FINANZA ETICA E MICROFINANZA

XXI Secolo (2009)

Finanza etica e microfinanza

Mario La Torre

Declinare con precisione i caratteri della finanza etica risulta essere tanto necessario quanto complesso. Necessario, perché il nuovo secolo ha posto come questione centrale l’obiettivo di perseguire una maggiore equità nella distribuzione della ricchezza e delle opportunità di sviluppo sociale e umanitario; complesso, perché questo obiettivo è stato appaltato anche a una dimensione più etica della finanza, senza che nessuno, però, ne abbia mai chiarito termini e confini rispetto alla finanza tradizionale.

A ragione, intermediari e mercati finanziari sono stati chiamati a un’azione di responsabilità sociale; a loro spetta, infatti, il compito di trasferire ricchezza da chi ne ha in abbondanza a chi ne ha in difetto rispetto alle proprie necessità di consumo e di investimento. Per questo motivo, i sistemi finanziari svolgono un ruolo decisivo nella distribuzione delle opportunità di sviluppo economico delle singole persone e delle nazioni. Tale processo di intermediazione può essere svolto con modalità operative e gestionali differenti e può portare a risultati diversi nel segno e nella misura. Stabilire se modalità, segno e misura risultino soddisfacenti e rispondenti sia agli obiettivi economici sia a quelli sociali e umanitari, significa stabilire il grado di eticità della finanza. Questo dipende, dunque, dagli obiettivi prefissati ma anche dalla natura dei processi produttivi adottati per l’intermediazione finanziaria, oltre che dai risultati.

Il saggio propone una tassonomia utile a definire etica l’attività di intermediazione finanziaria. L’approccio adottato si discosta dalla diffusa convinzione secondo la quale è sufficiente sostenere attività a carattere fortemente umanitario e sociale per considerarsi, a pieno titolo, un operatore finanziariamente etico. Le variabili di eticità definite dal modello proposto nel presente lavoro consentono, dunque, di stabilire carattere e grado di eticità del processo di intermediazione finanziaria ritenendo condizione necessaria, ma di sicuro non sufficiente, l’obiettivo umanitario ispiratore degli interventi di sostegno. Seguendo questa chiave di lettura, il saggio offre una definizione moderna di finanza etica e ne applica le variabili esplicative alle attività finanziarie che comunemente vengono fatte rientrare in tale comparto, prime fra tutte il microcredito e la microfinanza.

Caratteri della finanza etica

Allo stato attuale, sia in letteratura sia nella prassi operativa, come pure nelle regolamentazioni dei sistemi finanziari, non si rintracciano criteri espliciti che consentano di delineare i confini della finanza etica.

I rami di attività

Una ricognizione delle diverse attività finanziarie che comunemente sono considerate forme di finanza etica può aiutare a tracciare una prima mappatura del fenomeno. La finanza etica può essere ricondotta a tre principali linee di azione: la finanza che sostiene la lotta alla povertà e all’esclusione finanziaria; la finanza che sostiene alcuni settori considerati etici dalla coscienza collettiva; la finanza che rispetta leggi e codici aziendali, o associativi, che regolamentano tematiche riferite alla diligenza, alla correttezza e alla trasparenza dei comportamenti adottati e dei processi produttivi attuati (fig. 1). Nel primo caso, siamo nel campo della finanza che sostiene principalmente obiettivi sociali e umanitari – spesso localizzati in Paesi in via di sviluppo – attraverso il sostegno di iniziative utili a migliorare le condizioni di vita di singoli individui o di nicchie di popolazioni. Questa sfera di attività finanziaria è strettamente legata al concetto di sviluppo umano introdotto con l’intento di superare l’accezione di sviluppo basata esclusivamente sulla crescita economica. A tal fine, l’Indice di sviluppo umano (ISU) viene utilizzato come parametro alternativo o complementare al PIL (sul tema si vedano tra gli altri i testi di Amartya Sen: Choice, welfare, and measurement, 1982, trad. it. 1986, nuova ed. 2006; On ethics and economics, 1987, trad. it. 1988, 20076; Development as freedom, 1999, trad. it., 2000). In questa categoria di attività finanziaria rientrano a pieno titolo i programmi di microcredito e di microfinanza. La promozione di tali prodotti viene generalmente ricondotta al settore non-profit mentre il sostegno finanziario di interventi di questo tipo è, nella maggior parte dei casi, da riferire ai grandi donatori nazionali e internazionali, alle banche di sviluppo, agli enti territoriali nazionali, alle Organizzazioni non governative (ONG) e, solo in misura ridotta, agli intermediari finanziari tradizionali.

La forma tecnica del sostegno finanziario è rappresentata, per lo più, da donazioni, finanziamenti agevolati oppure a fondo perduto e, soltanto in minima parte, da credito ordinario. Dunque, la finanza che è impegnata nella lotta contro la povertà e l’esclusione finanziaria è, ancora oggi, una finanza tipica del cosiddetto terzo settore e che vive al margine dei sistemi finanziari regolamentati.

Nella seconda accezione richiamata, il sostegno finanziario viene assicurato solamente ad alcuni comparti economici giudicati etici dal finanziatore, in base a un criterio soggettivo che omologa un comune senso del giusto. Secondo tale approccio, per es., non vengono finanziati il settore degli armamenti, dell’alcol, del tabacco, del gioco d’azzardo, della pornografia, mentre vengono sostenuti con maggiore favore gli investimenti per l’ambiente, per la cultura, per l’arte, per il sociale. Gli intermediari finanziari che adottano tale approccio sono, principalmente, gli investitori istituzionali e, in particolare, i Fondi comuni di investimento etici e i Fondi pensione etici. Piuttosto che al credito ordinario erogato dal sistema bancario, dunque, tale approccio è riconducibile all’attività di gestione collettiva del risparmio – ovvero all’offerta di strumenti finanziari che rappresentano quote indistinte di un patrimonio comune, quali, per es., le quote dei Fondi comuni di investimento – costruito in base a specifici criteri di eticità soggettiva. Tuttavia, negli anni più recenti, anche alcuni intermediari bancari più sofisticati hanno cominciato a selezionare il proprio portafoglio crediti in base a tali criteri selettivi.

Nella terza prospettiva individuata, infine, l’eticità è ricondotta all’osservanza delle norme, come pure all’adozione di comportamenti che riducono i rischi di conflitti di interesse all’interno dell’azienda, o tra l’azienda e l’ambiente esterno, e minimizzano, inoltre, i rischi ambientali e di violazione dei diritti umani. Il rispetto delle norme richiama il concetto di compliance, mentre l’attenzione verso comportamenti etici risponde a quelli tipici della Responsabilità sociale d’impresa (CSR, Corporate Social Re-sponsibility); entrambe le funzioni sono sempre più presenti non solo nelle organizzazioni non-profit ma anche nelle imprese e negli intermediari finanziari. La compliance ha acquistato importanza in virtù del fatto che la gestione aziendale è sempre più condizionata dalle numerose normative esistenti, a livello sia nazionale sia internazionale, che le imprese sono tenute a rispettare. Si pensi, per es., alle previsioni in materia di tutela ambientale, di sicurezza sul lavoro o, nel campo più strettamente finanziario, alle diverse normative in materia di rischi, di trasparenza, di responsabilità amministrativa, di abusi di mercato, di governance aziendale, di antiriciclaggio, di antiusura. La CSR, per altro verso, sposa un orientamento gestionale che va oltre il rispetto delle stesse normative e definisce una funzione-obiettivo più ampia del semplice profitto. Con la CSR, infatti, non sono solo proprietà e management a definire e a contendersi il valore creato dall’impresa, ma tutti i soggetti direttamente e indirettamente interessati: i cosiddetti stakeholders. Questi possono essere ricondotti a figure interne all’azienda, o che interagiscono con essa – come i dipendenti e i fornitori – o a soggetti esterni – come i clienti o i cittadini residenti nelle zone dove l’impresa ha sede e svolge la propria attività. La CSR mette al centro della funzione-obiettivo dell’impresa la composizione dei diversi interessi dei molteplici stakeholders coinvolti nell’attività dell’impresa. Diviene chiaro come, secondo una simile prospettiva, le dimensioni ambientali, umanitarie e sociali, si affranchino da uno storico ruolo di sudditanza rispetto all’obiettivo del profitto e, in quanto obiettivi in sé, contribuiscano a definire modalità e vincoli per il conseguimento dei risultati più strettamente economici. L’efficienza nel rispetto delle norme e l’osservanza di doveri fiduciari nei confronti degli stakeholders sono ormai chiavi gestionali adottate da un numero sempre maggiore di intermediari finanziari e contribuiscono a elevare il grado di eticità dell’attività di intermediazione finanziaria. Tuttavia, mentre la compliance si esplicita, in primo luogo, nell’osservanza di specifiche norme primarie e secondarie, la CSR trova uno spirito applicativo più profondo nell’adozione, da parte delle imprese, di forme di autoregolamentazione spontanea espresse nei codici etici e nelle carte dei valori aziendali. In tali documenti si definisce lo stile di condotta etico-morale dell’impresa, anche rispetto a situazioni non regolamentate dal legislatore e che possono riguardare i rapporti tra proprietà, management e dipendenti, come anche i rapporti con i fornitori e con gli altri stakeholders esterni.

Le variabili per una finanza etica

Stabilita una tassonomia delle attività che sono comunemente ricondotte nell’ambito della finanza etica, occorre chiedersi se i criteri utilizzati siano sufficienti per definire finanziariamente etiche tali attività. Il dibattito in materia sembra, infatti, contraddistinto da un cortocircuito logico che identifica il carattere etico dell’attività soltanto nell’eticità del suo obiettivo e del comportamento che viene adottato per poterlo conseguire.

Erogare credito a gruppi di donne che vivono in stato di povertà, e per di più sono residenti in Paesi in via di sviluppo, caratterizza l’attività di finanziamento come meritevole, perché associata a un evidente obiettivo umanitario. È legittimo chiedersi, tuttavia, se tale obiettivo sia sufficiente a definire etica anche l’attività finanziaria in sé, ovvero le modalità di gestione e le condizioni economico-finanziarie applicate ai prestiti concessi.

Allo stesso modo, è doveroso chiedersi se una banca che escluda dal proprio portafoglio-clienti le imprese del settore degli armamenti, o quelle dell’alcol, possa essere, solo per questo, definita etica. Essere contrari ai conflitti può non voler dire essere contrari a finanziare la produzione di armi destinate alle forze di polizia. La lotta all’alcolismo può non voler coincidere con un mancato sostegno finanziario ai viticoltori efficienti o con la rinuncia a un buon bicchiere di vino durante la cena. Diviene più corretto, in tali circostanze, parlare di finanza selettiva prima ancora che di finanza etica. Negli esempi che sono stati appena esposti, infatti, il grado di eticità è talmente relativo che l’intermediario può solamente selezionare, secondo criteri di inclusione e di esclusione, i settori, le aziende e i prodotti, e lasciare al singolo investitore il giudizio soggettivo di eticità e, in ultima istanza, la direzione del proprio investimento.

Per altro verso, l’assunzione di comportamenti che non confliggano con gli interessi degli stakeholders o con i valori umanitari e ambientali, e che siano rispettosi delle normative che regolano il corretto funzionamento del mercato, è chiaramente una condizione necessaria per etichettare come etico un intermediario ma, non per questo, possiamo considerarla anche una condizione sufficiente per caratterizzarne come etica l’attività finanziaria.

Si tratta, dunque, di distinguere l’eticità dell’obiettivo e del comportamento dall’eticità dell’attività finanziaria in senso stretto. Gli obiettivi umanitari e ambientali, come pure l’osservanza delle norme e delle forme di autoregolamentazione, sono tratti etici di qualsiasi attività ma non sono distintivi dell’eticità dell’attività finanziaria.

L’etica del comportamento

Fermarsi qui renderebbe più complesso difendere l’idea che possa esistere uno spazio per una forma di finanza etica. Gli scettici, a questo riguardo, sostengono che l’eticità del comportamento non può essere imposta dal legislatore e interessa invece la sfera personale e morale dei singoli individui. Tale impostazione – quando estremizzata – induce a sintetizzare tutte le normative in materia nel comandamento «non rubare». Poiché il rispetto di questa prescrizione dipende dalla morale individuale e dalla forza delle circostanze tentatrici, ne discenderebbe, da un lato, che i mercati finanziari, per l’oggetto stesso della loro attività, si configurano come luoghi dove la tentazione del peccato alberga più che in altri ambiti, dall’altro, che chi opera in tali mercati è più soggetto di altri a soccombere alla sindrome di re Mida. Dunque, a nulla servirebbe lo sforzo del legislatore e le forme di autoregolamentazione, come i codici etici e le carte di valore aziendale, considerate semplici forme di cosmesi gestionale, né potrebbero risultare molto più utili le forme repressive: l’unico rimedio consisterebbe pertanto nell’educazione comportamentale.

A tale approccio è possibile contrapporre una posizione più costruttiva – e non per questo meno disincantata – che pone comunque le basi per un’eticità della finanza. In primo luogo si è sempre nel campo dell’etica del comportamento e non ancora in quello specifico dell’etica finanziaria. Tuttavia, anche su questo primo livello è noto come proprio nel giudizio morale che distingue tra azioni giuste o sbagliate entrino in gioco due fattori: un sistema razionale e normativo di regole e un insieme di risposte emotive in parte associate a esse. È dunque nella combinazione tra precetti convenzionali e regole sentimentali che si costruisce la capacità di attuare comportamenti che non siano lesivi dell’altro. Secondo questa prospettiva, l’interazione tra normative primarie e secondarie e altre forme di autoregolamentazione spontanea può risultare utile a conciliare il sistema cogente, che inibisce e penalizza i comportamenti scorretti, con il sistema empatico proprio delle autoregolamentazioni. I codici etici e le carte valori aziendali – quando effettivamente costruiti e condivisi con tutti gli stakehold-ers – contribuiscono in maniera decisiva a creare quel sentimento di empatia che alimenta lo stato di sofferenza al dolore dell’altro e ci induce a non danneggiarlo o a prenderci cura di lui, nel caso in cui venga danneggiato da altri (Nichols 2004). Questo, lo ripetiamo, a livello di eticità comportamentale.

L’eticità dell’intermediazione finanziaria

Per una eticità finanziaria, tuttavia, occorre qualcosa di più. Per rendere etica la finanza occorrono altre due condizioni, oltre agli obiettivi e ai comportamenti, che possono essere ricondotte alla profondità dell’attività etica e all’eticità dell’intermediazione finanziaria stessa (fig. 2).

Rispetto alla profondità della finanza etica, la questione si pone a tre livelli: quello dell’estensione, quello della trasversalità e quello del consolidamento. In breve, occorre stabilire quali siano i confini operativi entro i quali estendere i criteri di eticità adottati perché un intermediario finanziario possa fregiarsi della qualifica di etico. L’estensione indica i confini dell’integrazione verticale dell’eticità di obiettivi e comportamenti: una banca che eroga finanziamenti etici deve per questo motivo raccogliere risparmio etico o può finanziare i prestiti etici con risparmio tradizionale? In altri termini, occorre chiarire se l’eticità debba essere assicurata su tutte le attività a monte e a valle del core business. La trasversalità indica i confini dell’integrazione orizzontale dell’eticità di obiettivi e comportamenti: un gruppo bancario che, oltre al credito, offra anche prodotti assicurativi, deve garantire lo stesso grado di eticità a entrambi i segmenti operativi? Occorre, dunque, stabilire se debbano essere etiche anche le attività collaterali, correlate e strumentali al core business. In ultimo, il consolidamento segnala il grado di eticità dei confini partecipativi dell’intermediario: un fondo di investimento etico controllato da una banca capogruppo che eroga finanziamenti al settore degli armamenti, può comunque definirsi etico? In altre parole, occorre chiarire se i rapporti partecipativi debbano essere considerati nella valutazione di eticità o se ogni singolo intermediario debba essere valutato in autonomia. La profondità dell’attività etica, e dunque l’eticità valutata in termini di estensione, trasversalità e consolidamento, è materia non risolta, rispetto alla quale l’attenzione di operatori, istituzioni e mercati è ancora molto ridotta. La definizione di confini operativi più precisi per le attività etiche offrirebbe al mercato maggiore trasparenza e contribuirebbe a ridurre il grado di disallineamento concorrenziale di cui alcuni operatori etici oggi possono avvalersi, a volte in modo ingiustificato.

Le questioni relative all’etica comportamentale meritano, dunque, un’urgenza interpretativa e di indirizzo, a livello sia nazionale sia internazionale.

Ancora più grave, peraltro, risulta l’incertezza sul terzo fattore che contribuisce a definire il carattere etico della finanza: l’eticità dell’intermediazione finanziaria. Cosa rende etica l’attività di intermediazione? La risposta è tanto semplice quanto scomoda: il costo dell’intermediazione. Questo rappresenta, da un lato, l’onere che il beneficiario-cliente deve sostenere per ottenere il prestito o un altro servizio, dall’altro, la remunerazione che l’investitore – la banca finanziatrice o il sottoscrittore di fondi eti-ci – richiede all’investimento. In tale ottica, per es., è difficile non ammettere che, a parità di altre condizioni, tra due finanziamenti destinati a persone disagiate residenti in Paesi in via di sviluppo, quello più etico risulterebbe quello meno costoso. Così pure, sarebbe lecito attendersi che investitori che affiancano all’obiettivo del profitto obiettivi sociali e umanitari siano disposti a ottenere un rendimento minore di quello di mercato, a fronte della certezza di sostenere attività che abbiano uno sfondo etico.

Eppure, nella realtà dei fatti, i finanziamenti etici possono prevedere costi di intermediazione più alti di quelli di mercato, così come la maggior parte dei Fondi comuni di investimento etici offre rendimenti in linea con i fondi tradizionali. Perché? La motivazione di fondo che viene spesso addotta sostiene che l’intermediazione etica non può essere assimilata alle donazioni o agli aiuti a fondo perduto, ma si caratterizza come un’attività di intermediazione tradizionale: dunque, con un suo costo.

Con riferimento all’attività creditizia, l’onerosità delle condizioni è spiegata, principalmente, dai significativi costi operativi e dall’alto rischio di credito associato ai beneficiari e alle iniziative sostenute. Da questo punto di vista, un prezzo più elevato di quello medio di mercato è giustificato dalla specifica correlazione rischio-rendimento. Tale attitudine trova spazio, peraltro, anche nella particolare anelasticità della domanda: per il beneficiario della finanza etica, tale costo sarebbe comunque accettabile in quanto è compensato dalla possibilità di accesso a servizi finanziari che altrimenti per lui risulterebbero inaccessibili. Con riferimento alla gestione collettiva del risparmio, i rendimenti di mercato assicurati dai Fondi comuni di investimento e dai Fondi pensione etici sono spesso spiegati da una sostanziale non eticità del portafoglio che propongono. Di fatto, l’oggettiva difficoltà di rintracciare, selezionare e monitorare investimenti etici comporterebbe costi di gestione talmente elevati da non consentire rendimenti appetibili all’investitore; per tale ragione, i portafogli etici prevedono quote elevatissime di titoli di Stato e di titoli di intermediari finanziari quotati, e sono riconducibili più a una finanza selettiva che a una finanza etica. In tal caso, infatti, l’eticità del portafoglio è assicurata dall’adozione di semplici criteri di inclusione-esclusione, tipici, come detto in precedenza, di una finanza selettiva: è sufficiente che uno Stato non preveda la pena di morte o che una banca non finanzi il settore degli armamenti per ammettere i rispettivi titoli nel paniere.

L’alto costo di intermediazione riconducibile alla finanza etica trova, dunque, spiegazione in specifiche ragioni economiche. E tuttavia, ciò non può sollevare dall’onere di rintracciare una via di eticità anche per l’attività di intermediazione finanziaria. Nella sua accezione più immediata, questa attività consiste nel trasferimento di fondi da unità in surplus – ovvero da soggetti economici che hanno risorse finanziarie in eccesso rispetto alle proprie necessità – a unità in deficit, che si trovano a dover ricorrere al debito per far fronte ai propri bisogni. L’attività di intermediazione è tanto più efficiente quanto più sicuro, veloce ed economico è il trasferimento di risorse dagli uni agli altri. Dunque, in questa prospettiva, ‘efficiente’ sembrerebbe corrispondere a ‘etico’: favorire l’accesso ai servizi finanziari a soggetti che il sistema finanziario tradizionale esclude è sicuramente etico; favorire un accesso più sicuro, più veloce e meno costoso non fa che aumentare il grado di eticità dell’intermediazione. Eppure, per giungere a definire l’eticità dell’intermediazione finanziaria occorre valicare anche il concetto di efficienza, poiché l’efficienza è propria di tutte le attività, quindi anche dell’intermediazione finanziaria tradizionale. Per andare oltre, è utile richiamare le variabili che spiegano il costo dell’intermediazione; questo, infatti, è dato dalla somma di diverse componenti: il costo di approvvigionamento del denaro, i costi operativi, i costi riconducibili ai rischi sopportati dall’intermediario/investitore – primo tra tutti il rischio di credito –, il tasso di remunerazione del capitale. Il concetto di efficienza ben si lega alle prime componenti di costo richiamate; per la remunerazione del capitale, al contrario, si esce dai confini dell’efficienza e si entra nel campo dell’etica. Questa componente, infatti, è determinata non solo dal grado di rischio dell’investimento e dai tassi di remunerazione che il mercato associa a tale rischio, ma anche dalla forza negoziale del finanziatore/investitore rispetto al cliente-beneficiario e dal livello di concorrenza presente su quello specifico segmento di mercato. Il mercato della finanza etica è, rispetto a questi due fattori, fortemente esposto a comportamenti non etici da parte degli intermediari: si caratterizza, infatti, come un luogo nel quale l’intermediario si muove, per lo più, in un contesto di monopolio o di bassa concorrenza, rispetto alle singole iniziative e a specifici target di clientela, e i beneficiari assumono il ruolo di contraenti deboli che non possono vantare alternative rispetto all’unica offerta che gli viene proposta. Un mercato, cioè, nel quale la distribuzione della ricchezza creata non trova paletti né regolamentari né legati alle forze negoziali e della concorrenza. Quando il tasso di remunerazione del capitale è uguale o superiore a quello mediamente applicato sul mercato per operazioni tradizionali assimilabili si esce dai confini della finanza etica per tornare in quelli di una finanza tradizionale di tipo selettivo. L’intermediario/investitore offre i propri prodotti a soggetti esclusi dalla finanza tradizionale, ma lo fa applicando gli stessi criteri gestionali e di pricing propri della finanza tradizionale: sta semplicemente entrando in nuove aree di business. Solo se il tasso di remunerazione del capitale è inferiore a quello medio di mercato l’investitore può definirsi etico: nella distribuzione della ricchezza creata sta rinunciando a una quota-parte del proprio guadagno a favore di soggetti esclusi dalla finanza tra­dizionale. Il differenziale tra il tasso medio di remunerazione del capitale, per operazioni tradizionali assimilabili, e il tasso applicato alle operazioni etiche può essere preso come proxy del grado di eticità dell’intermediazione finanziaria. In questa prospettiva, la criticità operativa risulta essere la scelta di un tasso medio di mercato da utilizzare come termine di riferimento per la remunerazione del capitale. La finanza etica, infatti, vive ancora oggi di iniziative molto eterogenee tra loro, per contesti geografici di localizzazione e per natura delle istituzioni promotrici che, peraltro, presentano costi operativi e gestionali diversi e che scontano una forte carenza di sistematicità nella conservazione e nel trattamento dei dati e dei flussi informativi. Per tali ragioni, risulta poco agevole definire criteri di omogeneità tra operazioni finanziarie tradizionali e operazioni etiche. Anche in quest’ottica, diviene necessaria la definizione di un quadro normativo che circoscriva con chiarezza i confini operativi della finanza etica.

L’eticità del consumatore

La finanza etica, tuttavia, non può concentrarsi solo su un’eticità dell’offerta; esiste anche una dimensione etica della domanda. Spesso dimenticata, questa richiama l’idea di un’eticità da parte del cliente-beneficiario ed è strettamente collegata al fenomeno del sovraindebitamento. Nella finanza etica, l’indebitamento del singolo è correlato all’assunzione di un finanziamento richiesto per avviare o sostenere un’attività produttiva, sia pure di ridotte dimensioni. Secondo tale direttrice, si distingue con forza la finanza etica dalla semplice donazione a fondo perduto o dalla carità in senso stretto. Il passaggio dalla carità al finanziamento offre dignità al soggetto che versa in stato di povertà e gli attribuisce un senso di responsabilità – anche nei confronti della collettività – collegato al suo impegno e alla sua capacità di onorare il debito contratto con i frutti di un’attività produttiva. Così, la finanza etica opera congiuntamente sul piano dell’emancipazione economica e di quella umana e sociale.

Quando, al contrario, il debito viene richiesto per finanziare consumi, la finanza tradizionale rischia di convertirsi in una finanza antietica; la soglia di confine sta proprio nella natura e nella misura di tali consumi. In tale ottica, la responsabilità etica non grava solo sull’intermediario che offre il finanziamento ma anche sul consumatore che lo richiede. Il primo è chiamato a valutare la capacità di rimborso del cliente; il secondo il carattere di necessità dei consumi da finanziare con indebitamento e la loro coerenza rispetto al proprio tenore di vita e alle prospettive di guadagno. La larga diffusione del credito al consumo e delle diverse forme di dilazionamento del pagamento, oramai abitudini diffuse anche nei Paesi europei e non solo negli Stati Uniti, è spiegata, in una certa misura, anche da una sempre maggiore forza dell’istinto del godimento a scapito di quello del risparmio. Lo spiegano la natura dei beni acquistati a debito e la destinazione dei consumi finanziati. Certamente, l’intermediario finanziario non può entrare nella sfera personale di ogni singolo cliente trasformandosi da finanziatore in moralizzatore; il suo ruolo è confinato alla valutazione della sostenibilità della spesa e a una comunicazione trasparente delle condizioni economiche del finanziamento. L’astinenza dal consumo superfluo – quando questo può determinare insolvenza – è decisione personale del cliente-consumatore.

Così, per una finanza etica, intermediario e cliente dovrebbero incontrarsi sul terreno dell’astinenza; quello dall’accumulo di capitale il primo, quello dal godimento del consumo superfluo il secondo. Per l’intermediario, questo si traduce nel non cadere nella tentazione di porre in essere pratiche di selezione avversa – accogliendo clienti eccessivamente rischiosi – per il consumatore, nel non cadere nella tentazione di adottare comportamenti che siano connotati da azzardo morale – occultando all’intermediario informazioni utili a valutare il suo effettivo stato di solvibilità pur di soddisfare bisogni superflui il cui costo non potrà sostenere.

Microfinanza e microcredito

Nel mercato della finanza etica, microfinanza e microcredito meritano un posto d’eccezione. A essi viene riconosciuto un primato di eticità rispetto a tutte le altre attività finanziarie considerate etiche. La stessa Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), con la risoluzione 52/194 del 1997 ha voluto sottolineare l’importanza del microcredito quale strumento di sviluppo economico e di lotta alla povertà; con la successiva risoluzione 58/221 ha indicato il microcredito tra gli strumenti utili al raggiungimento degli obiettivi del millennio e ha proclamato il 2005 ‘Anno internazionale del microcredito’, invitando gli Stati membri a costituire appositi comitati nazionali. Il Comitato nazionale italiano per il microcredito, costituitosi nel 2005, è oggi un comitato permanente e opera a favore sia del microcredito per la cooperazione internazionale sia del microcredito domestico. Definire la natura della microfinanza e del microcredito, oggi, risulta complesso per almeno due ragioni: non è chiaro fino a dove si estendano i loro confini operativi né quale sia la loro più intima natura. La questione è sintetizzabile in due domande che ricorrono tra gli operatori e gli studiosi e che non hanno trovato risposta certa: che differenza esiste tra la microfinanza, il più noto microcredito e la finanza tradizionale? La microfinanza rientra di diritto nel campo della finanza etica?

Con l’espressione microfinanza si è soliti individuare l’offerta di servizi finanziari di modesta entità rivolta a una clientela a reddito nullo, o a basso reddito, o con difficoltà di accesso ai servizi finanziari di base. Nel bacino della microfinanza, dunque, si fa rientrare qualsiasi attività finanziaria che si caratterizza per le dimensioni ridotte dei fondi impiegati, dei redditi dei beneficiari e delle iniziative sostenute. Per lungo tempo la microfinanza ha coinciso con il microcredito, ovvero con l’offerta di prestiti di piccolo importo, in favore di clienti con gravi problemi di sussistenza, residenti in Paesi in via di sviluppo: i ‘più poveri tra i poveri’ e i poveri.

I cambiamenti sociodemografici degli ultimi decenni hanno, tuttavia, profondamente mutato lo scenario economico a livello mondiale. Per la microfinanza, il nuovo scenario ha significato nuovi potenziali beneficiari, nuovi prodotti, un maggiore coinvolgimento degli intermediari finanziari (fig. 3).

I clienti della microfinanza

L’esclusione dal sistema finanziario tradizionale, intesa come incapacità di accedere ai servizi finanziari di base, coinvolge, attualmente, milioni di persone, residenti sia nei Paesi in via di sviluppo sia nei Paesi più evoluti. Le tradizionali soglie di povertà hanno trovato nuove dimensioni e si sono generate nuove categorie di poveri, localizzabili ormai anche al di fuori dei Paesi in via di sviluppo.

Se le prime esperienze di microcredito, di fatto, erano circoscritte a persone fisiche con problemi di sussistenza, attualmente i potenziali beneficiari possono ricondursi anche a soggetti che, pur non versando in stato di povertà estrema, scontano una generica difficoltà di accesso al sistema finanziario. La naturale conseguenza, dunque, è che la nuova microfinanza si trova a dover estendere il proprio target dai ‘più poveri tra i poveri’ a tutti coloro che sono vittime di una forma di esclusione finanziaria: tale fenomeno è stato descritto in letteratura come l’incapacità di accedere ai servizi finanziari in modo appropriato (Carbo, Gardener, Molyneux 2005). L’esclusione dal sistema finanziario può essere determinata da numerose ragioni. In primo luogo, esiste un’autoesclusione che deriva, principalmente, da una percezione di inadeguatezza del singolo individuo rispetto alle condizioni richieste dagli intermediari finanziari; rientrano in questa categoria i ‘più poveri tra i poveri’. La distanza con il sistema finanziario, inoltre, può essere motivata dalla mancanza di requisiti di affidabilità economica dei potenziali clienti e, in questo caso, si parla di esclusione dall’accesso al credito (access exclusion), ovvero di un’esclusione motivata a seguito di un processo di valutazione del rischio condotta dagli intermediari finanziari sul cliente: in tale categoria rientrano i poveri. L’esclusione dal sistema finanziario può essere, peraltro, la conseguenza di un’esclusione dal sistema sociopolitico (political exclusion): ne sono vittime, per es., gli immigrati o gli ex detenuti e, comunque, tutti i soggetti che non risultino bancabili in quanto non censiti. Esistono, poi, soggetti censiti (immigrati e non) che non hanno accesso al sistema finanziario perché non sono in grado di sostenere i costi e le condizioni dei prodotti finanziari offerti; si tratta in questa ipotesi di soggetti penalizzati che subiscono una condition exclusion. Infine, è possibile rintracciare una forma di esclusione finanziaria che colpisce i clienti considerati dagli intermediari come marginali (per lo più piccoli imprenditori), in quanto rappresentano un target a basso valore aggiunto secondo i tradizionali modelli di valutazione del cliente. I non censiti, i penalizzati e i marginali, rappresentano i nuovi clienti potenziali di una microfinanza moderna e sono spesso localizzati in Paesi con economie avanzate, e dunque anche in Europa.

I prodotti della microfinanza

Nuovi beneficiari hanno portato con sé nuove esigenze finanziarie. A fianco del microcredito, nel corso dell’ultimo decennio, si sono sviluppati altri servizi di microfinanza. Tale sviluppo ha tratto impulso anche dalla constatazione che un’assistenza finanziaria diversificata aumenta l’efficacia dei programmi, migliorandone al tempo stesso il grado di sostenibilità. L’ampliamento dell’offerta di servizi si è sviluppato lungo cinque direzioni: prodotti di credito alternativi ai prestiti, servizi di risparmio, prodotti assicurativi, servizi di finanza strutturata e servizi di assistenza tecnica.

Il microcredito.Il microcredito rappresenta il prodotto storico della microfinanza. L’origine del microcredito moderno viene generalmente ricondotta all’esperienza della Grameen bank, ideata e fondata da Muhammad Yunus in Bangla Desh nel 1983 (Yunus 1998). In realtà, esperienze precedenti di finanziamenti assimilabili al microcredito – si pensi, a titolo d’esempio, a quelli erogati dalle nostre casse peote (F. Tutino, Le casse peote: peculiari organismi creditizi operanti nel Veneto, «Il risparmio», 1975, 4, pp. 583-607) – sono presenti anche in Italia.

Nella sua accezione classica, il microcredito si configura come un prestito di modesto ammontare, spesso privo di garanzie tradizionali, che viene concesso con lo scopo di finanziare il capitale circolante necessario al funzionamento di un’attività. Più raramente, attraverso i microcrediti è stato finanziato l’acquisto di immobilizzazioni materiali.

Le risorse, provenienti principalmente dai fondi donati da Stati sovrani e istituzioni sovranazionali, sono canalizzate ai destinatari finali, per lo più, tramite organizzazioni non governative e istituzioni locali. Gli importi dei finanziamenti variano sensibilmente a seconda della localizzazione geografica dei beneficiari; nei Paesi in via di sviluppo tali crediti possono essere di pochi dollari, mentre nei Paesi industrializzati sono ricompresi nel microcredito anche finanziamenti per importi pari a ventimila euro e oltre. Tipicamente, tali prestiti hanno una durata limitata (6-18 mesi) e vengono rimborsati con pagamenti frequenti (mensili o settimanali).

Anche se rivolto a categorie di beneficiari in difficoltà economica, il microcredito, che pur si caratterizza per finalità filantropiche e sociali, non ha mai assunto i connotati di una semplice donazione. È bene ribadire come, sin dalle prime esperienze, si sia posta forte attenzione al recupero dei crediti e al tasso di sofferenza del portafoglio prestiti. La gestione del rischio di credito, tuttavia, è stata realizzata ricorrendo a soluzioni meno canoniche rispetto alle consuete politiche di gestione adottate dagli intermediari finanziari tradizionali. Data la necessità di non richiedere garanzie personali o reali a clienti che non sarebbero comunque in grado di offrirne, nei programmi di microcredito la riduzione del rischio (risk mitigation) viene realizzata, prevalentemente, secondo tre modalità: la costituzione di gruppi solidali; la possibilità di accedere a finanziamenti di ammontare via via più elevato concessi soltanto a quei beneficiari che hanno rimborsato con puntualità i microcrediti ottenuti in prima istanza; la costituzione di un fondo di garanzia alimentato anche da una percentuale del flusso di interessi riscosso dai clienti.

La metodologia di erogazione incentrata sui gruppi solidali (group lending) si basa su un meccanismo di corresponsabilità di ogni cliente rispetto all’insolvenza di ogni altro componente del gruppo. Iniziata con successo dalla Grameen bank di Yunus, e ripresa in molte esperienze dai felici esiti in altri continenti, prevede l’erogazione di prestiti a soggetti che devono avere preventivamente costituito un gruppo solidale, la cui numerosità può variare dalle cinque alle otto persone. Per massimizzare l’efficacia della pressione sociale proveniente dagli altri membri del gruppo a rimborsare puntualmente i crediti ricevuti, i gruppi sono, di solito, costituiti spontaneamente dai beneficiari, senza alcun intervento delle istituzioni di microfinanza. L’azione di controllo esercitata all’interno del gruppo solidale dai membri che lo compongono (definita peer selection) riduce la selezione avversa nel mercato del credito, poiché ogni membro del gruppo, avendo maggiori informazioni, rispetto all’istituzione di microfinanza, sulla rischiosità degli altri membri, potrà decidere di non accettare all’interno del gruppo solidale soggetti con profili di rischio diversi dal proprio. La peer selection all’interno dei gruppi, inoltre, finisce per ridurre anche l’azzardo morale che potrebbe derivare dagli incentivi per i membri del gruppo a intraprendere progetti più rischiosi di quelli enunciati, una volta ottenuto il finanziamento. I gruppi solidali, tuttavia, presentano il limite di funzionare egregiamente come meccanismo di pressione verso comportamenti virtuosi soltanto in Paesi o aree in cui i vincoli di appartenenza a una medesima collettività sono chiaramente avvertiti. Le esperienze di microfinanza nei Paesi più sviluppati, o all’interno di grandi realtà urbane, hanno dimostrato come non sia sempre facile costituire dei gruppi solidali e come, una volta costituiti, l’incentivo al free-riding da parte dei membri dei gruppi sia spesso prevalente sul monitoraggio tra i membri di uno stesso gruppo. In tali realtà la costituzione di fondi di garanzia mediante risorse pubbliche, oppure con risorse date in dono da privati, risulta essere spesso la forma di mitigation decisamente più percorribile.

Gli altri servizi. La progressiva estensione del target dei beneficiari dalla categoria dei ‘più poveri tra i poveri’ fino a quella dei penalizzati ha fatto crescere la necessità di associare all’attività creditizia, tipica del microcredito, l’offerta di altri servizi. Tale necessità trova le proprie ragioni in due determinanti principali: da un lato, nuovi target di beneficiari identificano nuove esigenze finanziarie da soddisfare; dall’altro, alcune categorie di prenditori, e in particolare i marginali e i penalizzati, esprimono una maggiore capacità associativa e determinano una più decisa complessità dell’organizzazione e della gestione del gruppo finanziato che, a sua volta, esprime esigenze finanziarie più sofisticate e impone controlli più intensi da parte delle istituzioni che esercitano la microfinanza e degli eventuali donatori. Per tali vie, è divenuto naturale implementare, nell’ambito di progetti di microfinanza, strutture di sostegno che prevedano, oltre all’erogazione del credito, altri servizi. Questi possono rientrare nella categoria dei servizi finanziari in senso stretto o estendersi a servizi di natura tecnico-gestionale. Tra i primi, è possibile rintracciare l’offerta di strumenti di credito alternativi, di strumenti di deposito, come pure quella di prodotti assicurativi.

Tra i prodotti creditizi alternativi al microcredito assume rilievo il microleasing, grazie al quale le istituzioni di microfinanza riducono il rischio che i fondi prestati possano essere destinati a scopi non inerenti l’attività finanziata e mantengono la proprietà del bene acquistato fino a che il pagamento dei canoni non sia stato completato. Un’ulteriore direttrice di innovazione è rappresentata dalle iniziative di micro-venture-capital in base alle quali si prevede la partecipazione del finanziatore al capitale di rischio delle microimprese, mirando, in tal modo, a favorirne lo sviluppo nel medio e lungo periodo.

L’offerta di servizi di deposito da parte delle istituzioni di microfinanza, da un lato aumenta la massa monetaria sulla base della quale l’istituzione può effettuare i prestiti, dall’altro stimola il senso di responsabilità e di cultura finanziaria del beneficiario. La necessità di canalizzare il risparmio dei beneficiari emerge, poi, in maniera più decisa al crescere del grado di bancabilità del beneficiario stesso, principalmente perché allo stesso tempo aumenta la percentuale dei ricavi, generati dall’attività finanziata, non destinati a risolvere i problemi di sussistenza del prenditore. Inoltre, a un più alto grado di bancabilità dei beneficiari corrisponde, generalmente, una compagine associativa più strutturata – per lo più in forma di società cooperativa – che, spesso, sopravvive al progetto e che, per divenire autonoma, necessita di attivare un circuito finanziario completo.

L’altra frontiera della microfinanza è rappresentata dall’offerta di prodotti microassicurativi a favore di soggetti o gruppi di meno abbienti. Le microassicurazioni sono dedicate a coprire i rischi specifici di progetto, sia tecnici sia finanziari, e possono essere estese a tutto il complesso delle attività economiche riconducibili al gruppo finanziato. Tuttavia, è opportuno sottolineare come l’offerta diretta di servizi assicurativi da parte di istituzioni che già offrono altri prodotti microfinanziari possa accrescere la rischiosità gestionale di tali intermediari e tenda, comunque, ad aumentare la complessità organizzativa degli stessi. Tutto questo induce a ritenere che sia più opportuno, per le istituzioni di microfinanza meno strutturate, distribuire prodotti realizzati da intermediari assicurativi tradizionali, trasferendo su questi i relativi rischi (cfr. a tale proposito Brown 2001).

Infine, la presenza sempre più diffusa di beneficiari organizzati in cooperative o in altre forme associative strutturate, spesso abbinata a una maggiore autonomia operativa degli stessi, determina la necessità di ricorrere a ulteriori forme di assistenza. In tali circostanze, il ruolo dei donatori-finanziatori si articola su due linee: quella dei controlli da applicare per verificare il rispetto di sani criteri gestionali e operativi e quello di un’assistenza tecnica vera e propria alle attività di progetto. Tale assistenza può riguardare la gestione amministrativa e finanziaria ma può anche estendersi all’offerta di servizi specifici a carattere non finanziario; non è raro, per es., il caso in cui i beneficiari necessitino di un supporto nelle fasi della commercializzazione e della distribuzione dei prodotti, in particolare quando la sostenibilità del progetto richieda un’apertura su mercati che non siano riconducibili solamente al bacino locale.

Le istituzioni della microfinanza

L’estensione della microfinanza a nuove categorie di beneficiari, unita al bisogno di offrire una serie più articolata di prodotti microfinanziari, ha determinato la necessità di una più diffusa partecipazione degli intermediari finanziari ai programmi di microfinanza, imponendo una rivisitazione del ruolo delle ONG e delle istituzioni specializzate. Non a caso, in questi ultimi anni, gli intermediari finanziari operanti nei Paesi industrializzati hanno prestato sempre maggiore attenzione alla microfinanza. Questa rappresenta una via per entrare in contatto e fidelizzare nuove fasce di clientela e contribuisce a migliorare notevolmente il bilancio sociale dell’intermediario. Ragioni economiche e di immagine stimolano dunque, allo stato attuale, un maggiore coinvolgimento degli intermediari finanziari in programmi di microfinanza.

I recenti sviluppi della microfinanza richiedono una nuova tassonomia delle istituzioni che possono considerarsi potenzialmente attive sul mercato microfinanziario. In tale ottica, si riconoscono quattro categorie di intermediari: i microfinance financial intermediaries, le microfinance banks in senso stretto, le microfinance-oriented banks, le microfinance-sensitive banks.

I microfinance financial intermediaries si presentano notevolmente eterogenei; al loro interno è possibile comprendere sia donatori privati e istituzionali sia un gran numero di organizzazioni non governative le quali operano essenzialmente offrendo microcredito nell’ambito di progetti di cooperazione allo sviluppo. In questo settore, di conseguenza, si rintracciano sia le cosiddette informal institutions, cioè operatori che non sono soggetti a regolamentazione e che agiscono per lo più su base volontaristica, sia istituzioni semiformali (semiformal institutions), ovvero soggette a forme di regolamentazione leggera, come sono appunto le ONG.

Nell’ambito delle formal institutions, ovvero delle istituzioni regolamentate, è possibile collocare tutte le categorie di banche di microfinanza. Le microfinance banks corrispondono a quelle banche o a quelle istituzioni finanziarie, spesso di emanazione pubblica o originate da processi di trasformazione di ex ONG, che hanno nella gestione di fondi destinati alla microfinanza il proprio scopo esclusivo o principale; generalmente, si tratta di intermediari che gestiscono risorse significative e che non risultano condizionate da forti vincoli di territorialità. Nell’ambito delle microfinance-oriented banks è possibile ricondurre tutte le banche o le istituzioni finanziarie che sono specializzate nel finanziamento alla piccola e media impresa e alla microimpresa e che, quindi, per vocazione, sono orientate a prendere parte attiva in programmi di microfinanza. Si tratta per lo più di banche locali di piccole dimensioni, con forte radicamento sul territorio (tra queste, per es., è possibile comprendere le Credit union e le Rotating savings and credit association, come pure le nostre banche di credito cooperativo) e di istituzioni finanziarie di diretta emanazione degli enti territoriali. Infine, nel bacino delle microfinance-sensitive banks possono essere collocati tutti gli intermediari bancari e finanziari che, per ragioni di opportunità economica o di immagine, individuano nella microfinanza un’attraente opportunità. Si tratta, in tal caso, di banche commerciali e di gruppi bancari di grandi dimensioni che decidono di entrare, seppure in modo marginale rispetto al proprio core business, nel segmento della microfinanza, costituendo al proprio interno delle specifiche società dedicate oppure delle specifiche divisioni.

Il nuovo scenario clienti-prodotti-istituzioni individua, nella microfinanza, differenti aree di business definite dalla combinazione beneficiari-servizi, ognuna delle quali risulta appannaggio di specifiche categorie di intermediari. Si evidenzia come, al crescere del grado di bancabilità dei beneficiari, il pacchetto dei servizi finanziari che accompagna un programma di microfinanza risulta via via più strutturato; in tal caso, il coinvolgimento delle ONG e delle microfinance banks è sempre più supportato dall’intervento di intermediari finanziari tradizionali. Tali istituzioni concentrano la propria attività sul segmento dei ‘più poveri tra i poveri’, dei poveri e dei non censiti, circoscrivendo i servizi finanziari offerti al credito e alle coperture assicurative. Al contrario, le microfinance-oriented banks e le microfinance-sensitive banks trovano nei beneficiari penalizzati e nei marginali i loro target più naturali e sono coinvolte in programmi con strutture finanziarie più complesse e articolate.

È bene considerare, tuttavia, che nelle recenti esperienze di microfinanza è possibile rintracciare un trend che individua modelli operativi non perfettamente codificabili. In particolare, si assiste a un movimento incrociato che vede un maggiore coinvolgimento degli intermediari finanziari nei programmi dedicati ai ‘più poveri tra i poveri’, ai poveri e ai non censiti e un parallelo coinvolgimento delle ONG e delle microfinance banks in programmi orientati ai penalizzati e ai marginali. Di fatto, l’esigenza di trovare forme di canalizzazione e di gestione dei fondi più efficienti crea per le microfinance-oriented banks e per le microfinance-sensitive banks spazi di intervento in programmi meno articolati; al tempo stesso, l’efficacia di programmi più strutturati viene esaltata dal contributo di ONG e microfinance banks che mettono a disposizione un maggiore radicamento sul territorio, utile a rendere ottimale il sistema relazionale tra intermediario e beneficiario, e un’expertise tecnico-operativa, utile in fase di progettazione e di monitoraggio del progetto.

Microfinanza come finanza etica

La microfinanza moderna, e in particolare l’ingresso degli intermediari finanziari tradizionali nel settore microfinanziario, pone con maggiore forza la questione se la microfinanza debba essere considerata finanza etica. Per rispondere a tale domanda, occorre contestualizzare i caratteri di eticità della finanza, precedentemente descritti, nel territorio della microfinanza.

In termini di obiettivi e di comportamenti, la microfinanza è naturalmente votata all’eticità: i programmi di microfinanza sono per lo più dedicati alla lotta all’esclusione finanziaria, alla povertà estrema, alla tutela dell’ambiente; gli operatori di microfinanza rispondono per lo più ad associazioni di volontariato, ONG, grandi donatori istituzionali che hanno nella loro filosofia aziendale un grado esplicito di eticità comportamentale. Salvo possibili eccezioni, dunque, le variabili richiamate non sembrano porsi come ostacoli a una microfinanza etica. Occorre, tuttavia, valutare altri due aspetti: quello relativo al consolidamento e quello relativo al costo dell’intermediazione. Tali fattori assumono estrema rilevanza in un’ottica prospettica che vede una sempre maggiore interazione tra operatori non-profit e intermediari finanziari. Il coinvolgimento degli intermediari tradizionali, come pure il semplice utilizzo di risorse private, può amplificare il rischio di un consolidamento antietico e di un aumento del costo dell’intermediazione microfinanziaria. Per il prossimo futuro, è possibile prevedere uno scenario in cui banche e intermediari finanziari non bancari saranno sempre più presenti sul mercato della microfinanza tramite proprie strutture societarie create ad hoc o attraverso legami partecipativi con realtà del mondo non-profit. Tale tendenza, oltre a incidere sull’etica del consolidamento, potrebbe accentuare l’attitudine, già presente nei programmi microfinanziari – e in particolare in quelli localizzati in Paesi in via di sviluppo – ad applicare un costo dell’intermediazione più elevato rispetto ai termini di riferimento di operazioni tradizionali equiparabili. La presenza di intermediari orientati al profitto, e l’utilizzo di fondi privati, possono generare un percorso di allontanamento da un’eticità di consolidamento e di costo dell’intermediazione. In particolare, gli obiettivi delle istituzioni orientate al profitto possono confliggere con la ricerca del delicato equilibrio tra sostenibilità ed espansione (outreach) tipica della microfinanza. La sostenibilità può essere interpretata come la necessità di conseguire una ripetibilità nel tempo dei programmi e delle istituzioni microfinanziarie; l’outreach come la profondità-selettività dell’intervento programmato. Questi due obiettivi sembrano a prima vista inconciliabili: la ripetibilità nel tempo è determinata dall’autosostenibilità economica, la profondità richiede maggiore attenzione per quei programmi mirati a fasce di clientela più svantaggiate, ma spesso meno numerose e più emarginate – anche geograficamente – e di conseguenza più costose da intercettare e gestire. In tale ottica, l’ingresso degli intermediari finanziari nel mercato della microfinanza rischia di spostare ulteriormente il peso dell’equilibrio tra sostenibilità e outreach a favore della prima e a scapito di un’eticità finan­ziaria e di obiettivo (v., tra gli altri, M. Schreiner, Aspects of outreach. A framework for discussion of the social benefits of microfinance, 1999, http://www.gdrc. org/icm/ppp/aspects.pdf).

Conclusioni

La finanza etica e la microfinanza moderna offrono a intermediari e investitori una nuova alternativa per proporsi ai mercati e ai clienti; tale alternativa poggia le sue basi sull’idea di un’esplicita valorizzazione degli obiettivi etici e dei comportamenti rispettosi delle norme, come pure sulla rinuncia a tassi di profitto di mercato, in ragione di un’etica distribuzione della ricchezza creata dalle attività finanziate. In chiave prospettica, dunque, la scelta che si pone agli operatori è quella tra una finanza commerciale e una finanza etica. Tra le forze che alimentano la finanza commerciale, la sempre maggiore attenzione agli obiettivi di sostenibilità e performance e a quelli di profitto giocano un ruolo decisivo. La trazione verso una finanza etica, d’altra parte, risponde all’esigenza di non sacrificare l’interazione con le fasce di clientela più emarginate e i progetti a minore valore aggiunto, ma al contrario di potenziarla, evitando di applicare condizioni di costo penalizzanti e non etiche. Nella finanza commerciale sostenibilità e performance sono gli obiettivi, l’etica figura come vincolo; nella finanza etica, l’eticità è l’obiettivo mentre sostenibilità e performance sono vincoli irrinunciabili.

In tale scenario, la prima condizione che un sistema finanziario efficiente deve assicurare è quella di indurre gli operatori a comunicare con trasparenza l’ambito di appartenenza – se commerciale o etico – dei propri rami operativi. Perché questo sia possibile è necessario, innanzitutto, predisporre un quadro normativo articolato e in grado di delineare con certezza i confini tra finanza etica e finanza commerciale.

Un mercato della finanza etica che rispetti le condizioni di eticità in termini di obiettivi, comportamenti, profondità e costo dell’intermediazione ha, poi, necessità di dotarsi di un network basato sulla collaborazione tra sistema non-profit e sistema finanziario tradizionale. Solo una sinergia tra profit e non-profit può consentire di conciliare il carattere commerciale con quello etico, ovvero di realizzare il più alto livello di eticità dell’intermediazione finanziaria compatibile con il vincolo della sostenibilità e degli obiettivi di performance. Alla sensibilità del legislatore, come pure alla volontà e alla capacità degli operatori e, in ultima istanza, alla pressione morale che i consumatori sapranno esercitare, è demandata la realizzazione di un mercato finanziario etico e sostenibile.

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