GERMANIA

Enciclopedia del Cinema (2003)

Germania

Giovanni Spagnoletti

Cinematografia

Le origini del cinema: 1895-1918

Riscoperta dalla grande retrospettiva Prima di Caligari, presentata nell'11a edizione delle "Giornate del cinema muto" di Pordenone (1990), la produzione cinematografica tedesca delle origini appare oggi di notevole interesse. Nelle trattazioni tradizionali, invece, si tendeva a far iniziare l'età dell'oro del cinema tedesco solo nel primo dopoguerra, e a occuparsi del periodo iniziale soltanto per rintracciarvi, in una continuità problematica, i segnali della grande stagione dell'Espressionismo: quegli aspetti legati al fantastico, al morboso, al terrore, all'incubo, al doppio che comunque caratterizzano la seconda parte degli anni Dieci.

Un mese prima dei fratelli Lumière, il 1° novembre 1895 al Wintergarten di Berlino, furono i meno noti fratelli Emil e Max Skladanowsky a proiettare in pubblico le prime immagini in movimento, grazie al loro ancora tecnicamente imperfetto bioscopio, stabilendo un primato che in epoca di esasperati nazionalismi venne fin troppo esaltato; il programma di nove filmini si apriva con una scatenata Italienischer Bauerntanz.

Durante la prima diffusione del fenomeno cinematografico, in G. si assistette soprattutto allo sviluppo di solide basi manifatturiere e ingegneristiche volto ad appropriarsi delle novità tecnologiche e a trasformarle in crescita industriale, e quindi al fiorire di imprese ottiche e fotografiche. A un forte progresso tecnico si accompagnò, però, una produzione piuttosto scarsa e fino al 1910 circa ‒ per quanto è dato giudicare dal poco sopravvissuto al tempo ‒ il cinema tedesco restò una povera appendice delle fiere o del varietà, con brevi filmati rozzi e 'senza qualità', interessanti più che altro sotto l'aspetto della psicologia del profondo: nell'esibire la paura del matriarcato, la forza militare (e una continua presenza del Kaiser), questi sembrano riflettere quel misto di autoritarismo e insicurezza tipico dell'età guglielmina. In un mercato dominato dalla Francia con la Pathé Frères e la Gaumont, e soprattutto dalla Danimarca con la Nordisk Film Kompagni, questa fase primigenia fu dunque caratterizzata da prodotti anonimi che vertevano soprattutto su attualità, commedie musicali, numeri da circo, moda e scene erotiche.Tra le figure pionieristiche di primo piano, si deve innanzitutto menzionare quella di Oskar Messter, attivo a tutto campo nei vari rami della neonata cinematografia, in qualità di inventore della croce di Malta, regista, produttore e distributore: oltre ad aver creato dal 1903 dei videoclip ante litteram, i Ton-Bilder (o Biophon), brevi filmati sincronizzati (per quanto possibile) con pezzi musicali suonati da un grammofono, sarebbe stato anche tra gli inventori del cinegiornale (la Messter-Woche, preceduta di qualche mese dalla Eiko-Woche, apparve dall'ottobre 1914 regolarmente nei cinema del Reich con reportage della guerra).

In ambito più strettamente tecnico, bisogna invece ricordare le sperimentazioni di Guido Seeber: grande innovatore soprattutto per quanto riguarda riprese, illuminazione e allestimento del set ed effetti speciali (ma anche regista di brevi film d'animazione), fu incaricato, tra l'altro, della costruzione dei primi teatri di posa cinematografici a Babelsberg nel 1911 e divenne il primo cineoperatore tedesco di fama internazionale.

Nel 1907 si verificò un mutamento strutturale nell'economia cinematografica: l'introduzione del Monopolfilm, vale a dire un contratto per concedere l'esclusiva di un film a un esercente di una determinata zona, una ristrutturazione che ebbe tra le sue conseguenze il consolidamento industriale, il processo di razionalizzazione della distribuzione, ma anche l'allungamento della durata del film, l'estensione del racconto con la conseguente nascita di generi e stili precisi. Di pari passo avveniva, come nel resto dell'Europa, la trasformazione dell'ambiente fisico del cinema: dalla rappresentazione ambulante delle fiere si passava a delle strutture fisse. I malfamati ex negozi del periodo del libero mercato lasciavano il posto a teatri eleganti, pensati per rassicurare un pubblico borghese: nacque il Kinopalast, capace di ospitare anche mille spettatori. Lo spettacolo, inizialmente composto di una decina di spezzoni diversi, alternati a numeri di varietà, si trasformava gradualmente in un'unica pellicola, lunga circa 45 minuti, e caratterizzata da una maggiore attenzione alla storia, anche per cercare di superare le obiezioni moralistiche del movimento dei Kinoreformer sui pericoli del nuovo medium e garantirne la rispettabilità, senza tuttavia perdere la sua presa sul pubblico. Sulla scia di questo processo di moralizzazione, legato anche a una crisi del settore tra il 1907 e il 1911, nacque di lì a poco l'Autorenfilm, dove il termine 'autore', diversamente da oggi, si riferiva non tanto al regista quanto allo sceneggiatore, in genere un letterato (nel 1914 Kurt Pinthus pubblicò il suo celebre Kinobuch con 15 soggetti cinematografici scritti da alcuni fra i più significativi esponenti dell'avanguardia letteraria tedesca). Si trattava di un prodotto dunque che coniugava le più ardite e spettacolari innovazioni tecniche a un plot avvincente ma ricco di riferimenti letterari. I primi esempi di tale genere, il sorprendente Zweimal gelebt (1912) o il celebre Der Andere (1913), entrambi per la regia di Max Mack, segnarono un primo punto fermo nell'affermazione del linguaggio filmico in G. mentre di lì a poco un genio teatrale come Max Reinhardt, la personalità che influenzò più profondamente il cinema tedesco dell'epoca, sperimentava il nuovo medium, realizzando in Italia due film tra il serio e il faceto, tra pantomima e fantasy, Die Insel der Seligen (1913) e Eine venetianische Nacht (1914).Contemporaneamente iniziava ad affermarsi il fenomeno del divismo, rappresentato per es. dalla danese Asta Nielsen, strappata alla Nordisk da Paul Davidson, il principale produttore ed esercente degli anni Dieci. Spesso diretta dal marito Urban Gad, la Nielsen, fin da Afgrunden (1910, L'abisso) e poi in film come Der fremde Vogel (1911), Engelein (1914), Vordertreppe und Hintertreppe (1915), fu la prima attrice a creare uno stile di recitazione naturale che si differenziava notevolmente da quello istrionico-teatrale allora in voga, nonché a dare vita a un nuovo modello erotico femminile. Il suo contraltare era Henny Porten, di fattezze decisamente più teutoniche, la blonde Blinde, così definita in virtù del suo primo grande successo Das Liebesglück der Blinden (1911, produzione Messter) che, giovanissima, a partire dal 1906 aveva cominciato la sua carriera comparendo nei Ton-Bilder del padre Franz e che contendeva alla 'divina' danese la palma della migliore attrice.Il più noto esponente dell'Autorenfilm fu l'attore (e regista) Paul Wegener, che si può considerare un pioniere del cinema fantastico nonché uno dei primi teorici della specificità del mezzo: nei film da lui interpretati, Der Student von Prag (1913) di Stellan Rye e Der Golem (1915) di Henrik Galeen, il secondo dei quali lo vide partecipare anche alla sceneggiatura, si coniugano effetti speciali alla Méliès con storie che presentano aspetti letterari tipici della cultura tedesca ma non rinunciano agli elementi più amati dal grande pubblico, come appunto la fantascienza e l'orrore, aspetti che sarebbero stati ripresi e approfonditi dal cinema del periodo della Repubblica di Weimar (v. oltre). Lo stesso Wegener pochi anni dopo realizzò con Carl Boese un remake di Der Golem dal titolo Der Golem, wie er in die Welt kam (1920; Golem ‒ Come venne al mondo).

All'entrata in guerra l'industria cinematografica tedesca prosperava; l'embargo sulle pellicole straniere portò a un notevole incremento della produzione nazionale che vide l'imporsi di alcune grandi personalità. Insieme al proliferare delle case di produzione, spesso gestite dai registi di maggiore successo, si affermarono Richard Oswald, Joe May, Franz Hofer, Joseph Delmont e il giovane Ernst Lubitsch, conosciuto ancora soprattutto come attore.

Per quanto riguarda la struttura economica, si assistette al graduale fenomeno dell'assorbimento di molte piccole case di produzione, ma una vera e propria svolta si ebbe nel dicembre 1917, quando nacque l'UFA (Universum Film-Aktiengesellschaft), la più grande officina artistica europea e per molto tempo l'unica vera concorrente delle majors hollywoodiane, che avrebbe dominato il mercato sino alla fine della Seconda guerra mondiale. La sua caratteristica principale era di essere nata non tanto per far fronte alla concorrenza capitalistica come era accaduto in altri Paesi, quanto da un'operazione economico-militare voluta 'dall'alto'. L'UFA era stata creata dalla fusione della DLG (Deutsche Lichtbild-Gesellschaft), fondata nel 1916 dal presidente del consiglio d'amministrazione della Krupp, Alfred Hugenberg, e del BUFA (Bild- und Film -Amt) voluto dal generale Ludendorff, nel 1917: da entrambe le parti la necessità di una grande produzione cinematografica tedesca era vista soprattutto come uno strumento di propaganda sia civile sia militare, anzi Ludendorff la considerava un'arma decisiva in vista di un felice esito bellico. Grazie al Ministero della Guerra, a quello del Tesoro e soprattutto alla Deutsche Bank, nonostante il periodo di grave crisi, vennero acquisite società come la Nordisk e quelle di Messter e Davidson, che furono ingaggiati in qualità di consiglieri tecnici e artistici. In totale controtendenza rispetto alla sconfitta militare e alla fine dell'impero, l'UFA cominciava proprio alla fine della Prima guerra mondiale il suo vittorioso cammino, inscindibile dalla storia del cinema tedesco. Fu infatti anche grazie a essa che la G. divenne protagonista di un imponente mutamento, tale da renderla assolutamente originale nel panorama del cinema europeo, dove sarebbe rimasta per lungo tempo l'unico Paese che riuscì a evitare una posizione subalterna rispetto alle due massime cinematografie dominanti nel corso degli anni Venti, ovvero quella americana e quella sovietica.

La nascita dell'UFA e la sconfitta militare segnarono una profonda cesura nel cinema degli anni Dieci, che comunque non può essere ridotto a semplice preparazione dell'epoca d'oro weimariana. Se la serie di Homunculus (1916), per la regia di Otto Rippert, appare un compendio del satanismo neoromantico del periodo, anticipando molti temi successivamente trattati dall'Espressionismo, nello stesso tempo vi era anche chi si prendeva gioco del tutto, buttando il demonismo in parodia come Edmund Edel in Doktor Satansohn (1916), film interpretato da uno scatenato e digrignante E. Lubitsch. E il grande regista berlinese, pur nell'ambito di trame 'popolari' e di una grassa comicità proletaria, diede già prova della propria classe, per es. in Schuhpalast Pinkus (1916) o in Meyer aus Berlin (1919), dove apparve anche come protagonista. Lo stesso discorso può estendersi a due registi in seguito riscoperti: F. Hofer, decadente e fine regista di interieurs borghesi e di storie familiari (ma anche di un Sensationsfilm di alta qualità spettacolare come Die schwarze Kugel o Die geheimnisvollen Schwestern, 1913), oppure J. Delmont, in prevalenza autore, invece, di polizieschi all'americana. Senza poi dimenticare, solo per citare pochi titoli, film come Die Landstrasse (1913) di Paul von Woringen, dove la caccia a un assassino si trasforma in un'indagine fenomenologica su atmosfere e personaggi rurali; oppure la Lulu (1917) di Alexander von Antaffly, che non sfigura a paragone con la più tarda versione di Georg Wilhelm Pabst; o infine Die Teufelskirche (1919) di Hans Mierendorff, con cui, in un intreccio di sensualità, religione, sogno e delirio collettivo si raggiunge la piena maturità stilistica. Già negli anni della guerra la G. esprimeva un cinema di notevole livello.

L'epoca classica

Il periodo del muto (1919-1929). - Gli avvenimenti politici influenzarono in modo profondo lo sviluppo del cinema tedesco. Il primo, fragile esperimento non monarchico su suolo tedesco, la Repubblica di Weimar, nata dalla sollevazione dei marinai e dei Consigli degli operai e dei soldati, si può considerare un caso unico: i pochi anni che intercorsero tra i due imperi, il Reich guglielmino e quello nazista, pur se funestati da distruttive battaglie politiche tra destra e sinistra e da profonde crisi economiche (o forse proprio per questi motivi), costituirono un momento di assoluta creatività, in tutti i settori e segnatamente in quello cinematografico, dominato, all'indomani della fine del conflitto, dalla straordinaria esperienza espressionista (v. espressionismo) che dalla pittura e dalla narrativa passò a influenzare anche la settima arte.In ambito cinematografico il termine Expressionismus è stato spesso usato come una sorta di etichetta formale per raggruppare una serie di film con caratteristiche stilistiche comuni ‒ a rigore sarebbe quindi più corretto parlare di film 'a tendenza espressionista'. Il suo carattere rivoluzionario non risiedeva tanto nell'aspetto drammaturgico o contenutistico quanto piuttosto in quello visivo: a livello tematico dominava infatti la concezione dell'angoscia intesa come fallimento esistenziale, solo apparentemente simile al concetto di orrore romantico (eventualmente le influenze romantiche dell'Espressionismo, più che in Goethe, si possono ritrovare nell'inclinazione alla crudeltà di Schiller), ma le cui radici affondavano invero nelle leggende popolari mistico-religiose, come quelle del Golem, o, per es., nelle opere di E.T.A. Hoffman.

La vera innovazione espressionista è rintracciabile soprattutto nel rapporto con il profilmico, che si trasformava da analogico in dialettico: il vedere oggettivo e naturalistico veniva sostituito dalla visione interiore, ovvero da una rappresentazione soggettiva in cui le idee (o più spesso gli incubi) diventavano immagini e si allontanavano sempre di più dal linguaggio verbale. Dominavano la messa in scena teatrale, la recitazione antinaturalistica, la grafica e soprattutto la scenografia, che per la prima volta assumeva un ruolo autonomo quasi fosse un personaggio ("Le décor c'est l'acteur", avrebbe infatti osservato diversi anni dopo André Bazin). Il film simbolo di questa tendenza fu Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Dott. Calligari, noto anche come Il gabinetto del dottor Caligari) di Robert Wiene: grazie alla partecipazione di eminenti artisti del gruppo Der Sturm, alle scenografie, dipinte quasi fossero quinte, alla sceneggiatura di Carl Mayer, all'interpretazione di Werner Krauss e Conrad Veidt, al talento dello stesso regista, il film è un perfetto Gesamtkunstwerk, tanto che una parte della critica ha avanzato l'ipotesi che si tratti dell'unica vera opera puramente espressionista.

Lo straordinario successo del film, in patria, in tutta Europa e negli Stati Uniti, dovuto anche a un'efficace campagna pubblicitaria dell'UFA, portò a una grande diffusione di questi elementi nella cinematografia tedesca, tanto che si cominciò a parlare di un vero e proprio 'caligarismo', inteso come moda fatta di imitazioni non sempre riuscite, ma che ebbe anche il merito di far proseguire un dibattito teorico sul cinema.Sulla scia della 'tendenza espressionista', intesa soprattutto nel suo significato più profondo e innovativo di ricreazione soggettiva della realtà, si affermarono alcuni registi, peraltro già attivi durante il periodo bellico, che elaborarono in maniera originale questo nuovo Zeitgeist con un discreto successo di pubblico, a riprova che il fenomeno non era solo culturale ma anche in parte commerciale. Fu il caso dello scenografo e regista Paul Leni a cui si devono preziosi impulsi nell'elaborazione pittorica dell'immagine, di Lupu Pick, l'iniziatore con C. Mayer del Kammerspielfilm, di Karl Grune o dello stesso Wiene. Parallelamente si assisteva all'affermazione di quelli che furono, accanto a Lubitsch, i due maggiori autori dell'epoca, ovvero Fritz Lang e Friedrich Wilhelm Murnau: si tratta di personalità artistiche complesse, in cui la spinta espressionista è elaborata in maniera del tutto autonoma e originale, all'interno di un percorso cinematografico già iniziato negli anni della guerra.

Il viennese Lang, prima scenografo e successivamente sceneggiatore per J. May, quindi regista in un lungo sodalizio con la moglie, la scrittrice e scenarista Thea von Harbou, appare fortemente influenzato dai suoi studi di pittura e architettura: fin dai primi lavori ‒ per es. il serial spionistico Die Spinnen (I ragni), in due parti (Der goldene See, 1919, e Das Brillantenschiff, 1920) ‒ si manifestò il forte interesse per l'elemento stilistico unito a quello ritmico-narrativo calato nel cinema di genere. Fu però soltanto con le sue opere di maggiore respiro, come la saga nazionale Die Nibelungen (1924; La canzone dei Nibelunghi) in due parti (Siegfried, Kriemhilds Rache) e soprattutto la science fiction Metropolis (1927), che la sua concezione dello spazio si unì a una spettacolare monumentalità architettonica, cui fa da controaltare l'elemento plastico della massa.Attore uscito come tanti dall'inesauribile fucina di M. Reinhardt, F.W. Murnau si affermò nel 1922 con Nosferatu ‒ Eine Symphonie des Grauens, film in cui l'esplorazione del tema dell'orrore rifiuta la deformazione come elemento scenografico per calarsi in una realtà allucinata simile a un incubo, che è soprattutto la visione dell'uomo e delle sue angosce in un mondo disumano. Un tema che sarebbe stato ripreso dal Kammerspiel Der letzte Mann (1924; L'ultima risata), interpretato da Emil Jannings e considerato da molti il suo capolavoro, dramma sociale sull'esistenza del singolo, con risvolti romanticamente polemici contro la nascente società capitalista e caratterizzato da uno straordinario e dinamico uso della entfesselte Kamera di Karl Freund, una performance che si sarebbe ripetuta in un altro celebre esempio di mobilità onnivora della macchina da presa, Varieté (1925) di Ewald André Dupont.

L'Espressionismo fu solo una tendenza del cinema tedesco, certo la più famosa, ma per lo più la produzione, che stava assumendo ritmi vertiginosi anche a causa dell'inflazione (510 film nel 1920; pur sempre 242 nel 1927), era dominata da film di genere, di intrattenimento. Sull'onda della (temporanea) abolizione della censura subito dopo la caduta dell'impero e di un certo disinteresse del governo socialdemocratico per il controllo dell'industria cinematografica (nel 1921 il governo rinunciò alla partecipazione nel gruppo UFA, lasciando tutto il potere alla Deutsche Bank), nascevano i cosiddetti Aufklärungsfilme che tentarono avventurose escursioni nel mondo, fino ad allora proibito, della prostituzione, della sifilide, delle ragazze madri, dell'omosessualità, dell'alcolismo, della droga ecc. In realtà già nel 1917 era iniziato a uscire Es werde Licht! di R. Oswald sui gravi pericoli della sifilide (e sotto l'egida della Deutsche Gesellschaft zur Bekämpfung der Geschlechtskrankheiten) che, dato il successo, ebbe tre seguiti, aprendo la porta al genere. Nel fenomeno, che curiosamente anticipa la serie di Helga come anche il soft-porno degli anni Sessanta, si mischiano insieme ansie libertarie (per es. il diritto all'omosessualità rivendicato da Anders als die Andern, 1919, di R. Oswald, con Conrad Veidt), veri o presunti aspetti didattico-medici e soprattutto cupidigie e speculazioni mercantili. L'ondata degli Aufklärungsfilme, comunque, si esaurì presto, quando nel maggio 1920 venne reintrodotta la censura da parte dell'Assemblea nazionale.

Tra i generi più popolari dell'epoca si trovano i Serienfilme, film polizieschi a episodi sulla scia dei francesi Fantômas e Les vampires, già in voga prima della guerra, che ripetono lo schema dei feuilleton a puntate, oltre a produzioni di carattere esotico, con le quali venivano soddisfatti sogni ormai perduti di espansionismo coloniale e fantasie di terre lontane, o i drammi storici ispirati ai kolossal italiani come Cabiria (1914). Ne fu maestro indiscusso E. Lubitsch che, nel dopoguerra, prima del suo trasferimento a Hollywood avvenuto intorno alla metà degli anni Venti, sperimentò le potenzialità del cinema di genere e si specializzò nei Kostümfilme, dove mise a punto il suo celebre touch, esibendo una nuova spettacolarità scenografica grazie alla messa in scena e al sapiente uso delle masse, frutto dell'influenza teatrale del maestro M. Reinhardt o di Ernst Toller. Sullo stesso piano si mosse il regista J. May che ebbe il merito non solo di esplorare il feuilleton in tutte le sue potenzialità ma anche di tenere a battesimo, nella sua casa di produzione, personalità come F. Lang e P. Leni. Con le sue opere di maggiore successo, come Die Herrin der Welt (1919; La signora del mondo) in otto parti, lo storico Veritas vincit (1919), l'avventuroso Das indische Grabmal (1921; Il sepolcro indiano) scritto da Lang, o il mélo Tragödie der Liebe (1923), May reinterpretò con originalità e grande accuratezza stilistica e scenografica modelli filmici preesistenti, confermandosi soprattutto un grande artigiano. Un ulteriore contributo alla riformulazione innovativa dei generi si deve a Ludwig Berger, soprattutto con il suo film più famoso Ein Glas Wasser (1923; Un bicchier d'acqua) che, riprendendo il filone dei Märchenfilme degli anni Dieci, sviluppò un personale percorso registico che univa con grande abilità uno stile raffinato, l'indagine psicologica dei personaggi (legata al fatto che spesso le sceneggiature sono tratte da opere teatrali o letterarie) e una accurata messa in scena, frutto della sua precedente esperienza di regista teatrale.

Dopo le rivolte di strada e i putsch tentati dalle ali estreme dello schieramento politico weimariano (dalla rivolta spartachista del 1919 al Putsch di Monaco di Hitler del 1923), un anno cruciale, che segnò una svolta importante nella storia della Repubblica, fu il 1924, in cui si avviò la cosiddetta Stabilisierungszeit: il marco divenne una valuta stabile grazie alla riforma monetaria del novembre 1923 e all'intervento del piano americano Dawes. Tramite il prestito estero si incrementò potentemente lo sviluppo industriale e si assistette a un vertiginoso fenomeno di modernizzazione che non mancò di avere conseguenze anche nel cinema, dove si chiuse la fase più spericolata e sperimentale dell'Inflationskino. Allontanati i fantasmi della guerra, prevalse il sentimento della ricostruzione e del rilancio della G. come potenza internazionale: l'intrattenimento diventò uno scopo sociale, un modo per massimizzare il lavoro nella società di massa. La grande città, nella fattispecie Berlino, rappresentava lo scenario di una realtà ambigua e contraddittoria che da una parte vedeva con orrore l'ipotesi dell'uomo schiavo della macchina-moloch e del lavoro estraniante (come in Metropolis di F. Lang), e dall'altra assurgeva a simbolo dei Roaring Twenties, del divertimento sfrenato. Nell'animo di molti elettori tedeschi, tuttavia, sembrava sempre presente una generale insoddisfazione nei confronti della situazione politica che presto avrebbe portato al successo del Partito nazionalsocialista.

In questo clima modernista la seconda metà degli anni Venti fu sostanzialmente dominata dalla corrente della Neue Sachlichkeit, la Nuova oggettività (e dalla nascita del 'cinema proletario' a essa in qualche modo correlato: v. Neue Sachlichkeit) che ebbe il merito di approfondire, in nome di un impegno sociale (anche se talvolta presunto), le trasformazioni economiche e culturali della Stabilisierungszeit. Abbandonati gli incubi e i toni esasperati dell'Espressionismo, la Nuova oggettività mostrava il lato dolente dell'esistenza, ma senza attacchi politici, piuttosto in nome della disillusione e della rassegnazione, elevando il dramma del singolo a una più universale condizione umana, in un generalizzato atteggiamento di 'malinconia di sinistra', come lo definì polemicamente il grande intellettuale Walter Benjamin. Il maggior rappresentante (ma anche il meno tipico) di questa tendenza fu G.W. Pabst che andò ben al di là della rassegnazione apatica per unire ai temi sociali una notevole sperimentazione cinematografica, acquisendo uno stile inconfondibile che lo avrebbe portato in breve tempo a essere uno dei registi più ammirati (e sopravvalutati) dell'epoca. Alle atmosfere della Neue Sachlichkeit non restò estranea la ricerca del cinema d'avanguardia che mosse i suoi primi passi a partire dagli inizi degli anni Venti con le sperimentazioni dell'absoluter Film di Viking Eggeling, László Moholy-Nagy, Hans Richter e Walter Ruttmann soprattutto con il suo celebre lungometraggio Berlin. Die Sinfonie der Grossstadt (1927).

Parallelamente proseguiva il cammino della Unterhaltungsproduktion, produzione d'intrattenimento che esibiva un nuovo filone, tutto (o quasi) tedesco, quello dei Bergfilme, melodrammi o commedie ambientate sulle montagne, in cui si distinsero il lavoro di regia di Arnold Fanck e le interpretazioni di Leni Riefenstahl e Luis Trenker, entrambi destinati a diventare registi di successo sotto il regime nazista. Der Berg des Schicksals (1924), Der heilige Berg (1926; La montagna dell'amore) e soprattutto Die weisse Hölle vom Piz Palü (1929; La tragedia di Pizzo Palù) codiretto da G.W. Pabst, propongono senza grandi variazioni un intreccio tra il romanzesco e l'avventuroso ma contengono straordinarie immagini naturalistiche (assoluta novità per un cinema in cui quasi tutto veniva girato in studio e che aveva una spiccata tendenza per l'ambientazione in interni), inserite in un più ampio discorso di riflessione sull'uomo e la natura.

Un cenno allora al documentario, che in G. prese prevalentemente la forma del Kulturfilm, una denominazione che tendeva a 'nobilitarlo' e che venne introdotta alla fine della Grande guerra, quando si riconobbe al cinema la sua importanza a fini scientifici. Pionieri di questo documentarismo didattico-scientifico furono Ulrich K.T. Schulz e Hans Cürlis con il cui aiuto, tra l'altro, Lotte Reiniger iniziò il suo cinema d'animazione di silhouette, culminato nel lungometraggio Die Geschichte des Prinzen Achmed (1926; Achmed, il principe fantastico). Dopo il successo di Wege zu Kraft und Schönheit (1925; Forza e bellezza) di Wilhelm Prager e Nicholas Kaufmann, con le sue 'ardite' scene di nudo, l'UFA si specializzò nei Kulturfilme che "grazie alla precisione scientifica e all'ottima fotografia […] divennero una specialità tedesca molto richiesta sul mercato internazionale" (S. Kracauer, trad. it. 2001, p. 197). Tuttavia, salvo casi molto rari, il genere soffriva di un'eccessiva specializzazione dei temi trattati, rovescio della medaglia di quella "incredibile indifferenza per i problemi umani" stigmatizzata da Kracauer. Solo agli inizi degli anni Sessanta il documentarismo tedesco, sia a Est sia a Ovest, avrebbe trovato nuove e più innovative strade.

Già in cattive acque economiche ‒ una situazione che il trattato con gli americani della Paramount e della Metro Goldwyn Mayer (il Parufamet-Vertrag, del dicembre 1925) non riuscì a sanare ‒ l'UFA licenziò il suo più geniale produttore, Erich Pommer, colpevole del disastro economico di Metropolis. Sempre più indebitata, nel marzo 1927 fu acquisita dall'industriale ultraconservatore Alfred Hugenberg, che salvò la casa di produzione dal fallimento ma impresse anche un deciso cambio a livello organizzativo: l'ascesa della figura del direttore di produzione, con il compito di calcolare in modo esatto i costi minimizzando i rischi, tolse potere al regista, che fino ad allora aveva avuto un notevole controllo della sua opera. A farne le spese fu per es. F. Lang, che dopo Frau im Mond (1929; Una donna nella Luna) sarebbe passato, fino alla sua forzata emigrazione nel 1933, alla produzione 'indipendente'.

Dal sonoro a Hitler: 1929-1933. - Conclusa la grande battaglia per le patenti del sonoro che, con la Conferenza di Parigi del giugno 1930, aveva assicurato alla G. tramite il consorzio Tobis-Klangfilm un ruolo di primo piano sul mercato mondiale, si veniva a realizzare nel giro di pochi anni lo storico passaggio. L'epocale ristrutturazione, che aveva visto i tedeschi tra i pionieri del sonoro ottico con il sistema Tri-Ergon (al 1922 risale il primo tentativo pubblico), era produttiva ed estetica insieme: se sopravviveva l'ipotesi di realizzare opere che fossero allo stesso tempo commerciali e di prestigio, tramontava comunque e in maniera definitiva l'idea del cinema come arte elitaria (essendo i costi di produzione diventati troppo alti e tendendo il film ancor di più a livellarsi industrialmente). Proliferavano allora i film di genere, tra cui il musical o meglio la Tonfilm-Operette, che, grazie all'avvento del suono, rappresentavano la grande novità del periodo. Dopo Melodie des Herzens (1929) di Hanns Schwarz, il primo film prodotto dall'UFA tutto parlato, prese corpo il genere che, invece di riallacciarsi al musical moderno, si indirizzò piuttosto verso l'operetta viennese: un titolo per tutti, Der Kongress tanzt (1931; Il Congresso si diverte) di Eric Charell. In Liebeswalzer (1930; Valzer d'amore) di Wilhelm Thiele comparve per la prima volta la più celebre coppia della Tonfilm-Operette, Lilian Harvey e Willy Fritsch, mentre con Die drei von der Tankstelle (1930; La sirenetta dell'autostrada), sempre diretto da Thiele, si passò alla parodia, in un processo di modernizzazione del genere: lo scenario non prevede più reami da favola, palazzi e uniformi, ma la realtà quotidiana, ivi compresa, come si vedrà in altri casi, la grave crisi economica e la disoccupazione dovuta alla recessione mondiale del 1929.

Un'altra scoperta del sonoro fu il film patriottico, di cui sono validi esempi Die letzte Kompagnie (1930; L'ultima compagnia), film di Curtis Bernhardt di ambientazione prussiana, Der Rebell (1932), opera di Bernhardt e L. Trenker sulla lotta di indipendenza dei tirolesi contro Napoleone, o il dramma sottomarino Morgenrot (1933; L'inferno dei mari) di Gustav Ucicky: ancora lontani dall'essere puri film di propaganda per il riarmo, essi lanciano dei messaggi ambivalenti, in quanto la guerra viene vista come un destino indiscutibile mentre il sentimento nazionalista convive con toni malinconici e una velata pulsione di morte.

L'UFA, tuttavia, grazie anche al rientro di E. Pommer da un proficuo esilio negli Stati Uniti, non restò confinata nella sicurezza commerciale di formule già sperimentate: uno degli esempi della sua elasticità politica fu infatti Der blaue Engel (L'angelo azzurro) di Josef von Sternberg, il maggiore successo del 1930, tratto audacemente dal romanzo di uno scrittore di sinistra come H. Mann, che lanciò nel cielo dello star system l'allora quasi sconosciuta Marlene Dietrich.

La produzione più anticonformista ma nello stesso tempo più interessante e originale sopravvisse con il sostegno di case cinematografiche indipendenti come la Nero-Film di ispirazione democratico-borghese, la comunista Prometheus o altre imprese di Monaco. All'interno di queste nicchie si venne affermando una nouvelle vague di giovani artisti, il cui primo straordinario esempio fu Menschen am Sonntag (1930), per la regia di Robert Siodmak, frutto del collettivo Filmstudio 1929, di cui faceva parte un gruppo di sconosciuti esordienti poi affermatisi a Hollywood, tra cui Billy Wilder, Fred Zinnemann ed Edgar G. Ulmer. Siodmak in seguito avrebbe confermato il suo grande talento e la sua capacità di utilizzare il sonoro in maniera originale con Abschied (1930) o Voruntersuchung (1931; Istruttoria). Nel frattempo si affermava anche il giovane Max Ophuls, che prima del suo grande successo Liebelei (1933; Amanti folli), film permeato da una magica atmosfera di leggerezza schnitzleriana, con Die verkaufte Braut (1932; La sposa venduta) aveva rinnovato con grande originalità la formula della Tonfilm-Operette.

Sul piano di una forte attenzione politica, sia per forma sia per contenuto, si posero le opere di Piel Jutzi o di Carl Junghans (v. Neue Sachlichkeit) che affrontano temi legati alle ingiustizie della società capitalistica come disoccupazione, suicidio, prostituzione. E non mancarono, in un'ultima grande esplosione artistica, alcuni capolavori dei grandi registi dell'epoca: è il caso di Lang, che con M (1931) e Das Testament des Dr. Mabuse (1933) sviluppa un percorso in cui si fa più forte l'aspetto ideologico, anche se è eccessivo rintracciarvi segnali o premonizioni dell'orrore delle vicende storiche posteriori. Anche Pabst approfondì tematiche più specificamente sociali, con Westfront 1918, Vier von der Infanterie (1930; Westfront) o Kameradschaft (1931; La tragedia della miniera), che però gli valsero da parte della critica più politicizzata l'accusa di un troppo generico umanitarismo. Il delizioso Emil und die Detektive (1931; La terribile armata, sceneggiato da B. Wilder dal romanzo di E. Kästner) di Gerhard Lamprecht e il film protofemminista di Leontine Sagan Mädchen in Uniform, (1931; Ragazze in uniforme, supervisione di Carl Froelich) furono gli ultimi grandi esempi di un cinema tedesco libero e creativo.

Il periodo nazionalsocialista: 1933-1945

Fritz Lang, Max Ophuls, Georg Wilhelm Pabst, Robert Siodmak, Billy Wilder, Edgar G. Ulmer, Wilhelm Thiele, Ludwig Berger, Paul Czinner, Ewald André Dupont, Joe May, Douglas Sirk (registi); Elisabeth Bergner, Brigitte Helm, Marlene Dietrich, Peter Lorre, Asta Nielsen, Conrad Veidt, Fritz Kortner, Curt Bois (attori); Karl Freund, Eugen Schüfftan, Rudolph Maté, Franz Planner (direttori della fotografia); Erich Pommer (produttore); Werner Richard Heymann, Frederick Hollander, Bronislav Kaper, Erich Korngold, Miklos Rozsa, Max Steiner (musicisti). Sono questi i principali nomi dei circa 1532 Filmemigranten obbligati a lasciare nel corso degli anni Trenta la G. (o l'Austria) per motivi politici e/o razziali; con questa emigrazione il cinema tedesco venne privato delle sue migliori forze creative. Con la presa del potere nel gennaio del 1933, si assistette, infatti, a un rapido processo di conquista di tutti i settori dello Stato da parte del regime nazista. Tra questi il primo fu il cinema, destinato a svolgere un ruolo nevralgico: già nel Mein Kampf, il Führer ne aveva sottolineato l'insostituibile funzione educativa del popolo, ma ciò si rivelò fondamentale soprattutto per la seconda fase della politica nazionalsocialista, quella della cosiddetta Gleichschaltung, ovvero il processo di livellamento delle istituzioni della G. allo spirito e ai fini del nazismo. Con la creazione del Ministero per la cultura e la propaganda, sotto la direzione di Joseph Goebbels, si assistette (oltre all'esodo volontario dal Paese) all'epurazione dell'ambiente cinematografico, quindi alla fondazione di una Reichsfilmkammer, corporazione pubblico-giuridica, l'iscrizione alla quale garantiva la possibilità di esercitare la professione in ambito culturale e quindi richiedeva l'implicita adesione all'ideologia nazionalsocialista. Fu esercitata una fortissima e capillare azione di censura, soprattutto a livello preventivo, e accanto a questa venne introdotta la Prädikatisierung, sorta di classificazione statuale che premiava, anche mediante agevolazioni fiscali, le opere il cui contenuto fosse più esplicitamente legato ai dettami ufficiali del regime. Anche la funzione di una libera critica cinematografica venne accantonata a favore dell'idea del semplice "racconto del fenomeno artistico" o della "critica costruttiva" (cioè addomesticata).

Sull'utilizzo del cinema come strumento di propaganda esistono contemporanee dichiarazioni di Hitler e di Goebbels piuttosto contraddittorie: mentre il dittatore affermava la necessità di separare i concetti di arte e politica nel film, il ministro si schierava (come Luigi Freddi nell'Italia fascista) a favore di un'idea di propaganda che operasse in maniera impercettibile, penetrando nella vita quotidiana. Prevalse quest'ultima tesi, tanto che le opere in cui contenuto, trama e personaggi erano contrassegnati come nazionalsocialisti, contavano una percentuale davvero esigua (meno del 15% sui 1110 film prodotti durante il 'dodicennio nero').

In generale l'idea dell'arte nel Terzo Reich rimase legata a un naturalismo tra lo stilizzato e l'illustrativo, che esprime una realtà consolidata o meglio semplificata (il Führer amava ripetere: "tedeschi vuol dire essere chiari"), dove la presenza dello Stato è insita nei rapporti sociali e culturali. In ambito cinematografico questa tendenza si manifestava attraverso il Tendenzfilm, ovvero l'applicazione, nei più popolari e collaudati film di genere, di una semplificazione estrema del tessuto narrativo. È la cosiddetta Schwarzweissdramaturgie, un esasperato manicheismo che contrappone l'eroe tedesco, militare o civile, al nemico del popolo, con l'immancabile vittoria del primo sul secondo. I personaggi sono individui comuni, assolutamente stereotipati nei loro ruoli e privi di qualsiasi approfondimento psicologico, le cui avventure si concludono con l'immancabile happy end, che può contemplare anche la morte del protagonista, purché trionfino i valori dottrinari. Lo sfondo di queste vicende è spesso una G. idilliaca, rurale e comunitaria, una sorta di età dell'oro che rimuove il primo trentennio del 20° sec. e le sue degenerazioni 'moderniste', per tornare ai fasti dell'epoca guglielmina.La prima esperienza cinematografica del neonato regime fu una trilogia di film dedicati alle SA (Sturmabteilungen, l'organizzazione paramilitare del partito nazionalsocialista, i cui componenti sarebbero stati quasi del tutto sterminati nella Notte dei lunghi coltelli, nel giugno 1934) e rappresentò quasi l'unico tentativo di propaganda diretta, dal quale lo stesso Goebbels prese rapidamente le distanze, anche per l'insuccesso commerciale che ne seguì. Si tratta di Hitlerjunge Quex ‒ Ein Film vom Opfergeist der deutschen Jugend diretto da Hans Steinhoff, SA-Mann Brandt di Franz Seitz e Hans Westmar di Franz Wenzler, tutti del 1933. Nonostante la comune tematica di esaltazione del martirio in nome degli ideali di partito e lo schematico manicheismo, il primo film della trilogia si distingue se non altro per qualità stilistica, in quanto Steinhoff appare ancora debitore del 'cinema proletario', a partire dalla figura di Heinrich George nella parte del padre comunista.Scomparso, ma solo in apparenza, dallo Spielfilm, il presente nazionalsocialista imperava, invece, nella Wochenschau, il cinegiornale, anch'esso oggetto di un'accurata attenzione manipolatoria, oppure sotto forma di documentario, il cui apice è costituito da Triumph des Willens (1935; Il trionfo della volontà) di L. Riefenstahl sul congresso di Norimberga del 1934. Dietro l'aspetto documentaristico la Riefenstahl riuscì a cogliere negli spettacolari movimenti di massa e nelle grandiose coreografie di Albert Speer il più genuino spirito nazionalsocialista e nello stesso tempo a elaborare a un livello superiore la liturgia del raduno nazista e il sentimento di partecipazione dello spettatore. Le opere della regista (tra cui Olympia, 1938, sui giochi olimpici di Berlino del 1936) rappresentano comunque un'eccezione, dovuta al suo talento e alla sua capacità di trovare nuove soluzioni cinematografiche: il resto della produzione documentaristica, come Feldzug in Polen (1940; Si avanza all'Est) di Fritz Hippler, non superò il semplice film di montaggio a scopi propagandistici.Dopo il deludente esperimento 'politico' della trilogia sulle SA, il cinema del Terzo Reich tornò su strade già collaudate, garanzia di sicuro successo commerciale. Questo non gli impedì, tuttavia, soprattutto all'inizio, di mantenere uno standard qualitativo buono, pur privato com'era delle sue forze migliori, che erano fuggite all'estero. Lo dimostrano le irriverenti commedie di Reinhold Schünzel (emigrato nel 1937), come Viktor und Viktoria (1933; Vittorio e Vittoria, da cui il moderno remake di Blake Edwards Victor/Victoria, 1982) o Amphitryon ‒ Aus den Wolken kommt das Glück (1935; Anfitrione), ancora ricche di spirito weimariano, oppure i fascinosi melodrammi di D. Sirk (anch'egli emigrato nel 1937), o ancora le rade puntate nel cinema di 'Mefisto' Gustaf Gründgens, autore di fini adattamenti letterari (Der Schritt vom Wege, 1939, Il romanzo di una donna, da Effie Briest di Th. Fontane) o di leggiadre commedie (Die Finanzen des Grossherzogs, 1934, remake del film di Murnau; Capriolen, 1937). Tra l'Austria e la Germania l'ex regista 'proletario' Werner Hochbaum cercò di sottrarsi, talvolta con successo (Vorstadtvarieté, 1935; Die ewige Maske, 1935, La maschera eterna ecc.), al plumbeo controllo nazista, fin quando nel 1939 fu escluso dalla Reichfilmkammer. Ma a parte queste eccezioni 'autoriali', si assistette per lo più allo sviluppo di film di genere, soprattutto storici, oppure di trascrizioni letterarie. I primi, che avevano il vantaggio di legittimare lo sforzo bellico del nazismo, prediligevano il ciclo prussiano e la figura di Federico il Grande, inteso come ideale antesignano di Hitler (Der alte und der junge König, 1935, I due re, diretto da H. Steinhoff o Fridericus, 1936, di Johannes Mayer), e rispondevano in pieno ai dettami naturalistici del regime per il loro accademismo ottocentesco, così come le biografie dei grandi del passato: Bismarck (1940; Bismarck, il cancelliere di ferro) di Wolfgang Liebeneiner, Friedrich Schiller ‒ Triumph eines Genies (1940; I masnadieri) di Herbert Maisch o l'assai più riuscito Paracelsus (1943) di G.W. Pabst, che era inopinatamente rientrato in G. dopo aver passato anni di esilio in Francia. Parallelamente si sviluppavano i film di guerra che tendevano a glorificare le imprese dei soldati tedeschi durante la Grande guerra, il cui eroismo veniva contrapposto all'immagine degenerata della Repubblica di Weimar: specialista del genere si confermò il mediocre Karl Ritter (per es., in Pour le Mérite, 1938), che insieme a Steinhoff e soprattutto a Veit Harlan, può essere considerato tra i cineasti più rappresentativi dell'epoca, sia per il talento tecnico, sia per il forte legame con il regime.

Mentre Steinhoff sembra a suo agio soprattutto con la produzione storico-letteraria in costume, V. Harlan, con i suoi affascinanti melodrammi familiari, rappresenta il più fine interprete dei dettami artistici della cultura Blut und Boden. Film come Der Herrscher (1937; Ingratitudine), Das unsterbliche Herz (1939; L'accusato di Norimberga), Die Reise nach Tilsit (1939; Verso l'amore), Die goldene Stadt (1942; La città d'oro), Immensee (1943; Il perduto amore), Opfergang (1944; La prigioniera del destino), spesso interpretati dall'attrice svedese (e moglie di Harlan) Kristina Söderbaum, inseguono, in una sintesi (quasi) perfetta ma minata da una sotterranea pulsione di morte, l'utopia della conciliazione, dove, all'interno della storica contrapposizione tra Kultur e Zivilisation cara alla cultura conservatrice di inizio secolo, l'uomo riesce a recuperare il suo rapporto mitico con la natura. Sulla stessa linea, ma all'interno del Bergfilm, si possono collocare le opere migliori del regista altoatesino L. Trenker, sempre in bilico tra la G. di Goebbels e l'Italia di Mussolini: già collaboratore di A. Fanck, di cui porta avanti la grande lezione tecnica e spettacolare, con Der verlorene Sohn (1934; Il figliuol prodigo) e Der Kaiser von Kalifornien (L'imperatore della California, Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1936) stigmatizzò la corruzione e la decadenza della civiltà capitalistica, indicando la natura (e in particolare le sue montagne d'origine) come luogo del recupero delle radici e dei valori della tradizione.

La maggior parte dei film prodotti nei dodici anni di regime risulta però di più difficile classificazione, legata com'è alla Unterhaltungsproduktion, un settore soggetto ancora a molti interrogativi da parte della critica e influenzato dai modelli di Hollywood, che il ministro Goebbels considerava il suo massimo ideale. Qui l'intento politico non è facilmente rintracciabile, se non a livello occulto o nei mezzi, piuttosto che nel contesto o nei fini ("Anche mantenere il nostro popolo di buon umore può essere decisivo per le sorti della guerra", avrebbe affermato Goebbels nel 1942). Del resto, molti dei registi rimasti a lavorare in G. dopo il 1933 hanno spesso usato come giustificazione il fatto di aver collaborato a film 'innocui'. Si tratta comunque di prodotti che avevano un vasto impatto sulla vita quotidiana e che, grazie al fenomeno del divismo (con nuove star come, per es., Zarah Leander, Kristina Söderbaum, Brigitte Horney o come Willy Birgel, Hans Albers, Mathias Wieman ecc.) sviluppavano un grande potenziale mitico. Va registrata, tuttavia, in questo panorama, l'eccezione rappresentata da Helmut Käutner che, senza assumere il carattere di aperta protesta, realizzò, in una guerriglia estetica contro il regime, Romanze in Moll (1943; La collana di perle), Grosse Freiheit Nr. 7 (1944) o Unter den Brücken (1946, ma girato nell'estate del 1944), dove, calandosi nel quotidiano con uno stile intimista, disegna, con estrema accuratezza formale, straordinari ritratti di personaggi antieroici.

Allo scoppio della guerra nel 1939 si assistette a un'accelerazione delle tendenze già evidenziate, mentre la produzione, ridimensionatasi a 50-70 film e ormai quasi completamente accentrata nell'UFA, seguiva l'imperativo categorico di diffondere l'ottimismo e il divertimento come ben sarebbe riuscita a fare, in Agfacolor e in occasione del venticinquesimo anniversario della Major tedesca, con Münchhausen (1943; Il barone di Münchhausen) di Josef von Baky, interpretato da Hans Albers e scritto sotto pseudonimo dallo scrittore dissidente E. Kästner. Si moltiplicavano comunque i film d'argomento bellico con lo scopo di infiammare l'animo della popolazione, talvolta espressamente pensati per il pubblico femminile che rappresentava la maggioranza degli spettatori, come nel caso dei mélo Wunschkonzert (1940; Concerto a richiesta) di Eduard von Borsody o Die grosse Liebe (1942; Un grande amore) di Rolf Hansen, con la diva del Reich Zarah Leander. Accanto a questi prodotti prosperava il genere dei cosiddetti Anti-filme, che non erano esclusivo appannaggio della sola G. ma che in questo caso portavano un preciso e gerarchico messaggio razzista contro i suoi nemici: se infatti i film antibritannici o antifrancesi erano legati sostanzialmente a fattori politici, i film antisovietici (a partire dall'invasione dell'Urss nel giugno del 1941) comportavano un misto di avversione ideologica e razziale. Ma l'avversario infimo e ritenuto tuttavia il più pericoloso era comunque il giudaismo, rappresentato alla stregua di una peste che si diffonde in maniera subdola per il mondo, contro il quale il regime si scaglia con film, tutti del 1940, come Die Rothschilds, Aktien auf Waterloo (I Rothschild) di Erich Waschneck, il perfido Jud Süss (Süss l'ebreo) di V. Harlan, per non parlare dello pseudo-documentario di F. Hippler Der ewige Jude, la più infame opera antisemita della storia del cinema.

Il delirio di onnipotenza del nazismo si chiuse con un film emblematico, Kolberg (1945) di Harlan, che esalta la resistenza di una cittadina della Pomerania contro le armate napoleoniche. L'ultimo, megalomane kolossal di regime vide un cast stellare e migliaia di comparse costituite da soldati richiamati appositamente dal fronte. La 'prima' si tenne il 30 gennaio 1945 a La Rochelle, circondata dagli Alleati, dove una copia fu paracadutata. Ma il crepuscolo dei (falsi) dei era alle porte. Il giorno della capitolazione, il 7 maggio 1945, vide la G. in pezzi: il 40% delle abitazioni era distrutto o danneggiato, la capacità industriale addirittura più che dimezzata rispetto ai livelli del 1936, tutto il territorio del 'Reich millenario' e Berlino erano occupati dalle truppe alleate e divisi in quattro 'zone d'influenza' (americana, inglese, francese, sovietica).

L''ora zero': 1945-1949

Pur contraddistinto da crescenti tensioni politiche culminate nella nascita di due repubbliche contrapposte, il periodo 1945-1949 va considerato in modo unitario perché non si riscontrano delle vere differenze tra i film prodotti nelle quattro zone d'occupazione, e perché continuava a esistere una certa circolazione di opere e di registi tra Est e Ovest. In particolare, nella Sowjetische Besazungszone (SBZ) già il 17 novembre 1945 fu convocato un 'attivo cinematografico', cui parteciparono quaranta addetti ai lavori, tra i quali i registi Kurt Maetzig, Peter Pewas e Wolfgang Staudte, con il compito di riavviare l'attività cinematografica. Nella SBZ dove erano rimasti circa l'80% degli studi cinematografici e i maggiori stabilimenti di sviluppo e stampa, la spinta alla ripresa giunse il 17 maggio 1946 con la fondazione della Deutsche Film-Aktiengesellschaft (DEFA), sotto forma di società per azioni a partecipazione sovietica. Avendo ereditato la gran parte degli impianti dell'UFA a Babelsberg, la DEFA divenne per un certo periodo la maggiore società cinematografica tedesca anche perché fino al fatidico 1949 seguì una politica 'liberale' e di mercato, offrendo lavoro anche a numerosi registi non residenti nella SBZ.Viceversa più difficile fu la ripresa nelle tre zone occidentali dove quasi mancavano le infrastrutture, salvo che ad Amburgo e a Monaco. A differenza dell'Est, dove si perpetuava un sistema centralistico di produzione in continuità strutturale con quello nazista, a Ovest venne introdotto il principio della frammentazione produttiva e della concorrenza. Questo sistema, con una pluralità di piccole ditte povere di capitali, avrebbe portato, invece, a una quasi automatica dittatura del mercato e a un'invasiva dipendenza dalle distribuzioni. In una situazione caratterizzata da un esercizio distrutto dalla guerra e da una completa invasione dei prodotti stranieri, nel corso del 1946 videro la luce le prime due opere della nuova G.: Die Mörder sind unter uns (Gli assassini sono tra noi) di W. Staudte e Sag᾽ die Wahrheit di Helmut Weiss. Mentre quest'ultima è un'insignificante commedia, il film di Staudte è invece degno di massimo interesse dato che costituisce sia dal punto di vista contenutistico (lo shock e il dramma di un rientro in una Berlino spettrale), sia sul piano stilistico (l'accorto uso di un'illuminazione fortemente contrastata e di ambienti dal vero), il modello della breve stagione dei Trümmerfilme. Rispetto a questo promettente inizio, per altro coronato da un notevole successo di pubblico (sei milioni di spettatori), lo sviluppo successivo tenne fede solo in parte all'istanza di rinnovamento 'realistico'. Oltre che per l'opera di Staudte, la DEFA si contraddistinse per alcune delle migliori produzioni dell'epoca: da Ehe im Schatten (1947) di K. Maetzig ad Affaire Blum (1948) di Erich Engel, da Strassenbekanntschaft (1948) di P. Pewas a Rotation (1949), sempre di Staudte. Anche nelle zone occidentali, sulla stessa lunghezza d'onda, vennero realizzati In jenen Tagen (1947) di H. Käutner, Film ohne Titel (1948) di Rudolf Jugert, Berliner Ballade (1948; Ballata berlinese) di Robert A. Stemmle oppure Morituri (1948) di Eugen York. In generale i Trümmerfilme vertono su casi privati e hanno al centro le figure di 'piccoli uomini', colpevoli di aver osservato passivamente lo svolgersi degli eventi; spesso la prospettiva narrativa è 'oggettivata', come per es. nel caso dell'automobile che attraversa dieci anni di tragica storia tedesca e sette padroni, nel film In jenen Tagen, mentre di frequente si ricorre alla 'voce-off' che commenta gli avvenimenti. Ma va anche aggiunto che, il più delle volte, l'ambientazione tra le macerie della guerra sembra una pura decorazione, opera di sapienti scenografi. Stilisticamente, numerosi Trümmerfilme si rifanno a quella che per comodità definiamo la tradizione 'espressionista': forti contrasti di luce e ombra, tendenza alla simbolizzazione, riproposizione di un'umanità sofferente ma indifferenziata. Oppure si dà, come per es. in Berliner Ballade o in Der Apfel ist ab (1948) di Käutner, una forma marcatamente cabarettistica per esprimere umori ironico-satirici, un espediente poi successivamente molto usato. W. Liebeneiner in Liebe 47 (1949, liberamente tratto dal forte dramma neoespressionista di W. Borchert Draussen vor der Tür, 1946) si avvale infine di sequenze 'surrealiste', ma piega la protesta disperata della pièce alla morale conciliatoria dell'happy end.

Se il Trümmerfilm costituì il genere prevalente del biennio 1946-1948 (tra i circa quaranta film realizzati, solo cinque sono opere di intrattenimento), esso soffrì del confronto con il Neorealismo italiano, a cui si volle imparentare nella volontà di riscatto morale e nella ricerca di nuove vie stilistiche (ma se mai esiste un Trümmerfilm perfetto, esso fu realizzato da Roberto Rossellini con lo splendido Germania anno zero, 1948, una coproduzione italo-tedesco-francese). Fu dunque un periodo connotato da un caotico mescolarsi di vecchio e nuovo non privo di interesse. Con la successiva scissione della G. tramontò, però, questo pallido inizio di rinnovamento e la cinematografia tedesca venne trascinata in una fatale forbice: "mentre ad oriente si propagava la monotonia propagandistica, ad occidente il cinema si adeguò alla dominante ideologica della società dei consumi" (U. Gregor, E. Patalas 1973, p. 282).

La Bundesrepublik Deutschland (BRD)

Il cinema di un lungo dopoguerra: 1949-1962. - È quasi sorprendente constatare con quale velocità, a partire dalla riforma monetaria del 1948, si realizzò il miracolo economico, si ricostruirono le città distrutte e si integrarono gli otto milioni di profughi dai territori orientali. Ma con altrettanta velocità il cinema della BRD avrebbe cancellato quel poco di nuovo espresso nel Trümmerfilm, le cui problematiche emigrano, annacquate, nel genere del Problemfilm, spesso ricorrendo al cabaret, l'unica forma deputata alla critica o alla sperimentazione. Un esempio per tutti: Das Mädchen Rosemarie (1958; La ragazza Rosemarie) di Rolf Thiele, un'efficace ma reticente radiografia del delitto della call girl Rosemarie Nitribitt, uno dei massimi scandali politici della BRD. Siamo nei 'tristi' anni dell'era Adenauer, un'epoca di benessere beota e di profonda ignavia morale che Rainer Werner Fassbinder avrebbe fotografato con grande efficacia vent'anni dopo. Nel contesto del boom economico la produzione, ferma nel 1949 a 59 titoli, si sarebbe duplicata in breve tempo, per raggiungere la cifra record di 128 film nel 1955, per poi calare lentamente a 94 unità alla fine del decennio. Anche se erano anni di abbondanza per l'industria tedesca, la cui quota di mercato non sarebbe mai scesa sotto il 47%, la produzione continuava comunque a soffrire la segmentazione, malgrado le riprivatizzazioni degli stabilimenti dell'UFA restati nella G. occidentale, i successi di cassetta e gli interventi governativi a sostegno. Era dunque una profonda insicurezza che la spingeva, non solo dal punto di vista ideologico, a sposare un atteggiamento conservatore, a basarsi su prodotti 'sicuri' e ultracollaudati (da ciò la ferrea codificazione in generi popolari e il continuo ricorso a remake dei successi del passato). In più si trattava di un cinema 'troppo ordinato', fatto, quasi senza ricambio generazionale, dai cineasti degli anni Trenta, molti dei quali compromessi con il regime nazista. Ne risultò allora la stanca codificazione, nei contenuti e nelle forme, di una cinematografia vecchia di almeno vent'anni. Essa prediligeva i generi popolari come melodrammi, film di medici, di guerra, commedie, e soprattutto gli Heimatfilme, il fenomeno più tipico e provinciale dell'epoca, che variava all'infinito storielle strapaesane di agnizioni familiari, di bracconieri o pastorelle, ambientate in zone alpine o rurali.

A un'atmosfera di 'vacanza dalla storia' si reagiva nel Problemfilm con radi tentativi di raccontare il dramma della Seconda guerra mondiale secondo una linea molto amata dal cinema tedesco, quella della 'personalizzazione' biografica: così Canaris (1954) di Alfred Weidemann, Der 20. Juli (1955; Operazione Walkiria) di Falk Harnack, ed Es geschah am 20. Juli (1955; Accadde il 20 luglio) di G.W. Pabst ‒ gli ultimi due sul fallito attentato di Claus von Stauffenberg a Hitler ‒ così Der letzte Akt (1955; L'ultimo atto) sempre di Pabst, o ancora Des Teufels General (1955; Il generale del diavolo) di H. Käutner, il più efficace esempio di una 'tradizione di qualità' ormai giunta al capolinea.I pregi (pochi) e i (molti) difetti del cinema d'autore dell'era Adenauer risaltano anche nelle singole carriere dei registi più rappresentativi dell'epoca: H. Käutner, W. Staudte e Kurt Hoffmann. L'indubbio talento del primo si sviluppò nel dopoguerra in una poliedrica ma discontinua carriera, verso un umanitarismo astratto e un po' lezioso, particolarmente evidente quando il regista si confronta con tematiche politiche. A Staudte, dopo una serie di opere ragguardevoli realizzate nella DDR (Deutsche Demokratische Republik), non giovò il passaggio, nel 1956, in Occidente. Costretto a barcamenarsi tra esigenze commerciali e impegno civile, il 'regista delle due Germanie', riprendendo ancora una volta il tema dell'opportunismo dei propri connazionali, sarebbe riuscito comunque a realizzare due film degni di nota: Rosen für den Staatsanwalt (1959) e Kirmes (1960; Storia di un disertore). K. Hoffmann, invece, a partire dal film Fanfaren der Liebe (1951, poi rifatto da B. Wilder nel 1959 nell'immortale Some like it hot), andò affinando una commedia caratterizzata da elementi di musical e da spunti critici, in opere come Ich denke oft an Piroschka (1955) che lanciò l'attrice Lilo Pulver (insieme in dieci film), Das Wirtshaus im Spessart (1958) e la cabarettistica satira del miracolo economico Wir Wunderkinder (1958; Finalmente l'alba).Un capitolo a parte è, infine, costituito dal ritorno dall'emigrazione di tutta una serie di importanti attori e registi già attivi nel cinema tedesco prima dell'avvento di Hitler. La più bella e violenta resa di conti con il diffuso senso di disagio di chi rientrava in patria dopo il 'dodicennio nero' la realizzò, riprendendo i moduli espressionistici, l'attore Peter Lorre con l'unica sua prova dietro la macchina da presa, Der Verlorene (1951), efficace parabola di un assassino psicopatico da lui stesso interpretato, che alla fine troverà la forza di fare giustizia. Tra le opere realizzate dopo il suo ritorno, R. Siodmak fu orgoglioso solo di Die Ratten (1955; I topi, dal dramma di G. Hauptmann) e Nachts, wenn der Teufel kam (1957; Ordine segreto del III Reich), forse il più forte dei Problemfilme dell'epoca, un giallo a sfondo politico, dove si torna a gustare il magico tocco del maestro del noir. F. Lang, invece, girò per il CCC-Film di Arthur Brauner tre interessanti ma poco apprezzati film di genere con cui tornava alle fonti del suo cinema: il dittico formato da Der Tiger von Eschnapur (1959; La tigre di Eschnapur) e da Das indische Grabmal (1959; Il sepolcro indiano, remake dell'opera di J. May da lui sceneggiata nel 1921 insieme a Thea von Harbou) e la terza parte della saga del Dottor Mabuse, Die 1000 Augen des Dr. Mabuse (1960; Il diabolico Dottor Mabuse), profetico e cifrato canto del cigno rivolto all'incombere dell'era televisiva. Ma a parte questi casi, o quello dell'ultimo Pabst o del M. Ophuls dello splendido Lola Montès (1955, realizzato in coproduzione con la Francia), poco si ricorda degli altri numerosi registi tornati dall'emigrazione.

Una delle maggiori colpe del cinema commerciale dell'era Adenuaer fu quella di non aver prodotto al suo interno un ricambio generazionale. Le poche eccezioni confermano la regola. Del 1959 è un film di guerra caratterizzato da un asciutto pathos nella messa in scena, Die Brücke (Il ponte) di Bernhard Wicki, che avrebbe contribuito a rilanciare internazionalmente lo scarso prestigio della BRD, e in patria quello di un cinema giovane e indipendente. Insieme a lui, un solo altro debuttante, Georg Tressler, sarebbe riuscito a imporsi, con l'opera prima Die Halbstarken (1956; Pecore nere), protagonista un Horst Buchholz giovanissimo. Forse la carriera successiva di Tressler, o di altri, sarebbe stata diversa e avrebbe offerto risultati più convincenti se il cinema della BRD non avesse intrapreso una lenta ma suicida politica di 'autoaffondamento'. Salutare sarebbe stata quindi la vigorosa spallata di una nuova generazione di outsider mentre l'emigrazione in televisione rappresentava la soluzione più onorevole per chi si era formato nel seno della vecchia industria: così per Tressler dal 1962 o per Staudte e Käutner a partire dal 1970.

Ascesa e caduta del cinema d'autore: 1962-1989. - All'inizio degli anni Sessanta si moltiplicarono nella BRD i segnali di una profonda crisi dell'industria cinematografica per l'effetto della concorrenza televisiva e insieme della graduale disaffezione del pubblico ai generi di moda. Ciò si accompagnava a un sempre più pronunciato scadimento della qualità media del cinema commerciale che ricercava dei nuovi filoni da sfruttare: il 'krauti-western' ‒ un breve ciclo di film tratto dai volumi del 'Salgari tedesco', K. May, che fu diretto antecedente del ben più significativo 'spaghetti-western' ‒ e poi il giallo. Tuttavia, malgrado alcuni successi di cassetta, il tracollo economico era alle porte e già dalla metà degli anni Sessanta l'industria cinematografica tedesca sarebbe entrata in coma se ad allungarne l'agonia non fossero intervenuti la nascita del soft-porno, da una parte, dovuta all'allargamento delle frontiere della morale, e dall'altra la legge-quadro del 1967, che tornava a premiare i film di cassetta. Così, la produzione, calata alla cifra record negativa di 56 film nel 1965, risalì rapidamente fino alle 110 unità del 1969, di cui l'esatta metà era ormai costituita dai 'film sexy', prima 'travestiti' da semidocumentari di educazione sessuale tipo Helga (1967) di Erich F. Bender, per passare presto a prodotti sempre più espliciti.

Preceduto di un mese dal fallimento dell'UFA, che i newcomers accolsero quasi fosse il segno divino della chiusura di un'epoca, il Manifesto di Oberhausen del febbraio 1962 segnò la data ufficiale di nascita dello Junger Deutscher Film che dopo tutta una serie di cortometraggi sarebbe sbocciato nel biennio 1965-1967. Tuttavia, il giovane cinema si sarebbe trovato un po' impreparato ad affrontare il radicalismo del movimento del 1968, che si accompagnò alla formazione di collettivi di 'cinema militante' e alla nascita del cinema femminil-femminista, un fenomeno che nella BRD avrebbe assunto dimensioni considerevoli. Antesignano fu Neun Leben hat die Katze (1968) della debuttante Ula Stöckl proveniente dalla Hochschule für Gestaltung di Ulm, mentre poco prima un'altra donna, May Spils, aveva girato una divertente commedia generazionale, Zur Sache, Schätzchen (1968), d'ambiente e slang monacensi, che sembra anticipare le successive commedie esistenziali di Doris Dörrie. La rivolta studentesca, oltre a ritrovarsi come 'aura' dei tempi in numerose produzioni, ebbe delle gravi ripercussioni nel mondo dello spettacolo: il Festival di Oberhausen rischiò di saltare nel 1968 dopo la riuscita provocazione del regista sperimentale Hellmuth Costart che per protestare contro la appena varata legge-quadro sul cinema, nel cortometraggio Besonders wertvoll, conferisce a un pene la classificazione di qualità con cui si richiedavano i contributi economici statali; il Festival di Berlino del 1970 si interruppe in conseguenza del ritiro degli statunitensi dal concorso, per protesta contro il film diretto da Michael Verhoeven O.K., fortemente critico nei riguardi della guerra in Vietnam. Ma al di là di questi fatti, il 1968 segnò una decisa cesura nello Junger Deutscher Film, portando a un ripensamento complessivo che sperimentò ‒ nella sua necessità di ancorarsi al pubblico ‒ una delle poche operazioni di genere della sua storia. L'idea del cosiddetto Heimatfilm critico partiva da quella di 'rifunzionalizzare' brechtianamente il principale genere dell'era Adenauer, per ribaltarne contenuti e ideologie, utilizzandone la medesima ambientazione provincial-contadina. L'operazione si inserì nell'alveo del lavoro di alcuni commediografi popolari bavaresi, M. Sperr, F.X. Kroetz o lo stesso Fassbinder autore teatrale, che, a loro volta, riprendevano la tradizione social-critica degli anni Venti del Volksteather di M. Fleisser o Ö. von Horvath. Tra i migliori risultati di questo sottogenere, potremmo ricordare il celebre (ma anche un po' sopravvalutato) Jagdszenen aus Niederbayern (1969; Scene di caccia in Bassa Baviera, da M. Sperr) di Peter Fleischmann, oppure Der plötzliche Reichtum der armen Leute von Kombach (1971) di Volker Schlöndorff, oltre ai fassbinderiani Katzelmacher (1969, dalla sua omonima pièce teatrale) e Wildwechsel (1972; Selvaggina di passo, infedele adattamento da F.X. Kroetz). Anche Niklaus Schilling, ma da un punto di vista simpatetico, avrebbe affrontato le atmosfere dell'Heimatfilm nella sua bella opera di debutto Nachtschatten (1972).

Un caso tutto a sé di Heimatkünstler è, invece, il pittore, scrittore e poeta dialettale Herbert Achternbusch, un autore di difficile comprensione linguistica al di fuori dalla G. meridionale. Emulo del grande comico monacense Karl Valentin, Achternbusch si muove in una narrazione fiabesca, surreale e clownesca, tra un grand-guignol di paradossi e il Moritat religioso; dall'angolo privilegiato della provincia e con radicalità anarchica, lancia una serie di provocazioni nei confronti dei suoi conterranei: humour nero, paradossi, giochi di parole contraddistinguono un opus pamphlettistico di cui è attore, produttore e regista. La sua opera cinematografica, quasi naif e amatoriale, è andata migliorando formalmente nel corso degli anni (ma anche perdendo di incisività): dal ruvido esordio di Das Andechser Gefühl (1975), passando per Bierkampf (1977), un film 'all'impronta' dove sotto le mentite spoglie di un poliziotto ubriaco provoca i frequentatori dell'Oktoberfest, e arrivando a Das letzte Loch (1981), un amarissimo apologo sullo sterminio degli ebrei, o a Blaue Blumen (1985; Fiori azzurri), poetico studio sui volti dei bambini cinesi, una delle rarissime escursioni di Achternbusch fuori dei temi e dei confini della Baviera.

Alla fine degli anni Sessanta venne a maturazione anche Das andere Kino, termine con cui si definì nella BRD il cinema 'indipendente', underground, sorto dalla seconda metà degli anni Sessanta in quasi tutta Europa sotto l'influenza del New American Cinema. Già al Festival del cinema sperimentale di Knokke (Belgio), tra la fine del 1967 e l'inizio del 1968, erano attivi i principali rappresentanti di questa tendenza: Werner Nekes, Lutz Mommartz, Hellmuth Costard, Birgit e Wilhelm Hein, mentre dallo stesso humus, oltre a Wim Wenders, provenivano Werner Schroeter e Rosa von Praunheim, le cui successive carriere, pur non dimenticando l'originaria matrice avanguardistica, avrebbero preso presto altre strade, l'una in direzione del mélo operistico, l'altra di un cinema militante gay, a volte declinato in direzione di un grottesco espressionista.Alla svolta del decennio, lo Junger Deutscher Film, anche per l'emergere di nuovi talenti, diventò il Neuer Deutscher Film, inaugurando una straordinaria stagione di successi internazionali. A partire da questo momento fino ad arrivare alla metà del decennio successivo il cinema tedesco avrebbe vissuto, dunque, un'esistenza doppia, che si contraddistingue, in negativo, per un'accentuata decadenza del tessuto industriale, acceleratasi con il progressivo estinguersi dell'ondata soft-porno e il conseguente dimezzamento della base produttiva (112 film nel 1971, solo 68 nel 1989) e del box office. Allo stagnare del commercio si contrappose, invece, l'exploit autoriale del Neuer Deutscher Film, reso possibile grazie a un sistema di sovvenzioni statali sempre più articolato e complesso, ma penalizzato da una massiccia 'americanizzazione' dell'esercizio. Ciò trovò un correttivo molto parziale e limitato nel sorgere di un circuito alternativo (cinema comunali, sale d'essai, cineclub ecc.) e nell'attività del Filmverlag der Autoren o di analoghe piccole imprese specializzate nel prodotto di qualità tedesco.Parlare dell'epoca d'oro degli anni Settanta significa necessariamente pedinare le poetiche di registi quali R.W. Fassbinder, Werner Herzog, Alexander Kluge, Edgar Reitz, W. Schroeter, V. Schlöndorff, Hans Jürgen Syberberg, Margarethe von Trotta, W. Wenders ecc., ognuna diversa e lontana dall'altra, dato che ogni altro tipo d'analisi ‒ per generi o tematiche ‒ non si adatta a captare la frastagliata galassia del Neuer Deutscher Film, dove sono riscontrabili pochi caratteri comuni: un costante interesse sociale o antropologico spesso connesso all'analisi dell'identità tedesca, il dif-fuso utilizzo della formula dell'autoproduzione a low budget (soprattutto nei primi anni Settanta). Ancora, se prevalgono stili e contenuti 'realistici', nondimeno il melodramma è stato frequentato con una certa continuità dall'Autorenfilm: oltre ai nomi di Fassbinder o Schroeter, grandi innovatori del genere, tra quanti lo hanno pra-ticato, bisognerà menzionare Robert van Ackeren e N. Schilling. Infine, sarà opportuno ricordare l'emergere non più episodico di un forte cinema femminil-femminista, culminato nell'opera di M. von Trotta e Helma Sanders-Brahms o nei fuochi d'artificio della bizzarra fantasia di Ulrike Ottinger, uno dei talenti più visionari del Neuer Deutscher Film.A differenza di Monaco, che rimase il centro industriale del cinema della BRD fino all'unificazione, i film nati a Berlino furono caratterizzati da un più marcato segno ideologico e dall'uso del basso costo. Così, agli inizi degli anni Settanta, si cominciarono a girare nella metropoli divisa alcuni Arbeiterfilme, che misero in scena un soggetto sociale, la classe operaia, da decenni rimosso. Fortemente legata al movimento studentesco e in un richiamo tutto ideologico al 'cinema proletario' (v. Neue Sachlichkeit) dell'età weimariana, la cosiddetta Berliner Schule, il cui maggior rappresentante fu Christian Ziewer ‒ da Liebe Mutter, mir geht es gut (1972) a Der aufrechte Gang (1976) ‒, tradusse in tedesco le suggestioni del cinema militante europeo. L'esperienza fu di breve durata, a differenza del cinema femminista o di quello gay, iniziato quando R. von Praunheim, conclusa l'esperienza underground, girò il film-manifesto Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971). Anche per von Praunheim il cinema è un'arma di lotta e i suoi film rappresentano un ultimo tentativo di fare del reportage cinematografico in quello scomodo spazio tra kitsch e sensazionalismo. Perciò è sempre alla ricerca di argomenti-tabù (l'omosessualità, la vecchiaia, la morte, l'AIDS ecc.) o di personaggi eccentrici e stravaganti, nel trattare i quali l'impegno militante e l'impianto documentaristico sono a volte supportati da una forte vocazione teatrale, da un aspro gusto per la parodia e da uno stile neoespressionista. A completare il quadro, solo un cenno all'attività di Peter Lilienthal, tipica figura intellettuale di ebreo errante, che però a lungo ha risieduto nella metropoli tedesca. Dopo essersi formato in televisione, Lilienthal esibì la narrazione 'distratta', il montaggio poetico, i sottotoni melanconici caratteristici del suo stile in Malatesta (1970), un interessante ritratto dell'anarchico italiano interpretato da Eddie Constantine. Il tema del rapporto tra il singolo e la violenza ‒ ovvero della violenza come arma politica ‒ sarebbe tornato come un leitmotiv nel cinema di Lilienthal e in particolare nei cinque film ‒ da La victoria (1973) a Das Autogramm (1984) ‒ dedicati alla drammatica situazione socio-politica dell'America Latina (che il regista ben conosceva, avendo risieduto da giovane esule a Montevideo). Pur essendo uno dei più politicizzati cineasti della BRD, vi è in lui anche una vena sognante e lirica, che emerge in David (Orso d'oro al Festival di Berlino del 1979) o in Dear Mr. Wonderful (1982; interpretato da un bravo Joe Pesci), forse le due opere migliori della sua filmografia.Uno dei pochi momenti di unità del Neuer Deutscher Film nacque ancora una volta da un movente politico: il deteriorarsi del clima politico interno della BRD per l'emergenza del terrorismo della RAF (Rote Armee Fraktion). Già denunciata da V. Schlöndorff e M. von Trotta in Die verlorene Ehre der Katharina Blum (1975; Il caso Katharina Blum, dal testo di H. Böll), la montante isteria antiterrorista e i pericoli per la democrazia avrebbero trovato un'efficace risposta nel film a episodi Deutschland im Herbst (1978; Germania in autunno). Fu il primo di una serie di prodotti collettivi capitanati da A. Kluge e al tempo stesso uno dei più efficaci sul fenomeno del terrorismo, un tema affrontato anche da Messer im Kopf (1978; Il coltello in testa, interpretato da un Bruno Ganz più gigione e simpatico che mai) e Stammheim (Orso d'oro al Festival di Berlino nel 1986) entrambi di Reinhard Hauff, e da Die bleierne Zeit (Anni di piombo, Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia del 1981) di M. von Trotta, per arrivare fino agli inizi del 21° sec.: V. Schlöndorff è ritornato sull'argomento del terrorismo in Die Stille nach dem Schuss (2000; Il silenzio dopo lo sparo) mentre, tra gli altri, un giovane filmmaker, Christian Petzold, con Die innere Sicherheit (2000) ha rivisitato il tema dalla prospettiva di chi non ha vissuto di persona quell'epoca.A partire dalla morte di Fassbinder nel 1982, si era tornati a respirare aria di crisi nel Neuer Deutscher Film ‒ e non per una delle consuete questioni di ordine economico (l'ennesimo forte calo del numero degli spettatori). La magica atmosfera e la carica innovativa del precedente decennio erano d'improvviso scomparse, mentre rari si fecero i debutti di reale interesse. Contemporaneamente dopo tanti anni di letargo si compì una profonda ristrutturazione dell'industria cinematografica, accompagnata dalla svolta produttiva di alcuni autori del Neuer Deutscher Film che hanno abbandonato il low budget. Sotto questo segno si situa tutta l'ultima fase del cinema fassbinderiano o la nascita di alcuni kolossal d'autore come Die Blechtrommel (1979; Il tamburo di latta) di Schlöndorff, Fitzcarraldo (1982) di Herzog o Der Zauberberg (1981; La montagna incantata, dal romanzo di Th. Mann) diretto da Hans W. Geissendörfer. Ma si è dovuto anche ricostruire un cinema commerciale degno di questo nome. Negli studi della Bavaria a Monaco è nato il 'pilota' di tale progetto, un'opera tutt'altro che disprezzabile, Das Boot (1981; U-boot 96) diretta da Wolfgang Petersen, regista che è poi emigrato a Hollywood, e prodotto 'all'americana' da un intelligente producer monacense, Bernd Eichinger, il capostipite di un nuovo modo di intendere l'industria. Al contempo il Neuer Deutscher Film ha vissuto una diaspora irreversibile, favorita dalla politica liberista della nuova coalizione governativa. Il restringimento degli aiuti economici al cinema di qualità ha trovato però un parziale contraltare nello sviluppo delle sovvenzioni su base regionale, in particolare quelle dei due Länder a maggioranza socialdemocratica, Amburgo e il Nordrhein-Westfalen. Così per un breve periodo la città anseatica ha permesso la realizzazione di film, esteticamente e/o politicamente difficili, quali Stammheim di R. Hauff o Klassenverhältnisse (1984; Rapporti di classe), in coproduzione con la Francia, di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, oppure significativi debutti come 40 qm Deutschland (1986; 40 mq di Germania) del turco-tedesco Tevfik Başer, l'antesignano del cinema di métissage in Germania. Lo sviluppo dell'Autorenfilm ha subito una pausa d'arresto soprattutto perché le nuove leve hanno preferito optare per i film di genere, in particolare commedie e polizieschi. Il più interessante dei registi emersi da questa svolta è stata una donna, D. Dörrie che al terzo lungometraggio, Männer (1985; Uomini), ha trionfato al botteghino, grazie anche alla vena comica di un attore a lei molto legato, Uwe Ochsenknecht. Lontana dalla comicità un po' stantia del resto della neocommedia tedesca, la Dörrie ha compiuto opera di contaminazione, attingendo dai cosiddetti Bezieungsfilme o da altri generi per dar vita a una piacevole sophisticated comedy esistenziale i cui risultati migliori sono stati: Happy Birthday, Türke (1991; Happy birthday, detective!), Keiner liebt mich (1995), un altro grande successo di pubblico, o più di recente Erleuchtung garantiert (1999), divertente escursione nel Giappone contemporaneo. Nel campo di un intrattenimento leggero ma ricco d'intelligenza, Percy Adlon, che ha conquistato il successo internazionale con la commedia 'meticcia' Out of Rosenheim (1987; Bagdad Café) grazie soprattutto alla fisicità prorompente di Marianne Sägebrecht. Dopo un quindicennio speso in esperimenti vari, non sempre fortunati, Rudolf Thome ha impresso una svolta decisiva alla sua carriera con il delizioso e lontanamente rohmeriano Der Philosoph (1989; Tre donne, il sesso e Platone). A esso sono seguite fino a Paradiso (2000) moderne fiabe dello stesso tenore, dove a partire da un incipit autobiografico, ma con risultati alterni, si descrive una saggia ricerca dell'amore e di una vita senza stress nella nuova Berlino e nella bella campagna dei dintorni.

La Deutsche Demokratische Republik (DDR)

L'epoca d'oro della DEFA: 1949-1966. - Agli esordi la DEFA aveva seguito, come si accennava, una politica 'liberale', tanto che dei ventisei film prodotti tra il 1946 e il 1949 meno di un quinto si richiamava agli ideali socialisti. Tuttavia già in questo primo periodo si sarebbero poste le basi dei generi e dei temi che successivamente avrebbero caratterizzato il cinema della DDR: il film antifascista, l'analisi dell'antisemitismo (Ehe im Schatten, il debutto di K. Maetzig, sul caso dell'attore Joachim Gottschalk suicidatosi con la famiglia per essersi rifiutato di lasciare la moglie ebrea), la ricerca delle radici del nazionalsocialismo (Affaire Blum, diretto da E. Engel), le commemorazioni storiche (Und wieder 48!, 1948, di Gustav von Wangenheim, sulla rivoluzione borghese del 1848) o gli adattamenti letterari come Der Biberpelz (1949, film di E. Engel tratto da G. Hauptmann) e Wozzeck (1947, di Georg C. Klaren, tratto da G. Büchner). Con la nascita delle due repubbliche, il flusso di cineasti tra Est e Ovest rallentò considerevolmente (e si sarebbe interrotto del tutto con la costruzione del muro di Berlino nel 1961), mentre la cinematografia della neonata DDR si allineò al modello sovietico. A darle man forte rientrarono dall'esilio due cineasti comunisti, G. von Wangenheim e Slatan Th. Dudow a cui si deve il primo film 'socialista' della DEFA: Unser täglich Brot (1949). Seguirono poi una serie di film a forte carattere 'propagandistico-agitatorio', quali Der Rat der Götter (1950, sulla responsabilità dell'industria I.G. Farben nell'ascesa del nazismo) di Maetzig, oppure Familie Benthin (1950), diretto da un collettivo sotto la guida di Dudow. In questo periodo pionieristico W. Staudte girò, dopo Rotation, quello che è forse il suo film migliore, Der Untertan (1951), vigorosa satira del piccolo borghese tedesco, dall'omonimo romanzo di H. Mann, mentre Maetzig diresse la superproduzione di prestigio Ernst Thälmann, in due parti (1954, Ernst Thälmann ‒ Sohn seiner Klasse, e 1955, Ernst Thälmann ‒ Führer seiner Klasse), agiografica biografia a colori del grande leader della KPD (Kommunistische Partei Deutschlands), non priva, però nelle pieghe del discorso propagandistico, di qualche momento felice. Nel 1953 la DEFA ritornò del tutto in mani tedesche, trasformata in Volkseigener Betrieb (VEB), e nello stesso anno, dopo la morte di Stalin e dietro la spinta della rivolta operaia a Berlino Est, iniziò la politica del 'nuovo corso', contraddistinta da un'accresciuta responsabilità aziendale e da un maggior rispetto dei gusti del pubblico, con la conseguenza che la produzione risalì rapidamente, toccando la sua vetta massima nel 1960 con ventisei lungometraggi. Oltre a un certo numero di film di intrattenimento, emerse una discreta produzione di film per bambini, con buoni esempi, da Irgendwo in Berlin (1946) di G. Lamprecht a Die Geschichte vom kleinen Muck (1953) di Staudte a Sie nannten ihn Amigo (1959) diretto da Heiner Carow. In campo documentaristico c'è invece da segnalare la coppia Andrew e Annelise Thorndike, i cui Archivfilme sulla recente storia tedesca, nonostante l'esplicita matrice propagandistica, suscitarono interesse a livello internazionale.Accanto ai 'veterani' cominciò a farsi luce, alla metà del decennio, una nuova leva di registi: Konrad Wolf, Frank Beyer, Gerhard Klein e H. Carow diedero inizio a un cinema che marca un certo scarto dal passato. Lo dimostra la serie dei tre Berlin-Filme ‒ opere d'attualità sulla vita della metropoli divisa ‒ diretta da Klein e scritta da Wolfgang Kohlhaase, il migliore sceneggiatore della DDR, che già nella sua prova d'esordio, Alarm im Zirkus (1954), prese a modello il Neorealismo italiano. Così, nell'ultimo film della serie, il più riuscito, Berlin ‒ Ecke Schönhauser… (1957), la polemica propagandistica si accompagna a una realistica descrizione dell'ambiente della gioventù ribelle, di cui si riconosce l'esistenza anche a Est. In un continuo alternarsi di timide aperture e colpi di freno politici, cominciò ad affermarsi con Lissy (1957) il talento del maggior regista della DDR, K. Wolf, mentre il marcato impegno di rinnovamento della seconda generazione dei registi della DDR sarebbe sfociato in una 'primavera cinematografica' interrotta nel dicembre 1965 dall'undicesimo Plenum del Comitato centrale della SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands) che accusò la DEFA di "favorire i dannosi fenomeni ideologici dello scetticismo e dell'alienazione". Si tratta dei cosiddetti film dei conigli, così chiamati da Das Kaninchen bin ich (prodotto nel 1965, ma uscito nel 1989) di K. Maetzig, di cui si è compresa tutta l'importanza solo dopo la caduta del muro, quando sono usciti dai cellari in cui erano rimasti sepolti per un quarto di secolo. Il giro di vite ideologico della SED coinvolse tutta la produzione del biennio 1965-66: furono per es. precipitosamente ritirati dal mercato, o non inseriti nella programmazione, oltre a Das Kaninchen bin ich, anche Denk bloss nicht, ich heule (girato nel 1965 e uscito poi nel 1990) di Frank Vogel e Spur der Steine (1966) di F. Beyer, mentre diverse opere, come Jahrgang 45 (prodotto nel 1966 e uscito anch'esso nel 1990) del futuro documentarista Jurgen Böttcher, vennero interrotte in fase di lavorazione. Le conseguenze di questa drastica svolta avrebbero portato un diffuso clima di disimpegno e di insicurezza tra i registi della DEFA, bloccando una possibile rinascita che mai più si sarebbe realizzata. Terminato il blocco della produzione, sbocciarono invece dei generi cinematografici politicamente più innocui e fino ad allora sconosciuti come i film storici d'avventura o il crauti-western orientale che per altro riscosse un vivace successo di pubblico.

Accanto a Wolf, la figura emergente della cinematografia della DDR fu, all'inizio degli anni Sessanta, F. Beyer, che realizzò una notevole trilogia antifascista: Fünf Patronenhülsen (1960), ambientato durante la guerra civile spagnola e interpretato dai suoi due attori preferiti, Erwin Geschonneck e Armin Mueller-Stahl; Königskinder (1962) e Nackt unter Wölfen (1963), il film più famoso dei tre, tratto dall'omonimo romanzo di B. Apitz sul campo di concentramento di Buchenwald. Quando Beyer passò ad affrontare temi di attualità del socialismo, con il già citato Spur der Steine, un'anticonvenzionale ballata sul mondo del lavoro interpretata dallo spavaldo attore-cabarettista Manfred Krug, il regista si trovò al centro di una violenta campagna diffamatoria che lo obbligò a lavorare prima in teatro poi in televisione; sarebbe passato quasi un decennio, prima che Beyer realizzasse, dal romanzo di J. Becker, uno dei suoi film migliori, Jakob der Lügner (1974), una bella tragicommedia di stampo brechtiano ambientata in un lager (nel 1999 ne è uscito il remake di Peter Kassovitz, con Robin Williams tra gli interpreti) che gli valse, oltre a un premio alla Berlinale, la nomination all'Oscar (unico caso di tutta la produzione DEFA).

Sempre nel campo del film antifascista si segnala ancora Der Fall Gleiwitz (1961) realizzato da G. Klein, sulla base della sceneggiatura scritta da W. Kohlhaase, in cui si ricostruisce con moduli semidocumentari il caso dell'assalto alla stazione radio di Gleiwitz messo in scena dalle SS per offrire un pretesto a Hitler per invadere la Polonia. Il successivo tentativo di Klein e Kohlhaase di continuare l'esperienza dei Berlin-Filme fece la fine di tutti i 'film dei conigli': Berlin um die Ecke (prodotto nel 1965, ma uscito nel 1990) venne bloccato a lavorazione quasi ultimata, restando così l'ultima opera di lungometraggio diretta da Klein.

Il realismo documentario e il documentarismo nella DDR: 1966-1989. - Ripresasi molto lentamente dallo shock del biennio 1965-66, la DEFA iniziò verso la fine del decennio a trattare i problemi della cosiddetta rivoluzione tecnico-scientifica nelle loro ripercussioni all'interno della vita della Repubblica. Non più contraddistinto dal pathos degli anni 'eroici' dell'edificazione del socialismo, questo rinnovato interesse per il mondo del lavoro si caratterizzò per l'ottica 'micrologica' e sostanzialmente aideologica che portò i filmmakers a girare fuori dagli studi di Babelsberg, in luoghi e ambienti reali, spesso con attori non professionisti. Era la tendenza al 'realismo documentario' a cui avrebbe fatto riferimento, pur con stili diversi o addirittura opposti, la massima parte dei registi della 'terza generazione' della DDR: Horst Seemann, Siegfried Kühn, Ralf Kirsten, Lothar Warneke, Roland Gräf, Rainer Simon, Hermann Zschoche. L'emergere di tale tendenza fu in stretto rapporto con l'evoluzione del documentario nella DDR. Dai lavori di compilazione di A. e A. Thorndike si passò con la coppia Walter Heynowski-Gerhard Scheumann a un tipo di giornalismo audiovisivo di taglio estremamente 'aggressivo' che verte soprattutto sul Congo, il Vietnam e il Cile mentre la prima opera che dette fama internazionale alla coppia di cineasti fu Der lachende Mann (1966), un'intervista condotta sotto mentite spoglie al capo dei mercenari congolesi, Siegfried Müller. Il contraltare al documentarismo sensazionalistico di Heynowski e Scheumann, il cui metodo è stato spesso oggetto di contestazione per la sua estrema e preconcetta rigidità propagandistica, è rappresentato, invece, da quelle spedizioni nella realtà quotidiana condotte, oltre che dal lavoro pionieristico di Karl Gass, innanzitutto da J. Böttcher e poi da Winfried Junge, Gitta Nickel e Volker Koepp. Influenzata dal Cinéma vérité e dalle sue tecniche (suono in presa diretta, 16 mm ecc.), la scuola documentaristica della DDR riuscì a distillare e documentare frammenti di realtà dello squallore del socialismo reale con una solerzia e una pazienza tutte tedesche (i cicli di film che seguono per decenni e decenni singoli e/o gruppi sociali). La puntigliosa attenzione agli aspetti quotidiani del reale, unita all'adozione delle tecniche 'leggere' di ripresa (pur con le classiche difficoltà di adeguamento tecnologico, caratteristiche dei sistemi socialisti), avrebbe costituito un esempio che il cinema di fiction, però, non sarebbe mai riuscito in nessun caso a eguagliare.

L'elezione di Erich Honecker a segretario generale della SED nel 1971 segnò un breve quinquennio d'apertura politico-culturale. Tuttavia la crisi del 1976, con la privazione della cittadinanza al cantautore dissidente Wolf Biermann, ebbe di nuovo gravi conseguenze sulla produzione della DEFA, funestata dalla continua perdita di personale artistico, via via passato a lavorare in Occidente: così gli attori Angelica Domröse, Renate Krössner, Manfred Krug, Jutta Hoffmann, Armin Mueller-Stahl (che è divenuto una star internazionale) e Katharina Thalbach, così il regista Egon Günther. Inoltre, la morte di K. Wolf, un po' come quella di Fassbinder nel Neuer Deutscher Film, privò la DDR del suo 'cuore': per una curiosa coincidenza i due autori sono deceduti nello stesso anno, il 1982.

In un clima politico sempre oscillante tra repressione e liberalizzazione, il cinema di fiction della DDR esaurì negli anni Ottanta le sue forze migliori. Poche furono le opere degne di essere ricordate fuori da un contesto locale, mentre acquistò sempre più forza l'accusa di conoscere solo tre b: "brav, bieder, bildarm" (buono, perbene, visivamente povero). Pur sforzandosi di riflettere sul grigiore del quotidiano, sul privato fuori delle manifestazioni rituali della vita collettiva, le nuove leve della DEFA mancarono l'obiettivo di narrare storie più complesse. Le eccezioni costituiscono la regola: Märkische Forschungen (1982) di R. Gräf; Die Frau und der Fremde (Orso d'oro ex aequo al Festival di Berlino del 1985, da una novella dello scrittore espressionista L. Frank) di R. Simon, regista che aveva subito un ennesimo caso di censura politica con Jadup und Boel, prodotto nel 1980, ma uscito solo nel 1988; forse Die Beunruhigung (1982) di L. Warneke, un'opera 'eccezionale' per i moduli produttivi della DEFA, costruita senza sceneggiatura e in bianco e nero, girata in sole tre settimane con il suono in presa diretta che tematizza la paura di aver gettato via la propria esistenza.

Al minimalismo del 'realismo documentario' rispose H. Carow che, dopo la censura subita dal suo Die Russen kommen (1966, sarebbe uscito solo nel 1987), fu autore di due fortunati e controversi melodrammi di vita quotidiana, tra i maggiori successi di pubblico della DEFA: Die Legende von Paul und Paula (1973, da una sceneggiatura dello scrittore e scenarista Ulrich Plenzdorf) e Bis dass der Tod euch scheidet (1979), da una sceneggiatura di Günther Rucker, entrambi caratterizzati da una solida professionalità nella direzione degli attori e da una regia attenta a dosare gli effetti e le emozioni. Si sarebbe dovuto attendere il fatidico 1989, con la caduta del muro di Berlino, per rivedere il suo talento in Coming out, film in cui ha potuto raccontare una storia omosessuale.

Già segnalatosi nel 1965 con un bell'esordio sui problemi del divorzio, Lots Weib, che prosegue la tradizione dei Frauenfilme di Dudow, Günther tornò a girare due film (entrambi interpretati da Jutta Hoffmann) sui problemi interpersonali: Der Dritte (1972) e Die Schlüssel (1974). L'insuccesso di quest'ultimo costrinse Günther a tornare a quegli adattamenti letterari di cui nella DDR è stato indiscusso maestro: Lotte in Weimar (1975, da Th. Mann, con Lilli Palmer come protagonista) e Die Leiden des jungen Werthers (1976, da J.W. Goethe). Ha poi abbandonato la DDR per proseguire il proprio lavoro alla televisione tedesco-federale dove, a eccezione del notevole sceneggiato Exil (1981), in sette puntate, dall'omonimo romanzo di L. Feuchtwanger, non è però riuscito a eguagliare le prove precedenti.

Tornato in auge con Jakob der Lügner, ma sempre in bilico per emigrare in Occidente, F. Beyer ha realizzato prima una divertente commedia matrimoniale, Das Versteck (1978) e successivamente Der Aufenthalt (1983), da una sceneggiatura di W. Kohlhaase, film che nel riprendere la struttura a parabola di Jakob der Lügner esplora con accenti kafkiani la permanenza in un campo di internamento di un giovane soldato vittima di uno scambio di persona. Infine, ha girato un'altra bella commedia 'criminale' ambientata nel secondo dopoguerra, Der Bruch (1989), che raduna un grande cast di interpreti dell'Est e dell'Ovest (Götz George, Otto Sander, Rolf Hoppe). Involontariamente è stata anticipata nel cinema l'unificazione politica e statuale che da lì a breve si sarebbe compiuta.

Dalla caduta del muro agli inizi del 21° sec.: alla riconquista del pubblico

La caduta del muro di Berlino, nel novembre 1989, ha colto le cinematografie dei due contrapposti Stati in condizioni difficili, così che, nell'unificazione, la nuova G. si è trovata a sommare due debolezze. A parte qualche caso isolato, di autori che hanno assaporato finalmente la completa libertà espressiva come R. Gräf in Der Tangospieler (1991), la grande svolta (Wende) non ha consegnato, malgrado numerosi tentativi, film di finzione veramente significativi. Si deve però aggiungere che il cinema di nonfiction ha invece vissuto un eccezionale momento di renaissance. Lo dimostrano non soltanto le numerose documentazioni 'a caldo' che hanno 'pedinato' gli eventi ma soprattutto due opere straordinarie di riflessione, nate entrambe a Est: Die Mauer (1990) di J. Böttcher e il monumentale Drehbuch: die Zeiten (1993) di Barbara e W. Junge con cui sono state scritte, insieme a November Days (1990) del francese Marcel Ophuls (il figlio del grande regista Max), delle pagine indimenticabili sulla fine della DDR. Negli anni Novanta il Neuer Deutscher Film si è ridotto a un pallido ricordo del passato: Wenders è diventato un cineasta internazionale, più di casa a Parigi o Los Angeles che non in patria; Kluge ha dedicato tutto il suo impegno alla televisione d'autore; Schlöndorff, rientrato da un'emigrazione negli Stati Uniti e dopo l'esperienza di direttore degli studi di Babelsberg, è tornato dietro la macchina da presa con risultati molto diseguali; Achternbusch ha continuato a ripetersi in modo manierista; Lilienthal, von Trotta, Schroeter e Herzog hanno cessato o molto rallentato il lavoro nella fiction mentre di Syberberg si sono perse le tracce. E. Reitz, con l'exploit di Die zweite Heimat, realizzato nel 1992, costituisce l'eccezione che conferma la regola, ma ormai la generazione dei 'veterani' ha cessato di giocare quel ruolo decisivo di una volta.Passato il disorientamento psicologico della Wende e dopo l'indispensabile riassetto del mercato, qualcosa di radicalmente nuovo è cominciato ad accadere nella nuova G. alla svolta del millennio. La situazione cinematografica, almeno sotto il profilo economico, non è stata mai così favorevole: le sale sono piene e forti investimenti (pubblici e privati) tengono in piedi la produzione che si muove incessantemente ad alimentare le necessità di un ricco mercato mediale interno. Per non parlare degli investimenti (pari per entità a quelli effettuati in patria) negli Stati Uniti, dove i tedeschi da sempre hanno goduto di una posizione di primo piano e dove sono attivi registi come Uli Edel, W. Petersen o Roland Emmerich, cui curiosamente Hollywood spesso affida film 'arcinazionalisti' come Independence day (1996) o Air Force One (1997). In quest'era di cinema orientato al mercato continuano a esistere nuovi talenti, come Romuald Karmakar o Fred Keleman, che proseguono controcorrente, con testardaggine, una ricerca lontana dalle mode, mentre sta fiorendo un interessante cinema turco-tedesco. Grazie a un piccolo firmamento cinetelevisivo (di cui fanno parte G. George, Heiner Lauterbach, Jürgen Vogel, Katja Riemann, Uwe Ochsenknecht, Till Schweiger ecc.) e alla distribuzione delle majors statunitensi, il cinema tedesco di genere sta vivendo una rinascita al botteghino. Come è noto la commedia ha fatto da battistrada e in essa va segnalata l'acre personalità di Helmut Dietl, che usa la materia comica per graffianti analisi di costume: così in Schtonk! (1992), dove satireggia il clamoroso 'caso' dei falsi diari di Hitler, così in Rossini (1996), impietosa radiografia dell'ambiente cinematografico della capitale bavarese. A un livello decisamente inferiore si collocano, per es., i monacensi Sönke Wortmann e Katja von Garnier, autrice di un simpatico debutto sperimentale, Abgeschminkt! (1993; Donne senza trucco), oppure il berlinese Detlev Buck con il blockbuster Männerpension (1996) o il francofortese Rolf Silber di Echte Kerle (1996; Peccato che sia maschio). Ma la commedia non è l'unico genere premiato sul piano commerciale; a essa vanno affiancate le trascrizioni cinematografiche di best seller letterari, come Schlafes Bruder (1995) di Joseph Vilsmaier, dal romanzo di R. Schneider, assieme ai polizieschi e agli action movies in cui si è distinto, per esempio, un bravo professionista, Dominik Graf.

A Berlino infine, rinata, cinematograficamente parlando, dopo l'unificazione, si trova il collettivo X-Filme Creative Pool, volto a un cinema d'autore rivisto e corretto dalla depressa aria techno degli anni Novanta e contraddistinto dalla voglia di non imitare il cammino dei 'padri'. Questa nuova Berliner Schule, composta da un battagliero, intraprendente gruppo di trentenni, si muove a cavallo tra ricerca espressiva ed esigenze di mercato e ha come punta di diamante Tom Tykwer, autore di Lola rennt (1998; Lola corre), film che ha rappresentato il maggior successo internazionale di un giovane autore tedesco. Accanto a lui Dani Levy e soprattutto Wolfgang Becker, che in Das Leben ist eine Baustelle (1997) non ha però eguagliato il traguardo del precedente Kinderspiele (Pardo d'argento al Festival di Locarno del 1992), un piccolo gioiello di perfidia.

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