DE MARTINO, Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 38 (1990)

DE MARTINO, Giacomo

Luca De Caprariis

Nacque a Berna il 7 sett. 1868. Figlio di Renato, diplomatico del Regno delle Due Sicilie confermato in servizio dopo il compimento dell'Unità dal governo italiano, e di Elisabetta De Wirsen, il D. veniva da una famiglia di diplomatici.

Il nonno paterno - del quale egli portava il nome - era stato ambasciatore del Regno borbonico e per un breve periodo ministro degli Esteri nel gabinetto costituzionale costituito da Francesco II nel giugno del 1860, mentre lo zio Giacomo De Martino prima di dedicarsi alla vita politica aveva trascorso un breve periodo di servizio presso la Consulta.

Dopo aver completato gli studi superiori, il D. si iscrisse all'Istituto di scienze sociali di Firenze, dove si diplornò il 4 nov. 1889. Superato con successo l'esame di ammissione alla carriera diplomatica, venne nominato nel febbraio 1891 volontario per gli impieghi di prima categoria nel ministero degli Affari esteri. La sua prima destinazione (1892) fu Berlino, in qualità di addetto di legazione.

Nel maggio 1895, con il trasferimento a Istambul, ebbe inizio la lunga esperienza diplomatica in Oriente che avrebbe caratterizzato i primi anni della carriera del De Martino. A Istambul e al Cairo, dove fu trasferito nell'aprile del 1897 poco dopo la nomina a segretario di legazione di seconda classe, il D. poté seguire da due osservatori privilegiati i problemi del composito gruppo di paesi e nazionalità che formavano l'Impero ottomano, e le rivalità politiche ed economiche delle grandi potenze europee nell'area mediterranea e africana. Problemi che il D. visse intensamente, sperimentando da una parte il "fascino dell'Oriente", e dall'altra le vicende che caratterizzarono in quegli ultimi anni del secolo la politica estera e coloniale del nostro paese. Ne danno testimonianza le pagine dei suoi Ricordi di carriera (in Rassegna di politica internazionale, IV [1934], 4, pp. 252-286).

Qui egli, accanto alla descrizione della vita nel Levante, della quale ricordava quelle esperienze che portavano un europeo dalla repulsione iniziale a un sentimento di fascino che cresceva impercettibilmente ma inesorabilmente "quasi un'edera su un tronco", aveva sottolineato il dolore e lo stupore della comunità italiana di Istambul alla notizia del disastro di Adua. Un avvenimento dal quale egli stesso era stato molto colpito e che aveva a suo giudizio portato l'Italia "ad anni di depressione psicologica nel dominio di un vero complesso di inferiorità".

Rientrato in Italia, il D. partecipò del nuovo clima in cui nei primi anni del Novecento cominciavano ad essere considerati gli indirizzi di politica estera, della nuova attenzione con cui venivano collegati ai principali problemi economici e sociali, dell'interesse che suscitavano le discussioni sulla necessità e il carattere di una eventuale ripresa della politica di espansione coloniale.

Nel gennaio del 1901 egli venne destinato a Berna. Ancor prima di partire però, fu collocato a disposizione del ministero per reggere la segreteria particolare dello zio Giacomo, sottosegretario alla Consulta dal febbraio all'agosto di quell'anno.

A questo il giovane D. era profondamente legato, non solo da affetto familiare e amicizia, ma anche da una sostanziale identità di convinzioni politiche. In primo luogo concordavano sull'indirizzo da dare alla politica estera del paese, che entrambi auspicavano seguisse una linea di attiva espansione coloniale che ne rafforzasse la presenza sulla scena internazionale.

Dopo l'uscita dello zio dal gabinetto Zanardelli, il D. raggiunse la sede di Berna. Coinvolto nella crisi delle relazioni italo-svizzere, che culminò nell'aprile del 1902 con la rottura dei rapporti diplomatici, egli non trascorse che pochi mesi nella capitale della Confederazione, rimanendo a disposizione della ambasciata belga, che, dopo la partenza dell'ambasciatore Silvestrelli e la chiusura della nostra ambasciata, curava gli interessi del nostro paese.

Nel 1904 il D. tornò a Istambul e poi, dopo un breve intervallo di servizio a Berlino, venne inviato al Cairo come agente e console generale nell'ottobre del 1907.

Come responsabile della legazione egli diede prova di notevole abilità nei rapporti con la burocriazia egiziana, muovendosi con esperienza nell'intricatissimo regime delle capitolazioni, che regolava i rapporti dei cittadini stranieri con l'amministrazione ed il sistema giudiziario dei territori soggetti all'autorità della Sublime Porta. Una abilità che, in accordo con i responsabili della Consulta, il D. utilizzava nella prudente opera di promozione della influenza italiana in quella regione e di tutela delle imprese nazionali che là operavano; un compito molto delicato visto gli interessi e il ruolo che la Gran Bretagna aveva in Egitto. L'analisi della politica britannica fu in effetti il tema dei rapporti più importanti che dal Cairo il D. inviò al ministro degli Esteri Tommaso Tittoni. Egli esaminò - tra l'altro - in una serie di dettagliate relazionil le conseguenze della sostituzione, avvenuta nel 1907, di lord Cromer con sir Eldon Grost. Oltre a tentare un primo esame della amministrazione del Cromer, che per ventiquattro anni era stato in pratica il governatore del paese, esaminò i primi atti del successore. Nell'azione del Grost il diplomatico italiano osservò una certa tendenza conciliativa con il governo centrale turco e le autorità locali che sembravano costituire un elemento di novità.

La conoscenza del sistema e della situazione politica dell'Impero ottomano, che il D. aveva acquisito nei lunghi anni di servizio in Oriente, e l'opera che vi aveva svolto, furono molto apprezzate dal nuovo ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano e dal sottosegretario P. Lanza di Scalea. Quando nell'estate del 1911 il problema della Libia sembrava essere giunto ad un momento decisivo e, per dare una scossa alle relazioni italo-turche, il marchese di San Giuliano decise di sostituire l'ambasciatore a Istambul E. Mayor de Planches, la scelta cadde sul D., che venne inviato in missione come incaricato di affari presso la Sublime Porta.

Come lo stesso D. scrisse nei suoi Ricordi, al Mayor veniva rimproverata una "certa incomprensione dei momento storico che l'Italia stava attraversando", un momento che richiedeva una più energica tutela degli interessi italiani in Tripolitania e la rimozione di ogni ostacolo frapposto a questi dalla amministrazione ottomana. Questi erano gli obbiettivi che il D. doveva inizialmente perseguire a Istambul, da lui raggiunta alla fine del luglio 1911. L'evoluzione degli avvenimenti nell'agosto e nel settembre, la decisione di risolvere definitivamente la questione con l'occupazione militare della Tripolitania, lo videro protagonista nei momenti decisivi, fino alla consegna dell'ultimatum e della dichiarazione di guerra. Per questa soluzione egli aveva premuto sin dal suo arrivo a Istambul, e in modo particolare quando il governo turco era parso mostrare una certa arrendevolezza alle richieste. In quella occasione aveva ammonito che "tale arrendevolezza sarebbe durata quanto la paura di una nostra spedizione militare".

Rientrato in Italia subito dopo la dichiarazione di guerra, il D. venne nominato capo di gabinetto dei ministro di San Giuliano, del quale divenne uno dei principali collaboratori. Continuando a seguire nella sua nuova posizione la guerra italo-turca, si occupò dello studio di progetti e di materiali per i negoziati da intavolare con il governo turco.

Alla fine del 1912 il D. venne nominato segretario generale dei ministero degli Esteri, carica che assunse dal 1º genn. 1913. Nella sua nuova posizione ebbe una parte importante nella promozione della penetrazione finanziaria, commerciale e politica italiana nei Balcani e nell'entroterra dell'Impero ottomano. Seguì spesso, infatti, per conto del ministro, i rapporti con i promotori di quelle iniziative, da O. Joel a V. Mantegazza e a G. Volpi. In modo particolare si occupò della preparazione della conferenza internazionale che si tenne a Parigi nella primavera del 1913, per decidere delle questioni economiche sorte dopo il disastro turco nelle guerre balcaniche. Insieme alla riorganizzazione del debito pubblico ottomano, a Parigi si sarebbe discusso di concessioni e di progetti di opere pubbliche, sopratutto strutture ferroviarie e portuali di grande importanza strategica, da realizzarsi nei territori perduti dall'Impero durante la guerra.

In quei mesi il D. tenne una fitta corrispondenza con il conte G. Volpi, che incontrò anche più volte, durante le delicatissime discussioni sulla composizione della delegazione italiana alla conferenza. Era infatti sorta una divergenza tra G. Giolitti e la Consulta, essendo deciso il presidente del Consiglio a non nominare insieme come delegati due uomini legati alla stessa organizzazione finanziaria, la Banca commerciale, come Volpi appunto e B. Nogara, per i quali spingevano il San Giuliano e il De Martino. Risolto il problema con l'invio del solo Volpi con la delegazione, il D. restò in stretto contatto con il finanziere veneto nel periodo della conferenza. In particolare il Volpi tenne informato il segretario generale delle discussioni sulla costituzione, in collaborazione con l'Austria, di una nuova società per la costruzione di ferrovie nei Balcani. Il D. si occupò poi di quei negoziati, che si trascinarono però senza risultati fino all'attentato di Sarajevo, potendo così constatare l'inconciliabilità dei disegni strategici dei due paesi nell'area danubiano-balcanica.

Il 24 luglio 1914 il D. ricevette dalle mani del segretario della ambasciata austriaca a Roma L. Ambrozy conte von Seden, il testo dell'ultimaturn che il governo imperiale aveva presentato il giorno precedente alla Serbia. Dopo la dichiarazione di neutralità, egli, su incarico del San Giuliano, esaminò e discusse in una serie di memoriali l'evoluzione del conflitto e la linea di politica estera che il nostro paese avrebbe dovuto seguire tra gli Imperi centrali e l'Intesa.

Nella relazione del 4 settembre, scritta in un momento in cui era apparsa possibile una prevalenza degli Austro-Tedeschi, egli sostenne la necessità di non perdere tempo nel negoziare la neutralità con i nostri alleati della Triplice finché fosse rimasta negoziabile, perché se la guerra a fianco dell'Austria non si poteva fare, non era neanche possibile una ripetizione del congresso di Berlino. Il problema di come iniziare il negoziato per la tutela dei nostri interessi, che nell'Adriatico sarebbero stati per il D. irrimediabilmente compromessi da una vittoria dei nostri alleati alla quale avessimo assistito da semplici spettatori, poteva essere agevolato da qualche azione dimostrativa che rinforzasse la nostra posizione. Perciò il segretario generale proponeva l'occupazione dell'isolotto di Saseno, dal quale poteva essere controllata la baia di Valona. Una occupazione che al futuro congresso per la pace - egli pensava a una fine del conflitto a breve scadenza -, avrebbe potuto costituire per il D. "il punto di appoggio di una difesa dei nostri minacciati interessi adriatici".

Questa proposta venne fatta cadere il giorno successivo dal San Giuliano, che in una lettera ad A. Salandra la giudicò "inopportuna pericolosa e dannosa". Era, come ha notato B. Vigezzi, il contrasto tra una tendenza che conservava una visione più ampia della politica estera, che guardava all'Italia ed alla reale situazione europea, ed un'altra più parziale, "alimentata da impazienze e timori e dalla illusoria mira di poter imporre soluzioni unilaterali". Questa ultima tuttavia era assai diffusa nella diplomazia italiana, e può contribuire a spiegare alcuni atteggiamenti del D., come ad esempio il suo quasi improvviso passaggio, tra il settembre e l'ottobre, da un moderato triplicismo ad una posizione decisamente ostile agli Imperi centrali, che nel suo Diario F. Martini non aveva mancato di sottolineare.

Molto utili per comprendere la posizione del D. sono le osservazioni e i commenti che insieme con il presidente del Consiglio Salandra egli aggiunse ai punti del progetto di intervento al fianco dell'Intesa predisposto dal San Giuliano il 25 settembre (tali note si possono leggere nel testo del progetto riportato dal Diario del Martini in data 7 nov. 1914). Nella nota a margine del punto VII, relativo alle isole della Dalmazia, il D. insisteva sulla necessità "di non compromettere in nulla la nostra situazione con rinunzie anticipate per poter profittare di eventuali favorevoli avvenimenti". Il programma dei confini naturali era un programma minimo non sufficiente nel caso si fosse deciso di partecipare alla guerra: l'obbiettivo sarebbe dovuto allora essere la "supremazia nell'Adriatico" ed a questa prospettiva strategica si sarebbe dovuta uniformare la nostra politica.

Alla morte del San Giuliano (16 ott. 1914), il D. continuò a coprire la carica di segretario generale in piena sintonia con Salandra e, più tardi, con S. Sonnino.

Proprio il 18 ott. 194, il giorno in cui Salandra assumendo l'interim degli Esteri pronunciò, ricordando il San Giuliano, quel breve discorso dove la formula - destinata a divenire famosa - del "sacro egoismo" veniva a indicare la subordinazione ai reali interessi del paese. di ogni sentimento o pregiudizio, il D., incontrando alla Consulta il Martini, gli sintetizzò in una frase quella che sarebbe dovuta essere la nostra condotta. Indicando la cartina geografica sulla quale veniva continuamente aggiornata la posizione degli eserciti belligeranti disse che "la regola della nostra condotta deve venire di lì: l'Italia deve avere una sola politica, non trovarsi alla fine della guerra coi vinti". Un concetto questo che riapparirà come motivo fondamentale di una serie di relazioni che il D. scrisse per il nuovo ministro degli Esteri, Sonnino. Nella più importante, datata 30 nov. 1914, un'analisi della avanzata dell'esercito austro-ungarico in Serbia, egli riassunse le direttive della politica estera italiana nella formula "alla fine del conflitto europeo l'Italia non può trovarsi dalla parte del vinto".

Dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il D. venne assorbito dai problemi amministrativi ed organizzativi della Consulta. Tra le carte del segretario generale degli anni di guerra si trova infatti una vasta documentazione sui compiti e le funzioni che il conflitto richiedeva alle strutture del ministero. Egli seguì in modo particolare il delicato settore della raccolta di informazioni e il rapporto con la stampa, il controllo dei giornalisti italiani e stranieri.

Alla fine del conflitto il D. partecipò alla conferenza della pace di Parigi come segretario generale della delegazione italiana. Fece parte della commissione interalleata istituita nel maggio del 1919 per studiare il problema della applicazione dell'articolo tredici del patto di Londra e la ripartizione delle colonie tedesche. Aveva studiato con il ministro delle Colonie G. Colosimo, rimasto poi in Italia, un piano d'azione che potesse in qualche modo salvare il programma coloniale italiano elaborato durante la guerra. Ma le richieste italiane, che vennero discusse nelle quattro riunioni della commissione, non incontrarono una accoglienza favorevole per la diffidenza dei nostri alleati e per i ritardi e le incertezze della nostra azione diplomatica.

Dopo aver partecipato alla conferenza per le riparazioni di Ginevra nell'agosto del 1920, il D. resse le ambasciate di Berlino (gennaio-novembre 1920), Londra (novembre 1920-novembre 1922) e Tokio (novembre 1922-gennaio 1925). In quegli anni egli maturò una piena e convinta adesione al fascismo. Nominato ambasciatore il 1º dic. 1923, venne nel gennaio del 1925 inviato a Washington, dove sarebbe rimasto fino alla fine della carriera nel 1932.

Negli Stati Uniti egli affrontò immediatamente il problema dei debiti di guerra italiani. Seguendo le dettagliate istruzioni di Mussolini, lavorò alla preparazione dei negoziati con il governo americano per un accordo che ponesse fine a quella lunga controversia. L'accordo venne poi concluso nel novembre da una commissione presieduta dal ministro delle Finanze Volpi, della quale anch'egli fece parte. Nel suo lungo soggiorno negli Stati Uniti, si occupò ampiamente dei problemi dell'emigrazione italiana e della comunità italo-americana. Di questi temi trattò in molte relazioni a Mussolini e a D. Grandi.

Gli unici, lievi, punti di dissenso del D. dalla politica dei regime fascista appaiono sulla questione del rapporto della comunità italiana negli Stati Uniti con la madrepatria. Egli in effetti riteneva che i nostri connazionali emigrati negli USA dovessero essere incoraggiati alla integrazione nella società che li ospitava, anche spingendoli ad acquisire la cittadinanza americana. Proprio su questo punto l'ambasciatore tornò più volte con Mussolini e Grandi, ricevendo in risposta però sempre istruzioni perentorie in senso contrario.

Rientrato in patria nel 1932 e collocato a riposo, il D. - che il 22 dic. 1928 era stato nominato senatore del Regno - si dedicò alla stesura dei suoi ricordi. Questi, pubblicati sparsi in diversi articoli e brevi saggi, furono caratterizzati da una visione piuttosto deformata della vita, della storia e dei personaggi dell'Italia liberale, secondo i luoghi comuni della propaganda fascista di quegli anni. Dopo la caduta del regime il D. visse in disparte a Roma dove morì il 25 giugno 1957.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. stor. del Ministero degli Affari esteri, Arch. riservato di gabinetto, caselle 73-75 (carte del segretario generale D. relative agli anni 1914-1918); Ibid., Affari politici 1919-1930, Stati Uniti, caselle 1600 ss.; I documenti diplomatici ital., s. 4 (1908-1914), XII, Roma 1965, ad Indicem;s. 5 (1914-1918), I, ibid. 1954, ad Indicem;II, ibid. 1984, ad Indicem;B. von Bülow, Memorie, III, Verona 1931, pp. 192 s.; L. Aldovrandi Marescotti, Guerra diplomatica, Verona 1936, p. 55; F. Martini, Diario 1914-1918, Milano 1966, ad Indicem;A. Theodoli, La preparazione dell'impresa di Tripoli, in Nuova Antologia, 16 luglio 1934, pp. 239-249; M. Toscano, Il problema coloniale ital. alla conferenza della pace di Parigi del1919, inId., Pagine di storia diplomatica contemporanea, Milano 1963, pp. 223-240; B. Vigezzi, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, I, L'Italia neutrale, Milano-Napoli 1966, ad Indicem;R.A. Webster, L'imperialismo industriale italiano, Torino 1974, pp. 518, 525, 566.

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