Federalismo fiscale

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Federalismo fiscale

PPiero Giarda

di Piero Giarda

Federalismo fiscale

sommario: 1. Introduzione. 2. L'assegnazione dei compiti pubblici. a) Area dei benefici ed effetti di traboccamento (spillover). b) La mobilità sul territorio. c) Le applicazioni del teorema del decentramento. 3. L'assegnazione del potere tributario. a) Tributi locali e regionali: criteri generali. b) Le imposte sul reddito. c) Le imposte sui consumi. d) Le imposte sul patrimonio immobiliare. 4. Autonomia tributaria, compartecipazioni e trasferimenti correttivi. a) Separazione delle fonti o condivisione delle basi imponibili. b) Le compartecipazioni. c) Responsabilità fiscale, tributi propri e compartecipazioni. d) La correzione degli effetti di traboccamento. 5. Distribuzione del reddito ed equità interregionale. a) Le regole della perequazione. b) L'entità della perequazione. c) Vincoli di destinazione e diritti soggettivi.  6. Alcune questioni di confine. a) Decentramento dei poteri e dimensione del settore pubblico. b) L'attuazione del federalismo fiscale in uno Stato unitario e il caso italiano. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Gli aspetti economici del federalismo sono associati alla teoria del 'federalismo fiscale', un'espressione, oggi di grande attualità, che appare per la prima volta in un importante libro di testo, in una frase che ne fornisce, seppur in modo incidentale, una prima definizione: "lo scopo principale del federalismo fiscale [...] è di consentire ai diversi gruppi che vivono nei diversi Stati di esprimere le loro diverse preferenze per i servizi pubblici; e ciò porta, inevitabilmente, a differenze nei livelli della tassazione e dei servizi pubblici. Le differenze nei livelli di tassazione possono interferire con l'efficiente allocazione delle risorse e con la localizzazione delle attività economiche; ma questo è il costo della suddivisione politica, sia essa a livello subnazionale che sovranazionale" (v. Musgrave, 1959, p. 181).

All'origine, l'espressione fu associata soprattutto alle regole che devono presiedere alla costruzione di un sistema tributario in cui sono presenti tributi nazionali e tributi regionali. Se uno dei due principî cardine del sistema tributario, quello della parità di trattamento dei cittadini nelle stesse condizioni, viene violata dal sovrapporsi dei poteri tributari del governo centrale e dei governi periferici, allora il governo centrale è legittimato (v. Buchanan, 1950) ad attuare programmi di trasferimento finanziario a favore delle comunità che, a causa delle loro basi imponibili più basse, si trovano (o si troverebbero) a dover applicare aliquote di imposizione locale più elevate per l'erogazione dei servizi pubblici. L'intervento del governo centrale è giustificato sia da ragioni di parità di trattamento tributario dei cittadini, sia da ragioni di efficienza economica, dato che la diversità del prelievo fiscale nelle diverse aree porterebbe a una localizzazione inefficiente delle attività economiche e quindi a una perdita di benessere per la collettività.

Successivamente (v. Musgrave, 1961) si constatò che le condizioni di uguaglianza di trattamento dei cittadini non possono essere valutate senza considerare gli utilizzi del prelievo tributario: due governi periferici possono avere diversi livelli di tassazione, ma anche fornire diversi livelli di servizi pubblici. Se questa diversità deriva da scelte liberamente espresse attraverso i sistemi politici di rappresentanza locale, non ci sarebbe ragione per il governo centrale di intervenire per correggere le diversità di prelievo tributario, in quanto queste sono compensate dalla diversità nel livello dei servizi pubblici, entrambe espressione della diversità delle preferenze. L'efficienza nella tassazione locale consente di ridefinire le regole di parità di trattamento e rimuove le ragioni per interventi correttivi da parte del governo centrale.

Ad alimentare il dibattito originato dai contributi di James M. Buchanan e Richard A. Musgrave sulla nozione di eguaglianza (e sulla connessa nozione di neutralità) contribuì la rielaborazione della teoria dei beni pubblici a opera di Paul A. Samuelson (v., 1954): nasceva così la teoria economica del federalismo fiscale, con diversi percorsi e implicazioni.

Una prima linea di ricerca è riconducibile ai lavori di Charles M. Tiebout (v., 1956), secondo il quale la presenza di enti locali con il potere di governare l'offerta di beni pubblici a livello locale consente "soluzioni di mercato" al problema posto da alcune categorie di beni pubblici. Diverse comunità locali possono offrire panieri di beni pubblici diversi per livello e composizione e diverse forme di tassazione; i cittadini sceglierebbero, per la propria residenza, quell'ente locale le cui condizioni complessive di offerta fossero più vicine alle loro preferenze. La libertà di movimento sul territorio avrebbe anche la conseguenza di spingere le strutture di produzione dei servizi pubblici locali verso le soluzioni di costo minimo garantendo l'efficienza anche sul fronte della produzione. Da questo contributo iniziale hanno preso le mosse numerosi lavori - tra i quali quelli di Joseph E. Stiglitz (v., 1975), Roger H. Gordon (v., 1983) e Oded Hochman e altri (v., 1995) - diretti a valutare l'interazione tra mobilità, distribuzione della popolazione sul territorio, formazione della rendita urbana e condizioni per l'ingresso nel territorio.

Una seconda linea di ricerca (v. Tiebout, 1961; v. Olson, 1969; v. Oates, 1972) pone le basi per una teoria normativa dell'offerta pubblica su diversi livelli di governo, legata soprattutto all'estensione territoriale dei benefici dell'offerta pubblica. I diversi beni pubblici possono essere prodotti in modo da generare benefici con una limitata diffusione territoriale rispetto alla fonte di produzione; le decisioni collettive sul livello di consumo dei vari beni pubblici possono essere assunte da organi di governo di territori di diversa dimensione demografica. Di qui il problema dell'assegnazione dei compiti pubblici ai differenti livelli di governo nonché quello, corrispondente, della appropriata assegnazione dei mezzi di finanziamento: la determinazione delle imposte, delle tasse e delle tariffe per i diversi tipi di bene pubblico offerto e per i diversi livelli di governo.

Il terzo passo sulla strada della costruzione di una teoria del federalismo fiscale riguarda le politiche di riduzione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito prodotte dall'operare delle forze di mercato. I temi principali sui quali si è focalizzata l'analisi sono due. Il primo concerne il livello di governo al quale assegnare lo svolgimento dei compiti ridistributivi: più specificamente, la questione è se i governi sub-nazionali, oltre a svolgere compiti allocativi, possano occuparsi anche di correggere la distribuzione del reddito personale all'interno della propria giurisdizione. A tale questione i primi studi sul federalismo fiscale hanno dato sempre risposte negative (v. Stigler, 1957; v. Musgrave, 1959), laddove in tempi più recenti alcuni autori hanno ammesso la legittimità di questa estensione delle competenze dei governi decentrati, subordinata peraltro a interventi correttivi del governo centrale (v. Wellisch, 2000, cap. 8). Il secondo tema riguarda i programmi di trasferimenti finanziari dal centro alla periferia, diretti a ridurre le differenze nel livello dei servizi pubblici offerti dai singoli enti periferici e derivanti dalle differenze nelle basi imponibili dei tributi locali e regionali. I diversi criteri di perequazione proposti da Musgrave (v., 1961), che presuppongono un appropriato sistema di incentivi e la necessità di garantire il rispetto dei vincoli di bilancio, non sono mutati radicalmente negli ultimi quarant'anni, così come non sono mutate le controversie su di essi.

Un altro aspetto, messo in luce per la prima volta e indagato in modo articolato da Buchanan (v. Brennan e Buchanan, 1980), riguarda il fatto che il rilievo dato dal federalismo fiscale all'autonomia dei governi decentrati porta ad analizzare le regole costituzionali e le condizioni in base alle quali tale autonomia viene mantenuta e rafforzata. La diversità, l'autonomia e l'offerta competitiva sono le caratteristiche grazie alle quali un sistema di federalismo fiscale può diventare uno strumento in grado di contrastare l'espansione incontrollata della presenza pubblica nell'economia prodotta dagli automatismi di crescita del prelievo tributario a livello nazionale (lo Stato Leviatano) e dai comportamenti degli 'agenti' - le burocrazie - non controllati adeguatamente dal 'principale' - il cittadino e le sue rappresentanze politiche (v. Niskanen, 1971).

L'analisi dei rapporti finanziari tra centro e periferia all'interno di Stati nazionali (regole di eguaglianza, compiti dei diversi livelli di governo, efficienza nella produzione pubblica e politiche ridistributive, scelta degli assetti istituzionali più favorevoli alla costruzione di configurazioni più efficienti dei processi decisionali) è stata applicata a quelle forme di governo sovranazionale nate a seguito del processo di unificazione europea in cui è presente l'obbligo di un concorso finanziario a spese comuni (v. Petretto, 2002). Attualmente in Italia, a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione prodotta dalla l. cost. n. 3/2001, è in corso una riforma del 'sistema di federalismo fiscale' nazionale (v. Giarda, 2001).

In questo articolo ci occuperemo prevalentemente del contributo che l'analisi economica ha dato alla teoria normativa (il dover essere) del federalismo fiscale. Esso riguarda organizzazioni politiche caratterizzate da almeno tre diversi livelli decisionali: un livello centrale (federale o di Stato unitario), un livello intermedio (gli Stati di una federazione, i Länder tedeschi o le Regioni italiane) e un livello locale.

2. L'assegnazione dei compiti pubblici

Il punto di partenza della teoria economica del federalismo fiscale è il teorema del decentramento (v. Tiebout, 1961; v. Olson, 1969; v. Oates, 1972). Nei termini più generali, esso afferma che, data un'economia con un governo centrale e più comunità locali in cui viene fornito un solo bene pubblico, se la domanda per il bene pubblico è diversa nelle diverse comunità locali, allora l'efficienza allocativa richiede che la quantità di bene pubblico prodotto sia diversa nelle diverse comunità. L'assegnazione alle comunità locali del compito di provvedere al bene pubblico consente di realizzare un'allocazione efficiente delle risorse nell'economia. Un sistema di federalismo fiscale (che incorpori istituzionalmente la capacità di adattare la produzione alle preferenze delle singole comunità) è preferibile quindi a un'organizzazione unitaria dello Stato (che abbia tra i suoi compiti quello di garantire l'uniformità dell'offerta su tutto il territorio nazionale). Se vale l'assioma che il singolo individuo è il miglior giudice dei propri bisogni nelle scelte private di consumo, lavoro, risparmio e investimento, allora, secondo il teorema del decentramento, vale anche l'assioma che ogni comunità locale è il miglior giudice delle proprie scelte in materia di beni pubblici.

Nella scelta di allocazioni efficienti, le preferenze individuali e la domanda si esprimono entro i vincoli forniti dalle condizioni di produzione. Anche per la produzione dei beni e servizi pubblici si deve fare riferimento all'esistenza di economie (e diseconomie) di scala. Decisioni decentrate possono associarsi a costi di produzione del servizio più elevati, per esempio quando ogni singola giurisdizione periferica dovesse produrre direttamente i beni necessari per soddisfare la domanda. Dato che esistono procedure e possibilità organizzative per contrastare le diseconomie delle piccole dimensioni per i beni pubblici affidati alla decisione degli enti subnazionali, il teorema del decentramento conferisce un ruolo privilegiato alle preferenze e alla domanda rispetto all'andamento dei costi.

a) Area dei benefici ed effetti di traboccamento (spillover)

La teoria dell'assegnazione dei compiti pubblici ai diversi livelli di governo si fonda sulla nozione di bene pubblico elaborata da Samuelson (v., 1954) e integrata da Tiebout (v., 1961) per tenere conto del fatto che l'area entro la quale vale il principio della non rivalità nel consumo è territorialmente limitata. L'area di diffusione dei benefici definisce l'area su cui è efficiente costruire il mercato del singolo bene pubblico locale. Di qui la prima connessione tra dimensione dell'ente locale e tipologia del bene pubblico: i mercati efficienti per i diversi beni pubblici locali non hanno tutti la stessa estensione territoriale. Bisogna poi considerare che, per la maggior parte dei beni pubblici di interesse sub-nazionale, l'entità del beneficio ricavabile decresce man mano che ci si allontana dalla fonte di offerta e che, diversamente dai beni pubblici puri, all'aumentare della popolazione servita si manifestano fenomeni di affollamento e di congestione.

Dalla considerazione degli effetti di domanda, dell'estensione territoriale dei benefici, degli effetti di congestione e dei costi di produzione si possono ricavare indicazioni sulla dimensione ottimale dell'area su cui è preferibile siano assunte le decisioni di bilancio e sui beni da produrre nell'area, sui livelli di produzione del bene pubblico e sulle forme di pagamento dei servizi prodotti.

L'efficienza allocativa richiede che tutti i benefici generati dalla produzione del bene pubblico a livello decentrato affluiscano solo ai cittadini residenti nel territorio su cui il governo locale o regionale ha giurisdizione. In questa circostanza la comunità locale o regionale deciderebbe congiuntamente sul livello del servizio e sui mezzi di finanziamento. In linea ideale, per ogni bene pubblico potrebbe quindi essere disegnata sul territorio nazionale una specifica mappatura delle giurisdizioni in base al criterio del contenimento dei benefici e dei costi entro i confini territoriali. In molti paesi, inclusa l'Italia, sono continuamente create nuove suddivisioni funzionali del territorio nazionale in relazione a diversi tipi di bene pubblico offerto. Le aziende sanitarie locali, i distretti scolastici, i bacini ambientali, le città metropolitane, i consigli di quartiere nei grandi comuni e via dicendo si aggiungono alle tradizionali partizioni politiche del territorio (Regioni, Provincie e Comuni). In qualche caso si tratta di frazionamento del processo decisionale, in altri di accentramento.

Per tenere conto della realtà istituzionale è però più utile assumere che i confini delle giurisdizioni siano dati dalla storia di un paese e che non sempre vi sia corrispondenza tra area di diffusione dei benefici e confini delle giurisdizioni. In caso di mancata corrispondenza, il decentramento della sovranità politica porta a soluzioni non efficienti dal punto di vista allocativo. Quando si verifica un traboccamento (spillover) dei benefici di un programma pubblico al di fuori dei confini della giurisdizione, viene presentato alla procedura di decisione collettiva un insieme di preferenze incomplete. I benefici dell'azione pubblica sono sottovalutati e si ha una sottoproduzione di beni pubblici, con conseguente perdita di benessere collettivo. L'entità del fenomeno di traboccamento è probabilmente maggiore per gli enti locali che non per le regioni, e per gli enti locali nelle aree metropolitane che non per gli enti nelle zone agricole; aumenta quando aumentano i compiti che, per qualsiasi ragione, vengono spostati dal governo centrale verso la periferia; infine, il traboccamento non si verifica quasi mai in un'unica direzione: nella maggior parte dei casi, in relazione al grado di integrazione dell'economia sul territorio, i traboccamenti si intersecano nelle aree di più giurisdizioni.

Il ristabilimento dell'efficienza in presenza di traboccamento dei benefici (o dei costi) richiede valutazioni che non possono essere effettuate dalle singole comunità. Si rende quindi necessaria un'azione di coordinamento. Un livello superiore di governo ha la capacità di avviare procedure di negoziazione tra i diversi enti locali confinanti o di incentivare, per via finanziaria, le singole amministrazioni ad assumere decisioni che tengano conto di tutti gli effetti economici della propria azione (v. sotto, capp. 4, § c, e 5).

Gli effetti di traboccamento e le economie di scala vengono invocati a sostegno dell'opportunità di centralizzare funzioni storicamente assegnate a enti decentrati, soprattutto nel caso degli enti locali. I comuni molto piccoli tendono a essere mediamente più costosi dei comuni di medie dimensioni per l'incidenza dei costi fissi: di qui l'opportunità di aggregazione di diversi enti. Nelle metropoli statunitensi, in costante crescita demografica, la frammentazione del governo in una varietà di enti e amministrazioni genera esternalità territoriali di ampie dimensioni che hanno suggerito la costituzione dei cosiddetti governi 'di vasta area' (v. Hochman e altri, 1995). In Italia, la ricerca del costo minimo di produzione e della internalizzazione dei benefici attesi dall'attività pubblica è all'origine della riforma che ha portato a dare rilievo costituzionale alle città metropolitane.

La riorganizzazione territoriale delle giurisdizioni trova limiti pressoché invalicabili quando si considerano i governi intermedi. Anzitutto le maggiori dimensioni dell'area rendono meno rilevanti gli effetti di traboccamento. C'è poi da considerare il particolare ruolo dei governi intermedi, che negli Stati federali sono i soggetti del patto federativo e negli Stati unitari hanno spesso una tutela costituzionale. Per questo motivo è difficile pensare a una ridefinizione dei loro confini territoriali unicamente sulla base di considerazioni di efficienza economica.

b) La mobilità sul territorio

La teoria dell'assegnazione dei compiti pubblici, qualora si accetti la validità del teorema del decentramento, deve tenere conto della mobilità della popolazione sul territorio. Per regolare la costituzione delle comunità a cui viene affidato il compito di decidere sull'allocazione delle risorse per la produzione dei beni pubblici locali non è sufficiente applicare semplici criteri di efficienza economica. La libertà di stabilire la propria residenza è elemento qualificante degli Stati moderni e le scelte deriveranno dalle preferenze individuali: individui con preferenze simili per i beni pubblici locali troveranno più conveniente insediarsi nella stessa comunità in ragione di una più uniforme ripartizione del costo di produzione dei beni pubblici locali. D'altro canto, individui a reddito basso avranno interesse a entrare in comunità a reddito medio-elevato per beneficiare di una offerta di beni pubblici presumibilmente più elevata. Il territorio nazionale diventa quindi il teatro di conflitti distributivi che hanno come oggetto il contenuto stesso dei sistemi di federalismo fiscale, ossia la produzione dei beni pubblici.

c) Le applicazioni del teorema del decentramento

Considerazioni di efficienza economica indicano che la distribuzione dei poteri decisionali in materia di spesa pubblica e tasse sui diversi livelli di governo è più efficiente di un assetto interamente centralizzato, e indicano altresì che alcuni compiti devono essere allocati al governo centrale o a qualche governo sovranazionale. Tuttavia, la teoria del federalismo fiscale non fornisce precise indicazioni pratiche. Se si considera l'attività di produzione dei beni pubblici, sussiste unanimità di vedute sull'opportunità di affidare al governo centrale la difesa nazionale e le relazioni internazionali. In materia di sicurezza e giustizia vari paesi hanno adottato soluzioni diverse. Persino per quanto riguarda la moneta europea si è sostenuto che sarebbe stato preferibile mettere le diverse monete in una gara competitiva anziché unificarle nell'euro (v. Buchanan, 1999). Anche all'interno di uno stesso paese, le decisioni in merito ai compiti da affidare al centro e alla periferia possono variare nel tempo. Si pensi al caso dell'istruzione in Italia: è stata locale fino ai primi anni dell'unità politica, diventando poi nazionale; dal 2002 è divenuta di competenza mista tra Stato e Regioni, e oggi è stata avanzata la proposta di attribuirla interamente alle Regioni.

L'incertezza sulla 'vera' area dei benefici derivanti da servizi pubblici quali l'istruzione, la tutela della salute, la tutela dell'ambiente, i trasporti e numerosi altri ha portato, nei diversi paesi, a una varietà di soluzioni. In tutti i casi, comunque, il governo centrale, in virtù di norme costituzionali o di decisioni politiche ad hoc, mantiene per molti servizi pubblici il potere di ingerenza sulle scelte compiute dai livelli inferiori di governo, o per comando, con l'imposizione di vincoli giuridici sulle condizioni di offerta dei beni e servizi, oppure con sostegni finanziari subordinati al rispetto di determinati parametri relativi ai risultati e alle modalità di offerta dei beni e servizi medesimi. Il tipo di ingerenza è strettamente legato alla natura del modello politico del paese. Nei paesi a struttura unitaria (come l'Italia, la Francia o il Regno Unito) la regolazione dell'attività di produzione dei servizi pubblici degli enti decentrati (Regioni, Dipartimenti, ecc.) si basa prevalentemente su comandi e ordini diretti a regolarne le condizioni di offerta. Nei paesi a struttura federale in senso proprio (quali gli Stati Uniti) l'ingerenza del governo federale si realizza prevalentemente con programmi di sostegno finanziario, mentre in altri paesi, come la Germania o l'Australia, vengono utilizzate combinazioni variabili delle due categorie di strumenti.

Un compito importante da assegnare al governo centrale è quello di garantire il funzionamento del sistema di federalismo fiscale prescelto, definendo le procedure di cooperazione tra i governi di livello inferiore, se si sceglie un modello di federalismo cooperativo, oppure definendo le regole minime che i diversi governi devono rispettare, quando si sceglie un modello di federalismo competitivo.

3. L'assegnazione del potere tributario

Un efficiente sistema di federalismo fiscale richiede che ciascun livello di governo e ciascun governo, centrale, regionale o locale, finanzi le proprie spese con il gettito prodotto da proprie entrate tributarie ("expenses of local benefit ought to be defrayed by local revenue": v. Smith, 1776, libro V, cap. I, Conclusioni). La corrispondenza tra decisioni di spesa e decisioni di finanziamento è un elemento costitutivo dell'efficienza allocativa. I governi che decidono le spese devono anche decidere i mezzi di finanziamento. Per la sola funzione allocativa, il ricorso al debito è consentito per il finanziamento delle spese in conto capitale, ma il fulcro del finanziamento deve provenire dal sistema tributario. L'efficienza richiede l'utilizzo di prelievi ispirati al principio del beneficio: le tasse devono essere applicate a chi gode dei benefici della spesa pubblica in relazione al beneficio tratto. Nella tradizione finanziaria questo principio si è espresso nell'impiego di tariffe e di tasse per l'accesso ai servizi. In un sistema di federalismo fiscale, ma anche in uno Stato unitario in cui non vi sia decentramento politico, tariffe e tasse assumono il ruolo che i prezzi hanno nel mercato dei beni privati, ossia quello di regolare la domanda. Nel caso dei beni pubblici locali, l'efficienza richiede che il prelievo (la tassa-prezzo) sia differenziato per i diversi consumatori, sia cioè allineato alle valutazioni marginali dei singoli per il livello di bene pubblico prodotto. Per i beni prodotti dal settore pubblico aventi carattere di bene privato, per i quali l'esclusione è possibile, la tassa può essere sostituita dalla tariffa.

Tariffe e tasse-prezzo possono avere un ruolo importante a livello decentrato (più a livello locale che a livello regionale), ma essendo difficile valutare la domanda di beni pubblici, esse non sono in grado di finanziare, se non per quote modeste, l'attività pubblica locale. Il loro gettito deve quindi essere integrato da altre fonti di entrata. Poiché i moderni sistemi tributari ricorrono a imposte, generali o speciali, sul reddito, sui consumi o sul patrimonio, sono questi i tributi che devono essere valutati per la loro capacità di adattarsi ai diversi livelli di governo.

a) Tributi locali e regionali: criteri generali

Nella scelta dei tributi da assegnare al finanziamento dell'attività degli enti decentrati valgono le seguenti considerazioni: 1) l'efficienza allocativa e l'equità orizzontale (parità di trattamento di uguali) richiedono che le imposte raccolte in una giurisdizione non siano esportate verso cittadini di altre giurisdizioni; 2) l'amministrazione dei tributi, come hanno sperimentato molti paesi, è caratterizzata da forti economie di scala; 3) le imposte e le tasse locali non devono determinare scelte di localizzazione dei fattori diverse da quelle che sarebbero state effettuate in presenza di un mix efficiente di spese locali e tasse locali (principio di neutralità); la mobilità fiscale determina perdite di gettito nelle giurisdizioni che applicano aliquote più elevate e aumenti della base imponibile nelle giurisdizioni che ricevono i fattori che si spostano; 4) i non residenti o i pendolari per lavoro non devono essere penalizzati con aliquote differenziate, a meno che ciò non sia giustificato dall'applicazione del principio del beneficio; 5) occorre minimizzare gli effetti ridistributivi all'interno della giurisdizione; 6) è opportuno che le basi imponibili prescelte siano distribuite in modo relativamente uniforme sul territorio.

Con riferimento ai diversi tributi previsti nei moderni sistemi tributari se ne può considerare l'applicabilità a livello regionale e locale.

b) Le imposte sul reddito

La base dell'imposta sul reddito personale è estesa a tutti i redditi del residente, inclusi i redditi da capitale, indipendentemente dalla localizzazione dei fattori di sua proprietà e, in generale, è ispirata a criteri di progressività. L'imposta progressiva sul reddito complessivo non può essere amministrata in via diretta ed esclusiva da regioni o enti locali, data la difficoltà (o addirittura l'impossibilità) di inserire nella base imponibile del tributo locale i redditi da capitale e l'impossibilità di gestire a livello locale l'integrazione dell'imposta personale con l'imposta sui profitti delle società. L'imposta personale sul reddito deve essere assegnata prioritariamente al governo nazionale; a regioni ed enti locali può essere assegnato il potere di applicare proprie aliquote, autonome e anche differenziate, sulla base imponibile determinata per i fini del tributo nazionale.

Nella determinazione delle aliquote non è opportuno che regioni ed enti locali sovrappongano proprie scale di progressività a quella già definita dal tributo nazionale. Per ragioni di trasparenza della funzione distributiva e per evitare l'acuirsi dei fenomeni di mobilità dei fattori tra giurisdizioni, è preferibile che gli enti periferici si limitino a gestire un proprio segmento dell'imposta personale sul reddito, definito in base al criterio della proporzionalità.

Per quanto riguarda le persone giuridiche, poiché per la maggior parte esse esercitano attività che travalicano i confini delle giurisdizioni subnazionali, non è opportuno che la tassazione del loro reddito sia affidata ai governi decentrati. In questo caso, infatti, si riproporrebbero a livello regionale tutte le questioni affrontate nei trattati internazionali per evitare la doppia tassazione. Con libertà di determinazione delle aliquote, l'imperfetta deducibilità delle imposte pagate fuori della regione determinerebbe una inefficiente allocazione territoriale del capitale.

La questione se le imposte regionali sul reddito siano applicabili anche ai redditi prodotti nel territorio regionale dai residenti di altre regioni ripropone il problema proprio di un sistema di federalismo fiscale, se cioè la tassazione delle attività economiche debba ispirarsi al criterio della residenza (nell'ipotesi che la rappresentanza politica sia legata alla residenza legale) o al criterio della territorialità (i benefici di una parte rilevante dei prodotti pubblici affluiscono a chi vive e opera nel territorio regionale). Sinteticamente, si può dire che i titolari, ancorché non residenti, di attività economiche sul territorio regionale o locale devono in qualche modo contribuire al pagamento dei costi dell'attività pubblica. Ciò può avvenire attraverso qualche forma di prelievo sui redditi prodotti nel territorio (per esempio i redditi di lavoro o l'intero valore aggiunto) o attraverso una quota modesta dell'aliquota dell'imposta sui redditi delle società di capitale.

c) Le imposte sui consumi

Le imposte sui consumi sono ampiamente utilizzate come base imponibile a livello centrale. Tutti i paesi europei hanno adottato un'imposta sul valore aggiunto dei consumi come fonte importante di finanziamento. Negli Stati Uniti le imposte sulle vendite sono amministrate a livello statale. A livello decentrato, considerazioni di equità richiederebbero che l'imposta sui consumi venisse applicata sulla base del principio di residenza: tutti i residenti di una giurisdizione dovrebbero pagare la stessa imposta indipendentemente dalla località dove acquistano i loro beni. È però impossibile, in assenza di un'imposta personale sui consumi, tassare in modo uniforme i consumi domestici ed esteri dei residenti. La tassazione locale dei consumi non potrà che applicarsi al totale dei consumi interni. Ciò consentirà di tassare il consumo domestico dei non residenti come loro contribuzione all'utilizzo dei servizi prodotti nella regione. Se questa base è utilizzata da tutte le giurisdizioni, le violazioni della regola di parità di trattamento saranno di modesta entità. Per evitare il verificarsi di un eccesso di spostamenti attraverso i confini delle diverse giurisdizioni, è preferibile che le imposte sui consumi siano riservate ai governi intermedi (Regioni, Stati o Länder) piuttosto che agli enti locali.

d) Le imposte sul patrimonio immobiliare

Le imposte sul patrimonio o sul reddito dei cespiti immobiliari hanno una lunga tradizione di utilizzo a livello locale, sia in Italia che in altri paesi. Questa diffusione ha ragioni allocative e ragioni di equità. La rendita fondiaria e il valore immobiliare derivano da un bene capitale che non può spostarsi: la sua tassazione, anche se fatta ad aliquote diverse nelle diverse giurisdizioni, non determina riallocazioni territoriali dell'attività economica ed è quindi neutrale in termini di benessere. Perché questa proposizione valga, occorre che sia tassata la sola rendita di posizione e non il rendimento del capitale incorporato nell'immobile. Per quanto riguarda l'equità, l'orientamento favorevole all'utilizzo di questa base imponibile trae origine dai modelli nei quali la rendita di posizione (o differenziale) è prodotta dall'aumento della domanda di localizzazioni sul territorio. Si tratta di un guadagno che l'individuo riceve senza merito e che può quindi essere tassato con aliquote anche elevate (v. Hochman e altri, 1995).

4. Autonomia tributaria, compartecipazioni e trasferimenti correttivi

L'autonomia dei governi decentrati nella fissazione delle aliquote può portare a effetti distorsivi sulla localizzazione territoriale delle attività economiche e generare una serie di violazioni del principio della parità di trattamento (equità orizzontale) dei cittadini. Se l'autonomia viene estesa alla determinazione delle basi imponibili, si riscontrano importanti diseconomie nella gestione amministrativa dei tributi. È stato suggerito in varie sedi che i tributi regionali e locali potrebbero essere vincolati a regole di uniformità (stesse basi imponibili, stesse aliquote); in questo caso non ci sarebbero effetti distorsivi o costi amministrativi aggiuntivi. Resterebbe però aperto il problema di come ripartire tra regioni il gettito di quelle imposte (come l'imposta sul valore aggiunto o l'imposta sui redditi delle persone giuridiche) per le quali le riscossioni nel territorio regionale non sono proporzionate al sottostante indicatore di capacità contributiva (per esempio i consumi). Si tratta di un problema che negli Stati federali alimenta perenni controversie tra le diverse giurisdizioni.

L'uniformità dei sistemi tributari subnazionali non è però una caratteristica positiva di un ordinato sistema di federalismo fiscale. Né l'efficienza economica è compatibile con la costruzione di tanti sistemi tributari autonomi. L'amministrazione dei grandi tributi non può essere lasciata alle singole giurisdizioni: le regole per la determinazione delle basi imponibili, le procedure di controllo e di gestione del contenzioso possono, senza lesione dell'autonomia, essere gestite con regole uniformi su tutto il territorio nazionale. L'esercizio dell'autonomia può essere concentrato solo sulla scelta delle aliquote e trova limiti ulteriori là dove siano in atto, per ragioni allocative e distributive, programmi di trasferimenti finanziari da parte del governo nazionale a favore dei governi subnazionali (v. sotto, capp. 4, § c, e 5).

a) Separazione delle fonti o condivisione delle basi imponibili

La trasparenza delle decisioni pubbliche, la riduzione dei fenomeni di illusione finanziaria e la semplicità nella costruzione di un sistema di federalismo fiscale richiederebbero la separazione delle fonti: a ogni livello di governo occorrerebbe assegnare una o più basi imponibili in esclusiva, senza che sulle stesse incida l'attività di altri livelli di governo. Tuttavia, come abbiamo già visto, per i maggiori tributi esistenti i principî di equità (parità di trattamento) e l'economicità dell'amministrazione tributaria impongono che la determinazione delle basi imponibili delle imposte sul reddito e delle imposte sui consumi siano affidate al governo centrale. Sulla base imponibile dell'imposta personale sui redditi possono essere applicate un'aliquota del governo centrale e, se ritenuto appropriato in sede di assegnazione dei diversi strumenti fiscali, aliquote anche differenziate da parte di singoli governi regionali o locali. La sovrapposizione dei poteri tributari di più livelli di governo sulla stessa base non richiede aumenti della pressione tributaria complessiva, ma comporta solo che non vi sia un unico potere tributario autonomo. Nel caso dell'imposta personale sui redditi, l'utilizzo della stessa base richiede anche di risolvere la questione del grado di progressività complessiva del tributo. Poiché la progressività è orientata alla ridistribuzione del reddito, i governi regionali e, soprattutto, i governi locali dovrebbero astenersi dall'applicare proprie scale di progressività su una base già incisa dalla progressività del tributo nazionale.

b) Le compartecipazioni

Il gettito fiscale può essere ripartito tra i diversi livelli di governo rimuovendo l'opzione dell'autonomia sulla determinazione delle aliquote. La compartecipazione di uno o più livelli di governo periferici al gettito dei tributi nazionali (un istituto di onorata tradizione nell'ordinamento italiano e di altri paesi europei) è una forma appropriata di finanziamento dell'attività degli enti decentrati, riproposta negli anni settanta negli Stati Uniti sotto la denominazione di tax sharing. Il sistema delle compartecipazioni attribuisce ai governi decentrati una quota - uniforme su tutto il territorio - del gettito che un tributo nazionale produce nel territorio regionale o locale. Tale quota di gettito proviene ai bilanci delle diverse giurisdizioni senza che i loro governi debbano pagare il costo politico della decisione sull'aliquota da applicare.

Quando le entrate dei governi locali e regionali provengono per intero da compartecipazioni, la singola giurisdizione non dispone più del potere di autodeterminazione dei livelli di spesa e dei beni da produrre. La dimensione del proprio bilancio è determinata per intero da una decisione presa altrove o in un altro momento, per esempio nel momento costituente, e quindi definita una volta per tutte. La compartecipazione produce gettito, ma non esprime autonomia tributaria.

Una forma particolare di compartecipazione è quella che si avrebbe con la condivisione delle basi imponibili (v. sopra, cap. 4, § a), ma vincolando all'uniformità l'aliquota dei governi decentrati: tutti gli enti la stessa aliquota. Anche in questo caso, come in quello delle compartecipazioni tradizionali, gli enti subnazionali riceverebbero un gettito legato alle basi imponibili della propria giurisdizione, ma non disporrebbero di autonomia tributaria. All'interno di questa scelta, la condivisione delle basi imponibili ad aliquota uniforme deve considerarsi preferibile alla compartecipazione al gettito. Quest'ultima, infatti, rende più difficile l'uso dello strumento tributario per funzioni di stabilizzazione dell'economia: incrementi delle imposte diretti a contenere la domanda aggregata produrrebbero automaticamente un aumento delle entrate per i livelli di governo subnazionali. Inoltre, nel caso delle imposte progressive sul reddito, la compartecipazione trasferisce ai governi locali un gettito che deriva da aliquote medie di imposizione diverse nelle diverse giurisdizioni in relazione ai diversi livelli del reddito pro capite.

c) Responsabilità fiscale, tributi propri e compartecipazioni

La condivisione dei gettiti (le compartecipazioni) e la condivisione delle aliquote (una riserva di aliquota uniforme a favore degli enti decentrati su una base imponibile condivisa) possono essere utilizzate per integrare i gettiti provenienti dalle entrate proprie qualora non fosse possibile individuare un'assegnazione di potere tributario coerente con il costo dello svolgimento dei compiti assegnati ai diversi livelli di governo. Ci sono però buone ragioni contro l'ipotesi che queste fonti di entrata possano costituire la totalità del finanziamento delle attività pubbliche decentrate. Esse sarebbero strumenti efficienti solo nel caso, poco probabile, che la relazione tra domanda di beni pubblici e reddito fosse esattamente allineata con la relazione tra gettito tributario dalle fonti condivise e reddito. In generale si deve assumere che in un sistema di federalismo fiscale le diversità delle preferenze individuali possano generare diversità nella domanda di beni pubblici. Gli enti decentrati, al pari del governo centrale, devono disporre del potere di adattare la pressione fiscale ai bisogni e alle preferenze regionali. Le decisioni sulla contrazione o espansione dei bilanci regionali o locali devono avvenire attraverso modifiche delle aliquote dei tributi propri.

d) La correzione degli effetti di traboccamento

La presenza di effetti di traboccamento oltre i confini territoriali dell'ente locale o dell'ente di governo intermedio può generare allocazioni inefficienti. In presenza di traboccamento dei benefici è probabile che si abbia una sottoproduzione dei beni pubblici. Diversi metodi sono stati proposti per rimediare a tali inefficienze. Il primo prevede che i livelli di governo superiore, con propri programmi di trasferimenti finanziari, assegnino contributi diretti a correggere gli effetti delle esternalità, secondo la tradizione pigouviana. Quando i benefici sociali (inclusivi dei benefici che si estendono ai residenti delle giurisdizioni confinanti) sono superiori ai benefici goduti dai residenti della giurisdizione, allora la giurisdizione che produce gli effetti di traboccamento deve ricevere un contributo (un sussidio) che si somma alle imposte pagate dai residenti per coprire i costi di produzione (v. Tiebout, 1961).

Il secondo metodo pone l'accento sui rapporti negoziali. Le collettività interessate possono essere indotte dal potere centrale a negoziare reciprocamente forme di consolidamento delle decisioni pubbliche su singoli beni o pacchetti di beni pubblici (v. Olson, 1969). Il consolidamento delle decisioni può assumere varie forme, dai semplici accordi di riparto dei costi attraverso forme consortili di acquisto del bene prodotto, fino alla soluzione più radicale della fusione delle giurisdizioni.

I programmi di contributi finanziari devono contenere indirizzi e vincoli diretti a ottenere che il finanziamento si applichi al bene pubblico relativamente al quale si manifestano gli effetti di traboccamento e la cui produzione deve essere aumentata, evitando che esso venga destinato al sostegno delle attività e dei beni non assistiti. Per ottenere questo risultato i programmi di trasferimento sono specifici (indirizzati al bene in questione), si caratterizzano per la presenza di vincoli di destinazione e richiedono sempre una quota di co-finanziamento da parte dell'ente ricevente (che copre la parte della produzione che l'ente decentrato valuta essere compatibile con la disponibilità a pagare dei propri residenti). L'entità del concorso finanziario del governo centrale dipende dalla misura del beneficio che ricade oltre i confini della giurisdizione e dai maggiori costi che l'ente ricevente deve sopportare per adeguare l'offerta. Questi contributi finanziari, in quanto finalizzati all'efficiente utilizzo delle risorse, hanno caratteristiche diverse rispetto ai programmi di trasferimento con funzioni distributive (v. sotto, cap. 5).

5. Distribuzione del reddito ed equità interregionale

Nelle società moderne regolate dalle forze di mercato, il reddito individuale tende a essere distribuito in modo non uniforme. Nella maggior parte dei paesi la politica non è indifferente alle disuguaglianze presenti nella società. In qualche caso le costituzioni indicano esplicitamente, tra gli obiettivi dell'azione pubblica, quello della riduzione delle disuguaglianze; in altri casi questo giudizio è espresso nelle decisioni correnti sul bilancio pubblico e nell'attività legislativa. Gli interventi correttivi sulla distribuzione del reddito si realizzano attraverso la progressività del sistema tributario (che può includere anche le imposte negative sul reddito) e la predisposizione di programmi di spesa pubblica finalizzati a individui o classi di individui con reddito più basso.

Con o senza politiche ridistributive, il reddito medio per abitante delle diverse giurisdizioni in molti paesi presenta storicamente differenze che possono essere anche assai elevate. In Italia il reddito per abitante della regione più ricca è circa tre volte quello della regione più povera. Quali che siano la natura e l'entità dei compiti pubblici attribuiti alle Regioni o agli enti locali, e quali che siano le basi imponibili assegnate per lo svolgimento di tali compiti anche con piena autonomia tributaria, il vincolo di bilancio (spese uguali alle entrate) produrrebbe livelli di spesa pubblica e livelli dei servizi pubblici per abitante differenziati in misura anche notevole nelle diverse giurisdizioni. Se i compiti assegnati al sistema decentrato sono limitati, tali differenze potrebbero essere coerenti con il teorema del decentramento; se sono rilevanti, le differenze nel livello dei servizi offerti ai cittadini in relazione alla loro residenza possono risultare inaccettabili. Una parte delle conseguenze delle differenze nei redditi individuali sulle scelte degli enti decentrati può essere corretta dalla progressività del sistema tributario nazionale, integrata dalla detraibilità delle tasse locali dall'imposta sul reddito dovuta al governo centrale.

L'esperienza sembra tuttavia indicare che gli effetti delle differenze regionali nelle basi imponibili per abitante non possono essere ridotti in modo significativo dall'applicazione dell'imposta progressiva. Di qui la necessità di attuare programmi di trasferimenti finanziari dal centro verso la periferia. A questo riguardo si possono ipotizzare due diversi ordinamenti istituzionali. Nel primo, le regioni ricche trasferiscono parte del proprio gettito alle regioni povere, con programmi definiti di 'perequazione orizzontale'; si tratta di un accordo quasi-contrattuale che ha supporto e regole nell'ordinamento costituzionale. Nel secondo, il governo centrale utilizza una parte del gettito proveniente dai propri tributi per finanziare le regioni più povere, integrando il loro gettito tributario con programmi di 'perequazione verticale'; in questo caso le regole costituzionali sono utili, ma non strettamente necessarie.

I problemi tecnici e formali dei programmi di perequazione interregionale sono molto simili nei due casi, anche se la sostanza politica sottostante è molto diversa.

a) Le regole della perequazione

I criteri per la perequazione proposti dalla letteratura (v. Musgrave, 1961; v. Pola, 1992) e adottati nei diversi paesi possono essere ricondotti a due grandi categorie: la perequazione delle capacità fiscali e la perequazione in base ai bisogni. Nell'ambito dei programmi di perequazione verticale, il primo criterio tende a ridurre (o eliminare) le conseguenze delle diversità nelle basi imponibili delle singole giurisdizioni. Alle giurisdizioni con basi imponibili più basse vengono assegnati contributi finanziari posti a carico del bilancio del governo nazionale. Il riferimento deve essere alle basi imponibili o, in presenza di più basi imponibili, al gettito standardizzato (il gettito che sarebbe prodotto in ogni giurisdizione se tutte utilizzassero le stesse basi imponibili con le stesse aliquote). È importante non fare riferimento al gettito effettivo, perché questo è influenzato dalla diversità delle aliquote e dal diverso grado di evasione tributaria nelle varie regioni. L'esercizio dell'autonomia tributaria non deve influire sull'entità dei contributi assegnati dal governo centrale.

Il secondo criterio, riferito ai bisogni, parte da una valutazione dei bisogni nelle singole regioni, costruendo indicatori sulla base delle loro caratteristiche sociali, economiche e demografiche. Tali indicatori di bisogno vengono quindi trasformati in domanda di fattori e successivamente in spese standardizzate. Il trasferimento del governo centrale sarà pari alla differenza tra la spesa standardizzata e il gettito standardizzato calcolato con le procedure discusse sopra.

In ambedue i casi, le singole giurisdizioni trattengono, senza penalizzazioni, il gettito associato all'utilizzo di aliquote superiori a quelle utilizzate per il computo del gettito standardizzato.

b) L'entità della perequazione

Il problema di stabilire il livello desiderabile di perequazione si pone in modo diverso per i due criteri. Se si adotta il primo (perequazione delle capacità fiscali), occorre decidere se i trasferimenti spettano solo alle giurisdizioni che hanno valori di gettito per abitante inferiori alla media nazionale o a qualche media calcolata sui valori del gruppo delle regioni più ricche, ovvero se spettano a tutte le giurisdizioni tranne a quella che ha il valore più elevato del gettito standardizzato. In quest'ultimo caso si potrebbe anche ottenere l'annullamento delle differenze nelle capacità fiscali. Se si adotta il secondo criterio (perequazione in base ai bisogni), occorre individuare i caratteri economici, sociali e demografici da utilizzare per la costruzione degli indicatori di bisogno (singole regioni e governo centrale potrebbero, su questo tema, avere opinioni diverse) e decidere se i trasferimenti debbano coprire solo valori minimi di spesa, ossia quel valore su cui c'è un interesse nazionale (v. Smith, 1776, libro V, cap. I, Conclusioni; v. Scotto, 1953), o qualche altro valore (i valori medi nazionali o i valori più elevati storicamente sperimentati in qualche giurisdizione). Si tratta di una questione molto controversa, in qualche caso influenzata dagli ordinamenti costituzionali, in altri dalla tradizione, in altri ancora dagli orientamenti ideali della politica.

c) Vincoli di destinazione e diritti soggettivi

Se si adotta il criterio della perequazione delle capacità fiscali, i trasferimenti finanziari del fondo perequativo non dovrebbero avere vincoli di destinazione (come invece era suggerito per i trasferimenti finalizzati al recupero dell'efficienza allocativa), ma dovrebbero configurarsi come contributi generali di finanziamento. Le singole giurisdizioni avrebbero la libertà di destinare tutte le risorse, sia quelle provenienti dai tributi propri, sia quelle provenienti dai contributi del governo nazionale (o dei governi regionali se si tratta di enti locali), secondo le regole generali dell'autonomia di bilancio.

Se invece il criterio della perequazione è riferito a indicatori di bisogno, dato che in questo caso la motivazione del trasferimento è costituita dal riferimento a un valore ideale di prestazione da parte delle singole giurisdizioni, i trasferimenti finanziari del fondo perequativo dovrebbero essere specifici e accompagnati da vincoli di destinazione. A questo proposito si pongono due questioni di grande rilievo pratico. La prima riguarda il grado di analiticità dei vincoli di destinazione (se essi debbano comportare solo un obbligo di spendere nel settore considerato nella formula di assegnazione, oppure configurarsi come vincoli sui caratteri specifici che l'intervento regionale nel settore deve assumere). La seconda questione riguarda l'entità finanziaria dell'intervento centrale (che può essere fissa in termini monetari oppure adattarsi alle scelte sui livelli di spesa che saranno effettuate a livello locale). Nella letteratura americana si distingue al proposito tra block grants e open-ended matching grants.

Il finanziamento per programmi, i vincoli di destinazione e il loro grado di analiticità nonché gli obblighi di co-finanziamento sono l'espressione dell'ingerenza dei governi centrali nelle attività dei governi periferici. L'ingerenza è giustificata da ragioni economiche, ma contrasta con il principio di autonomia. La natura, la dimensione e le caratteristiche dei programmi di trasferimento finanziari pongono una serie di problemi che avvicinano gli aspetti economici del federalismo ai problemi del federalismo politico. Questo aspetto, tuttavia, esula dall'ambito di questo articolo.

6. Alcune questioni di confine

Oltre a quelli finora considerati, la letteratura sul federalismo fiscale tratta una varietà di altri problemi (v., ad esempio, Inman e Rubinfeld, 1997; v. Oates, 1999). Ne isoliamo due, di grande rilievo attuale: il rapporto tra decentramento dei poteri e dimensione del settore pubblico e i processi di devolution, con riferimento alle recenti riforme costituzionali in Italia.

a) Decentramento dei poteri e dimensione del settore pubblico

Nell'opinione di molti studiosi, un sistema democratico con ordinate regole decisionali e basato su strutture amministrative ben funzionanti sarebbe normalmente in grado di generare un settore pubblico di dimensioni e caratteristiche coerenti (o non troppo incoerenti) con le preferenze individuali. Secondo questa visione, l'intervento pubblico si limita a supplire alle decisioni dei singoli e all'operare dei mercati in quelle circostanze e nell'ambito di quei beni e servizi relativamente ai quali i mercati non sono in grado di generare l'adattamento alle preferenze e alla minimizzazione dei costi. Il funzionamento concreto delle decisioni pubbliche è pieno di esempi di malfunzionamento e di inefficienze, ma, nel complesso, il funzionamento della democrazia (con un buon sistema elettorale) è la garanzia che le decisioni pubbliche non possono sistematicamente allontanarsi dalle condizioni di efficienza. Il pensiero di Luigi Einaudi può essere assunto come paradigma di questa impostazione.

A fronte della crescita della spesa pubblica sperimentata negli ultimi cinquant'anni, si è osservato come i governi, invece di bilanciare costi e disponibilità a pagare, abbiano sfruttato le caratteristiche dei sistemi tributari moderni, basati sul principio della capacità contributiva, per espandere la spesa in relazione solo alle loro capacità di produrre gettito (v. Brennan e Buchanan, 1980). Inoltre le strutture burocratiche (v. Niskanen, 1971) avrebbero favorito decisioni politiche sulla crescita della spesa nei settori loro affidati senza evidenziare le conseguenze negative connesse all'aumento della pressione tributaria richiesto per il finanziamento. Interessate solo al budget maximizing, avrebbero consapevolmente indotto le strutture politiche e l'elettorato a sottovalutare gli effetti negativi dell'aumento della pressione tributaria sulla crescita dell'economia. La contrapposizione dei poteri tra governo centrale e governi periferici potrebbe portare a forme di tassazione più vicine al principio del beneficio e a imporre un vincolo più rigoroso all'espansione del peso del settore pubblico: maggiore decentramento dei poteri, minore crescita del settore pubblico.

È stato peraltro osservato che se la struttura dei sistemi tributari a livello dei governi intermedi (Stato o Regioni) ripete quella dei governi centrali, dando la preminenza alle imposte sul reddito o sulla spesa, non ci sono garanzie che l'azione di contrasto al malfunzionamento delle strutture decisionali del governo centrale si manifesti efficacemente. Anzi, si è notato come forme di decentramento incompleto dei poteri possano dare luogo a una crescita del ruolo dello Stato ancora maggiore di quella che si avrebbe nel caso di forti strutture di governo centrale: governi regionali forti, operanti in regime di vincolo di bilancio imperfetto, possono aumentare la spesa sperando di scaricarne il finanziamento sul governo centrale (v. Bordignon e altri, 2001).

L'analisi economica dei sistemi di federalismo sottolinea da un lato i vantaggi della diversità nei mix di spesa pubblica e di tassazione nelle diverse giurisdizioni, e dall'altro i limiti che deve incontrare tale diversità, nonché le istituzioni, gli interventi e le procedure che consentono di far rispettare tali limiti. La diversità è ammessa e suggerita per quelle attività pubbliche che sono di esclusivo interesse dei cittadini della giurisdizione, mentre deve essere limitata per quelle attività pubbliche i cui benefici o effetti travalicano i confini delle giurisdizioni. Nei cosiddetti modelli di federalismo fiscale cooperativo (o solidale, o coordinato) il governo centrale, con proprie decisioni, dispone comandi o attua finanziamenti condizionati al fine di coordinare quelle attività di spesa e di tassazione, incluse le attività dirette alla riduzione delle disuguaglianze, i cui benefici ed effetti travalicano i confini delle giurisdizioni. In alternativa, le decisioni di coordinamento sono attribuite a rappresentanti degli organi di governo periferici, variamente vincolate da regole di unanimità o di maggioranza qualificata definite in sede costituzionale.

I cosiddetti modelli di federalismo fiscale competitivo, soprattutto per quanto riguarda il livello del prelievo tributario da parte dei governi intermedi, pongono l'accento su un'ampia autonomia nella fissazione delle aliquote d'imposta. La concorrenza per attrarre attività economiche porterebbe, in qualche giurisdizione, a una riduzione delle aliquote d'imposta e a livelli di intervento pubblico inferiori, anche in misura significativa, a quelli prevalenti in altre giurisdizioni o parti del paese. Queste differenze offrirebbero al cittadino la scelta tra modelli sociali molto diversi tra di loro, caratterizzati principalmente da diversi livelli della pressione tributaria, dei servizi pubblici e degli interventi pubblici diretti alla riduzione delle disuguaglianze tra i redditi dei cittadini. L'attrazione esercitata dai livelli più bassi di pressione tributaria in alcune giurisdizioni avrebbe l'effetto di ridurre il peso del settore pubblico nell'economia.

È stato però fatto notare che, paradossalmente, un modello di federalismo fiscale competitivo potrebbe portare, come avviene nei mercati competitivi dei beni privati, all'uniformità dei livelli di tassazione, allineati alle preferenze individuali espresse nelle giurisdizioni più ricche. Ciò che molti considerano come un elemento qualificante di un sistema di federalismo fiscale - il formarsi di ragionevoli differenze nei modelli di offerta pubblica - si trasformerebbe progressivamente in una soluzione di Stato minimale.

b) L'attuazione del federalismo fiscale in uno Stato unitario e il caso italiano

La discussione sul federalismo fiscale può avere accenti diversi a seconda che si faccia riferimento a Stati indipendenti che si aggregano in una federazione, oppure a uno Stato nazionale che voglia dare spazi di autonomia a organi di governo decentrati, per esempio le Regioni. Nel primo caso, il punto di partenza è costituito dalle diversità che caratterizzano gli ordinamenti tributari e di spesa dei diversi Stati che entrano nella federazione. La costruzione di un ordinato sistema di relazioni finanziarie tra centro e periferia si caratterizzerà per l'accentramento di alcune delle funzioni pubbliche precedentemente svolte in autonomia dai singoli Stati e per la conservazione alla sovranità di questi ultimi delle funzioni residue; si caratterizzerà altresì per regole di 'ingerenza' del governo federale nell'attività dei singoli Stati là dove il patto federativo lo avrà ritenuto utile o necessario: l'ingerenza potrà riguardare sia l'attività di spesa che l'attività di prelievo tributario. Nel secondo caso il punto di partenza è costituito da ordinamenti tributari e di spesa definiti a livello nazionale e orientati a regole formali di uniformità. La costruzione di un ordinato sistema di federalismo fiscale si caratterizzerà per il trasferimento dal governo nazionale ai governi periferici di alcune delle funzioni e dei compiti precedentemente svolti dal governo centrale; il trasferimento di poteri sulle singole materie o sui singoli compiti potrà essere pieno e incondizionato per qualche materia, limitato e parziale per altre. Esso potrà riguardare, con diversi caratteri, sia i poteri di spesa sui servizi pubblici e sui trasferimenti a famiglie e imprese, sia i poteri di regolazione dell'attività economica o di altri enti pubblici, sia i poteri di tassazione. Una parte dei tributi in precedenza nazionali potranno essere trasferiti agli enti decentrati.

La teoria del federalismo fiscale riguarda soprattutto l'assetto finale della distribuzione dei poteri di spesa, di regolazione e di tassazione tra centro e periferia, e di conseguenza si applica indifferentemente al risultato dei processi tanto di accentramento quanto di decentramento dei poteri.

Se le questioni teoriche fondamentali sono le stesse, non è detto che i problemi di attuazione dei processi di trasferimento dei poteri (dal centro alla periferia o viceversa) debbano essere gli stessi. Se la politica economica del federalismo fiscale (ovvero la teoria delle trasformazioni dell'ordinamento statale) si fonda sui teoremi del federalismo fiscale, le concrete prescrizioni di politica economica possono però divergere nei due tipi di processo, perché i teoremi non sono così robusti da prevalere sui valori o sui pregiudizi che fanno di uno Stato unitario qualcosa di diverso da una federazione.

Per quanto riguarda l'Italia, a partire dall'inizio degli anni novanta si è sviluppato un orientamento politico favorevole a una riforma costituzionale che modificasse le assegnazioni di compiti e di poteri definiti dalla Costituzione del 1948. Tale processo, come si è già ricordato, ha avuto sbocco nella l. cost. n. 3/2001 che ha modificato il Titolo V della parte II della Costituzione e ha disposto, contemporaneamente, un aumento dei poteri dei governi decentrati (Regioni ed enti locali) e un rafforzamento dei poteri di indirizzo dello Stato. Da un lato, infatti, essa ha attribuito alle Regioni la competenza legislativa su importanti funzioni pubbliche, ha introdotto nuovi livelli di governo (le città metropolitane) e dato dignità costituzionale agli enti locali (Provincie e Comuni), ha ampliato gli spazi di autonomia tributaria dei governi decentrati, ha cambiato le regole della perequazione per le Regioni e gli enti locali, ha consentito l'avvio di un sistema di competenze differenziate per le diverse Regioni e ha introdotto il principio della separazione territoriale tra funzione legislativa e funzione amministrativa. Dall'altro lato, ha codificato in modo più rigoroso rispetto alla vecchia Costituzione il potere dello Stato centrale di fissare i livelli delle prestazioni nei più importanti servizi pubblici assegnati alla competenza legislativa delle Regioni.

Rimane quindi dubbio se la nuova Costituzione favorisca o consenta il formarsi di quelle limitate 'differenze nei livelli dei servizi pubblici e della tassazione' che sono l'essenza dell'insieme dei teoremi del federalismo fiscale. In Italia si trovano a coesistere diversi regimi di competenza legislativa delle Regioni, quelli di competenza esclusiva e quelli di competenza concorrente. Ciò lascia intravedere la possibilità di due diversi atteggiamenti rispetto ai problemi finanziari, uno più favorevole alla diversità per le materie comprese nel regime della competenza esclusiva, l'altro più favorevole al mantenimento di regole di uniformità per le materie incluse nel regime di competenza concorrente. Anche le proposte all'esame del Parlamento per ulteriori modifiche non sembrano voler affrontare direttamente la questione del grado di diversità ammissibile. Il caso italiano, pur nella spinta al decentramento e alla devoluzione dei poteri, sembra restare entro quella classe di modelli di federalismo fiscale che attribuiscono al governo centrale un ruolo importante nel coordinamento dell'attività dei governi decentrati, ossia Regioni ed enti locali.

Questa valutazione si basa sulla constatazione che, per il momento, non sono messi in discussione né la progressività del sistema tributario, né la tutela uniforme di alcuni diritti (ad esempio in materia di salute e di istruzione). Anche le regole finanziarie sono aperte e si prestano a ragionevoli soluzioni del dilemma uniformità-diversità. Non sembra nemmeno che la nuova Costituzione possa consentire ciò che è avvenuto negli Stati Uniti nel 1996 con la riforma del sistema di tutela dei redditi più bassi, che ha trasferito dal governo federale agli Stati il potere di definire in autonomia, sia pure con il supporto di finanziamenti federali, le regole di accesso e l'entità degli interventi di sostegno finanziario alle famiglie povere, creando quindi i presupposti per diversità di trattamento dei cittadini più poveri a seconda del loro stato di residenza. La devolution italiana non sembra consentire una significativa diversificazione dei programmi diretti al sostegno dei redditi dei meno abbienti nelle diverse regioni.

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