EVOLUZIONE

Enciclopedia Italiana (1932)

EVOLUZIONE

Daniele Rosa

. Biologia. - In biologia s'intende per teoria dell'evoluzione, o della discendenza, la dottrina secondo la quale sono apparsi dapprima sulla terra solo esseri viventi semplicissimi, dai quali, nella serie dei tempi, sono poi derivati quelli più complessi; questi ultimi sarebbero dunque i naturali discendenti dei primi. Riguardo poi all'origine di quei primi viventi, la teoria per ora non afferma nulla, sebbene tenda ad ammettere che essi siano sorti dal mondo inorganico. Si ritiene abbastanza comunemente che essi fossero ultramicroscopici e paragonabili a quelle molecole colloidali (micelle), parimenti capaci di crescere e moltiplicarsi, il cui aggregato forma il protoplasma delle cellule. Una teoria, quella dei germi cosmici, di Arrhenius dà a quei primi viventi un'origine extraterrestre, ma non fa che spostare il problema.

Non bisogna confondere con la teoria generale dell'evoluzione il darwinismo, il lamarckismo e altre simili teorie; queste non sono che teorie speciali sul "metodo" dell'evoluzione, cioè sul processo secondo il quale l'evoluzione deve essere avvenuta e sulle cause che hanno dovuto determinarla; ciascuna di queste teorie può cadere, ma non trascinerebbe con sé la teoria generale. Neppure bisogna considerare come inseparabili dalla tesi generale dell'evoluzione singole tesi secondarie, che non le sono necessariamente legate. Così, per es., la tesi generale non implica che il processo di trasformazione dei viventi duri tuttora; così pure essa non implica una vera parentela fra i varî gruppi; anche il supporre che le singole specie viventi discendano direttamente da altrettante forme-stipiti primordiali rientrerebbe pur sempre nella teoria generale dell'evoluzione.

Inoltre è opportuno ricordare che anche chi ammetta l'evoluzione può pur sempre riconoscere che le leggi naturali che hanno determinato tale evoluzione siano state poste da una mente suprema, che dunque la mirabile struttura delle singole forme viventi sia stata prevista e voluta. Ma soprattutto bisogna ben rendersi conto di ciò, che il negare l'evoluzione, il non ammettere che le forme superiori siano le naturali discendenti delle primitive forme inferiori implica inevitabilmente l'ammettere che i primi individui di tutte queste forme superiori non abbiano avuto genitori.

Sguardo storico. - La Genesi dice semplicemente che le varie specie, prima dei vegetali, poi degli animali, sono state prodotte dalla terra e dalle acque per comando del Creatore. Nei filosofi greci prearistotelici non troviamo accenno a un'evoluzione degli organismi, sebbene già Talete abbia espresso il concetto generale dell'origine d'ogni cosa dall'acqua ed Eraclito quello d'un perenne cambiamento di tutto. Solo Anassimandro disse che l'uomo (ma parlò solo di questo) avesse vissuto prima, sotto altra forma, in mare. Gli altri, come Anassimene, Senofane, Empedocle, Democrito, senza accennare a trasformazioni, fanno nascere i primi organismi dal fango o dall'acqua o (come Anassagora) dall'aria o dall'etere. In Empedocle però c'è già il concetto di successione, per cui la natura avrebbe prodotto dapprima membra isolate e mostri incapaci di vita, e poi forme vitali. Aristotele ebbe primo la visione d'una scala di progressiva complicazione dei viventi e sembra che egli tenesse questa progressiva complicazione come dovuta a un'interna tendenza al perfezionamento, operante bensì per necessità, cioè per cause naturali, ma secondo un disegno della divinità. Così egli si spiegava gli adattamenti, combattendo le opinioni materialistiche di Empedocle e in generale degli Ionici ed Eleatici, secondo le quali le strutture adatte si erano formate a caso, così come le inadatte. Però, anche dopo Aristotele, le idee di Empedocle furono ancora seguite da Epicuro. Nel periodo romano non c'è da ricordare che Lucrezio, il quale svolse nel suo poema i concetti stessi di Empedocle ed Epicuro. Alcuni Padri della Chiesa si rannodarono ancora per un certo tempo ad Aristotele: cosi S. Agostino, commentando la Genesi, sostiene il principio di creazione potenziale (escludendone però l'uomo quanto all'anima), secondo il quale principio non le cose furono direttamente create bensì le loro cause, quelle essendo così precisamente predeterminate in queste come lo è una pianta nel suo seme (dottrina ancora accennata da Dante nel Purgatorio); ma poi, dal principio del Seicento prevalse l'opinione della creazione diretta delle singole specie nello stato perfetto pur ammettendosi sempre in larga misura la generazione spontanea di forme inferiori. Tuttavia, ancora nel 1670, il gesuita Atanasio Kircher, nel suo volume Arca Noe affermò che il crescite et multiplicamini si applica anche alle specie, tantoché p. es. da una trentina di species primigeniae di mammiferi egli fa derivare tutti i mammiferi attuali. È notevole che egli spieghi tali trasformazioni ricorrendo già in gran parte a quelle influenze dell'ambiente cui ricorse poi il Lamarck.

Frattanto, e fino ai tempi del Buffon, i naturalisti si disinteressarono affatto del problema dell'origine delle specie; a torto si citò come evoluzionista il Vallisnieri (il quale tuttavia [1733] precedette il Bonnet nel dare forma concreta all'aristotelica scala degli esseri). Del resto la tesi dell'immutabilità delle specie divenne per i naturalisti un dogma dacché Linneo (Philos. botan., 1750) ebbe fermato la proposizione che "tante sono le specie quante diverse forme furono in principio create". L'idea dell'evoluzione aveva bensì seguitato a covare nelle menti dei filosofi: si citano soprattutto Giordano Bruno, Lucilio Vanini, Fr. Bacone, Cartesio, Leibniz (tralasciamo le affermazioni più esplicite ma troppo fantastiche di De Maillet e di Robinet), ma per i naturalisti non si potrebbe risalire oltre il Buffon, il quale però finì con l'attenuare di molto i concetti nettamente evoluzionistici che precedentemente (1761-66) aveva svolto, concetti che tuttavia influirono sui suoi contemporanei o successori immediati, p. es. su Kant e su Erasmo Darwin.

Vero fondatore del moderno evoluzionismo viene dunque considerato Giovanni Lamarck, sebbene fra il Buffon e lui intervenga Erasmo Darwin (v.), il quale precorse in modo singolare le idee del Lamarck, non solo per ciò che riguarda l'evoluzione in generale, ma anche per quanto riguarda i fattori di essa. Le idee di E. Darwin rimasero però poco note; non così quelle del Lamarck, che furono pubblicate in un apposito volume (Philosophie zoologique, 1809); ma anche queste non riuscirono a far accettare la tesi dell'evoluzione, sia per la documentazione spesso infelice e, dati i tempi, necessariamente inadeguata, sia perché, nonostante l'appoggio dato ad esse da Ét. Geoffroy-Saint-Hilaire, esse furono fieramente combattute da G. Cuvier. L'eco di queste dispute interessò vivamente il vecchio Goethe, il quale aveva avuto una così chiara visione dell'unità fondamentale di struttura degli organismi.

Praticamente l'era evoluzionistica della biologia non incomincia che nel 1859 con l'opera di Carlo Darwin (v.). Nell'intervallo parecchi scienziati si erano pur pronunziati in senso evoluzionistico, ma senza dedicare a tale argomento speciali lavori (fra gl'italiani è da citare soprattutto il geografo Costantino Marmocchi). Dopo gli scritti del Darwin, che ebbe a validi apostoli il Huxley e il Haeckel, l'idea dell'evoluzione si estese rapidamente, sia perché poté essere meglio documentata, sia perché la spiegazione darwiniana delle cause dell'evoluzione riusci, almeno alle prime, più persuasiva di quella del Lamarck. Oramai il principio generale dell'evoluzione dei viventi è accettato dalla grandissima maggioranza dei naturalisti e le discussioni su quest'argomento vertono essenzialmente sul metodo (cioè sulle modalità e le cause) di quest'evoluzione o anche sull'estensione da attribuire al fatto stesso dell'evoluzione.

Le teorie speciali sul metodo dell'evoluzione. - Lamarckismo (1809).- Se riduciamo la teoria lamarckiana al suo contenuto più caratteristico, cioè alla forma sotto la quale essa è tuttora accettata da parecchi biologi, essa consiste nella tesi che l'evoluzione è dovuta in gran parte o in tutto (neolamarckismo) alla cosiddetta "eredità dei caratteri acquisiti". Naturalmente nel corso dell'evoluzione ogni carattere è stato una prima volta acquisito cioè acquistato, ma s'intendono qui per caratteri acquisiti quelle differenze somatiche che si possono direttamente produrre fra individui d'una medesima specie per diverse condizioni in cui essi vivano o per diverse abitudini contratte, specialmente per uso o disuso dei singoli organi. Tali caratteri differiscono dai cosiddetti caratteri innati, i quali dipendono essenzialmente dalla costituzione dei germi. Così è innato avere gli occhi bruni o azzurri, mentre è acquisito l'annerimento che la pelle subisce al sole o il maggiore sviluppo che subisce un muscolo quando venga molto esercitato. S'intende che queste cause accidentali di variazione non modificano l'organismo direttamente, ma agiscono come bisogni o stimoli a cui esso reagisce modificandosi in modo adatto. Appunto tali caratteri acquisiti (intesi nel senso dianzi specificato) sarebbero ereditarî: insomma i caratteri acquisiti finirebbero per diventare caratteri innati. Se dunque le dette cause di variazione seguitano ad agire a lungo in uno stesso senso, i loro effetti si sommano e alla lunga trasformano gli organismi producendone l'evoluzione.

Per i vegetali i fattori d'evoluzione sovraccennati si riducono essenzialmente a differenze nelle condizioni generali di nutrizione, di clima e simili, sebbene anche per essi possano entrare in gioco più determinati stimoli. Per gli animali tali fattori sono più varî: così il Lamarck ci dice, per es., che è per il disuso degli occhi che gli animali che vivono sotterra o nelle caverne sono diventati ciechi; che nei serpenti le quattro estremità caratteristiche dei vertebrati sono scomparse per disuso, in seguito all'abitudine da essi contratta di muoversi piuttosto per ondulazioni del corpo; che le giraffe devono il loro lunghissimo collo al continuo sforzo di brucare sempre più in alto le foglie sugli alberi; che gli uccelli d'acqua hanno acquistato una palmatura alle zampe in seguito all'abitudine di divaricare le dita per meglio battere l'acqua, ecc.

Tuttavia, e ciò è meno noto, il Lamarck ammetteva anche che l'evoluzione verso forme sempre più complicate fosse dovuta a una "tendenza" intima della natura e che i fattori sopracitati determinassero le varie direzioni in cui quell'evoluzione si compiva, ottenendo così a un tempo che l'evoluzione riuscisse ramificata e che i nuovi caratteri che apparivano fossero adatti alle nuove condizioni di vita. Di tale tendenza dai moderni lamarckisti non è più tenuto conto, ma tale concetto ricompare, in forma meno metafisica, nella teoria di Naegeli e, in generale, nelle teorie dell'evoluzione per cause interne.

Darwinismo (1859). - Questa teoria, che era stata contemporaneamente presentata da R. Wallace (v. darwin, charles), è anche nota sotto il nome di teoria della scelta (o selezione naturale). Il Darwin parte dal fatto che già tra i primi germi dei singoli individui d'una stessa specie ci sono sempre delle differenze, per cui questi individui, anche vivendo sotto uguali condizioni, non riescono mai identici. Tali differenze germinali sono da ricondurre (oltre che agl'incroci) alle condizioni in cui si sono formati e sviluppati i germi stessi, condizioni che non sono identiche per tutti i germi che si producono in un individuo e tanto meno per quelli che si producono in individui diversi; esse hanno dunque cause che si possono dire accidentali, e di queste cause la teoria non si occupa. Essa parte dunque dall'esistenza incontestata di differenze individuali che, essendosi originate nei germi, devono essere ereditabili. Tali differenze si producono in qualsiasi senso e sono dette anche variazioni fluttuanti o statistiche. È appunto alla continuata selezione di esse che il darwinismo riconduce l'evoluzione.

Tale selezione sarebbe simile alla selezione artificiale. Data, per es., una specie di piante i cui fiori siano bianchi, potrà eventualmente trovarsi in seno ad essa qualche individuo i cui petali abbiano margini tendenti al rosso: scegliendo per la riproduzione questi individui e poi, tra i loro discendenti, sempre quelli che mostrano più spiccato questo nuovo carattere, il coltivatore potrà, dopo molte generazioni, ottenere una razza i cui petali siano interamente rossi. Ci sarebbe in natura un processo somigliante, una selezione naturale, e questa sarebbe automaticamente dovuta alla lotta per la vita e alla conseguente sopravvivenza del più adatto.

La lotta per la vita (meglio detta concorrenza vitale) è una naturale conseguenza del fatto che in natura il numero degl'individui che nascono è enormemente maggiore del numero di quelli che sopravvivono sino a giungere a riprodursi. Ciò è chiaramente vero per i vegetali tutti e per gli animali inferiori, ma anche gli animali superiori, se tutti i loro individui giungessero all'età di riprodursi, si moltiplicherebbero in progressione geometrica, mentre vediamo che il numero degl'individui delle singole specie si conserva, in media, costante. Ora la sopravvivenza dell'uno piuttosto che dell'altro potrà anche essere casuale, ma è canone del darwinismo che debbano in una specie sopravvivere di preferenza quegl'individui che avranno variato in modo da poter avere nella concorrenza vitale qualche, sia pur minimo, vantaggio sugli altri, da poter resistere in condizioni in cui gli altri sono più esposti a soccombere. Si avrebbe così una selezione naturale, dalla quale (come dall'artificiale) si otterrebbero nuove razze; queste poi, continuandosi per infinite generazioni quel processo, dovrebbero, secondo i darwinisti, potersi tanto allontanare dalla forma primitiva da dare origine a nuove specie, a nuovi generi e così via, in modo che a un simile processo si possa attribuire tutta quanta l'evoluzione dei viventi. Questa evoluzione procederebbe in generale verso una più elevata organizzazione, poiché questa, di norma, rappresenta un vantaggio. Va da sé che tale evoluzione sia ramificata, conducendo a una moltiplicazione delle specie, poiché anche qui, come già nel lamarckismo, ogni specie può essere il punto di partenza di svariate linee d'evoluzione, allo stesso modo che il coltivatore può da una stessa specie di piante trarre diversissime varietà.

Con questo processo della selezione naturale si spiegherebbe pure l'adattamento delle specie all'ambiente, il fatto che tutta l'organizzazione del vivente si mostri sempre in armonia con le sue condizioni di vita. Questa spiegazione darwiniana degli adattamenti è, come appare, del tutto diversa dalla lamarckiana. Così la giraffa avrebbe un collo tanto lungo perché sono sempre sopravvissuti di preferenza gl'individui che, come variazione fluttuante, avevano il collo alquanto più lungo; così nei cetacei le estremità si sarebbero perdute, perché, dato il loro modo di vita, esse erano divenute inutili e perciò nella concorrenza vitale sono sopravvissuti di preferenza gli individui nei quali esse erano meno sviluppate. Queste le linee caratteristiche del darwinismo. Da notare però che il Darwin stesso ammise che anche in natura nuove specie potessero talora avere il loro punto di partenza in una variazione saltuaria e che, come causa secondaria d'evoluzione, egli, soprattutto negli ultimi tempi, accolse anche un po' di lamarckismo, la quale concessione dai cosiddetti neodarwinisti viene respinta. Il Darwin considerò anche (come scelta sessuale) una forma particolare della scelta naturale, la quale dipenderebbe dal giungere prevalentemente alla riproduzione, trasmettendo poi i loro nuovi caratteri alla prole, quei maschi le cui variazioni fluttuanti avessero come risultato una maggior probabilità per essi di impossessarsi delle femmine o di essere da queste preferiti. Tale selezione sessuale, continuata per una lunga serie di generazioni, avrebbe dovuto spiegare l'origine dei cosiddetti caratteri sessuali secondarî, per i quali in parecchie specie i due sessi appaiono diversissimi fra loro (corna dei cervi maschi, piumaggio sfarzoso dei maschi delle paradisee o dei fagiani, ecc.). Questa teoria secondaria ebbe scarso consenso, specialmente per quanto riguarda la realtà di una scelta esercitata dalle femmine.

Teoria di Naegeli (1865-1884). - La teoria del botanico Carl von Naegeli non è fondamentalmente diversa dal lamarckismo originario. Infatti essa ammette che gli organismi obbediscano ad una "legge di progresso" (Progressions-Gesetz) per la quale essi devono, nel corso dei tempi, diventare sempre più complessi e che questa evoluzione sia ramificata perché essa può prendere varie direzioni sotto l'influenza d'una parte, almeno, dei fattori già invocati all'uopo dal Lamarck; con tali fattori egli spiega pure, allo stesso modo dei lamarckisti, l'adattamento delle specie all'ambiente.

Ma la teoria del Naegeli assume un diverso aspetto per il fatto che di questi fattori lamarckiani egli accetta solo quella parte che riguarda le azioni di stimolo, comprese quelle dell'uso o disuso, mentre esclude che le condizioni generali di nutrizione, clima e simili, abbiano effetti ereditarî; e anche ai fattori da lui accettati dà una mediocre portata, per cui i caratteri da essi determinati non uscirebbero dall'ambito dei caratteri del genere o, al più, della famiglia. Per spiegarsi dunque l'esistenza di tanti generi, o almeno famiglie, di organismi egli dovette postulare un esteso polifiletismo, cioè considerare tutto il sistema dei viventi come costituito da un numero enorme di alberetti poco ramificati di cui ciascuno avesse la sua particolare radice in una diversa semplicissima specie primitiva, nata direttamente dall'inorganico.

Il Naegeli ebbe il gran merito di avere introdotto nell'evoluzionismo il fecondo concetto di "idioplasma" (chiamato poi dal Weismann "plasma germinativo") e di aver mostrato, basandosi su di esso, che una tendenza interna alla complicazione si poteva intendere in modo schiettamente meccanico. Egli chiamò "idioplasma" o plasma proprio la sostanza ereditaria per la quale due organismi differiscono fra loro già allo stato di cellula germinale o sessuale. L'evoluzione filogenetica degli organismi non è che la visibile manifestazione dell'invisibile evoluzione dell'idioplasma, che ha dovuto, nella serie dei tempi, assumere una costituzione sempre più complessa, la quale ha dato alle cellule sessuali la facoltà di produrre individui sempre più complicati. Nelle altre teorie dell'evoluzione questa progressiva complicazione sarebbe dovuta a variabili influenze esterne, ma il Naegeli fece notare che una tale successiva complicazione poteva benissimo essere invece avvenuta per cause interne, così come nello sviluppo individuale è per cause interne che si svolge, complicandosi sempre maggiormente, il pulcino nel suo guscio: i fattori esterni al germe propriamente detto (come il nutrimento dato dal tuorlo d'uovo, ecc.), non facendo qui che fornire le condizioni necessarie al mantenimento della vita.

In appendice alla teoria del Naegeli accenneremo ancora alla teoria dell'eterogenesi di A. von Kölliker e a quella dell'evoluzione regolata dell'astronomo G. Schiaparelli. La prima fu dal suo autore appena abbozzata; essa fu emessa quasi contemporaneamente (1864-1882) a quella del Naegeli e, sebbene concepita indipendentemente, poco differisce da questa. La seconda (1898) è, come la precedente, una teoria in cui l'evoluzione avviene secondo leggi fisse; essa è, in fondo, un'estensione teorica alla biologia delle ideali derivazioni delle forme geometriche.

Teoria della mutazione (De Vries, 1901). - La teoria del botanico olandese Hugo de Vries non ha nulla di comune con quella di Naegeli della quale si è detto testé e certo si scosta meno di questa dal darwinismo. Per il De Vries il materiale per l'evoluzione non è però dato, come per il Darwin, dalle comuni variazioni individuali o statistiche; queste rimarrebbero per lui sempre variazioni fluttuanti, gravitanti attorno a una stessa media; tale materiale sarebbe invece dato da speciali variazioni forti o saltuarie, che egli chiama "mutazioni" dalle quali si originano direttamente forme che si dovrebbero considerare come nuove specie. A questa teoria il De Vries venne condotto soprattutto da lunghe osservazioni ed esperienze da lui fatte a Hilversum presso Amsterdam su una pianta della famiglia delle onagracee, l'Oenothera lamarckiana. Egli vide che questa specie, in un breve periodo di anni, pur mantenendosi nel più dei suoi individui immutata, aveva dato successivamente origine a forme di diverso aspetto, non connesse né fra loro né con la forma madre da forme di passaggio, le quali, coltivate per molte generazioni, mostravano di trasmettere ereditariamente i loro nuovi caratteri alla prole. Egli generalizzò il fatto, parzialmente osservato anche in altri casi, e sostenne che tutte le specie di piante e di animali devono presentare, a lunghissimi intervalli, dei periodi di mutazione, simili a quello ora presentatoci dalla Oenothera, nei quali esse dànno origine a fasci di nuove specie. Le nuove specie daranno poi origine nello stesso modo ad altre, e così avverrebbe tutta quanta l'evoluzione. La scelta naturale interverrebbe poi anche qui, lasciando persistere solo le mutazioni avvenute in direzione adatta o, almeno, non svantaggiosa; su tali variazioni forti la selezione potrebbe aver presa, il che, secondo il De Vries, non avverrebbe per le comuni, troppo piccole, variazioni individuali.

Quanto alle cause delle mutazioni, il De Vries le ripone, analogamente a quanto fa il Darwin per le variazioni comuni, in variazioni germinali prodottesi sotto l'influenza di mutate condizioni esterne; queste variazioni germinali (premutazioni) rimarrebbero a lungo latenti e poi si renderebbero d'un tratto manifeste nelle mutazioni, senza che l'insorgere di queste sia più legato alle condizioni ambientali del momento. Tale la teoria del De Vries. Da aggiungere però che molti moderni cultori di genetica, anche senza preoccuparsi dei periodi di mutazione del De Vries, credono che vere nuove specie possano aver origine da variazioni saltuarie o mutazioni (v. genetica).

Teoria dell'ologenesi (D. Rosa, 1909-1918). - Questa è nuovamente una teoria dell'evoluzione per cause interne, intesa l'espressione nel senso chiarito a proposito della teoria del Naegeli, alla quale essa strettamente si rannoda. Le proposizioni fondamentali dell'ologenesi sono testualmente le seguenti: "1. L'evoluzione dello idioplasma specifico, la quale ci si manifesta nell'evoluzione filogenetica degli organismi, ha, come fenomeno vitale, fattori interni ed esterni, ma non è determinata dal variare di questi ultimi, per cui essa procede anche se essi rimangono immutati. 2. Anche la direzione in cui si produce questa evoluzione è indipendente dalla varietà dei fattori esterni di essa. 3. Malgrado ciò l'evoluzione filogenetica non è rettilinea, ma è (dicotomicamente) ramificata per divisioni differenziali che avvengono nell'idioplasma specifico per effetto della costituzione da esso successivamente raggiunta nel corso della sua evoluzione". A queste tre proposizioni se ne aggiunge una quarta, accessoria: "In tutte le dicotomie (biforcazioni) l'una delle linee filetiche che si producono ha rispetto all'altra il carattere di linea precoce e l'altra quello di linea tardiva". Anche per l'ologenesi la lenta evoluzione delle specie e delle stirpi si compie dunque con la stessa necessità meccanica con la quale si compie lo sviluppo individuale. Ma essa non ammette nemmeno che diverse condizioni di vita possano variare la direzione in cui l'evoluzione filogenetica si produce. Questa diversità di condizioni produrrebbe solo variazioni che, anche se ereditarie, starebbero nei limiti della specie, e non interesserebbero la costituzione dell'idioplasma specifico. Naturalmente le condizioni esterne determinerebbero pur sempre quali linee di evoluzione si debbano troncare perché inadatte.

Da queste premesse (prop. 1ª e 2ª) sembrerebbe risultare che l'evoluzione non possa essere che rettilinea, dal che seguirebbe che tutte le specie si siano evolute parallelamente e indipendentemente partendo da altrettanti, semplicissimi, stipiti primordiali (polifiletismo estremo); ma invece la teoria (3ª prop.) ritiene che ogni specie, dopo un periodo di evoluzione rettilinea, debba necessariamente suddividersi in due nuove specie, dalle quali in simil modo ne nasceranno poi 4, 8, 16, 32, ..., avendosi così un'evoluzione ramificata per dicotomia cioè per continuata biforcazione. Si può ricordare qui che anche lo sviluppo dell'individuo riposa su un'evoluzione dicotomica, poiché tutte le cellule di un organismo derivano dalle successive bipartizioni di una prima cellula (l'uovo), bipartizioni che avvengono anch'esse per cause interne, cioè come risultato necessario della costituzione che la cellula aveva raggiunto.

Così l'ologenesi, a differenza della teoria naegeliana, tende verso un completo monofiletismo (origine di tutte le specie da una sola). È però da notare che questa evoluzione monofiletica ci deve praticamente apparire come polifiletica, cioè i varî gruppi, grandi e piccoli, ci devono sembrare indipendenti l'uno dall'altro (così di fatto essi ci appaiono dallo studio dei fossili). Ciò perché l'ologenesi conduce necessariamente a ritenere che le biforcazioni delle linee evolutive o filetiche siano avvenute prevalentemente nelle prime epoche della vita terrestre, in seno a forme semplicissime e non fossilizzabili ("batisinfilia" o profondità delle connessioni).

Si comprende che, date le suddette premesse, ogni biforcazione delle linee filetiche dia origine a due rami o gruppi naturali (phyla), i quali saranno tanto più importanti quanto più la biforcazione è bassa, cosicché le biforcazioni più antiche o radicali saranno il punto di partenza di grandi gruppi, per es. di tipi o di classi, mentre dalle apicali sorgeranno gruppi sempre più subordinati e, in ultimo, specie terminali incapaci di suddividersi ulteriormente in nuove specie (riduzione progressiva della prospettiva filogenetica). Ora, per la proposizione accessoria (4ª ), i due rami o gruppi che nascono da una biforcazione sono dissimmetrici (dissimmetria dei phyla gemelli): l'uno di essi, il precoce, ha un'evoluzione più rapida, ma rispetto all'altro (al tardivo) conserva sempre un'organizzazione inferiore, come se avesse meno filo da tessere. Così, fra le piante, rappresenterebbero il gruppo (o phylum) precoce le gimnosperme rispetto alle angiosperme e fra queste ultime le monocotiledoni rispetto alle dicotiledoni; fra gli animali i cefalopodi tetrabranchiati rispetto ai dibranchiati, i mammiferi implacentali rispetto ai placentali, ecc.

Per questa via l'ologenesi spiega fra l'altro la persistenza delle forme inferiori; queste, in ciascuno dei gruppi gemelli, apparterrebbero al gruppo che, rispetto all'altro, è precoce: spiega pure come avviene che questo gruppo inferiore, pur essendo per essa gemello dell'altro, ci appaia paleontologicamente più antico di esso; ciò sarebbe appunto perché questo gruppo, avendo un'evoluzione più rapida, arriva più presto a lasciarci fossili riconoscibili. Delle tante altre conseguenze che nascono dalle suddette proposizioni rileveremo qui solo quelle riguardanti l'adattamento e la biogeografia. L'adattamento all'ambiente sarebbe dovuto anche qui a una scelta naturale, ma questa si eserciterebbe non, come per il darwinismo, su variazioni minime, bensì, come per il mutazionismo, su variazioni bene accentuate, perché in un'evoluzione per cause interne i nuovi caratteri si accentuano necessariamente di generazione in generazione sino al punto da dar presa alla selezione. Quanto alla probabilità che si produca un numero sufficiente di forme adatte, essa è, nella nuova teoria, almeno tanto grande quanto nel darwinismo perché, col processo della dicotomia, da una sola specie primitiva si produrrebbero già alla 50ª divisione (per progressione geometrica) oltre un quadrilione di specie, cioè mille milioni di volte il numero delle specie conosciute. Da notare anche che necessariamente nell'ologenesi ogni specie si ramifica nelle stesse specie figlie su tutta quanta la sua area di distribuzione, cosicché le nuove specie nascono con un numero enorme di individui (poligenesi) e su aree vastissime, sulle quali più facilmente troveranno le condizioni adatte (non tocchiamo qui il fatto dell'adattamento interno, dell'armonia fra le parti dell'organismo, del quale fatto la teoria lascia almeno intravvedere una spiegazione migliore). Per la biogeografia l'ologenesi capovolge necessariamente la concezione classica. Per essa infatti le prime, semplicissime specie erano cosmopolite fin dall'origine e l'attuale distribuzione dei viventi sarebbe dovuta a un continuato processo di localizzazione, il quale si compieva parallelamente al moltiplicarsi e al differenziarsi fra loro delle specie. S'intende che qui entrano anche in gioco più altri fattori (importantissimo quello della diversa data di emersione delle varie terre) e che non si nega, ma solo si limita molto, l'importanza delle migrazioni.

Appendice all'esposizione delle varie teorie. - Accenneremo qui ancora a un concetto e a due leggi che si possono innestare variamente nelle singole teorie. Il concetto è quello di "ortogenesi" (evoluzione rettilinea); cui furono però dati varî sensi che possiamo illustrare col caso delle corna dei cervi, le quali nella serie dei tempi hanno sempre proceduto verso una maggior mole e complicazione. I darwinisti lo spiegano con la selezione, la quale avrebbe conservato sempre gl'individui meglio armati; i lamarckisti (come Eimer o Cope) mediante il persistere dei fattori esterni di tale accrescimento (in questo caso l'uso nella lotta fra i maschi); ma il concetto primitivo (Haacke, 1892) è quello di un'ortogenesi dovuta a una tendenza insita nell'organismo (quale essa era già implicita nella teoria di Naegeli). Delle due leggi l'una è quella della "irreversibilità dell'evoluzione" (la cosiddetta legge di Dollo) secondo la quale un organo regresso non può, nel corso ulteriore dell'evoluzione filogenetica, riprendere uno sviluppo progressivo, un organo scomparso non può ricomparire e, in generale, l'evoluzione non può ritornare a stadî già oltrepassati. L'altra legge è quella della "riduzione progressiva della variabilità" (Rosa). Essa si basa sull'irreversibilità dell'evoluzione e anche sulla "costanza dei caratteri di gruppo" per la quale i caratteri delle suddivisioni d'un gruppo sono sempre subordinati ai caratteri del gruppo stesso e si afferma che a ogni suddivisione delle linee filetiche l'importanza della possibile evoluzione ulteriore si riduce entro a limiti sempre più ristretti, sinché si giunge a specie terminali incapaci di dar origine a nuove specie.

Critica delle varie teorie. - Lamarckismo. - La caratteristica del lamarckismo è data, come s'è visto, dalla tesi dell'eredità dei caratteri acquisiti, detta meglio dell'"eredità delle variazioni somatogene", tesi che è pure ammessa, ma solo in via sussidiaria, da parecchi darwinisti e dal Naegeli. In questa tesi dunque l'evoluzione dipende in tutto o almeno in parte dall'accumularsi di successive variazioni dovute a reazioni dell'organismo di fronte a diverse condizioni di vita; variazioni le quali si manifestano prima nel corpo o soma e secondariamente determinerebbero nelle cellule germinali o sessuali da esso prodotte una modificazione così precisa da dare ai figli la tendenza a ripresentare nel loro soma queste stesse variazioni anche in assenza di quei fattori che ne avevano determinato l'apparizione nel soma del genitore. Ora, che l'individuo, sotto diverse condizioni, possa variare è noto: un muscolo esercitato ingrossa, non esercitato si riduce; la dieta vegetariana allunga l'intestino; una pianta che al piano sia arborea rimarrà sulle Alpi arbusto o suffrutice; le abitudini continuate diventano automatismi, ecc. Ma è da vedere se tutto ciò può, almeno alla lunga, diventare ereditario: se lo divenisse, e in larga misura, allora si avrebbe una spiegazione (totale o parziale) dell'evoluzione e anche dell'adattamento, perché simili reazioni dirette dell'organismo, in generale, tendono ad armonizzare l'organismo con le nuove condizioni (il che, del resto, rimane inesplicato). La credenza a una simile eredità è radicata nel popolo e in molti casi essa pare realmente imposta dai fatti (così è p. es. per certe callosità ereditarie le quali si presentano proprio ai punti che subiscono maggiore sfregamento o pressione); eppure la critica scientifica, per opera specialmente del Weismann, ha sollevato contro di essa difficoltà gravissime.

Contro il lamarckismo sta anzitutto questa considerazione generale che esso, per spiegare l'evoluzione, fa sorgere un nuovo problema altrettanto grave, quello di comprendere come i caratteri acquisiti possano divenire ereditarî. Perché, se si può ancora intendere come una modificazione avvenuta nel soma possa alterare la costituzione delle uova e degli spermatozoi in modo che i figli si presentino in qualche modo modificati, ci è assolutamente impossibile concepire che p. es. l'accrescimento subito da un dato muscolo possa modificare in modo così preciso quelle cellule sessuali (essenzialmente la cromatina del loro nucleo) da dare ai figli la tendenza ad avere più sviluppato proprio quel medesimo muscolo. In nessun'altra teoria dell'evoluzione una simile difficoltà si affaccia. C'è inoltre un grandissimo numero di casi in cui la spiegazione lamarckiana è evidentemente da escludere. Tale è p. es. il caso degl'insetti neutri. Nelle api, formiche, termiti, ecc. la quasi totalità della popolazione è costituita da individui sterili (operai o anche soldati) con specialissimi caratteri morfologici e particolari istinti; tutta l'evoluzione di questi loro caratteri è necessariamente avvenuta senza l'intervento di un'eredità di caratteri acquisiti. In generale, poi, per ogni caso in cui la detta spiegazione sembri accettabile se ne possono sempre citare altrettanti, e pur similissimi, in cui essa non lo è. Se in certi casi il vario sviluppo (innato) d'un organo sembra potersi interpretare come un effetto ereditario dell'uso o disuso, non così si spiega come diversi mammiferi (uomo, elefante, rinoceronte, cetacei, ecc.) abbiano perduto il pelame o perché in tanti molluschi sia regressa la conchiglia o perché in tanti fiori si siano perduti i petali o i sepali. Tutte queste parti ci sono o non ci sono, ma non è l'esercizio o il non esercizio che le faccia crescere o regredire. Vi sono anche molti casi in cui, se la spiegazione lamarckiana non si può senz'altro escludere ad essa se ne può sempre opporre, come ugualmente probabile, una diversa. Così gli animali cavernicoli sono per solito ciechi; il lamarckismo dice: per disuso; ma altri dice che si sono rifugiate nelle caverne le forme in cui, già per natura, gli occhi erano in regresso; o ancora: il paguro (Bernardo l'eremita) ha l'addome molle perché abita nelle conchiglie vuote o sta in queste perché ha l'addome molle? In tutti questi casi dubbî sembra doversi preferire una spiegazione che non sollevi, come la lamarckiana, quella grave difficoltà di cui si è detto più sopra.

Si è ricorso alle esperienze, ma queste nella quasi totalità dei casi hanno risposto negativamente; solo in qualche caso hanno dato un risultato dubbio. Contro la validità di questi ultimi è anche stata sollevata (già dal Ray-Lankester) un'obiezione di massima che possiamo illustrare mediante un esempio concreto. Allevando pupe di certe farfalle a temperatura inferiore alla normale si ottennero adulti con colorazioni aberranti; aberrazioni più o meno simili ricomparvero in una piccola percentuale dei figli, sebbene questi fossero stati allevati a temperatura normale. Ma se non era stato ereditario l'effetto esercitato sulla colorazione da quella temperatura più alta sotto la quale gli ascendenti di quelle farfalle erano vissuti per millennî, tanto che già in una generazione quella colorazione si era modificata, che valore probativo può avere quell'esperimento? E lo stesso si dica dei consimili. A ogni modo, se anche non si possa negare assolutamente qualche poco durevole eredità di certi caratteri acquisiti, i fatti contrarî appaiono troppo soverchianti, tanto da rendere ben poco credibile che gli effetti di tale eredità possano varcare i limiti della specie determinando una vera evoluzione.

Critica del darwimsmo. - Depurato dalle infiltrazioni lamarckiane e mutazionistiche, il darwinismo è, come si è visto, la dottrina che spiega l'evoluzione e l'adattamento mediante la selezione delle variazioni fluttuanti. Si è visto anche che dell'origine di tali variazioni il darwinismo non si occupa, sebbene, in via generale, le faccia dipendere (come il lamarckismo) da influenze esterne che, direttamente o attraverso il soma, abbiano provocato qualche modificazione nelle cellule sessuali, ma senza includere una vera eredità di caratteri acquisiti (somatogeni) nel senso che sopra si è definito.

Anche contro questa teoria si sono sollevate gravi difficoltà, delle quali riferiamo qui le principali. Il darwinismo si appoggia molto sui risultati che si ottengono mediante la selezione artificiale. È qui dapprima da ricordare che molte delle razze coltivate o allevate dall'uomo erano invece sorte per variazione saltuaria o mutazione; l'uomo non aveva poi fatto altro che mantenere pure queste forme aberranti. Certo, anche dalla continuata selezione delle variazioni fluttuanti si sono ottenute razze così diverse che, se noi le trovassimo in natura, le crederemmo di diverse specie; ma sappiamo bene che ciò facendo, considerando p. es. come appartenenti a due specie diverse un piccione gozzuto ed un piccione pavone, noi cadremmo in un grande errore, tanto come se tenessimo per due specie distinte il maschio e la femmina (tra loro così profondamente diversi) di un uccello del paradiso. È ormai ammesso da tutti che col processo della selezione artificiale non si sono mai ottenute nuove specie, sebbene tale selezione sia stata continuata in certi casi per secoli e secoli e condotta con un rigore che la selezione naturale non può avere.

Fra le obiezioni più speciali vi è anzitutto questa, cento volte ripetuta, che le variazioni fluttuanti sono, di norma, troppo piccole per dare qualche vantaggio nella concorrenza vitale; è ben difficile credere che l'aquila debba la robustezza del suo rostro e dei suoi artigli al fatto che per infinite generazioni siano sempre sopravvissuti di preferenza gl'individui in cui quel rostro o quegli artigli misuravano un millimetro di più. Si è anche fatto notare che molti dei caratteri specifici di solito non sono manifesti o bene accentuati che nell'adulto, e che perciò se piccole variazioni avessero tanta importanza i giovani dovrebbero tutti perire. Si aggiunge che, poiché la massima mortalità si ha sempre nei primissimi stadî, fra gli adulti la concorrenza vitale è molto meno severa di quello che il darwinismo deve necessariamente pretendere. Si aggiunge ancora che le cause di morte sono tante e così svariate che la sopravvivenza di un individuo è per lo più determinata dal mero caso e non da una piccola superiorità che esso possa presentare per qualche determinato carattere. Con ciò non si nega che dalla concorrenza nasca una selezione, solo si asserisce che questa non si opera fra individui d'una specie ma bensì fra specie e specie.

Si obbietta ancora che il numero degl'individui che presentano una variazione utile, e utile precisamente nel luogo e nel tempo in cui vivono, e nei quali tale vantaggio non sia annullato da variazioni nocive di altri caratteri, è necessariamente esiguo, di modo che essi difficilmente riescono ad affermare la propria esistenza di fronte alla massa soverchiante degli altri. E si osserva che tale condizione viene ancora aggravata dall'incrocio con gl'individui rimasti invariati oppure varianti in un altro senso, perché, se la moderna genetica mostra che l'incrocio non fa necessariamente sparire le nuove varietà, essa mostra anche che già nella prima generazione ibrida il nuovo carattere o si riduce a metà del suo valore, oppure (e ciò nella quasi metà dei casi) rimane latente (carattere recessivo); per cui i pochi individui di tale generazione, non più protetti da quel carattere vantaggioso, facilmente si perdono. E di altre obiezioni non rileveremo più che questa: che ci sono molti casi in cui la spiegazione darwiniana dell'evoluzione è manifestamente da escludere. C'è una quantità di strutture che, andando dalle forme inferiori d'un gruppo alle superiori, si vedono complicarsi sempre più (ortogenesi) senza tuttavia che tale fenomeno dia, o seguiti a dare, nella lotta per la vita, il minimo vantaggio, anzi spesso conducendo in ultimo a disposizioni dannose. Si citano p. es. le così svariate ornamentazioni delle diatomee, la meravigliosa varietà degli scheletri silicei dei radiolarî, la straordinaria complicazione raggiunta in ultimo dalle linee di sutura delle ammoniti, le armature mostruose dei rettili fossili (stegosauri), i denti del mammut, le corna fantastiche di alcune specie estinte di cervi, ecc. Tutti questi casi di ortogenesi non si lasciano spiegare con la continuata selezione delle variazioni fluttuanti, e allora nasce il dubbio se quell'altra spiegazione che si rende necessaria non possa valere anche per i casi nei quali la spiegazione darwiniana non appaia senz'altro da escludere. Molte di queste obiezioni sono già antiche, ma dapprima non erano state ben valutate perché l'evoluzionismo, quasi caduto dopo il Lamarck, era risorto sotto le spoglie del darwinismo e pareva, negando questo, di dover negare anche quello, e poi anche perché il darwinismo si prevalse delle insufficienze del lamarckismo senza considerare la possibilità d'una spiegazione diversa dalle due; il che, del resto, fu reciproco. A ogni modo, non pare si possa escludere che in certi casi speciali (p. es. nei casi di mimismo) dalla concorrenza vitale fra individui nasca una vera selezione che non si limiti a eliminare gl'individui invalidi ma che veramente conservi di preferenza fra i validi quelli che presentano migliori, se pur tenui, caratteri di adattamento (precisamente come fa l'uomo quando migliora, per selezione, certe razze), ma l'affermazione che con un tale processo si possa uscire dai limiti della specie, del genere, ecc. trova sempre minore consenso.

Critica della teoria della mutazione. - Alterando l'ordine cronologico, consideriamo qui questa teoria, perché essa si avvicina ancora molto al darwinismo puro in quanto esclude l'eredità dei caratteri acquisiti ed ammette pure che ogni specie possa variare (mutare) in qualunque senso, senza legge.

La teoria della mutazione (più sopra riassunta) ebbe sulle prime un grande successo perché, una volta constatata sperimentalmente la formazione di nuove specie per mutazione, cadevano i dubbî circa l'evoluzione, ed anche perché essa sfuggiva ad una delle più forti obiezioni mosse al darwinismo, per il quale le specie si iniziavano da minime variazioni sulle quali troppo difficilmente poteva aver presa la selezione. Tale successo iniziale andò poi diminuendo.

Anzitutto viene sempre più contestata l'interpretazione data dal De Vries delle sue esperienze sull'Oenothera lamarckiana; si ritiene invece che questa pianta, importata da tempo dall'America, sia ibrida, nata dall'incrocio di più specie, e che i fatti da essa presentati consistano appunto (almeno in gran parte) in una disgiunzione di ibridi, e inoltre parecchie delle mutazioni viste sorgere in questa pianta dal De Vries sono patologiche o anche sterili. Anche si è rilevato subito che codeste mutazioni non hanno il carattere di vere specie perché sono reciprocamente incrociabili dando prole indefinitamente feconda. Non artificialmente protette, simili forme troppo facilmente si perderebbero. Si è ancora osservato che quei periodi di mutazione per i quali ciascuna specie dovrebbe passare ad intervalli (che il De Vries stima di poche migliaia d'anni) sono una mera ipotesi resasi necessaria per spiegare la rarità delle mutazioni realmente osservate, ipotesi che potrebbe essere accolta solo se la teoria desse ragione meglio delle altre dei fatti generali, soprattutto di quelli dell'adattamento e di quelli che ci sono presentati dalla paleontologia. Ma appunto l'adattamento (del quale il De Vries non si è preoccupato) riesce meno comprensibile in questa teoria, nella quale fra un periodo di mutazione e il successivo la specie rimane stazionaria, né, dal punto di vista paleontologico, le vedute del De Vries sembrano accordarsi con quel fenomeno, così ampio, delle evoluzioni parallele che è stato messo in luce dai paleontologi moderni. Insomma è indubitato che nuove razze ereditarie possono sorgere in modo saltuario (mutazione), ma appare almeno molto arrischiato il vedere in questa semplice constatazione la soluzione del problema generale dell'evoluzione dei viventi. Incidentalmente notiamo che lo stesso si può dire per l'origine di nuove specie da incrocio, sulla quale qualche autore (p. es. il Lotzy) vorrebbe basare quasi tutta l'evoluzione, oltre che appare abbastanza evidente che l'incrocio può dar origine a nuove combinazioni, ma non ad una sempre maggiore complicazione (v. eredità; genetica).

Critica del naegelismo e dell'ologenesi. - Queste due teorie (come il lamarckismo primitivo e l'eterogenesi di Kölliker) poggiano, come si è visto, su questa tesi, che data la vita è già data anche l'evoluzione, la varietà delle circostanze esterne potendo, al più, far variare la direzione in cui avviene quest'evoluzione. Quest'azione differenziativa, o specializzatrice, nel lamarckismo era massima, nella teoria di Naegeli è mediocre e nell'ologenesi è minima o nulla. S'intende che in tutti i casi le dette circostanze (nutrimento, ecc.) cooperano all'evoluzione per il fatto stesso di cooperare al mantenimento della vita e determinano anche quali, fra le direzioni d'evoluzione che si producono, si possono mantenere.

Alla tesi generale di questa cosiddetta evoluzione per cause interne fu spesso obiettato che essa sia metafisica e presupponga negli organismi una misteriosa tendenza al perfezionamento. Ma anzitutto non si tratta di tendenza al perfezionamento ma solo di tendenza alla complicazione. Che poi l'evoluzione filogenetica possa essere una necessaria conseguenza della vita, tanto come lo è l'evoluzione individuale, è già stato chiarito nell'esposizione della teoria di Naegeli. Naturalmente si tratta qui di una semplice possibilità, la quale si può accogliere o no secondo che essa concretamente sembri accordarsi coi fatti. Si deve però riconoscere che il naegelismo propriamente detto cioè la forma concreta in cui il Naegeli presentò la sua teoria, non fu molto soddisfacente.

Anzitutto egli non rispose adeguatamente all'obiezione dell'arresto e del regresso. Vi sono gruppi di organismi rimasti stazionarî; vi sono altri gruppi che, pur evolvendosi, sono rimasti inferiori; vi sono organismi che han subito in complesso un'evoluzione regressiva e singole strutture che sono regresse spesso sino al punto di scomparire; tutto ciò in apparente disaccordo con la tesi generale, secondo la quale l'evoluzione avrebbe dovuto essere continuamente progressiva. Il Naegeli rispose solo, e anche male, all'obiezione tratta dalla persistenza delle forme inferiori dicendo che esse sono forme il cui protostipite era d'origine più recente e perciò non avevano ancora avuto il tempo di evolversi maggiormente. Poi nel naegelismo c'era ancora troppo lamarckismo, proprio nella sua forma più stretta di eredità dei caratteri somatogeni, suscitando così tutte le difficoltà che già abbiamo rilevato. Infine è innegabile che, come fu rilevato con speciale forza dal Weismann, il naegelismo si trovava in pessime condizioni di fronte al problema dell'adattamento.

Qui però è il luogo di notare che di molte di codeste difficoltà sollevate contro la teoria del Naegeli (e, per ciò stesso, contro la validità pratica della tesi dell'evoluzione per cause interne) si era già scorta in questi ultimi tempi la soluzione. Così i fenomeni del regresso si son potuti spiegare senza implicare un'evoluzione regressiva dell'idoplasma, dicendo invece che un organo nel corso dell'evoluzione filogenetica si riduce, si rudimenta o scompare perché non trova più nel resto dell'organismo le condizioni necessarie al suo sviluppo individuale, a quel modo che le corna dei cervi maschi non si sviluppano se manchi la relativa ghiandola sessuale. È facile intendere che nel corso dell'evoluzione filogenetica si giunga a condizioni che sono sempre più favorevoli allo sviluppo di certi organi e correlativamente sempre più sfavorevoli allo sviluppo di certi altri. È, in fondo, il principio del balancement des organes di Geoffroy-Saint-Hilaire, che, del resto, era stato adombrato già da Aristotele. Quanto all'obiezione della "persistenza delle forme inferiori", lo stesso Naegeli avrebbe già potuto rispondere meglio considerando che, data un'evoluzione per cause interne, non c'era motivo di attribuire ai diversi gruppi la stessa capacità di elevarsi a un'organizzazione superiore. Infine l'obiezione dell'"arresto dell'evoluzione" ha già trovato da oltre un trentennio (1899) una risposta nella citata legge del Rosa della "riduzione progressiva della variabilità", per la quale tutti quanti i gruppi camminano, ma con diversa velocità, verso uno stato finale di fissità (nel quale poi sono facilmente esposti ad estinguersi per il fatto di non poter più produrre nuove forme adattate alle mutate condizioni d'ambiente).

Nell'ologenesi, cioè nella nuova forma data dal Rosa alla teoria della evoluzione per cause interne, tutte queste soluzioni parziali sono accolte, anzi in essa si presentano già come necessaria conseguenza delle sue proposizioni fondamentali. Essa, inoltre, si mantiene senza più cercare un sussidio nel lamarckismo. La sua spiegazione dell'adattamento esterno se pur sempre insufficiente, appare almeno altrettanto buona quanto quella del Darwin, della quale non è, del resto, che una nuova forma. (Dell'adattamento interno, cioè dell'armonia fra le parti, l'ologenesi ha almeno un principio di spiegazione, che nelle altre teorie manca; ma su questo complesso argomento non possiamo qui estenderci). Certamente anche l'ologenesi non si può considerare che come un tentativo verso una maggiore approssimazione alla verità; per quanto però riguarda la tesi generale dell'evoluzione per cause interne, appare sin d'ora indubitato che essa in questi ultimi anni ha guadagnato molto terreno.

Le "prove di fatto" in favore dell'evoluzione. - Si è lasciata per ultima questa trattazione perché il valore di molte di queste prove varia notevolmente secondo che si accetti, riguardo al "metodo dell'evoluzione", l'una o l'altra delle teorie sopra esaminate. È venuto il tempo di riconoscere che talune di queste prove, almeno nella forma in cui sono state presentate, hanno una validità molto discutibile e che fondandosi su esse si è spesso più nociuto che giovato all'accoglimento della teoria. Anzi conviene riconoscere che queste cosiddette prove sono piuttosto indizî, dal cui complesso deve risultare che la tesi dell'evoluzione si mostra praticamente in accordo coi fatti osservati e che anzi parecchi di questi riescono più comprensibili con questa tesi che non con quella secondo la quale tutti gli organismi sono stati indipendentemente creati così quali sono. Nell'esame di tali prove di fatto, noi, per facilitare i confronti coi testi, ci atterremo approssimativamente alla partizione più comunemente usata (sebbene non del tutto razionale) di prove tratte: 1. dalle variazioni attuali; 2. dalla sistematica e bionomia; 3. dalla morfologia e fisiologia comparate; 4. dalla paleontologia; 5. dall'embriologia; 6. dalla biogeografia.

Prove tratte dalle variazioni attuali. - Queste non sembrano avere il valore che loro spesso si attribuisce. Si fanno valere qui le tante nuove razze ottenute dagli allevatori e coltivatori, ma è ben noto che, salvo qualche rarissima eccezione, gl'incroci fra loro e con la forma madre si mantengono indefinitamente fecondi. Anche si citano forti modificazioni subite da animali e vegetali portati in nuovi ambienti, ma anche a tali casi si applica la medesima considerazione (il famoso caso del coniglio di Porto Santo è stato liquidato), e inoltre tali organismi, riportati nelle condizioni anteriori, riprendono i caratteri primitivi, di modo che non si tratta qui che di semplici polimorfismi. Si crede da taluno che nuove specie possano nascere, anche attualmente, dalle variazioni saltuarie o mutazioni; ma anche a questi casi si applica una considerazione che già valeva per i precedenti, cioè che non è dimostrato e nemmeno reso in qualche modo probabile che le nuove forme prodottesi in tal modo possano alla lunga allontanarsi tanto dalla loro forma-stipite che su tali processi si possa basare tutta quanta l'evoluzione; codesti fatti hanno valore, non diremo di prove, ma almeno d'indizî solo per coloro che già a priori accettano quest'ultimo postulato.

Prove tratte dalla sistematica e dalla bionomia. - Della sistematica si sono fatti valere soprattutto questi due ordini di fatti: a) esistono organismi semplici e organismi variamente complicati e fra gli uni e gli altri si conoscono, almeno in molti gruppi, abbastanza graduati passaggi; b) il complesso degli organismi sembra costituire uno o più alberi estremamente ramificati. Il primo fatto è certo un ottimo indizio in favore dell'evoluzione. Se esso non sussistesse, ci sarebbe ben difficile spiegare l'esistenza d'organismi superiori. Questo fatto ci mostra che realmente da organismi primitivi (che dobbiamo figurarci come più semplici dei più semplici microbî che ci siano noti) sarebbero potute, attraverso graduate trasformazioni, derivare forme anche elevatissime. Ma non bisogna considerare i fatti di questo ordine come vere e proprie prove; essi avrebbero quasi questo valore se le forme inferiori che ci sono note di ciascun gruppo si potessero considerare come forme primitive persistenti, cioè come discendenti poco modificati dalle forme stesse dalle quali sono nate le forme superiori del medesimo gruppo, ma, come vedremo meglio a proposito delle prove paleontologiche, gli stessi evoluzionisti ammettono ora che le forme inferiori di ogni gruppo (viventi e fossili) appartengono piuttosto a rami che si sono evoluti parallelamente a quelli facenti capo alle forme superiori di quel gruppo senza però mai raggiungere una costituzione altrettanto elevata; esse dunque ci darebbero bensì un'idea dei successivi progenitori di queste forme superiori, ma non sarebbero esse stesse i rappresentanti di tali progenitori.

Per il secondo ordine di fatti vale, in fondo, la stessa critica. Se vi è stata un'evoluzione e se questa, come è molto probabile, è stata ramificata, allora è chiaro che il complesso degli organismi che esistono e che hanno esistito deve formare un albero genealogico (o più alberi, se invece d'un unico ceppo primitivo si ammettono, coi polifiletisti, più ceppi): è un errore abbastanza comune quello di credere che quel complesso arborescente che si ottiene raggruppando gli organismi viventi e fossili secondo le loro affinità corrisponda a quell'albero genealogico di cui s'è detto e rappresenti, sia pure in forma frammentaria, le reali connessioni fra i gruppi. In realtà gli organismi, viventi e fossili, che conosciamo non costituiscono nel loro complesso un albero, ma sono invece quasi altrettanti vertici di rami, alcuni più elevati, altri meno, dei quali vertici le connessioni basali ci sono ignote: certo, collegando secondo le loro affinità le forme terminali che costituiscono quei vertici, noi otteniamo un complesso ramificato di linee, le quali corrispondono con qualche probabilità al primitivo albero genealogico, ma questo che noi otteniamo sarà puramente ideale e non costituito, salvo nei sommi vertici, da forme note. Non si tratta dunque nemmeno qui d'una prova di fatto; si tratta però d'un ottimo indizio, perché il fatto stesso di non poter ben esprimere le affinità fra i varî gruppi se non per mezzo di linee ramificate è in perfetto accordo con la supposizione che essi siano veramente il prodotto di un'evoluzione genealogica ramificata.

Rannodiamo qui ai fatti della sistematica quelli della bionomia e, poiché questa riguarda il modo di vita degli organismi in rapporto con le varie condizioni d'ambiente, possiamo far rientrare in essa tutte le varie forme di adattamento delle specie all'ambiente stesso. Già abbiamo visto come il fenomeno generale dell'adattamento sia spiegato dalle teorie che più si sono interessate di questo punto. Ma gli adattamenti sono spesso così meravigliosi che, nonostante le dette spiegazioni, essi seguitano pur sempre a essere presentati come obiezioni contro l'evoluzione. Perciò è qui il luogo di far presente che anche per questi adattamenti, siano essi morfologici, o fisiologici o psichici (istinti), vale ciò che si è detto per tutte le strutture e funzioni, cioè che fra gli adattamenti più complicati e speciali e quelli più semplici e generici noi troviamo spesso una serie di condizioni intermedie; certo, anche queste serie non sono costituite da specie discendenti direttamente le une dalle altre, ma esse valgono pur sempre a lasciarci intendere come i più mirabili adattamenti si siano potuti raggiungere per tappe successive, attraverso infinite generazioni.

Ci sono però anche molti fatti della bionomia che sembrano parlare direttamente in favore dell'evoluzione. Basti qui ricordare il parassitismo. I parassiti, a qualunque gruppo appartengano, sono sempre più o meno strettamente affini a forme che fanno vita libera, e non è troppo difficile intendere la graduale trasformazione di queste ultime forme nelle prime. È invece ben malagevole comprendere, come vorrebbe l'opposta tesi, che, per es., quando fu creato l'uomo sia stata creata anche la tenia che vive nel suo intestino e che da quel giorno siano stati infetti dagli stadî giovanili di questa gli ospiti intermedî (maiale, bove) nei quali essa tuttavia non può compiere il proprio sviluppo.

Prove tratte dall'anatomia e fisiologia comparate. - Il fatto capitale che balza fuori dall'anatomia e fisiologia comparate è quello, già da tempo intravisto da naturalisti-filosofi e celebrato da Goethe, dell'unità del piano d'organizzazione, cioè della concordanza che esiste fra le strutture e le funzioni dei viventi, per la quale questi ci appaiono come infinite modificazioni d'un medesimo schema. Queste concordanze si osservano già fra le strutture e funzioni comuni a tutti i viventi: questi tutti sono costituiti da una sostanza (protoplasma) i cui caratteri essenziali sono sempre gli stessi; tutti (salvo forse qualche forma infima) risultano di una o più cellule la cui struttura fondamentale è sempre la stessa, come ne sono fondamentalmente le stesse le funzioni; basti ricordare che i fenomeni complicatissimi della divisione cellulare indiretta (cariocinesi) seguono le stesse norme così nei vegetali come negli animali e che per gli uni e gli altri valgono le medesime leggi dell'eredità.

Questa concordanza ci si presenta sempre più stretta e particolarizzata via via che confrontiamo fra loro le organizzazioni di esseri che, appunto in base a tale concordanza, noi collochiamo insieme in suddivisioni sempre più subordinate del sistema, cioè procedendo dai tipi alle classi, agli ordini, alle famiglie, ecc. Così, se noi esaminiamo lo scheletro dei mammiferi troviamo che le varie ossa d'uno qualunque di essi sono "omologhe" a quelle di qualunque altro, cioè sono proprio le stesse ossa, con gli stessi rapporti reciproci, lo stesso modo di formazione; solo può, nei mammiferi più specializzati per qualche modo peculiare di vita, un dato osso presentarsi in forma ridotta o mancare, spesso tuttavia presentandosene tracce nel feto. Del resto, troviamo quasi sempre forme, viventi o fossili, in cui quel dato osso ci mostra stadî intermedî.

Ora quest'unità d'organizzazione è appunto ciò che ci potremmo aspettare nell'ipotesi dell'evoluzione e perciò ne è un'indiretta prova. Certo altri può sempre sostenere che tale unità rientrasse nel disegno della creazione senza che questo disegno si dovesse realizzare mediante un processo di evoluzione. Qui tuttavia siamo proprio in presenza d'uno di quei casi in cui quest'ultima spiegazione meno ci appaga, perché il rispetto a quest'unità di piano porta con sé coincidenze incomprensibili e complicazioni del tutto inutili.

Incomprensibile ci è, per es., che in tutti i mammiferi le vertebre del collo siano sempre sette, tanto nella balena quanto nella giraffa, o che le stesse cinque dita si trovino nella mano dell'uomo, nella pinna della balena o nell'ala del pipistrello. Inutili ci appaiono poi le disposizioni presentateci dagli organi "rudimentali" o meglio "residuali", che sono organi incapaci di funzione o la cui complicazione è sproporzionata alla funzione. Ricordiamo, per es., che l'occhio della talpa cieca ha tutta la complicata struttura dell'occhio normale, mentre è coperto dalla pelle e non può che distinguere la luce dall'ombra; ricordiamo i denti delle balene, mancanti nell'adulto, ma presenti, come abbozzi, nel feto; il dito medio della balenottera, rappresentato solo da una serie di tre falangi perduta fra le carni; il polmone sinistro, in vario modo rudimentale, dei serpenti, ecc. Infiniti esempî di tali organi ci dànno soprattutto, come vedremo, gli stadî embrionali e larvali.

Qui però è il momento di notare che i fatti dell'unità d'organizzazione sono stati spesso presentati dagli evoluzionisti in modo da dare buon gioco agli avversarî, e ciò in due modi: abbiamo detto che fra lo stato rudimentale (residuale) e quello bene sviluppato di un organo si trovano spesso gli stadî intermedî; le stesse gradazioni ritroviamo, di norma, fra un organo allo stato semplice e primitivo in cui lo si trova nelle forme inferiori d'un gruppo e quello stesso organo nello stato più sviluppato in cui lo si ritrova nelle superiori. Troppo spesso sono state date queste serie di progressiva riduzione oppure complicazione come serie reali genealogiche, senza rilevare che i singoli elementi di esse sono quasi sempre presi dai vertici di diversi rami, man mano più elevati, di uno stesso, stretto o amplissimo, gruppo, da vertici dunque fra i quali non può evidentemente intercorrere un legame genealogico diretto. Ciò per un lato; l'altro lato riguarda l'utilizzazione che si è voluta fare dell'unità del piano d'organizzazione d'un gruppo come prova diretta della discendenza delle varie forme di esso da un primitivo comune antenato. Spesso si è scritto che, se tutte le forme d'un gruppo hanno in comune certi caratteri (che non siano di semplice adattamento), ciò si spiega solo ammettendo che esse abbiano ereditato tali caratteri da un progenitore comune. Vedremo che la paleontologia può citare molti casi in cui ciò non è vero, in cui quei caratteri sono apparsi indipendentemente nelle varie forme del gruppo. Ma la teoria dell'evoluzione facilmente spiega il fatto ammettendo che nel progenitore del gruppo quei caratteri non fossero che potenziali, così come sono potenziali nell'uovo e nell'embrione i caratteri dell'adulto.

Prove tratte dalla paleontologia. - I fatti offertici da questa scienza hanno per l'evoluzione una capitale importanza. E dapprima significante il fatto, che essa ci ha rivelato, che la vita su questa terra dura già da molti milioni (forse centinaia di milioni) di anni e che gli organismi anteriori erano differenti dagli attuali. Poteva infatti succedere che tra i fossili noi avessimo trovato solo forme simili alle attuali e che, oltre una certa profondità, noi non avessimo più trovato tracce di viventi, e ciò in condizioni in cui simili tracce si sarebbero dovute conservare. Delle due possibilità si è dunque avverata quella appunto che era richiesta dalla teoria dell'evoluzione. Importantissimi sono poi i dati paleontologici circa l'ordine di apparizione dei varî organismi, s'intende della loro apparizione come forme capaci di lasciare tracce riconoscibili. Certo noi non dobbiamo affermare che i primi fossili che per ora conosciamo d'un gruppo siano veramente i più antichi, ma sta il fatto che, di regola, qualunque sia il gruppo che consideriamo, noi troviamo tracce delle forme inferiori di esso prima (più in basso) che di quelle che, relativamente ad esse, sono più elevate e che, ad ogni modo, in qualsiasi gruppo le forme veramente superiori sono sempre quelle i cui fossili sono d'epoca più recente. Tutto ciò in buon accordo con la teoria dell'evoluzione.

Veramente si è detto da taluno che, anche senza evoluzione, le cose non avrebbero potuto andare altrimenti, perché le forme superiori non avrebbero potuto vivere se ad esse non avessero preceduto le inferiori, e, più in generale, perché per queste forme superiori le necessarie condizioni di vita non si sono presentate che più tardi. Ciò per parecchi casi è vero, ma non per tutti. I coleotteri non avevano bisogno di essere preceduti dagli ortotteri, né i pesci ossei dai pesci cartilaginei, né i mammiferi monodelfi o placentali dai didelfi o implacentali (marsupiali); e le condizioni di vita per questi e tanti altri organismi superiori erano già presenti molto prima. Queste considerazioni si mantengono valide anche se dovremo confessare che ai fatti qui sopra constatati si era dato il valore di prova più diretta di quanto realmente non sia.

È ancora per merito della paleontologia che quelle serie di strutture gradatamente più complicate o specializzate che già ci offriva lo studio dei viventi attuali sono divenute meno lacunose e talora notevolmente continue. Una grande lacuna fu colmata dai più antichi uccelli fossili noti, le Archaeopteryx, le quali, per le mascelle armate di denti, le ali con tre dita libere e unghiute, la coda sostenuta da una lunga serie di vertebre libere, già molto si accostano ai rettili. Fra le serie notevolmente continue citeremo quella celebre dei cavalli fossili; nella quale da un piede a 5, poi a 3 dita, si giunge con perfetta gradazione al piede monodattilo degli equidi attuali (v. cavallo, IX, p. 548 seg.). E gli elementi di tali serie sono cronologicamente distribuiti in modo che alle disposizioni più complicate o specializzate precedano le più semplici e generiche.

Si è detto sopra che ai fatti dianzi considerati si era dato il valore di prova più diretta che non sia. Così è da confessare che vere forme di passaggio fra due gruppi, nel senso di forme di cui possa essere dubbia l'attribuzione all'uno o all'altro dei due, ci sono ignote: l'Archaeopteryx è già un vero uccello, e il simile è degli altri casi. Ma ci sono anche molte riserve da fare relativamente alle serie semplicemente rettilinee: lasciamo da parte certi casi speciali (come quello delle famose paludine della Slavonia) che, lungamente citati come ottimi esempî di gradatissima trasformazione d'una specie, risultarono poi semplici casi di polimorfismo cioè di variazione non ereditaria, dovuta direttamente a graduale alterazione dell'ambiente; ma è innegabile che molte serie paleontologiche rettilinee per le quali tale spiegazione non vale, non possono essere vere serie genealogiche ma solo serie di stadî in cui gradatamente da forme più antiche e di carattere più primitivo si passa bensì a forme più recenti e di carattere più evoluto, senza però che le successive forme di queste serie possano essere direttamente derivate le une dalle altre. Tale era, per es., la serie dei progenitori del cavallo quale si era dapprima ricostruita (della quale serie appunto si hanno ora ricostruzioni che possono con molta probabilità rappresentare vere serie genealogiche).

Ad ogni modo le suddette serie, anche se solo approssimate, conservano pur sempre il loro valore di ottimi indizî in favore dell'evoluzione, né certo dalle riserve fatte a loro riguardo o da quelle fatte riguardo alle forme di passaggio fra i gruppi si può trarre alcuna obiezione contro questa teoria, tanto più che in taluna delle teorie speciali sul "metodo" dell'evoluzione questi fatti apparentemente imbarazzanti riescono facilmente comprensibili.

Così la mancanza di vere forme di connessione fra due gruppi sarebbe facilmente spiegata dalle teorie che, come quella di Naegeli, ammettono un più o meno ampio polifiletismo, ma è ugualmente spiegata dall'ologenesi, che pure è monofiletica. Per questa, infatti, le suddivisioni fra le forme-stipiti dei singoli gruppi si sono prodotte solo in epoca antichissima, in seno a forme semplicissime e non fossilizzabili, di modo che quei gruppi, dal momento in cui hanno potuto lasciarci tracce riconoscibili, hanno dovuto evolversi indipendentemente l'uno dall'altro. Quanto alle serie genealogiche rettilinee, la scarsità dei casi in cui esse vennero rintracciate si spiega ampiamente con lo stato ancora estremamente lacunoso delle nostre conoscenze, le difficoltà di ritrovamento essendo ancora accresciute dal fenomeno delle migrazioni, per le quali i figli spesso non abitano più le stesse regioni dei padri e anche dal fatto che le prime forme di ciascun gruppo erano, di norma, piccolissime (legge dell'accrescimento della mole); così, per es., l'eocenico Eohippus, il primo precursore noto dei cavalli attuali, non era più grosso d'una lepre.

Prove tratte dall'embriologia. - Constatiamo anzitutto che i dati dell'embriologia, presi quali sono e senza ancora collegarli con ipotesi interpretative, confermano e integrano, estendendoli notevolmente, quelli che già ci avevano offerto la sistematica, l'anatomia e la paleontologia circa l'unità del piano d'organizzazione e le connessioni fra i varî organismi. Ricorderemo subito un caso celebre, quello dell'intermascellare umano, che tanto entusiasmò il suo primo (?) scopritore Wolfango Goethe. Si sa che nell'uomo la mascella superiore è tutta d'un pezzo, mentre negli altri mammiferi due pezzi intermedî portano gli incisivi; appunto questi intermascellari si trovano distinti anche nel feto umano. Così ancora nelle zampe degli uccelli sembrano mancare le due serie di ossa tarsali, che pure esistono in tutti gli altri vertebrati superiori ai pesci, ma esse nell'embrione sono ancora accennate, salvo che poi la serie superiore si salda con la tibia e l'inferiore con l'unico metatarso (nato esso pure dal fondersi insieme di più metatarsi). In simile modo l'embriologia colma molti vuoti che ancora appaiono dalla morfologia degli adulti. Ora, di simili esempî, se ne possono citare miriadi.

Abbiamo visto che il rispetto all'unità del piano d'organizzazione portava spesso con sé la presenza di quegli organi rudimentali che nell'ipotesi delle creazioni indipendenti sono così difficili a comprendere. Ma gli organi rudimentali che persistono nell'adulto sono pochi rispetto a quelli che si presentano solo negli stadî anteriori. Abbiamo già citato fra essi i denti dei feti delle balene, cui possiamo aggiungere i denti transitorî dei giovani ornitorinchi e gl'incisivi superiori dei comuni ruminanti, i quali scompaiono senza essere riusciti a spuntar fuori. Citeremo ancora il caso degli artropodi inferiori (crostacei, miriapodi), che hanno normalmente un paio di zampe ad ogni segmento del tronco; nei superiori (aracnidi, insetti) esse non esistono che sulla regione anteriore di esso (torace), mancando sulla posteriore (addome); però le zampe addominali esistono, come abbozzi ben distinti, negli embrioni degli aracnidi e insetti ancora rinchiusi nel guscio dell'uovo e poi scompaiono senza avere funzionato. I fatti embriologici dell'ordine di quelli sin qui ricordati possono essere considerati da un altro punto di vista, cioè come illustrazione d'un altro fenomeno generale, quello della concordanza fra gli stadî di sviluppo degli organismi d'uno stesso gruppo e fra le loro singole strutture. Consideriamo dapprima queste: già abbiamo visto che il mascellare umano, che nell'adulto è d'un pezzo, si abbozza da quegli stessi quattro pezzi che negli altri mammiferi rimangono distinti. Così appunto la tromba succiatrice delle farfalle nasce dalla fusione di due pezzi pari i quali sono quegli stessi che in un coleottero diventano mascelle masticatrici; così l'imbuto dei cefalopodi (polpi, ecc.) nasce dall'accartocciarsi d'una lamina che, in fondo, ha la stessa origine embrionale di quella suola (piede) sulla quale striscia la chiocciola; così le pinne dorsale, caudale e anale d'una tinca sono resti ulteriormente differenziati d'una pinna giovanile continua, la quale in altri pesci conserva anche nell'adulto la sua continuità. Lo stesso abbozzo embrionale è dunque l'inizio di organi che spesso dovranno diventare poi differentissimi. Anche questo è un fatto generale che sembra intendersi meglio sulla base della teoria dell'evoluzione. Il medesimo fatto generale ci è presentato dall'organismo in complesso. È ben noto che le larve o gli embrioni di organismi che potranno poi anche diventare differentissimi, spesso si mantengono a lungo così simili da essere difficilmente distinguibili, cioè tanto più a lungo quanto più è stretta la loro affinità sistematica. Così tutti i crostacei, allo stato di larva libera o talora di embrione, passano per uno stadio caratteristico di nauplius, che ha la medesima costituzione fondamentale in tutti. Persino un feto già bene sviluppato di balena si conserva ancora abbastanza simile ai feti dei mammiferi terricoli; esso ha dei denti, è munito di peli, ha ancora narici collocate anteriormente, collo distinto, coda semplicemente conica (non a pinna) e, se giovanissimo, mostra ancora abbozzi delle estremità posteriori.

Ora anche questo fenomeno della concordanza fra gli sviluppi si estrinseca in casi speciali singolarissimi che, al pari di quelli offertici dagli organi rudimentali, sembrano parlare direttamente in favore dell'evoluzione. Sono i casi delle cosiddette "metamorfosi regressive". Tra gli animali che allo stato adulto fanno vita fissa o addirittura parassitica ve n'ha di quelli che sono così profondamente degenerati da non lasciare più nemmeno indovinare a che gruppo appartengano; ciò però si può sapere studiando il loro sviluppo, durante il quale essi passano per quei medesimi stadî per i quali passano gli organismi liberi appartenenti a un dato gruppo. Così la Sacculina carcini adulta è quasi ridotta a un sacco pieno di prodotti sessuali che sta fisso sotto l'addome di qualche granchio, nel cui interno manda filamenti succiatori; la si riconosce come crostaceo e precisamente come entomostraco cirripede, perché ha dapprima una fase di vita libera in cui passa per quegli stessi stadî larvali di nauplius tipico e di cypris per i quali passano questi crostacei. Caso simile è quello dell'Entoconcha mirabilis la quale vive in certe oloturie (Synapta) e che dal suo sviluppo risulta inaspettatamente essere un mollusco (gasteropode). Non sembra realmente che tali casi si possano intendere meglio che con l'evoluzione, considerando cioè le forme parassitiche come discendenti di forme che conducevano vita libera.

Consideriamo ancora un ultimo aspetto delle concordanze nello sviluppo, quello che ci è dato dal fatto, già noto da gran tempo, che le forme superiori ci presentano transitoriamente durante il loro sviluppo strutture e disposizioni che nelle forme inferiori dello stesso gruppo sono caratteristiche dello stadio definitivo (naturalmente in quella forma transitoria le suddette strutture possono anche essere solo abbozzate e perciò non funzionanti).

Molti dei casi che abbiamo già citato ci offrono pure esempî di questo fatto generale; ma ce ne sono infiniti altri. In molti di questi si tratta di strutture transitorie che sono necessarie come abbozzi dai quali si deve svolgere la struttura definitiva o che almeno hanno una funzione mediatrice, esercitano cioè un'azione morfogenetica necessaria perché si formino altre strutture che tuttavia hanno diversa origine, altre ancora di tali strutture transitorie sono veramente funzionanti; tutte queste strutture sarebbero, a rigore, intelligibili anche senza l'evoluzione. Ma ci sono pure molte strutture transitorie che non hanno alcuno dei significati dianzi accennati. A queste ultime appartengono già, per es., i denti giovanili di cui sopra s'è detto e le già accennate estremità addominali degli aracnidi e insetti. Citiamo qualche altro esempio a caso: fra gli echinodermi, i crinoidi più primitivi (Pentacrinus, ecc.) sono permanentemente fissi al fondo mediante un peduncolo, ma i crinoidi più evoluti (comatule), che da adulti sono liberi, da giovani sono ugualmente peduncolati e fissi; molti molluschi marini nudi hanno una conchiglia transitoria quando sono ancora chiusi negl'invogli dell'uovo, né essa può avere qualche azione morfogenetica poiché in molti altri molluschi nudi essa manca; le estremità dei crostacei inferiori si mantengono bifide per tutta la vita, nei crostacei superiori adulti uno dei due rami per solito manca, esiste però sempre in stadî anteriori, anche quando esso non possa cooperare al nuoto per il fatto che tali stadî si trascorrono entro il guscio dell'ovo. Tutti codesti fatti vengono spiegati mediante la "legge biogenetica" (v. biogenetica, legge). Ma noi ci accontenteremo qui della constatazione che i fatti generali dell'embriologia sono in pieno accordo con la teoria dell'evoluzione e che anzi, senza di questa, molti di essi ci appaiono incomprensibili.

Prove tratte dalla biogeografia. - Anche dai fatti presentatici dalla biogeografia, cioè dalla distribuzione geografica dei viventi, si sono ricavati argomenti in favore dell'evoluzione, ma il loro valore varia notevohmente secondo che delle varie teorie sul "metodo" dell'evoluzione si accettino quelle che a base della biogeografia pongono il monogenismo o quelle che pongono il poligenismo.

Il lamarckismo e il darwinismo conducono necessariamente al monogenismo, cioè alla tesi che ciascuna specie, ciascun gruppo, ha un unico centro di formazione dal quale, per migrazioni attive o passive, ha poi irradiato su tutta la sua area di diffusione: lo stesso è del mutazionismo, sebbene una stessa mutazione possa sorgere indipendentemente in più punti. È infatti evidente che in qualsiasi teoria in cui, come nelle qui accennate, una specie, a ciascuna delle sue successive variazioni o mutazioni può avviarsi per svariatissime direzioni di evoluzione ulteriore, la probabilità che più volte e su più punti del globo si produca e si conservi l'identica serie dopo poche tappe è praticamente nulla. Invece le teorie dell'evoluzione per cause interne ammettono il poligenismo, per il quale la stessa specie, lo stesso gruppo, si possono formare in diversi punti del globo (per es., l'ologenesi ammette che la stessa nuova specie si può essere formata su tutta l'area, continua o discontinua, che era già abitata dalla sua specie madre). Ora le prove biogeografiche che si fanno valere in pro dell'evoluzione sono generalmente basate sul monogenismo; esse non hanno dunque lo stesso valore per tutti.

Tuttavia, si accetti la tesi monogenistica o la poligenistica, ci sono sempre fatti generali della biogeografia i quali con la teoria dell'evoluzione si possono intendere, mentre nella teoria delle creazioni indipendenti rimarrebbero un mistero. Fra tali fatti si citano più spesso quelli della strana mancanza in talune regioni di gruppi che potrebbero perfettamente vivervi e che altrove si trovano dappertutto. Così nella Nuova Zelanda non esistono mammiferi (salvo pipistrelli e foche); in Australia non vi sono mammiferi placentali, tutti i mammiferi australiani (salvo alcuni muridi e i soliti pipistrelli e foche) sono monotremi e marsupiali; in tutta quanta l'Africa non si trova un orso, mentre orsi esistono in America, Europa, Asia e giù fin nella Malesia. È anche strana l'assenza di orsi dal polo Sud, mentre gli orsi bianchi vi starebbero così bene come al polo Nord. Gli evoluzionisti di qualunque scuola possono spiegare simili fatti ammettendo che il centro (oppure i centri o le aree) su cui si sono formati questi gruppi fossero collocati fuori delle regioni sulle quali ci colpisce la loro assenza e che contingenze di varia natura abbiano impedito loro di giungere ad esse. Così, per es., la Nuova Zelanda si sarebbe staccata dalle altre terre prima che vi potessero giungere i mammiferi, che si erano formati fuori di essa; vi esistono però, tra i mammiferi, i pipistrelli e le foche che hanno potuto giungervi rispettivamenete a volo o a nuoto. Nella teoria delle creazioni indipendenti non si comprende come la presenza o l'assenza di taluni gruppi da una data regione debba essere subordinata a simili casualità.

Conclusione. - La tesi dell'evoluzione ha il vantaggio di dare nel campo delle scienze biologiche una soluzione naturale del problema dell'origine delle specie, poiché altrimenti saremmo costretti ad ammettere che tutti i viventi, anche i più elevati, siano sorti una prima volta così quali sono, per generazione spontanea o per creazione diretta. Certo si dovrebbe respingere, ad ogni modo, quella tesi quando essa fosse contraddetta dai fatti. Ma se si sono trovati fatti contrarî all'una o all'altra delle teorie speciali sul "metodo" dell'evoluzione, nessun fatto contrario alla tesi in sé è ancora venuto in luce, sebbene i fatti che interferiscono con essa siano tanti e così varî che un'eventuale disaccordo avrebbe dovuto da gran tempo balzar fuori. Questa constatazione conserva tutto il suo valore anche se le prove dirette che si sono invocate in favore dell'evoluzione risultano insufficienti. Per ciò poi che riguarda il "metodo" dell'evoluzione, la scienza sta ancora cercando la sua via.

Bibl.: G. B. Lamarck, Philosophie zoologique, Parigi 1809; Opere di C. Darwin (v. darwin, Charles: bibl.); A. v. Koelliker, Monogr. der Pennatuliden, 1882 (Appendice); C. Naegeli, Mech.-physiol. Theorie der Abstammungslehre, Monaco e Lipsia 1884; Th. Eimer, Die Entst. der Arten, parte 1ª, Jena 1888; parte 2ª, Lipsia 1897; A. R. Wallace, La sélection naturelle (trad.), Parigi 1872; A. Weismann, Essais sur l'hérédité (trad.), Parigi 1892; E. Haeckel, St. della creaz. naturale (trad.), Torino 1892; Cope, Primary factors of organic evol., Chicago 1896; H. De Vries, Die Mutations-Theorie, Lipsia 1901-1903; id., Specie e varietà e loro origine per mutazione (trad.), Milano e Palermo; D. Rosa, Ologenesi, Firenze 1918 (trad. franc., Parigi 1931). Opere recenti di divulgazione: H. F. Osborn, The origin and evol. of life, New York 1918 (più ediz.); L. Cuénot, La génèse des espèces animales, Parigi 1921; L. Vialleton, L'origine des êtres vivants (l'illusion trasformiste), Parigi 1929; M. Caullery, Le problème de l'évol., Parigi 1931.

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