FEDERICO II il Grande, re di Prussia

Enciclopedia Italiana (1932)

FEDERICO II il Grande, re di Prussia

Federico CHABOD
Alberto BALDINI
Giuseppe GABETTI

Nacque a Berlino il 24 gennaio 1712, da Federico Guglielmo I e da Sofia Dorotea di Hannover. A dettare le norme per la sua educazione provvide lo stesso re, profondamente compreso del suo dovere, sempre preoccupato di fondare sul solido la fortuna del suo stato, ma a un tempo duro, gretto anche, incapace d' interessarsi a tutto che non fosse soldati o finanze. Poca storia "vecchia" si doveva insegnare al giovane principe: ma molta storia dei tempi recenti, che servisse più che altro a orientare il futuro reggitore dello stato prussiano nell'intrico delle questioni diplomatiche del presente. E niente letteratura, niente latino; ma molta matematica, molta economia politica; frequenti letture della Sacra Scrittura. A siffatto programma d'educazione mentale corrispondeva un programma d'educazione fisica, regolato anch'esso fin nei più minuti particolari, e parecchio aspro da sopportare, anche per giovani più robusti che non fosse Fritz. Così il re Federico Guglielmo intendeva formarsi un successore a sua immagine e somiglianza, duro alla fatica, buon militare, economo amministratore, fedele servo del Signore.

Ma l'erede al trono già dava a vedere di non essere dello stesso stampo del padre. C'era in quel ragazzo, fisicamente gracile, un bisogno di espansività umana e, insieme, di una vita spirituale non limitata ai calcoli matematici o all'economia, che contrastava con le semplici e rudi direttive paterne. E c'era poi accanto a lui la sorella, l'intelligente e vivace Guglielmina, legata da profondo affetto al fratello minore di lei di tre anni, la sua compagna di giochi, pronta a sostenerlo contro il padre, da cui ella era lontanissima per animo. Lo stesso precettore, il calvinista francese Duhan de Jandun, uno degli emigrati francesi nel Brandeburgo, varcava i limiti segnati da re Federico Guglielmo, e faceva apprendere al suo allievo cose non contemplate nei programmi, gli destava curiosità letterarie e filosofiche non previste dal re, gli metteva su finanche una biblioteca segreta di più di 3000 volumi, in cui F. poteva ritrovare poeti e filosofi e leggerli avidamente di nascosto dal padre. E così nel principe cresceva quel fermento di vita che il padre non avrebbe mai potuto capire; e fin nelle piccole cose cominciava a palesarsi il suo stato d'animo: insofferenza dei rozzi costumi della corte militaresca del re, ricerca di piccole raffinatezze esteriori, posate d'argento, vestiti, nastri francesi. Il padre, sospettoso e attento a seguire lo sviluppo del figlio, era malcontento; giunse anzi, più volte, a picchiarlo brutalmente, sempre poi rimproverandogli il suo amor delle vanità, delle cose esteriori. Halte dich an das Reelle.

Peggio ancora si misero le cose dopo la visita a Dresda, alla raffinata corte di Federico Augusto elettore di Sassonia (1728). Qui F. aprì gli occhi su un mondo che gli era sconosciuto, in cruda antitesi con la povera corte di Berlino; e ritornò nella reggia paterna più malcontento che mai del suo stato. A credere a quella buona lingua di Guglielmina, a Dresda F. sarebbe anche stato iniziato ai misteri di amore: certo, dopo d'allora, i rimproveri del padre divennero più aspri, più continui. F. era un libertino, un dissipatore: avrebbe mandato in rovina il regno. E già l'urto fra padre e figlio era entrato nella fase acuta, senza che la regina facesse pur un passo per attenuarlo, quando sopravvenne la questione del matrimonio. La regina Sofia Dorotea avrebbe voluto che F. sposasse la principessa inglese Amelia, assicurandosi così il governo del Hannover e l'indipendenza dal padre. Ma le condizioni che il governo inglese avrebbe pretese per consentire al progetto (in sostanza mutamento della politica estera della Prussia, fino allora legata a quella austriaca) provocarono una vivace reazione in Federico Guglielmo: il progetto di matrimonio fu seppellito, e F. vide svanire la speranza di poter vivere finalmente da sé. Progettò allora la fuga, mettendosi d'accordo con due ufficiali del suo seguito, i tenenti Katte e Keith, e cercando di approfittare di un viaggio nella Germania meridionale che compieva insieme col padre. Ma il tentativo fallì; e Federico Guglielmo fu avvertito d'ogni cosa. Il severo re, che sospettò addirittura di un complotto contro la propria vita, dovette per il momento contenere la collera: ma appena tornato sul suolo prussiano, la tempesta scoppiò. F. fu imprigionato nella fortezza di Küstrin e, qui, condotto davanti ai giudici. Furono settimane terribili, non solo per F., ma per tutta la famiglia reale. Federico Guglielmo era in un periodo di furore che nulla poteva contenere: scopre che F. ha avuto un intrigo amoroso con una Elisabetta Ritter di Potsdam e fa prima frustare in pubblico, poi imprigionare la ragazza a Spandau; scopre la biblioteca segreta di F., e fa vendere tutti i libri ad Amburgo, ed esilia a Memel l'ex precettore di F., Duhan de Jandun. Che cosa egli mediti di fare contro il figlio, colpevole ai suoi occhi della più mostruosa delle colpe, è ancora un mistero: c'è chi teme addirittura la condanna a morte. E da tutta Europa, dalla Svezia come dall'Olanda come da Londra, giungono preghiere, esortazioni alla mitezza.

Finalmente, a Köpenick, il 25 e il 26 ottobre, si raduna il consiglio di guerra. Katte, uno dei due complici (l'altro, Keith, era riuscito a fuggire) è condannato alla prigione a vita; ma i giudici, vassalli e sudditi del re di Prussia, rifiutano di statuire sul principe ereditario. Federico Guglielmo, invece, mandò a morte Katte, facendolo giustiziare sotto la camera stessa di F., che, condotto alla finestra da due ufficiali, dovette assistere al supplizio, cadendo in ultimo svenuto (Küstrin, 6 novembre). Per il principe diede incarico al pastore Müller di farlo "rientrare in sé stesso", d' indurlo a chiedere perdono a Dio, approfittando del terrore che lo spettacolo atroce del supplizio di Katte doveva avergli causato. E fu, ben presto, la grazia. F. era ormai piegato, e accettava la volontà paterna; e uscendo dalla prigione di Küstrin, il 19 dicembre 1730, era rassegnato a una nuova vita, nello stile voluto dal genitore.

Si mette al lavoro, come uditore della Camera dei demanî di Küstrin: vita monotona, senza passatempi, sempre con i soliti compagni; vita parsimoniosa, ché F. deve inviare i conti di cassa al re, e sa che questi non permette lo sperpero. Ma intanto, la sua funzione lo mette in grado di studiare nel vivo l'amministrazione interna del regno; e, a poco a poco, cresce il suo interesse per questioni che prima gli sembravano odiose, ed egli giunge sino a preoccuparsi della produzione agricola dei possessi regi, a prospettar piani di migliorie. Federico Guglielmo, che ha rivisto il figlio per la prima volta il 15 agosto 1731 e gli ha ancora inflitto un solenne predicozzo, cambia umore e parere, comincia ad aver fiducia in lui, infine, per l'intercessione di Guglielmina, che va sposa al margravio di Bayreuth, gli fa grazia totale, lo richiama a Berlino, lo ammette alle cerimonie nuziali, gli promette il comando di un reggimento concessogli nel '32. Ma una nuova prova deve ancora essere superata: il 4 febbraio 1732 il re scrive al suo "caro figlio Fritz" di avergli trovato moglie, la principessa Elisabetta Cristina di Brunswick-Bevern. F. deve cedere ancora, a malincuore, furioso in cuor suo di un simile affare: il 27 giugno 1733 entra solennemente a Berlino, con a fianco la sposa: poche settimane dopo, si reca con lei a Neu-Ruppin; nel 1734, avendogli il padre fatto dono della terra di Rheinsberg, fa iniziare i lavori per rimettere in ordine il castello semirovinato. Neu-Ruppin e Rheinsberg dovevano essere, da allora fino all'avvento al trono, la sua nuova residenza.

Furono anni di vita quieta e tranquilla, solo interrotta dalla partecipazione alla campagna contro la Francia nell'esercito imperiale guidato da Eugenio di Savoia (1734-35). Da una parte, i doveri militari; dall'altra ancora l'esame delle questioni amministrative e finanziarie del regno, a cui attendeva pur sempre, e l'amministrazione dei beni, di cui bisognava render conto al padre. Ma accanto alla parte ufficiale, F. era ormai libero di pensare a sé stesso secondo che egli voleva; e si circondò di letterati e pensatori, tutti sotto l'influsso delle nuove idee che venivano di Francia e lesse filosofi, specialmente Wolf, e poeti, e scrisse egli stesso versi, e progettò di scrivere di metafisica, e redasse le Considérations sur l'état préśent du corps politique de l'Europe e l'Antimachiavel. Infine si pose in relazione epistolare con Voltaire, il suo idolo di allora, dando libero sfogo, nelle lettere, alle sue meditazioni sull'arte e la scienza, la morale e la religione, alla sua ammirazione per il pensiero e le lettere francesi, al suo desiderio di far prosperare le scienze anche nel suo paese, ancora semichiuso alla luce del vero.

Chi lo avesse conosciuto solo in tale sua attività, avrebbe potuto credere di trovarsi di fronte a un uomo che a tutto pensava, fuorché al prossimo regno: un letterato-filosofo, al quale - secondo egli stesso diceva - "la vie d'un homme qui n'existe que pour réfléchir, et pour lui même... paraît infiniment préférable à la vie d'un homme, dont l'unique occupation doit être de faire le bonheur des autres". Ma se della conversazione con i letterati e i filosofi tracce cospicue dovevano rimanere nell'animo di F. diventato, per un verso, uomo tipicamente settecentesco, assai più importanti e più profonde erano le tracce che lasciavano nell'animo di lui le occupazioni militari e amministrative che lo rendevano veramente padrone del suo stato, e lo preparavano al suo alto compito di sovrano. Anzi, qualche cosa del padre veniva ora in luce in lui: soprattutto il senso fortissimo e quasi religioso del proprio dovere. Poté così, visitando la Lituania prussiana, rimanere per la prima volta ammirato dell'opera ivi svolta dal padre, da quel "je ne sais quoi de héroïque", per cui Federico Guglielmo aveva trasformato una provincia prima desolata e sterile in un paese ricco, fertile, felice. E non fu una semplice posa letteraria, e meno che meno un'ipocrisia, s'egli scrisse proprio allora l'Antimachiavel, per opporre ai "principini" dell'Italia del Rinascimento il suo ideale di re: poiché in realtà egli avvertiva ora, nel compito di sovrano, non lo sfogo di un'ambizione personale, non il compiacimento del potere per sé stesso, ma l'adempimento di un'alta missione. Nello stesso svanire delle idee religiose, sempre più allontanate da quelle "lumières de l'esprit" di cui anche F. era ormai devoto propagandista (e infatti, come sovrano, adottò una politica di tolleranza religiosa che ripeteva le sue origini dallo scetticismo del re di fronte alle religioni positive), rimaneva, di religioso, il senso del proprio dovere. Era, si può dire, l'unica luce ideale che segnasse la via all'erede al trono: ché, per quanto concerne gli uomini e i mezzi di dominare gli uomini, egli era ormai ben fissato. Una lunga e talora amarissima esperienza gli aveva insegnato a sapersi valere di qualsiasi mezzo, pur di raggiungere lo scopo: aveva dovuto fingere di fronte al padre, quando questi gli aveva imposto la moglie; fingere di fronte ai potenti favoriti del padre, fra tutti il Grumbkow - ed era maturo per far da commediante in più vasto circolo. Le illusioni - se mai ne avesse avute - sulla rettitudine degli uomini, erano da un pezzo cadute; e, specialmente per quanto concerne i rapporti fra gli stati, sapeva troppo bene come essi non si regolassero coi paternostri. Così, il giorno in cui la morte del padre lo pose sul trono di Prussia (31 maggio 1740), egli era ormai pronto per governare: conscio del suo dovere di sovrano e degl'interessi della Prussia; disposto, per tutelarli, a maneggiare ogni arma.

Le circostanze politiche erano d'altronde tali da imporgli subito grandi decisioni. Stava per aprirsi il problema della successione all'impero: e F., che giudicava l'imperatore "le vieux fantôme d'une idole qui avait du pouvoir autrefois... mais qui n'est plus rien à present", in previsione della morte di Carlo VI, prendeva le sue misure sin dal primo momento della sua assunzione al trono, deciso a pagare alle altre potenze "paroles veloutées de paroles velòutées, et les réalités d'autres réalités"; disposto a proclamare che nessuno più di lui amava "le bien d'Europe" ma disposto altresì a esigere "de bonnes conditions et des choses solides". Aveva, per fortuna, un mirabile strumento per farsi ascoltare dalle potenze, per le quali la Prussia era ancora una potenza di second'ordine, e per sostenere le sue aspirazioni territoriali: un esercito di 80.000 uomini che Federico Guglielmo gli aveva lasciato, magnificamente addestrato; e uu tesoro di nove milioni di talleri, messi da parte dal parsimonioso predecessore. La prima questione che gli si presentò fu quella per la successione di Jülich-Clèves (v. Jülich-clèves), una vecchia e spinosa questione; ma gli approcci da lui tentati presso Francia, Austria e Inghilterra rimasero senza alcun esito. Sennonché il 20 ottobre moriva Carlo VI imperatore e s'apriva la questione della successione all'impero per cui Maria Teresa si vedeva minacciata dai Borboni di Francia e di Spagna, dalla Baviera e dalla Sassonia (v. Successione, guerra di). E allora F. pensò alla Slesia, la ricca e fertile Slesia, agognata dai Hohenzollern già dal tempo del Grande Elettore. L'occasione che ora si presentava era magnifica; mai più, forse, gli Asburgo si sarebbero trovati a così mal partito. Rimaneva da giustificare giuridicamente un'occupazione che agli occhi di tutti sarebbe apparsa un'evidente violazione del diritto delle genti e dell'impero. Ma F. non ebbe soverchie esitazioni: era troppo convinto dei diritti della sua casa sulla Slesia, conculcati dagli Asburgo, siccome già da tempo aveva sentito ripetere attorno a sé; troppo era convinto che "quand les souverains veulent en venir à une rupture, ce n'est pas la matière du manifeste qui les arrête; ils prennent leur parti, ils font la guerre, et ils laissent à quelque jurisconsulte le soin de les justifier". Era convinto soprattutto che non bisognasse perder tempo: perciò entrò nella Slesia, dichiarando tuttavia di non voler far guerra all'Austria, anzi di voler solamente assicurarsi garanzie e pegni, pronto invece a sostenere la Prammatica Sanzione. Il 3 gennaio 1741 entrava a Breslavia; l'8 marzo il principe Leopoldo di Anhalt-Dessau faceva capitolare la fortezza di Glogau. E se l'arrivo del maresciallo austriaco Neipperg, alla testa di un nuovo esercito, mise per un istante in brutta posizione i Prussiani, la vittoria di Mollwitz (10 aprile 1741), la grande prova del fuoco della fanteria prussiana, assicurò il successo dell'ardita manovra del re di Prussia.

Fino a questo momento F. aveva agito per proprio conto: tra invece, forte della vittoria ottenuta, poté trattare vantaggiosamente con la Francia e la Baviera, in rotta pure con l'Austria, ottenendone il riconoscimento al possesso della Bassa Slesia e di Breslavia (trattato di Breslavia, 5 giugno 1741). E intanto la stessa Maria Teresa veniva a più miti consigli, e gli faceva offrire la Bassa Slesia con Neisse. F. accettò anche questi nuovi rapporti, e firmò con l'Austria il trattato di Klein-Schnellendorf (9 ottobre 1741). Il disprezzo delle convenzioni e la preoccupazione per il proprio interesse, senza riguardo a patti e impegni, si rivelarono ancora più clamorosamente poco dopo, di fronte al risorgere dell'Austria. Temendo che Maria Teresa, vittoriosa, gli avrebbe ripreso la Slesia, rientrò nella lotta insieme con gli alleati invadendo la Moravia: salvo, dopo la sua vittoria a Chotusitz in Boemia (17 maggio 1742), a lasciar nuovamente in asso gli alleati e accettar da Maria Teresa l'offerta non più solo della Bassa, ma anche dell'Alta Slesia e della contea di Glatz (trattato di Breslavia, 11 giugno 1742).

Passò un anno. L'Austria riprese forze. E allora, sentendosi nuovamente in pericolo, F. tornò a combattere: si alleò nuovamente con la Francia (5 giugno 1744), lanciò un manifesto in cui si atteggiava a campione della libertà germanica e della pace europea, e riapparve in Boemia, a capo di 80.000 uomini. Dapprima respinto dal maresciallo austriaco Traun nella Slesia, riuscì il 4 giugno 1745, quando la situazione generale era diventata grave per l'improvvisa adesione del nuovo duca di Baviera, Massimiliano, all'Austria, a infliggere una decisiva sconfitta agli Austriaci a Hohenfriedberg; poi, tornato in Boemia, a batterli ancora a Soor (30 settembre); poi ancora a Gross-Hennersdorf (23 novembre) a battere i Sassoni alleati dell'Austria, mentre il suo luogotenente Leopoldo di Anhalt Dessau vinceva a Kesselsdorf (15 dicembre). Questa volta, la guerra era per F. finita: Maria Teresa, firmando il trattato di Dresda (25 dicembre 1745), non solo confermava la cessione dell'Alta e della Bassa Slesia, ma riconosceva al re di Prussia la Frisia orientale, di cui F. si era impossessato all'estinguersi della dinastia ivi regnante (1744). Per compenso, F. riconosceva come imperatore Francesco I marito di Maria Teresa.

Così, in cinque anni soli di regno, egli aveva ingrandito il suo stato di più di un terz0; fatto della Prussia una potenza temuta; provato la saldezza del suo esercito; acquistato quell'esperienza militare che all'inizio della campagna ancora gli mancava (donde i grossi sbagli di manovra, prima della battaglia di Mollwitz); soddisfatto quel desiderio di faire parler de moi, che aveva avuto il suo peso nel deciderlo all'azione. E aveva rivelato la sua politica assolutamente indifferente a criterî giuridici o a preoccupazioni moralistiche, solo ispirata al dogma dell'interesse dello stato, sorretta da un senso magnifico della realtà, da un fiuto politico quale nessun altro dei reggitori d'Europa mostrava di avere. Che importa se per la fortuna dello stato era necessario passar sopra alle leggi che normalmente regolano i rapporti fra gli uomini? "Notre emploi est de veiller au bonheur de nos peuples: dès que nous trouvons donc du hasard pour eux dans une alliane, c'est à nous de la rompre plutôt que de les exposer; en cela le souverain se sacrifie pour le bien de ses sujets" (Histoire de mon temps, Avant-Propos, p. XVI).

Che egli realmente pensasse al bien de ses sujets, comprova l'attivissima politica interna, a cui diede inizio non appena posate le armi. Era convinto che il potere dovesse risiedere nelle mani del re e solo del re; e non gli sarebbe quindi mai venuto in mente di approntare riforme politiche che assicurassero ai sudditi una qualche partecipazione al governo. Era anzi, per indole come per riflessione, un accentratore di tutti gli affari nelle proprie mani, di tutto occupandosi - politica estera, amministrazione, finanze -, forte in ciò dell'esperienza acquisita, per volere del padre, fra il 1730 e il 1740. Ma era altrettanto convinto che il re non era se non il primo servitore dello stato, sottomesso a una legge più dura assai di quella che grava sui sudditi; convinto che il re c'era per attendere al benessere del popolo, sacrificandovi anche i suoi agi e i suoi piaceri. Non lo preoccupavano questioni dinastiche; e la stessa ambizione personale veniva subordinata all'interesse dello stato, siccome provavano le istruzioni lasciate, all'inizio della guerra dei Sette anni, al ministro Finckenstein, nelle quali egli. prevedendo il caso di esser fatto prigioniero, proibiva di aver il minimo riguardo alla sua persona e ingiungeva ai suoi ministri, come al fratello - pena la vita - di non cedere una provincia, di non pagare un soldo di riscatto, ma di continuare la guerra, come s'egli non fosse mai esistito. Era davvero, la sua, una monarchia razionalizzata, come fu detto, senza che l'elemento personale o dinastico vi avesse più una benché minima parte. Questo è il carattere saliente della grande attività di F. nell'interno del regno e delle sue riforme. Le quali non furono riforme radicali, sovvertitrici: nonostante tutta la sua filosofia illuministica, F. non era uomo da cadere nel dottrinarismo astratto di un Giuseppe II; e se pochi altri sovrani del suo tempo agirono con altrettanta continuità, nessun altro ebbe la moderazione di lui, che non distruggeva ma modifi-ava. Cominciò con la riforma giudiziaria, che fu d'altronde sempre la sua massima cura, rivelando il suo animo appunto in tal sua preoccupazione di assicurare il trionfo della legge, severa ma imparziale. Affidò al gran cancelliere Samuele von Cocceij la redazione di un codice di procedura (1747) e di un codice civile (Corpus iuris Fridericianum, 174.5-51); e, soprattutto, riuscì a costituire una forte, onesta magistratura, che assicurasse la libera applicazione della legge. Accanto a ciò, un vivo interessamento per l'economia nazionale, incoraggiata, sovvenuta, per quanto concerne l'agricoltura, con vasti lavori di bonifica e di colonizzazione (fu bonificata tutta un'estesa regione lungo l'Oder, da Schweinemünde a Küstrin), per quanto concerne il commercio e l'industria con provvedimenti varî. (Federico fece venire dall'estero filatori per le fabbriche di lana, promosse il sorgere di nuove manifatture, stabilì premî e sovvenzioni, sempre, naturalmente, rimanendo fedele ai precetti del mercantilismo).

Era dunque il re tutto intento a migliorare le condizioni interne del suo stato, allorquando la situazione internazionale tornò a rabbuiarsi. Maria Teresa non era disposta a rassegnarsi alla perdita della Slesia; e andava pertanto intessendo trame per assicurarsi tali alleanze che le permettessero di prendersi la rivincita sull'odiato Fritz. Trovava, per sua fortuna, in Elisabetta di Russia e nei suoi ministri nemici acerrimi del re di Prussia; e così tra le due corti di Vienna e di Pietroburgo si andò preparando l'attacco. Persino la Francia, alleata di F. dal 1740 fno al'56, andava mutando le sue direttive politiche, preparandosi così il famoso renversement des alliances (v. sette anni, guerra dei).

Ma F. vegliava. Per parare a tempo la mossa avversaria, aveva concluso con l'Inghilterra, nuovamente in guerra con la Francia, il trattato di Westminster (16 gennaio 1756), che gli assicurava l'appoggio del re Giorgio II, ch'era anche elettore di Hannover. Quando poi, il 1° maggio di quello stesso anno, Austria e Francia stipularono il trattato d'alleanza di Versailles (puramente difensivo, è vero, ma non per ciò meno sintomatico), e F. venne avvertito che nel 1757 l'Austria e la Russia lo avrebbero attaccato contemporaneamente, allora decise di iniziare lui l'offensiva, passando sopra ancora una volta alle formalità giuridiche, per assicurarsi il vantaggio del tempo. Con improvvisa mossa, invase la Sassonia, ingiungendo all'elettore Augusto III di allearsi con lui (agosto 1756). L'elettore rifiutò; ma la vittoria di F. a Lobositz, sull'Elba (i ottobre), sull'esercito austriaco del Brown accorso in aiuto della Sassonia, e la capitolazione dell'esercito sassone (Pirna), costrinsero Augusto III a rifugiarsi in Polonia, di cui era re, abbandonando il suo paese ai soldati prussiani.

Così la guerra dei Sette anni era cominciata, con una mossa che nessuno dei nemici di F. avrebbe potuto prevedere. Fortunato il primo episodio; ma si addensava la bufera. La Francia (a cui si accodò anche la Svezia), ma specialmente la Russia e l'Austria, si impegnavano a combattere il re filosofo fino all'estremo, proponendosi senz'altro lo smembramento della Prussia e lo schiacciamento dei Hohenzollern. Unica ma debole alleata di F. l'Inghilterra, che si sarebbe praticamente disinteressata della guerra nel continente, per attendere a strappare alla Francia le sue colonie. Le tre maggiori potenze d'Europa contro uno stato assai più piccolo e più povero di ognuna di esse, separatamente. Eppure F. nell'aprile del 1757 iniziò l'offensiva, nella Boemia. Primo successo, davanti a Praga (6 maggio). Poi, la dura e cruenta sconfitta di Kolin (18 giugno). E intanto, da est cominciavano a sopraggiungere i Russi, e il maresciallo Lehwald era sconfitto a Gross-Jägersdorf (30 agosto); e ad ovest s'avanzavano i Francesi, che occupavano il Hannover, e costringevano il duca di Cumberland alla convinzione di Kloster Zeven (8 settembre). F. rimaneva così isolato. Ma lo salvarono la scarsa intesa fra gli alleati e il proprio genio di condottiero. Con una mossa abilissima, affrontò e batté a Rossbach l'esercito francese che avanzava su Lipsia (5 novembre), provocandone lo sbandamento; poi, spostandosi fulmineamente in Slesia, attaccò a Leuthen l'esercito austriaco di Carlo di Lorena (5 dicembre), sconfiggendolo pienamente in una battaglia che fu capolavoro tattico di F. Dall'orlo dell'abisso, il re di Prussia ritornava a dominare: l'Inghilterra si riavvicinava a lui riorganizzando e accrescendo l'esercito del Hannover; nella stessa Francia si esaltava l'eroe di Rossbach, ridicoleggiando in canzonette ed epigrammi l'inetto comandante francese, principe dí Soubise, favorito della Pompadour.

Ma la guerra riprese, asperrima, l'anno seguente. Poiché i Francesi erano tenuti a bada dall'esercito del Hannover, comandato da Ferdinando di Brunswick, F. ebbe a lottare solo con Austriaci e Russi: tuttavia, fu una lotta sanguinosissima e incerta. A stento vincitore contro i Russi a Zorndorf (25 agosto), F. fu sorpreso e battuto a Hochkirch (14 ottobre) dal maresciallo austriaco Daun. Gravi le perdite, nelle due battaglie; prossime all'esaurimento le risorse dello stato prussiano. Si aggiungano, in Federico, i dolori familiari: la morte della madre nel'57, quella della sorella Guglielmina nel'58. Ancor peggio si misero le cose nella terza campagna, del'59: egli battuto a Kunersdorf dai Russi (12 agosto); il suo luogotenente Finck costretto alla resa dagli Austriaci del Daun a Maxen (20-21 novembre). Una proposta di pace, avanzata da F. e per l'Inghilterra da Pitt (dichiarazione di Ryswick, 25 novembre 1759), fallì: bisognò riprendere le armi. Ebbe successo contro gli Austriaci a Liegnitz (15 agosto 1760); tuttavia gli Austriaci penetrarono in Sassonia e i Russi nel Brandeburgo, occupando per tre giorni la stessa capitale, Berlino. L'anno si chiudeva con una sanguinosa vittoria di F. a Torgau (3 novembre). La situazione era tuttavia quasi insostenibile. Ma il re, che pure aveva un momento pensato al suicidio, non cedeva ancora: anzi, riuscito a trarsi fuori senza troppo danno dalla campagna del 1761, rifiutava la proposta dell'Inghilterra per una pace che avrebbe costato sacrifizî territoriali. Finalmente la Russia, morta Elisabetta e asceso al trono Pietro III, grande ammiratore di F., non solo abbandonò l'Austria, ma si unì in alleanza con la Prussia. Era la salvezza: in Slesia, F. batté due volte gli Austriaci; vinse pure in Sassonia per merito dei suoi luogotenenti; mentre, ad ovest, i Francesi erano respinti, battuti, inseguiti da Ferdinando di Brunswick. E fu la pace. Già la Francia e l'Inghilterra avevano firmato gli accordi preliminari di Fontainebleau (3 novembre). Ora, il 15 febbraio 1763, i plenipotenziarî austriaci e quelli prussiani firmavano la pace di Hubertusburg, che sanzionava lo statu quo ante.

Così finiva l'epopea di Federico il Grande, che aveva acquistato per il suo paese, non paesi e città, ma una gloria militare destinata a essere blasone di nobiltà della Prussia prima, della più grande Germania poi; e aveva, attraverso terribili prove, se non proprio creato, per lo meno rafforzato e durevolmente impresso nell'animo dei Prussiani quelle che poi furono le qualità loro caratteristiche: il senso del dovere e della devozione allo stato, lo spirito di sacrificio e di disciplina interiore. Materialmente lo stato prussiano subì danni gravi, di uomini e di ricchezza. Ma il re sistemò le finanze, aggravando fortemente il carico tributario, sì da portare le entrate statali da 12 milioni di talleri (1752) fino a quasi 22 milioni (1786); ma se molto denaro impiegò a rafforzare l'esercito e farne una macchina sempre più potente, quasi sproporzionata alla grandezza dello stato - si giunse a un effettivo di 195.000 uomini! -, profuse somme ingenti anche per far rifiorire l'economia pubblica. Circa 45 milioni di talleri andarono, in vent'anni, a favore dell'agricoltura e dell'industria; intere regioni della Prussia occidentale furono colonizzate. Fece osservare rigidamente la legge e, nello stesso tempo, promosse le scienze e le arti, ricostituendo l'Accademia delle scienze di Berlino, accogliendo e invitando a corte filosofi, letterati, scienziati, specialmente francesi.

Gli ultimi vent'anni di regno trascorsero così pacificamente. Lo stato s'accrebbe ancora, per effetto di quella prima spartizione della Polonia, che F. promosse d'accordo con Giuseppe II d'Austria e con Caterina di Russia (1772): F. ottenne la Prussia occidentale, senza Danzica e Thorn, e il distretto della Netze e con ciò conseguì l'unificazione dei suoi dominî, prima divisi nel nucleo brandeburghese-slesiano e nella Prussia orientale. Ma non vi fu per questo bisogno di combattere. La guerra si riaccese bensì nel 1778, per la questione della successione di Baviera: e il re, alleato della Sassonia contro l'Austria, invase nuovamente la Boemia. Ma fu una piccola schermaglia, rispetto ai conflitti precedenti: già il 13 maggio 1779 si aveva la pace a Teschen, e F. aggiungeva ai suoi stati anche i principati di Ansbach e di Bayreuth. L'ultimo suo grande atto in politica estera fu la creazione nel 1785 del Fürstenbund, lega di principi tedeschi sotto la direzione della Prussia, che doveva rappresentare il contrappeso alla politica imperiale di Giuseppe II. Vi aderirono, fra gli altri, i principi di Sassonia,di Hannover, di Baden, di Brunswick, che offrivano così al re di Prussia il mezzo di proclamarsi campioni delle libertà germaniche, di accrescere il prestigio del suo stato, facendone come l'esponente del sentimento nazionale germanico.

Ma proprio allora, mentre questo sentimento nazionale si rafforzava, e nuovo spirito fremeva nella gioventù tedesca, talune parti dell'opera di F. cominciavano a non risponder più all'esigenza dei tempi. Le ideologie specificamente settecentesche e non prussiane ch'erano in F. - e ch'erano anche la parte meno profonda di lui - lo collocavano in un altro mondo da quello che, ora, veniva sorgendo. In ogni Tedesco, da allora, sarebbe rimasto vivo il ricordo del grande re, delle sue battaglie e delle sue vittorie, del suo senso del dovere, della sua devozione allo stato; ma il filosofo invece, l'uomo di Sans-souci - divenuto d'altronde con gli anni più irritabile, più duro, talora anche un po' gretto - si stava ormai straniando dal nuovo spirito germanico. Così fu che quand'egli morì, il 17 agosto 1786, nel castello di Sans-souci, la sua missione era veramente finita. Lo stato prussiano era ormai una grande forza operante nel cuore d'Europa.

V. anche prussia: Storia.

Federico II ordinatore di eserciti e condottiero. - Salendo al trono, F. trovò un esercito assai saldamente costituito, se lo si consideri in rapporto con le condizioni della piccola Prussia di quel tempo. A differenza di quel che avveniva generalmente altrove, dove le levate di milizie obbligate al servizio avevano luogo saltuariamente e miravano a costituire organismi a sé specialmente per il caso di guerra, l'esercito prussiano restava normalmente in servizio anche in tempo di pace, e faceva convivere in un medesimo reparto di truppa, i mercenarî mestieranti e i coscritti di leva. Anzi, all'atto della mobilitazione in dipendenza dei richiami dal congedo degli uomini di leva, i mercenarî venivano a trovarsi in minoranza. Se Federico II, in conseguenza della lunga durata delle guerre del suo regno, variò codesta proporzione a favore del mercenariato rispetto a quanto si praticava nell'esercito di Federico Guglielmo I, ciò si deve alla difficoltà di trovare fra gli uomini di leva in congedo il numero di elementi militarmente istruiti che bastasse a bilanciare il progressivo grave logoramento degli effettivi. In fatto di addestramento della fanteria, F. trovò nociva la tendenza a esagerare l'effetto del fuoco, e volle che il corpo a corpo e la baionetta fossero tenuti, come un tempo, nel massimo onore. Le formazioni e le evoluzioni che già avevano progredito in fatto di leggerezza e di speditezza durante il regno del padre furono da F. perfezionate. Più radicalmente dovette F. trasformare l'organismo e la tattica della cavalleria, conservatasi pesantissima e perciò lenta nei movimenti sul campo di battaglia, dove soleva manovrare al passo o al piccolo trotto ed esplicare la propria azione più col fuoco che con l'urto. Alleggerite le ordinanze, F. prescrisse la carica al galoppo; e, quanto all'uso del fuoco nella carica, in un primo tempo lo limitò, poi lo vietò, preferendo che l'ausilio del fuoco, anche vicino, venisse alla cavalleria da apposita artiglieria a cavallo. A dar anima a queste riforme concorsero due generali rimasti famosi nella storia delle gesta della cavalleria prussiana: Seydlitz e Ziethen. Fra le più importanti innovazioni di F. nel campo organico va notata la sempre maggiore proporzione dei cannoni leggieri rispetto al numero dei fanti. In fatto di manovra sul campo di battaglia, F. rimise in onore (più che inventare) la linea di attacco obliqua, variandone altresì la densità nei diversi tratti, e facendo normalmente più densa la parte più avanzata, cioè quella destinata ad attaccare per prima, in modo che il centro e l'ala ritratta funzionassero da prima e seconda riserva. L'ordine di battaglia di F. comprendeva inoltre normalmente una riserva generale costituita dalla massa degli squadroni non impiegati alle ali della formazione antistante. Se con tali procedimenti, necessariamente attuati a non grande distanza dal nemico, F. riuscì a determinare la sorpresa, che è elemento primo per la riuscita di qualsiasi manovra, ciò deve in gran parte attribuirsi alle deficienze degli avversarî, alla pesantezza dei loro ordini tattici, al torpore mentale e spirituale dei loro capi, più che alle virtù proprie dell'ordine obliquo.

Come tutti i grandi capitani, F. praticò in strategia l'offensiva anche quando la guerra ebbe scopi politici difensivi, ossia di conservazione di territorî già posseduti e da altri ambiti. F. vide nell'offensiva strategica il mezzo per riuscire a pronta battaglia, con la conseguenza di abbreviare le guerre; le quali, se lunghe, danneggiano la disciplina, impoveriscono numericamente l'esercito e riducono le risorse del paese. Affermava inoltre F. che l'offensiva, costringendo il nemico ad agire diversamente da quel che aveva divisato, ne paralizzava le mosse. E in quest'ordine di idee giudicava il re essere poco sperimentati quei generali che si proponevano di tutto conservare limitandosi a parare i colpi e affermava essere anche necessario saper perdere a proposito. Altre massime strategiche di F. erano che non si dovessero fare distaccamenti se non dopo una battaglia vittoriosa; che dopo il successo convenisse mettersi alle calcagna del vinto e dopo una battaglia perduta fosse necessario arrestarsi sulla prima posizione opportuna per apparire al nemico forti nell'avversità. La strategia di F. fu - come quella precedente - legata normalmente ai magazzini; ma il servizio fu migliorato, le requisizioni di vettovaglie sul posto talvolta organizzate, l'autonomia del soldato mediante i viveri di riserva da lui stesso trasportati alquanto accresciuta (nove razioni, equivalenti alla possibilità di staccarsi di cinque marce dai magazzini).

Nel campo della psicologia del capo, affermava F. essere grande pregio del generale quello di meditare in precedenza su tutte le possibili eventualità per poter prontamente e saggiamente decidere il da farsi qual si fosse la piega presa dagli eventi, ed essere pregio non minore quello di non lasciarsi trasportare dall'entusiasmo del successo, altrettanto pericoloso dell'abbattimento morale dopo una battaglia sfortunata. Definiva generale perfetto colui che sapesse non separare mai l'attività dalla prudenza e mantenersi uguale a sé stesso così nelle ore fauste come in quelle dell'avversa fortuna.

L'alta tempra morale di Federico si manifesta nelle situazioni più difficili, come quella determinatasi dopo la battaglia di Kolin e dopo il forzato abbandono del blocco di Praga nella campagna del 1756. Le fortissime perdite, la depressa fiducia dei soldati nell'abilità strategica del re, la costernazione dei generali, che lo stesso fratello del re, principe Enrico, andava suggestionando in senso disfattista prospettando loro la rovina dello stato, non smossero l'animo di F., il quale continuò ad aver fede in una rivincita, che l'inferiorità manovriera degli Austriaci doveva assicurargli. Questo convincimento della propria superiorità valse a mantenerlo aggressivo e a far si che egli con abili manovre riuscisse a compiere il capolavoro di Rossbach (v.).

Federico il Grande e la letteratura tedesca. - Anche in letteratura, l'epoca che corrisponde ai suoi quarant'anni di regno porta il suo nome. Non perché si sia informata ai suoi gusti. Se l'infatuazione per Gottsched gli passò presto e presto gli accadde di anteporgli Gellert e Gessner; se, dopo aver chiamato Canitz "il Pope tedesco", giunse solo nel 1785 ad accorgersi che esistevano anche Klopstock e Wieland, così che ne parlava col Gleim, domandando chi dei due fosse il più grande, in realtà non ci fu, fra i poeti tedeschi del suo tempo, nessuno per il quale egli non avesse il più perfetto disprezzo. Di Lessing non volle sentir parlare; a Winckelmann voleva dimezzar lo stipendio per nominarlo direttore della Biblioteca; alle lusinghe di Klopstock, di Wieland fece ostinatamente il sordo; e "le célèbre Monsieur Quandt de Königsberg" di cui si parla nella Littérature allemande non è Emanuele Kant ma Johann Jakob Quandt predicatore di corte. Le tragedie di Shakespeare gli parevano "buone tutt'al più per i selvaggi del Canada" e il Goetz di Goethe una "imitazione shakespeariana d'una volgarità ripugnante"; quando il Myller gli mandò la prima stampa del Nibelungenlied, gli rispose che quelle erano cose che non valevano la polvere di una fucilata" e che egli si vergognava di tenerle nella sua biblioteca.

I suoi proprî componimenti poetici sono fra l'epigrammatico e il sentenzioso, l'anacreontico e il motteggiatore, secondo la moda francese. E di là dalle regole dei precettisti francesi non si spinge mai la sua estetica. Con tutto ciò la sua figura domina la poesia del tempo. Prima di tutto la sua stessa prosa, sobria, recisa, netta di taglio, lucida, era un'implicita proclamazione che l'arte dello scrivere consisteva nell'aver qualcosa d'importante da dire e nel dirlo con forza e chiarezza. Anche l'aver chiamato alla sua corte un uomo della statura di Voltaire era un additare ai connazionali che cosa per "letterato e poeta" egli intendeva. Anche nella poesia era posto in alto il segno a cui gli scrittori dovevano mirare. E la sua opera di condottiero, di uomo di stato, di sovrano fece di meglio che dar soltanto occasione a retoriche gare di aspiranti alle sue grazie: dando un valore ideale allo stato, una disciplina al popolo, uno stile alla vita, diede anche alla letteratura ciò che sempre ne costituisce la prima condizione: un contenuto spirituale (v. Goethe, Dichtung und Warhheit, III). In realtà già tutto un nuovo spirito si respira nella poesia della guerra dei Sette anni, dai Kriegslieder eines preussischen Grenadiers alla Minna von Barnheim. Come, "primo servitore dello stato", egli aveva il suo popolo nel centro dei suoi pensieri, così visse nella coscienza del suo popolo operandovi come una generale forza di rinnovamento, anche molto di là dalle mete che egli stesso era in grado di vedere. Quand'egli morì, Kant aveva già pubblicato la Critica della ragion pura, Herder le Ideen zu einer Philosophie der Geschichte der Menschheit, Schiller stava maturando il Don Carlos, Goethe era alla vigilia della sua partenza per l'Italia. Ancora dietro l'idea dello stato di Hegel, dietro le Reden an die deutsche Nation di Fichte, dietro la volontà di sacrificio dell'individuo di fronte allo stato nel Prinz von Homburg di Kleist è facile scorgere la sua figura che continua a grandeggiare e ad agire, come potenza formatrice nelle coscienze. Nel chiudere il suo saggio sulla Littérature allemande (1780), egli si paragona a Mosé che vede da lungi la terra promessa ma non vi può mettere piede. Invece la "terra promessa" era gia stata raggiunta e la nuova poesia già gli fioriva intorno, ricca e molteplice, quale la Germania non aveva mai conosciuta. Ma raramente le generazioni dei padri riconoscono quella che costituisce la "terra promessa" per le generazioni dei figli.

Opere: Le opere di F. sono raccolte nella grande ediz. promossa dall'Accademia delle scienze di Berlino: Øuvres de Frédéric le Grand (voll. 30, Berlino 1846-57). Le più importanti di esse, dal punto di vista storico-politico, sono le Considération sur l'état présent du corps politique de l'Europe (scritte nel 1738-39); L'Antimachiavel ou Examen du Prince de Machiavel (scritto nel 1739; pubbl. dal Voltaire, ma con rimaneggiamenti, nel 1740); il Miroir des princes (1744); l'Histoire de mon temps, scritta nel 1746; ma poi rimaneggiata dallo stesso F.; i Mémoires pour servir à l'histoire de la maison de Brandebourg (1751); l'Histoire de la guerre des sept ans (1763); i Mémoires depuis la paix de Hubertsbourg jusqu'à la fin du partage de Pologne, rielaborati e pubblicati sotto il titolo Mémoires depuis 1763 jusqu'à 1774 (1779); l'Essai sur les formes de gouvernement et sur les devoirs des souverains (1777). Importantissimi poi i due testamenti politici, del 1752 e del 1768.

Degli scritti filosofici e letterarî, da ricordare l'Èpitre au maréchal Keith. Importantissima è poi la corrispondenza, sia politica (Politische Korrespondenz Friedrichs d. Gr., voll. 41, Berlino 1879 segg.), sia privata. Di quest'ultima particolarmente interessante il Briefwechsel mit Voltaire (voll. 3, Berlino 1908-17), il Briefwechsel mit seiner Schwester Wilhelmine v. Bayreuth, voll. 2, Berlino 1923-25; il Briefwechsel mit Prinz August Wilhelm, Berlino 1927; il Briefwechsel mit Grumbkow und Maupertuis, Berlino 1898.

Le principali opere militari di F. sono: Les principes généraux de la guerre (appliques à la tactique et à la discipline des troupes prussiennes); Pensées et règles générales pour la guerre; Réflections sur la tactique et sur quelques parties de la guerre, ou réflections sur quelques changements dans la façon de faire la guerre; Èlements de castramétrie et de tactique; Règles de ce qu'on exige d'un bon commandeur de bataillons en temps de guerre; Réflections sur les projets de campagne; Des marches d'armée et de ce qu'il faut observer a cet égard; Aphorismes über die Befestigungs -, Lager - und Gefechtskunst.

Bibl.: Le principali opere d'insieme su F. sono quelle di F. D. Preuss, Fr. d. Gr., voll. 4, Berlino 1831-34; F. Kugler, Geschichte Fr. d. Gr., 1840, nuova edizione, Lipsia 1922; T. Carlyle, History of Frederick II of Prussia called F. the Great, nuova ed., voll. 8, Londra 1897-98; G. Oncken, Das Zeitalter Fr. d. Gr., voll. 2, 1882-88; E. Bourdeau, Le grand Frédéric, voll. 2, Parigi 1899-02; G. Winter, Fr. d. Gr., voll. 2, 1907; V. Valentin, Fr. d. Gr., Berlino 1927. Inoltre: L. v. Ranke, Fr. II., König v. Preussen, in Sämmtl. Werke, LI e LII; J. G. Droysen, Geschichte d. preussischen Politik, V, Lipsia 1874-76. L'opera fondamentale è quella di R. Koser, Geschichte Fr. d. G., n. ed., voll. 4, Stoccarda 1921-25.

Per il primo periodo della vita di F. fondamentali gli studî di E. Lavisse, La jeunesse du grand Frédéric, Parigi 1891 e Le grand Frédéric avant l'avénement, Parigi 1893; di R. Brode, Fr. d. Gr. und der Konflict mit seinem Vater, Lipsia 1904. Per la politica interna: A. Trendelenburg, Fr. d. Gr. und seine Grosskanzler S. v. Cocceji, Berlino 1863; H. Berger, Fr. d. Gr. als Kolonisator, Giessen 1896; L. Witte, Fr. d. Gr. und die Jesuiten, 2ª ed., Halle, 1901; O. Hegemann, Fr. d. Gr. u. die katholische Kirche in den reichsrechtl. Territorien Preussens, Monaco 1904; Neufeld, Die fridericianische Justizreform bis 1780, Gottinga 1910; E. Swenke, Fr. d. Gr. und der Adel, Berlino 1910; C. Matschoss, Fr. d. Gr. als Beförderer des Gewerbefleisses, Berlino 1912; E. P. Reimann, Das Tabaksmonopol Fr. d. Gr., Monaco 1913. Cfr. inoltre F. Arnheim, Der Hof Fr. d. Gr., Berlino 1912.

Sulle concezioni politiche di F. cfr. L. Paul-Dunois, Frédéric le Grand d'après sa correspondance politique, Parigi 1903; H. Pigge, Die Staatstheorie Fr. d. Gr., Münster, 1904 e soprattutto F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in d. neueren Geschichte, Monaco-Berlin0 1924, p. 340-424.

Sul condottiero, Die Kriege Fr. d. Gr., 15 voll., Berlino 1890-1913; T. v. Bernhardi, Fr. d. Gr. als Feldherr, voll. 2, Berlino 1881; H. v. Delbrück, Über den Unterschied der Strategie Fr. d. Gr. und Napoleons, in Histor. u. polit. Aufsätze, Berlino 1886; id., Die Strategie des Perikles, erläutert durch die Strategie Fr. d. Gr., Berlino 1890; W. v. Bremen, Fr. d. Gr., Berlino 1905; E. Barone, I grandi capitani fino alla rivoluzione francese, Torino 1928.

Per il letterato e il filosofo, cfr. H. Pröhle, Fr. d. Gr. und die deutsche Literatur, Berlino 1872; G. Krause, Fr. d. Gr. und die deutsche Poesie, Halle 1884; E. Zeller, Fr. d. Gr. als Philosoph, Berlino 1886; G. Thouret, Fr. d. Gr. als Musikfreund und Musiker, Lipsia 1898.

V. ancora la bibl. annessa agli articoli prussia: Storia; sette anni, guerra dei; successione, guerre di.

TAG

Accademia delle scienze di berlino

Critica della ragion pura

Guerra dei sette anni

Elisabetta di russia

Rivoluzione francese