenzioni della nuova compagna, disponibile a un rapporto esclusivamente amicale. L’atmosfera di catastrofe imminente è stata ben resa anche nella trasposizione cinematografica di Franco Giraldi, del 1977. E c’era La morte di Antonio Livesay, in cui lo scrittore analizzava gli stati d’animo e i movimenti di chi viveva tra gli altri, ma sapeva di avere una malattia che non lasciava scampo.

Stuparich non amava il linguaggio della psicoanalisi, e preferiva costruire personaggi che pensano e agiscono in base a principi etici. Nelle raccolte successive, dalle Donne nella vita di Stefano Premuda (Milano-Roma 1932) ai Nuovi racconti (Milano 1935), non esitò a interrogarsi su temi che avvertiva in lui irrisolti: in I ciclami di Banne riconosceva che l’egoismo e la sventatezza potevano aver ferito il pudore e la buona fede di una ragazza. Soffriva evidentemente la difficoltà del rapporto con la moglie Elody che per lui aveva sacrificato le proprie aspirazioni letterarie.

Con La grotta ritornava il motivo del senso di colpa provato per la sua salvezza, negata agli altri due compagni, nella finzione narrativa caduti in un crepaccio. Si rendeva conto di non poter rimuovere un passato sempre doloroso, e intanto cercava almeno di recuperare il proprio rapporto con il padre, figura rimasta nell’ombra rispetto alla costante presenza della madre: forse il suo racconto più riuscito è proprio L’isola (Torino 1942), che racconta del padre ammalato da lui accompagnato nella sua isola d’origine, Lussino. Scopriva così la vicendevole trama, delicata e forte, del loro affetto, proprio quando, nel rigoglio di una natura mediterranea, il legame ritrovato non poteva più essere d’aiuto a un padre che il figlio stava definitivamente perdendo.

Collaboratore tra il 1932 e il 1955 della Stampa di Torino, vi pubblicò Sentire (15 novembre 1935), Ragionare (13 febbraio 1936) e Amare (18 aprile 1936), controcanto perfetto all’adagio fascista «credere, ubbidire, combattere»: ammetteva che, dovendo guardare serenamente in sé stesso, non poteva non scorgere la cupidigia, l’ambizione e l’astuzia che lo avevano mosso, ma anche quella capacità di slanci generosi che gli avevano permesso di costruire rapporti d’amore.

Alla caduta di Benito Mussolini, Trieste con il suo territorio limitrofo divennero parte del Terzo Reich. Nel 1944, nonostante avesse preso da qualche anno la tessera del Partito nazionale fascista (PNF), a causa della sua discendenza ebraica Stuparich venne portato, seppure per pochi giorni, con la moglie e la madre nella Risiera di San Sabba, unico campo di concentramento italiano, situato alla periferia della sua città. Entrato a far parte del Comitato di liberazione nazionale (CLN), in tutte le opere seguenti riversò l’ansia, sua e dell’intera città, per la situazione drammatica in cui versava Trieste: nel maggio del 1945 l’occupazione iugoslava e l’incubo delle foibe, poi il timore di essere comunque assegnata alla vicina repubblica comunista di Tito (Josip Broz). Collaborò con Il Tempo di Roma, si separò dalla moglie e, nel 1946, iniziò una convivenza con la scrittrice triestina Anita Pittoni.

L’interventista che era stato, dalla Prefazione agli Scrittori garibaldini e da Trieste nei miei ricordi (entrambi, Milano 1948), fino al romanzo Simone (Milano 1953), non fece che condannare la pazzia della guerra, denunciare il declino d’Europa, indagare l’angoscia e la paura di vivere. Suo testamento spirituale possono essere considerati i Ricordi istriani (Trieste 1961), in cui trovò posto la consapevolezza dell’esule che sapeva di aver perso per sempre quella sua terra paterna, di cui ricordava la luminosità dei paesaggi, le ritualità stagionali e, soprattutto, la gente umile costretta ad abbandonare tutto e a imbarcarsi per l’Italia sulla nave Toscana, divenuta simbolo dell’esodo. Gli italiani fuggivano davanti alla violenza vendicativa degli slavi, che lui aveva difeso e che il fascismo aveva umiliati e perseguitati.

Morì a Roma, il 7 aprile 1961, per complicazioni cardiache manifestatesi in seguito a un intervento.

Aveva fatto appena in tempo a ricevere Il ritorno del padre (Torino 1961), il volume antologico pubblicato da Einaudi che Pier Antonio Quarantotti Gambini e gli amici gli avevano offerto come dono per il suo settantesimo compleanno.

Opere. Fra le opere non citate nel testo: Stagioni alla fontana. Racconti brevi, Milano 1942; Pietà del sole, Firenze 1942; Giochi di fisonomie, Milano 1942; Ginestre. Racconti brevi, Milano 1946; L’erba nocca, Milano 1946; Il giudizio di Paride e altri racconti, Milano 1950; Trieste, città allegra e drammatica, in Quaderni ACI, 1952, n. 8, pp. 51-75; Piccolo cabotaggio, Torino 1955; Poesie, Trieste 1956; La strada di Podestaria con diciotto lettere a Giani di Carlo Stuparich, Verona 2005. Ha curato, inoltre: H. von Kleist, Epistolario, Lanciano 1919; S. Slataper, Lettere alle amiche, Torino 1931; Istria e Quarnaro italiani, Trieste 1948; G.G. Sartorio, Memorie, Trieste 1949; A. de Giuliani, Riflessioni sul porto di Trieste, Trieste 1950; S. Slataper, Epistolario, Milano 1950; S. Slataper, Appunti e note di diario, Milano 1953; V. Giotti, Appunti inutili (1946-1955), Trieste 1959.

Fonti e Bibl.: Di là da articoli brevi apparsi in rivista, o all’interno di opere di carattere generale, tra i principali studi su Stuparich è da segnalare il numero speciale di Pagine istriane (s. 4, XIII (1963), n. 10, dicembre), che comprende diciotto saggi di critici contemporanei. Una bibliografia più completa sulla figura e l’opera si trova nell’edizione dei Ricordi istriani, a cura di A. Pittoni, Trieste 1964. Per interventi specifici si vedano almeno: R. Bertacchini, G. S., Firenze 1968; E. Apih, Il ritorno di G. S., Firenze 1988; R. Damiani, G. S., Trieste 1992; E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, Roma 1994; A. Ara, G. S., uno scrittore triestino fra Austria, Italia e Slavia (1913-1922), in Römische historische Mitteilungen, XXXVII (1995), pp. 377-394; B. Vasari, G. S.: ricordi di un allievo, Trieste 1999; G. S. fra Trieste e Firenze. Atti della Giornata di studi, Firenze... 2000, Roma 2001; R. Lunzer, G. S. e le sue riflessioni sulla guerra, in Ead., Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del ’900, Trieste 2002, pp.135-199; F. Todero, Morire per la patria. I volontari del litorale austriaco nella Grande Guerra, Udine 2005; F. Senardi, Il giovane S. Trieste, Praga, Firenze, le trincee del Carso, Trieste 2007; G. S. tra ritorno e ricordo, Atti del Convegno internazionale, Trieste... 2011, a cura di G. Baroni - C. Benussi, Pisa-Roma 2012; F. Senardi, ‘L’incancellabile diritto ad essere quello che siamo’. La saggistica politico-civile di G. S., Trieste 2016.

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