EUROPA

Enciclopedia Italiana (1932)

EUROPA (A. T., 11-12 e 13-14)

Roberto ALMAGIA
Vittorio NOVARESE
Augusto BEGUINOT
Mario SALFI
Jean CZEKANOWSKI
Luigi GRAMATICA
Ugo RELLINI
Luigi PARETI
Giorgio FALCO
Ernesto SESTAN
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Sommario: Il nome (p. 581); Storia della conoscenza (p. 581); Confini e area (p. 582); Situazione (p. 583); Geologia (p. 584); Le grandi regioni morfologicotettoniche (p. 586); Coste (p. 589); Clima (p. 591); Idrografia (p. 594); Flora e vegetazione (p. 596); Fauna (p. 597); Divisione dell'Europa in regioni naturali (p. 598); Antropologia (p. 598); La popolazione attuale e il suo movimento (p. 604); La composizione etnica attuale della popolazione (p. 605); Religioni (p. 606); L'Europa economica (p. 607); La densità di popolazione e i centri abitati (p. 614); L'assetto politico attuale dell'Europa (p. 618). - Preistoria (p. 6t9); Età dello pietra (p. 619); Età del bronzo (p. 620). - Etnologia Dell'Europa antica: Le genti preindoeuropee (p. 622); Le genti indoeuropee e le loro migrazioni (p. 623); Le genti allogene (p. 625). - Storia: Medioevo (p. 625); Epoca moderna e contemporanea (p. 635).

Il nome. - Il nome "Europa" deriverebbe, secondo un'opinione già diffusa, oggi abbandonata, dal semitico ‛ereb "occidente": sarebbe stato introdotto dai Fenici, i quali, diffondendosi dalla Siria nel bacino mediterraneo, avrebbero indicato genericamente come occidente tutti i paesi successivamente scoperti fino allo Stretto di Gibilterra, forse in contrapposizione ad Asia, nome che si faceva pure derivare da un vocabolo semitico significante "oriente" (v. asia). Ma per entrambi i nomi non è esclusa l'origine greca: Europa e Asia ricorrono già nella Teogonia di Esiodo, come figli di Oceano e di Teti, ma senza riferimento spaziale. In ogni modo è probabile che, almeno nell'uso dei Greci, il nome Europa designasse in origine un territorio ristretto, forse la regione a nord dell'Egeo, in contrapposizione al Peloponneso e alle isole; poi, man mano che, con il progresso dell'espansione greca, si riconobbero tutte le coste che limitano a N. il Mediterraneo, anche il nome si estese, tanto a O. verso lo Stretto di Gibilterra, quanto a E. fino al Mar Nero. Certamente già i primi geografi ionici - Anassimandro ed Ecateo - abbracciavano con il nome Europa tutta la terra conosciuta a N. del Mediterraneo, mentre indicavano con Asia tutta la terra a S.; e in seguito, per tutto l'evo classico, si conservò quell'estensione del nome Europa, mentre nella massa di terre a S. del Mediterraneo fu distinta dall'Asia la Libia, e si addivenne così a quella tripartizione del mondo abitato che restò poi tradizionale.

Oltre che il confine meridionale dell'Europa, gli antichi ne conobbero il confine occidentale costituito dall'Oceano, e congetturarono l'esistenza di quest'ultimo anche a N. Come confine orientale dopo che il Mar Nero fu riconosciuto come un mare chiuso, venne assunto il fiume Phasis (che era, quasi proverbialmente, l'estremità orientale del Mediterraneo, come le Colonne d'Ercole erano l'estremo occidentale) o il Bosforo Cimmerio e il Tanais (Don). Questo rimase poi il confine più comunemente adottato nel Medioevo.

Storia della conoscenza. - Per la conoscenza della costa atlantica dell'Europa furono d'importanza fondamentale i viaggi del marsigliese Pitea (circa 330 a. C.). Ma dei mari settentrionali per tutto l'evo classico non si conobbe sufficientemente che il Mar del Nord; i contorni delle Isole Britanniche furono noti imperfettamente; dello Jütland si ebbe tarda e inesatta notizia; del Baltico come mare chiuso non si ebbe sospetto; la scania, ricordata da scrittori dell'età imperiale, è per essi un'isola. La migliore sintesi delle conoscenze degli antichi sull'Europa ci è offerta dalla carta di Tolomeo, della quale sono qui riprodotti i contorni.

I primi a riconoscere le estreme coste settentrionali dell'Europa furono navigatorin norvegesi: nell'880 circa il normanno Othar girò la Scandinavia e scoprì il Mar Bianco, ma dell'arditissimo viaggio non giunse per allora notizia nei nostri paesi. Solo alla fine del sec. XIV si comincia ad aver contezza, da noi, della Scandinavia come di una penisola che chiude il Baltico; del 1427 è una prima rappresentazione cartografica alquanto approssimata del settentrione europeo (carta di Claudio Clavo, danese); migliore è la grande carta di Olao Magno (1539). Nel 1553 l'inglese Chancellor, girando di nuovo il Capo Nord, riconosceva definitivamente il Mar Bianco; nel 1556 il Burrough scopriva la Novaja Zemlja; dopo il 1584, allorché fu fondata Arcangelo, che divenne un grande emporio del traffico con l'Inghilterra, i mari a settentrione dell'Europa entrarono, per quel che consentono le loro condizioni, nel dominio della navigazione commerciale.

Come prima sintesi moderna delle conoscenze sull'Europa, si può additare la grande carta di Gerardo Mercatore alla scala di circa 4 1/2 milioni (1554), che introduce correzioni fondamentali alla carta tolemaica; perfezionamenti notevoli presentano poi le carte di Giacomo Gastaldi (1560) e quelle inserite nel "Theatrum" dell'Ortelio (1570) e nell'"Atlas" dello stesso Mercatore. Alla fine del sec. XVI tutto il contorno dell'Europa e i suoi lineamenti orografici e idrografici fondamentali possono dirsi ormai sufficientemente conosciuti.

L'ulteriore perfezionamento nella conoscenza dell'Europa è dovuto a indagini e studî particolari, e dapprima soprattutto a lavori astronomici e geodetici (Picard, La Hire, Cassini) e a conseguenti più esatte determinazioni di posizione, delle quali trasse partito G. Delisle per le sue carte (1700 e segg.), che rappresentano un vero notevole progresso. Dal sec. XVIII data pure l'interessamento di molti governi per lo studio geografico dei rispettivi stati, per il rilevamento topografico, ecc.; anche in Russia l'iniziatore di ricerche scientifiche sul paese fu Pietro il Grande (morto nel 1725). Nel sec. XIX ai rilevamenti topografici si accompagnano quelli geologici, e poi raccolte di osservazioni meteorologiche, lavori idrografici, ecc. Il secolo nostro ha veduto anche l'avviamento di qualche iniziativa internazionale, come la carta al milionesimo e la carta geologica internazionale d'Europa.

Ma è da avvertire che ancora nei secoli XVI e XVII, quando tutto il contorno dell'Europa è ormai noto, una gran parte di quella che noi consideriamo oggi come Russia Europea - la Moscovia d'allora - era ancora di solito ascritta all'Asia: Matteo Miechovita, autore di un famoso trattato De duabus Sarmatiis (1517), considera come Sarmazia europea solo la parte a occidente del Don; quella a oriente è la Sarmazia asiatica. Come nell'evo classico, il Don (Tanais) segna nell'uso comune il confine con l'Asia, e ciò si perpetua fino al sec. XVIII. Solo in questo secolo, nel quale tutta la Russia comincia a considerarsi, anche dal punto di vista politico, come terra europea, gli studiosi si propongono come problema scientifico la determinazione del confine orientale dell'Europa e si fa strada il concetto, propugnato da Strahlenberg (1730), convalidato da S. Pallas (1777) e poi dalla grande autorità di Carlo Ritter, di considerare come europea la catena degli Urali, la quale in realtà a O. si eleva quasi insensibilmente dalla regione di pianure e colline che la precede, mentre a F. precipita assai ripidamente, con un gradino accompagnato forse da fratture, verso la Siberia occidentale. Ma di fatto gli Urali, facilmente valicabili al centro e a sud, ed effettivamente valicati tante volte da popoli migratori e da eserciti, non rispondono al concetto di confine nel vero senso della parola; le pianure russe si continuano in quelle siberiane e anche politicamente esiste oggi continuità fra il territorio russo situato a O. e quello situato a E. della catena. Anche verso SE. può esser discusso se la conca del Caspio sia da ascrivere totalmente o parzialmente all'Asia, mentre tutti oggi convengono nel considerare come una catena asiatica il Caucaso, epperò il confine, tra il Caspio e il Mar Nero, si fa correre lungo la linea più depressa a nord del Caucaso, indicata dal corso di due fiumi detti Manyč′ e da alcune conche chiuse.

Confini e area. - Assumendo come confine dell'Europa il piede orientale degli Urali, che restano allora tutti inclusi nell'Europa, il margine settentrionale della conca caspica (colline dell'Obščij Syrt, rilievi sulla sinistra del Volga, Colli Ergheni), la quale ne rimane perciò esclusa, e la depressione dei Manyč′, l'area dell'Europa risulta di circa 9.460.000 kmq. Delle isole artiche sono da ascriversi all'Europa la Novaja Zemlja, l'Arcipelago di Nansen, le Svalbard e l'Isola degli Orsi; nell'Atlantico non si considerano terre europee le Azzorre, Madera, le Canarie, per quanto dal punto di vista politico siano riunite, le prime due al Portogallo, le altre alla Spagna; nel Mediterraneo Creta fu sempre considerata come europea, al pari delle Cicladi, mentre le Sporadi si ascrivono all'Asia; la linea di confine nell'Egeo è peraltro necessariamente un po' convenzionale. Con le isole polari l'area dell'Europa sale a 9.740.000 kmq. I punti estremi dell'Europa (escluse le isole polari) sono: a N. il Capo Nord nell'isoletta Magerö (71°12′ lat. N.), a S. l'isoletta di Gozo presso Creta (34°57′, lat. N., circa un grado più a sud del Capo Tarifa, che è l'estremità della terraferma), a O. il Capo Dunmore nell'Irlanda (10025′ long. O., un po' meno di un grado a O. del Cabo da Roca in Portogallo), a E. l'estremità del Mar di Kara (68°5′ long. E.); l'Europa si estende perciò circa 36 gradi, in latitudine e 78 in longitudine.

Situazione. - Tra tutte le cosiddette "parti del mondo", l'Europa è, dopo l'Australia, la più piccola: non abbraccia che il 7 1/2, dell'intera terra emersa. E, guardandone la figura su un globo o su un mappamondo, essa, piuttosto che un membro indipendente, ci appare, secondo un'espressione già usata da Humboldt, come un'enorme e articolata penisola dell'Asia, alla quale è saldata intimamente per la lunghezza di 4300 km. almeno. In realtà, per tutte le caratteristiche fisiche vi è una stretta connessione fra Europa e Asia, tanto che un termine unico, quello di Eurasia (v.), fu introdotto (dal Reuschle nel 1858) per indicare le due parti insieme, e dal punto di vista della geografia fisica l'uso di tale termine è perfettamente giustificato. Il concetto di Europa come parte del mondo indipendente è un concetto storico: la sua individualità è determinata da un insieme di fatti umani, svoltisi in un lunghissimo periodo di tempo, che le hanno conferito una funzione e un'importanza nello sviluppo storico dell'umanità di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altra parte del mondo. Ma questa funzione dell'Europa ha pur la sua causa remota in fatti d'ordine geografico. Tra questi è da segnalare in prima linea la sua situazione al centro dell'emisfero continentale, onde essa è una mediatrice naturale fra le altre parti del mondo: oltre che con l'Asia, è in facili comunicazioni con l'Africa attraverso il Mediterraneo; sull'Atlantico si affaccia nel punto ove l'oceano è più stretto e perciò più breve il cammino al Nuovo Mondo.

All'Europa mancano i grandi contrasti climatici che si riscontrano in Asia, e anche in Africa e nelle Americhe; le mancano perciò tipi di paesaggio naturale, come il deserto e la foresta vergine, che sono ugualmente ostili allo sviluppo civile dell'uomo e costituiscono gravissimi impedimenti agli scambî ed alle comunicazioni. Anche gli ostacoli frapposti in Asia dalle colossali barriere montuose, affiancate spesso da estesi altipiani, mancano all'Europa. In questa le comunicazioni, e perciò i rapporti e le commistioni fra i varî popoli, furono sempre più agevoli: perciò, mentre in Asia e anche nelle altri parti del mondo si mantennero, talora per millennî, ambienti culturali isolati e segregati gli uni dagli altri, in Europa il lungo processo storico creò gradualmente un'unità di civiltà, che può dirsi giustamente la civiltà europea. E la razza che ha portato e diffuso questa civiltà è una sola, la razza bianca, cui appartiene oggi più del 95% degli abitanti dell'Europa; tale razza può perciò giustamente chiamarsi essa stessa razza europea. Tutto ciò ci permette di concludere che, rispetto alle altre parti del mondo, l'Europa si delinea con una propria individualità antropica e culturale. A partire dall'età moderna poi la razza europea si è diffusa in gran parte nel mondo e vi ha trasportato la sua civiltà; l'importanza di questo fatto, che potrebbe dirsi la europeizzazione della Terra, è tale che non ha riscontri nell'evoluzione storica dell'umanità.

Geologia. - L'Europa, per varietà e complicazione della struttura geologica, uguaglia e supera nel suo breve spazio tutti gli altri continenti tanto più vasti di essa. Nel continente europeo la serie cronologica dei terreni è completa in ogni sua parte non solo, ma i più dei suoi termini, a seconda dei luoghi, si presentano con facies così differenti (eteropie) che il riconoscimento della comune età ne fu a lungo ritardato.

Nonostante le molte complicazioni, può dirsi in via generica che prima origine dell'Europa fu lo spezzarsi di un continente primordiale, situato nell'Artide attuale (Atlantide periartica del Suess) i cui frammenti orientali costituirono il primo nucleo del futuro continente. A sud si stendeva un mare, limitato a mezzogiorno dall'altro antichissimo continente brasiliano-etiopico (Gondwana), mare corrispondente all'incirca a quel grande mediterraneo antico, denominato Tethys, mantenutosi attraverso le varie ere, di cui il Mediterraneo attuale è un relitto. Contro il nucleo primordiale precambrico si sono andate appoggiando, nei successivi movimenti orogenetici, le nuove terre emergenti dovute al sollevarsi dei sedimenti accumulatisi nel mare meridionale e nel braccio dell'Atlantico che si andava prolungando verso l'Artide. Così, in linea generale e trascurando gli episodî, l'Europa si è formata con successivi ingrandimenti, verso O. e più ancora verso S., interrotti da sommersioni temporanee e sprofondamenti più o meno parziali. I terreni venivano così a depositarsi in condizioni sempre più diverse, e da ciò le eteropie sopra accennate.

Il maggiore avanzo dell'Europa primordiale o arcaica, che corrisponde allo scudo canadese nell'America Settentrionale (v. america: Geologia), rappresentato da scisti cristallini e rocce granitoidi prealgonchiche, si ritrova nella Scandinavia, nel vasto altipiano che abbraccia la Svezia e la Finlandia. Questa estesa massa cristallina, detta scudo baltico dal Suess, porta soltanto i segni del ripiegamento huroniano. Si protende, abbassandosi, verso SE. a formare il substrato della sterminata piattaforma russa, substrato che affiora sotto la copertura sedimentaria più recente nella Podolia e si spinge fino a lambire il Mare di Azov. L'intero complesso cristallino corrente dalla Svezia al Mar Nero (Fenno-Sarmazia dello Stille) si è conservato indisturbato e immune da altri ripiegamenti, da quella remota età geologica a oggi. Se questa Archeo-Europa abbia avuto maggior estensione verso S. e SO. non è dato affermare con sicurezza. Sono stati considerati quali suoi lembi staccati taluni altri affioramenti di scisti cristallini antichi. Così a ponente, sulla costa occidentale della Scozia e nelle Ebridi, dove sarebbero un relitto minuscolo dell'antico continente periartico (Eria, Laurentia); così nell'Europa centrale il massiccio boemo, il Plateau Central francese, la Meseta iberica, la Tracia (Rodope), e perfino nelle Alpi Orientali. Ma di tutti questi scisti cristallini è stata con maggiore o minore fondatezza posta in dubbio l'età prealgonchica o almeno la loro dipendenza dal ripiegamento caledoniano.

Sopra il terreno arcaico poggia in più luoghi il Proterozoico o Algonchico: nella Scozia (arenarie di Torridon), sullo scudo baltico, in Podolia, in Boemia, nella Bretagna e forse nella Spagna. Appartiene a questo periodo l'eruzione della varietà di granito finlandese detta Rapakivi. Notevole è questo terreno anche perché in esso si sono rinvenuti indizî d'una antichissima glaciazione.

Succede il grande complesso dei depositi dell'era paleozoica. E subito, fino dal suo termine più antico, il Cambrico, si delineano le differenze di facies che andranno sempre più accentuandosi nei periodi successivi. Il Cambrico appare completo nei suoi tre piani con stratificazione indisturbata nella Svezia e nella Russia baltica; coinvolto nei ripiegamenti di cui si dirà fra poco, ma con il medesimo carattere, in Inghilterra e Irlanda. Diverso, e limitato generalmente alla parte mediana (Acadiano), si mostra in forma classica nella Boemia (fauna primordiale del Barrande), in Germania, nella Francia meridionale (Montagne Noire), nella Spagna (Asturie), nel Portogallo e nella Sardegna (Iglesiente).

La fine del Cambrico, almeno nella parte est del mare in cui si deponeva, segna un sollevamento, al quale succede però fino dal Silurico inferiore una trasgressione dovuta a un nuovo avanzarsi del mare principalmente verso oriente, tanto sopra la piattaforma russa, che viene largamente invasa, quanto più a sud verso l'attuale Balcania. Il movimento, accompagnato anch'esso da alternative locali, fa sì che sedimenti silurici si trovino, oltre che intorno le già nominate aree cambriche, anche sopra vaste estensioni del NE. della Russia, delle Alpi Orientali, della Balcania, donde trapassano nell'Asia Minore. Ma alla fine del Silurico inferiore (Ordoviciano) e durante il Silurico superiore (Gotlandiano) il grande ripiegamento caledoniano sconvolge e innalza le formazioni del Primario, per non estinguersi che nel Devonico. Si disegna allora lungo il margine atlantico della Archeo-Europa una catena caledoniana, corrente da SO. a NE., dall'Irlanda per l'Inghilterra e la Scozia (Caledonia) fino alla Norvegia, non interessata da alcun ripiegamento successivo e della quale rimangono tuttora cospicui avanzi. L'intensità delle azioni subite ha in più luoghi trasformato in scisti cristallini (Norvegia) quei medesimi sedimenti paleozoici che nella Russia baltica si vedono oggi ancora sotto forma di sabbie e argille.

Tracce del ripiegamento caledoniano si riscontrano ben visibili anche in Sardegna e, in misura minore, in Spagna e nell'Europa centrale, più o meno obliterate dai corrugamenti successivi. È probabile che in queste località sorgessero altre catene ora scomparse. Indisturbata del tutto si conservò ancora durante il caledoniano la piattaforma russa, allora più estesa verso oriente. Però nel Devonico, in grazia di moti epeirogenici ripetuti, il mare invase più volte la parte meridionale e orientale del continente lasciandovi depositi di varia potenza. Nel Carbonico inferiore s'inizia un periodo di ritiro del mare che si accentua nel superiore o produttivo, per opera del grandioso ripiegamento erciniano, che innalza a sud delle precedenti nuove catene: l'armoricana, da NO. a SE., che dall'Irlanda e Inghilterra meridionali si continua nella Bretagna (Armorica) e nel Plateau Central francese; la variscica (o varistica), che dall'oriente dell'altipiano francese con direzione NE. per i Vosgi, la Foresta Nera, la Selva Turingia, il Harz e la Boemia giungeva ai Sudeti, dove si volgeva a SE. Indubbiamente altre catene esistevano a sud delle precedenti, perché se ne rinvengono gli avanzi tanto in Sardegna quanto nella Meseta iberica. Una ripercussione si faceva sentire lontana lungo il margine orientale del tavolato russo, elevando la catena degli Urali e i Monti Timani.

Il continente europeo in tal modo è ingrandito, e nelle numerose articolazioni del suo contorno si determinano lagune e bassifondi nei quali la ricca vegetazione del Carbonico si accumula, alternandovisi i banchi di carbone con i sedimenti. Nascono così i bacini di carbon fossile grandi e piccoli dell'Europa, nelle Isole Britanniche, nel Belgio, nella Francia, nella Germania occidentale (Aquisgrana, Saar, Vestfalia) e orientale (Sassonia, Alta e Bassa Slesia), nella Moravia, nella Polonia, nella Boemia fino all'immenso bacino della Russia centrale e meridionale (Mosca e Donec). Il sollevamento erciniano si spegne con il cominciare del Permico: postumi suoi sono le grande intrusioni granitiche (Brocken nel Harz, Baveno, Sardegna, Corsica, ecc.) e soprattutto le poderose espansioni porfiriche del Permico inferiore, intenso vulcanismo che ha lasciato tracce dovunque, nell'Europa occidentale, tale piano si mostra (Sardegna, Lugano, Bolzano, Sassonia, ecc.). Le catene armoricana e variscica s'elevavano nel Permico nel la fascia mediana del continente attuale e separavano un mare settentrionale poco profondo stretto fra esse e la Paleo-Europa, da un'ampia Tethys permica meridionale che verso oriente però penetrava profondamente nel tavolato russo fino al piede occidentale degli Urali (regione di Perm). Si determinano così due facies ben distinte nei terreni di quell'età: una settentrionale o germanica (Dyas) formatasi in un mare chiuso fra sponde desertiche, che finisce per evaporazione totale i cui risultati sono gl'immensi depositi salini della Germania dal Reno alla Vistola (Stassfurt, ecc.); e una meridionale di mare aperto nelle Alpi e nell'Europa orientale.

L'influenza della particolare distribuzione di terre e di mari stabilitasi alla fine dell'era paleozoica ha perdurato lungo tutta la mesozoica successiva, nella quale le eteropie, sempre più manifeste, rimangono localizzate perché nessun intenso diastrofismo interviene a produrre radicali mutamenti paragonabili a quelli due volte ripetutisi nel Paleozoico. I moti del Mesozoico sono principalmente epeirogenetici, cioè semplici oscillazioni del livello marino.

Nel Triassico europeo abbiamo di fronte due facies profondamente diverse: la germanica, deposta in un mare interno o continentale, e l'alpina di mare largo o pelagica, che si ritrova perciò anche negli altri continenti (Asia, America). La germanica, riconosciuta per prima a causa della stratificazione indisturbata, fu creduta di tipo universale, ciò che fece rimanere per quasi mezzo secolo inesplicabile enigma la facies alpina. Il Triassico germanico copre in generale le aree intorno ai ruderi delle catene erciniane iri Germania, Francia, Inghilterra, Spagna e Sardegna; quello pelagico, depositato nelle profondità della Tethys mesozoica, non fu sollevato e non emerse se non nel Terziario. La medesima antitesi perdura nel Giurassico, i cui sedimenti, deposti spesso con miracolosa regolarità sull'antica Meso-Europa e conservatisi orizzontali, nulla sembrano aver di comune con i tipi alpini. E così pure il Cretacico, sebbene la sua seconda metà segni con la trasgressione cenomaniana la maggiore sommersione del continente verificatasi nel Secondario.

L'attività eruttiva dell'era secondaria ha lasciato in Europa le sue tracce solo nella facies alpina, dove frequenti e poderose sono le masse intercalate di rocce basiche (rocce verdi od ofioliti, prasiniti, eufotidi, diabasi, serpentine).

La prima metà dell'era terziaria (Paleogenico), per effetto del diastrofismo che si matura, periodo di preparazione dell'Europa attuale, si chiude con l'acme, nell'Oligocene, del corrugamento alpino, il quale solleva i sedimenti della Tethys e li rovescia accavallandoli sopra gli avanzi meridionali delle catene caledoniane ed erciniane.

I segni precursori del grande ripiegamento incominciano allo spirare del Cretacico (Caucaso, Tauride, Pirenei orientali), ma il parossismo cade sul finire dell'Oligocene, durante il quale si disegna il complesso di sistemi delle Alpidi e cioè i Balcani, le Alpi Transilvaniche, i Carpazî, le Alpi proprie e le Dinaridi, il Giura, gli Appennini, i Pirenei, la Cordigliera Betica e, sull'altra sponda del Mediterraneo, l'Atlante. Nell'Europa media invece i sedimenti del Paleogenico hanno subito lievi disturbi, come ad esempio nel classico bacino di Parigi, e rappresentano sempre, salvo lievi eccezioni, depositi di mari continentali, di lagune litorali e di bacini interni. In piena antitesi quindi con i terreni coevi di tutt'altra origine sconvolti dal ripiegamento alpino.

L'Europa attuale, abbozzata così nelle sue somme linee, si completa nel Neogenico i cui depositi stanno in prevalenza intorno al Mediterraneo, essendo rimaste durante tale periodo presso che totalmente emerse tanto l'Archeo-Europa quanto la Paleo- e la Meso-Europa. Il diastrofismo alpino perdura, attenuandosi, e vanno riducendosi, soprattutto a oriente, i limiti del Mediterraneo che nel Miocene si congiungeva, attraverso il Mar Nero molto più vasto, con il Caspio e con il Mare d'Aral. Sul finire del Miocene lo stesso Mediterraneo attraversa una fase caspica (piani sarmatico e pontico) alla quale succede la trasgressione pliocenica schiettamente marina. Pure in quel tempo s'inabissano nel Mediterraneo occidentale gran parte degli avanzi delle Ercinidi, all'infuori della Sardegna, della Corsica occidentale, del massiccio dei Maures e delle Isole Hyères a oriente e della Meseta iberica a occidente. Il diastrofismo alpino durante il Terziario è accompagnato da un violento ed esteso risveglio dell'attività vulcanica, tanto lungo i margini delle zone sollevatesi, quanto per contraccolpo nelle masse più antiche erciniane e caledoniane. Sorge così l'Islanda; si effondono i basalti delle isole scozzesi e dell'Irlanda; s'innalzano i vulcani dell'Alvernia, dell'Eifel, del Rhön, nella Germania extra-alpina; della Boemia, della Tracia e Macedonia, della Sardegna (trachiti), e per le Alpidi i vulcani dell'Italia (Euganei, Berici), dell'Ungheria e della Transilvania. E in profondità si consolidano plutoniti portate a giorno da movimenti posteriori; così nelle Alpi (sienite di Biella, diorite di Traversella, granito di San Fedelino e di Val Bregaglia, Adamello ecc.) come all'Elba (M. Capanne) e a Gavorrano.

Nel Quaternario si ha il trapasso dalla configurazione pliocenica del continente, molto accidentata, all'attuale in più modi: 1. per lenti movimenti crustali dipendenti sia dal continuare dell'orogenesi alpina, sia nel resto d'Europa da epeirogenesi, che dànno luogo a oscillazioni del livello marino. Particolarmente intensi nel Mediterraneo, dove l'insieme d'isole e penisole dell'Italia pliocenica si salda a costituire la penisola attuale e la Sicilia, con un innalzamento che in Calabria tocca un massimo locale di 1200 metri. Frutto di queste oscillazioni del livello marino sono i terrazzi in più ordini lungo le sponde del Mediterraneo, dell'Atlantico e del Baltico e i conseguenti terrazzi fluviali per abbassamento a sbalzi successivi del livello di base. Lungo il margine meridionale del tavolato russo il sollevamento ha ristretto molto l'area del grande mare interno di cui sono relitti attuali il Mar Nero, il Caspio e l'Aral. All'opposto, per un abbassamento, sembra probabile avvenisse nel Quaternario la separazione delle Isole Britanniche dal continente. Anche il Baltico durante il Quaternario ebbe fasi di espansione, collegandosi anche per breve tempo con il Mar Glaciale (mare delle Yoldia: v. baltico, mare); 2. alluvionamento per opera dei fiumi, in grazia del quale si colmò il golfo padano, la bassa valle del Rodano e si formarono i delta del Reno, del Volga, del Don ecc.; 3. vulcanismo; continuazione del Terziario, particolarmente attivo nella penisola e isole italiane, nell'arcipelago greco, ecc.; 4. glacialismo; forse alla fine del Pliocene, certo nel Quaternario si formarono nelle regioni più fredde per latitudine e per altitudine, ghiacciai, che a più riprese, in dipendenza di alternative climatiche, si allargarono a coprire la maggior parte dell'Europa. I più grandi ebbero sede negli altipiani della Fennoscandia e scesero a coprire gran parte del tavoliere russo fino a lambire il piede dei Carpazî settentrionali (Beschidi) e, oltrepassando il Baltico e il Mare del Nord, tutto il bassopiano tedesco, la Danimarca, parte dell'Olanda e quasi totalmente le Isole Britanniche, abbandonando sopra questa sterminata superficie le loro morene costituite da materiale nordico. Un'altra calotta glaciale coprì le Alpi con reiterate espansioni nella Pianura Padana, nella valle del Rodano, sull'altipiano elvetico e bavarico, giungendo fin quasi a Vienna lungo le valli scendenti al Danubio. Glaciazioni proprie ebbero pure i Pirenei, gli Appennini e la Corsica. I ghiacciai, oltre a deporre le morene, fecero con la loro erosione notevole opera morfologica, scavando valli con sezioni a U diventate in parte fiordi e laghi subalpini e ringiovanendo così l'aspetto della catena alpina, trasformandola da quell'altopiano che era ancora nel Pliocene in una catena a creste acute irta di picchi. Ciò che non è avvenuto nella Scandinavia, che, sebbene solcata da valli profonde, pure ha conservato il suo carattere di altopiano. Sul margine meridionale delle espansioni glaciali massime si è deposto per azione eolica e rimaneggiamento successivo quel particolare deposito di pulviscolo atmosferico noto con il nome di loess, specialmente nella Germania e nella Russia e di cui si ha qualche esempio anche nell'Italia settentrionale.

Terremoti. - La sismicità in Europa è collegata nel modo più manifesto con la genesi del continente e con la sua architettura. Ha il suo massimo lungo le catene di sollevamento più recente del Terziario e fra queste in particolare nella Betica, nell'Appenninica, nelle Dinaridi, nella Balcania, in Crimea e nel Caucaso, cioè nei paesi circummediterranei in largo senso. Sono tanto meno agitate da terremoti quanto più antiche le Ercinidi e le Caledonidi, e così la Sardegna, territorio pressoché asismico d'una regione geografica, come l'Italia, ricca di focolari sismici. Quasi del tutto immune l'immensa piattaforma finno-podolica, all'infuori del suo margine meridionale.

Le grandi regioni morfologico-tettoniche. - Sulle vicende geologiche passate si basa la divisione, più comunemente adottata, dell'Europa in quattro grandi parti ben distinte fra loro per caratteristiche morfologiche e tettoniche, una delle quali peraltro abbraccia da sola più della metà dell'intero continente. È il tavolato russo (circa 5 milioni di kmq.), il quale, unitamente con il tavolato siberiano che lo continua a E., rappresenta una delle più stabili zolle della crosta terrestre, poiché, dopo il periodo dei ripiegamenti orogenetici precambrici, non fu più perturbato, se non qua e là localmente. I ripiegamenti erciniani interessarono solo alcuni lembi marginali del tavolato; ad essi si deve la formazione degli Urali, dei rilievi della Novaja Zemlja e dei Timani, come pure il corrugamento della regione del Donec. Altrove, su vaste aree, gli strati appaiono pressoché orizzontali. D'altro lato, durante i lunghi periodi di emersione, anche i rilievi precambrici ed erciniani furono in gran parte demoliti e spianati, mentre durante le maggiori trasgressioni, come quella avvenuta nel Giurassico e nel Cretacico, vaste aree furono ricoperte dal mare; durante la trasgressione eocenica, poi, il mare ricoprì tutta la Russia meridionale fino all'estremità sud degli Urali e lungo il margine orientale di questi s'ingolfò in un lungo braccio che andava a sboccare nel Mare Artico. Più limitata fu la trasgressione miocenica. I processi di spianamento postmiocenici hanno finito col dare al paese l'aspetto di un penepiano ondulato, la cui superficie, appena interrotta da basse groppe arrotondate, taglia indifferentemente gli strati delle epoche geologiche più diverse. Le differenze di rilievo sono poi attenuate anche dalla coltre di materiali d'origine diluviale che ricopre gran parte del tavolato: morene della ghiaccia continentale di nord-ovest, depositi fluvio-glaciali e nel mezzogiorno anche ampî mantelli di loess.

Pertanto la maggior parte del tavolato ci appare oggi come un'uniforme pianura, nettamente limitata verso SE. dall'Obščij Syrt, che forma l'orlo della conca caspica, e dai Colli Ergheni, modesto rilievo di origine recente, che ha interrotto la comunicazione fra il Caspio e il Mar Nero. A E. la pianura si rileva lentissimamente in una zona di colline che precede gli Urali: a NO. il limite verso lo scudo baltico è indicato dalla cosiddetta depressione carelica, una successione di conche e di fratture che si stende dal Mar Bianco al Golfo di Finlandia. Nell'uniformità della pianura, che non raggiunge i 200 m. di altezza, soglie insignificanti separano i singoli bacini fluviali o le diverse porzioni della piattaforma. Queste soglie sono talora residui degli antichi rilievi spianati, come i Timani (327 m.), che circoscrivono dal resto del tavolato il bacino della Pečora, come le cosiddette Alture del Volga (sulla destra del fiume) e quelle del Donec (269 m.), ovvero sono intumescenze prodotte da recenti, lievissimi ripiegamenti, come la soglia tra Volga e Dvina (Uvali) e il rialto centrale Russo, il quale raggiunge la maggiore altezza a nord nel Valdai (323 m.), in parte formato anche da morene, importantissimo nodo idrografico. Del resto, per la mancanza di spartiacque veri e proprî, i varî bacini erano e in parte sono ancora in comunicazione naturale fra loro; altre comunicazioni ha creato e perfezionato l'uomo mediante canali.

La seconda delle grandi regioni morfologiche dell'Europa - la Fennoscandia, cioè l'insieme della Finlandia e della Scandinavia (eccettuatone il lembo estremo meridionale o Scania) - non è veramente un individuo unico, ma è piuttosto costituita da diversi membri che hanno taluni caratteri comuni. La piattaforma che circonda il Baltico non ha subito, dopo i ripiegamenti precambrici, altri corrugamenti - fatto, questo, che l'accomuna con il tavolato russo -, mentre la parte occidentale della Scandinavia con la penisola di Kola furono intensamente e complicatamente corrugate durante il periodo dei ripiegamenti caledoniani, ai quali debbono la loro struttura estremamente complessa; infine il cordone delle isole Lofoti, gneissiche, rappresenta probabilmente il residuo di un'antichissima catena montuosa (ripiegamenti laurenziani). Tutti e tre questi membri hanno peraltro in comune il fatto che, a partire dal Devonico, non furono più sommersi dal mare, se non forse talora ai margini, e per conseguenza furono soggetti a una prolungatissima azione di spianamento da parte degli agenti atmosferici. Ma - mentre la piattaforma baltica rimase sempre a una modesta altezza sul mare e perciò ha l'aspetto di un penepianu cristallino alquanto frammentato, interrotto solo qua e là da dossi tabulari che rappresentano residui isolati di depositi paleozoici sfuggiti alla denudazione - i rilievi occidentali invece, dopo un intenso spianamento, furono più volte nuovamente sollevati e corrugati, con conseguente profonda incisione di solchi vallivi. Entrambe le parti poi hanno in comune alcuni dei più essenziali lineamenti della fisionomia attuale, derivanti dall'opera di modellamento e di demolizione esercitata dalla glaciazione pleistocenica. A questa si debbono i particolari aspetti del paesaggio morenico nella piattaforma baltica, a questa il contrasto - evidente in tutti i rilievi scandinavi, ma soprattutto in quelli del sud - fra le elevate aree dei fjeld, resto delle antiche superficie di spianamento, e le profonde incisioni dei fiordi e delle valli in essi sboccanti, plasmate dai ghiacciai. Alla glaciazione si deve altresì la grandissima ricchezza di laghi, che conferisce a tutta la Fennoscandia una sua peculiare fisionomia, ad essa ancora l'irregolarità della rete idrografica, a caratteri estremamente giovanili. Con le diverse fasi del periodo glaciale sono strettamente collegate anche l'origine, le vicende e la conformazione attuale del Mar Baltico (v.).

Per le altre due grandi regioni morfologiche dell'Europa, la regione delle montagne medie centro-occidentali e la regione delle catene giovani mediterranee, si può ripetere, anche a maggior ragione, ciò che fu detto della Fennoscandia, cioè che ciascuna di esse risulta di diversi membri o elementi che hanno avuto una storia geologica molto differente, ma ai quali una comunanza di taluni processi tettonici e morfologici ha conferito notevoli somiglianze di aspetti e di caratteri.

La regione delle montagne medie centro-occidentali abbraccia le Isole Britanniche, che riposano sulla piattaforma continentale europea e, come si è visto, furono separate dal continente solo in epoca geologica recentissima, tutta la Francia (eccetto la parte alpina e quella pirenaica) e tutta la Germania extraalpina, con la Danimarca, le isole danesi e la Scania. I rilievi che costituiscono questa regione rappresentano i residui di sistemi montuosi di epoche geologiche diverse, rotti da fratture e da sprofondamenti in lembi isolati, demoliti e spianati poi durante lunghi periodi di emersione, e talvolta ancora successivamente dislocati e sollevati. A prescindere dalle Ebridi e dal lembo nord-occidentale della Scozia, che sono forse, come le Lofoten, i frammenti di antichissime montagne (laurenziane), abbiamo anzitutto i resti dei rilievi caledoniani (Scozia, Galles, Inghilterra settentrionale e massima parte dell'Irlanda) con pieghe dirette verso NNE. come quelle della Scandinavia, cui rimasero probabilmente uniti fino al Terziario recente. Questi rilievi appaiono oggi come tozzi massicci, con forme della montagna media, separati da fratture e da fosse di origine piuttosto recente (Terziario medio), sui margini delle quali si riscontrano vaste effusioni basaltiche (Irlanda settentrionale, Ebridi, Fœrœer).

Nell'Irlanda meridionale le pieghe di questi rilievi caledoniani s'incontrano con quelle dei rilievi armoricani, appartenenti al grande periodo orogenico del Paleozoico superiore; le pieghe di questi, dirette prevalentemente verso ESE., si possono seguire dall'Irlanda meridionale, attraverso la Cornovaglia e l'Inghilterra meridionale, fino alle Ardenne; archi pił interni degli stessi ripiegamenti sono rappresentati ancora dai rilievi della Bretagna, della Normandia e dalla maggior parte di quelli del Plateau Central francese.

Contemporanei di età sono i sistemi montuosi varistici, che comprendono tutta la regione montuosa fra Mosa e Oder, fino al margine esterno dei Carpazî, e perciò il cosiddetto massiccio scistoso renano, i Vosgi, la Foresta Nera, il Marz, il Giura Francosvevo, i Monti Metalliferi e anche la maggior parte del restante massiccio boemo, infine i rilievi isolati della Polonia occidentale. Altrove l'ossatura varistica è mascherata da una copertura di depositi mesozoici non ripiegati, che forma i tavolati della Francia di nord-est, della Germania occidentale, ecc., ovvero da materiali ancor più recenti, come quelli che riempiono i numerosi bacini depressi in seno agli antichi rilievi (fossa renana, pianura occidentale germanica, bacini di Parigi e di Londra, questi ultimi in seno ai rilievi armoricani). Tutti questi rilievi montuosi, suddivisi da fratture recenti in massicci e blocchi separati, furono poi intensamente livellati e spianati fino a ridursi a tronconi di montagne. Ma nell'Europa centrale gli antichi rilievi furono poi, durante il Terziario medio e superiore, nuovamente perturbati da corrugamenti o ripiegamenti di lieve entità, da sollevamenti in blocco e da sprofondamenti lungo linee di frattura complicate, presso i margini delle quali si ebbero talora manifestazioni vulcaniche (Alvernia, fossa renana, Eifel, bacino boemo, ecc.). Questi processi hanno determinato il grande frastagliamento dei rilievi dell'Europa centro-occidentale, che si presentano oggi come massicci e gruppi isolati, con forme morbide, cupoleggianti o tabulari, di altezze modeste (1500-1800 m. al massimo), separati da bacini depressi o da vaste conche pianeggianti, affiancati verso N. da estesi bassipiani. Questi, a E. del Weser, rappresentano una continuazione del tavolato russo (al pari della Danimarca e della Scania) e debbono alcuni lineamenti caratteristici del loro aspetto attuale al modellamento glaciale e ai depositi glaciali e fluvioglaciali. La Manica e il Mare del Nord, specie nella sua parte meridionale, sono, come s'è accennato, aree depresse in epoca geologicamente recentissima.

La regione delle catene giovani mediterranee è in realtà il membro più recente dell'Europa, ed è l'unica parte nella quale s'incontrino dei veri e proprî sistemi di catene montuose, in netto contrasto con tutto il resto del continente. Tra la regione delle montagne medie e quella mediterranea s'interpone, come linea divisoria ben netta, tutta una successione di solchi, che dal Golfo di Biscaglia, per la valle della Garonna, il Canal du Midi, il Rodano inferiore e medio, si può seguire, attraverso la depressione albergante i laghi di Ginevra e di Neuchâtel e una parte del corso dell'Aar, fino alla valle del Danubio, alla Morava e alla Porta Morava; è nell'insieme come un grande corridoio naturale, la cui importanza è grandissima anche dal punto di vista delle comunicazioni tra le varie parti dell'Europa.

Le catene mediterranee si ritengono originate da corrugamenti che, se pur iniziatisi assai prima, hanno avuto la loro più intensa manifestazione nel Terziario medio: poderose spinte in senso S.-N. hanno complicatamente ripiegato, contro i pilastri resistenti dell'Europa centrale, i sedimenti di un'ampia area marina, ed hanno dato origine a grandiosi archi montuosi, che si distinguono oggi in due serie, una più occidentale (Alpidi) e una più orientale (Dinaridi). Più tardi una serie di sprofondamenti ha interrotto la continuità di questi archi montuosi, determinando la formazione di conche, occupate dalle acque del Mediterraneo e di alcuni dei mari dipendenti, ovvero di bacini interni, più tardi colmati (Bassopiano Ungherese). Questi sprofondamenti hanno fatto scomparire lembi delle terre più antiche preeesistenti (Tirrenide), mentre alcuni altri di questi lembi sono rimasti inglobati in seno alla zona dei ripiegamenti terziarî (Meseta spagnola; massicci tracomacedoni). Pertanto anche questa regione delle catene giovani mediterranee risulta oggi divisa in varî elementi separati (v. anche alla voce mediterraneo). Verso la fine dell'era terziaria in alcune delle catene si erano iniziati processi di spianamento, ma poi sono sopravvenuti nuovi sollevamenti che hanno conferito alla più parte dei rilievi le loro forme dell'"alta montagna", ringiovanendo anche l'idrografia; nelle Alpi e nei gruppi più elevati delle altre catene la glaciazione pleistocenica ha poi determinato tutto un complesso di aspetti e lineamenti caratteristici (v. alpi). Le catene dei Pirenei-Cantabrici (fino a 3400 m.), e forse anche quelle che fiancheggiano a S. il bacino dell'Ebro, rappresentano i membri più antichi di questa zona montuosa mediterranea, perché il loro corrugamento ebbe luogo già nel Terziario inferiore, e hanno perciò caratteri un po' diversi da quelli degli altri membri. Le Alpidi vere e proprie comincian0 con la Cordigliera Betica (Sierra Nevada, metri 3480) che si continua nelle Baleari e poi, secondo una concezione recente (Staub), si ricollega, con andamento tortuoso, alle Alpi di Corsica (2740 m.) e alle Alpi Liguri. Qui, all'incirca a N. di Nizza si distaccano da un lato le catene dell'Appennino (Gransasso, metri 2914), che probabilmente si prolungano nella Sicilia settentrionale e nell'Atlante, circondando così la conca di sprofondamento tirrenica, dall'altro le Alpi, i cui fasci di catene, dopo essersi avvicinati, in Provenza, alle propaggini estreme dei Pirenei, urtando contro il blocco del Plateau Central francese, s'incurvano verso N. e NE. e in un grandioso arco si stendono per 1200 km. fino a Vienna; il Giura ne rappresenta probabilmente una ramificazione isolata. La continuazione delle catene più settentrionali del fascio alpino è rappresentata dai Carpazî, che, incurvandosi anch'essi contro il pilastro rigido del massiccio podolico, circondano la conca pannonica, e si prolungano con andamento tortuoso nelle Alpi Transilvaniche, nei Balcani, nei rilievi della Crimea e forse anche nelle catene che orlano a nord Asia Minore. Le Dinaridi hanno inizio presso Ivrea e formano tutta la sezione meridionale delle Alpi prevalentemente calcaree, poi le catene che occupano tutta la parte occidentale della Penisola Balcanica e si continuano nella Grecia, nelle Isole Egee e nel Tauro. Nella Penisola Balcanica, tra i rilievi delle Dinaridi e quelli delle Alpidi, s'interpone il massiccio antico traco-macedonico, come nella Penisola Iberica la Meseta s'interpone tra i Pirenei e le Cordigliere betiche. Bacini di sprofondamento tipici sono l'Andalusia, il bacino dell'Ebro, il Tirreno, l'Egeo, il bacino pannonico; sui margini di taluni di essi (Tirreno, Egeo, bacino pannonico) si riscontrano manifestazioni vulcaniche, in parte perduranti fino all'epoca presente. I processi d'alluvionamento recenti e attuali hanno poi colmato taluni di quei bacini, come pure la conca interposta fra le Alpi e l'Appennino; ne sono risultate le più estese aree pianeggianti che annoveri questa tormentatissima regione mediterranea.

In conclusione, gli aspetti, così varî e complessi, con i quali si presenta oggi ai nostri sguardi il paesaggio europeo - una varietà quale non si riscontra forse in nessun'altra parte del mondo su una area relativamente così ristretta - sono sostanzialmente il prodotto degli avvenimenti verificatisi nei più recenti periodi geologici: gl'imponenti corrugamenti del Terziario, cui seguirono peraltro qua e là periodi di spianamento, la grande glaciazione quaternaria che interessò poco meno dei due terzi dell'Europa, i nuovi sollevamenti postpliocenici, intervenuti a varie riprese e con intervalli di periodi di sommersione.

Coste. - Una fase di sommersione (oscillazione positiva), con conseguente invasione da parte del mare di lembi più o meno estesi della piattaforma continentale), sembra aver costituito in molta parte dell'Europa l'episodio più recente, che ha avuto grandissima influenza nel determinare la morfologia e i caratteri attuali delle coste. Anche riguardo a queste, si riscontra in Europa una grandissima varietà. In complesso e a paragone con gli altri continenti, l'Europa appare caratterizzata da un grande frastagliamento: i lunghi tratti di coste unite, che si hanno ad es. in Africa lungo i margini di fratture, mancano qui del tutto. La lunghezza delle coste è calcolata dal Penck, in via del tutto approssimativa, a circa 38.000 km. e lo sviluppo costiero (cioe il rapporto fra la lunghezza delle coste e il perimetro di un cerchio di area eguale a quella dell'Europa) a circa 3,5; valore superato solo dall'America Settentrionale. In quest'ultima tuttavia, le coste più articolate sono quelle settentrionali, di scarsissimo valore antropico, perché prospettanti un mare pressoché inaccessibile, mentre in Europa la più ricca articolazione si ha a O. e a S., cioè in corrispondenza ai marí - Atlantico e Mediterraneo e loro dipendenze - i quali sono da epoca remota centro delle comunicazioni e dei traffici.

Nelle regioni nordiche e nordoccidentali dell'Europa, che subirono l'influenza della glaciazione, si hanno coste caratterizzate dai due tipi d'insenature cui si dà il nome di fiordi e di fjärden: i primi su coste alte e ripide, come in Norvegia (tipi affini nella scozia), i secondi là dove s'affacciano al mare tavolati o pianure, come nella Finlandia e nella Svezia; nella conformazione sì degli uni come degli altri si vede l'influenza delle summenzionate recenti oscillazioni positive. Collegato con queste ultime è anche il tipo di coste a rías, frequente in regioni non soggette a glaciazione dell'Europa occidentale (Spagna NO., Bretagna, Irlanda), dove l'estremità di alcune valli fluviali fu sommersa. Anche altri tipi d'insenature sulle coste mediterranee (italiane ed egee) sono, nell'aspetto attuale, conseguenza del recente processo di sommersione. Là dove si hanno catene montuose correnti a un dipresso parallelamente al mare, quel processo ha determinato il tipo delle coste a vallone (caratteristico della Dalmazia, donde ha origine questo nome); altrove (Istria, Grecia) il mare ha invaso bassure litoranee di diversa origine, creando insenature di figure e aspetti svariatissimi. Nelle coste piatte è connessa con oscillazioni positive la formazione di estuarî, soprattutto là dove le forti maree mantengono libere le foci dei fiumi e ostacolano il processo di deltazione; gli estuarî ricorrono perciò soprattutto nel Mare del Nord, e sulle costre britanniche, francesi e iberiche.

Tutti i tipi di coste fin qui ricordati, che si succedono con irregolare alternanza, sono in complesso molto favorevoli allo sviluppo della vita marittima e dei porti, mentre in genere lo sono assai meno i tratti di coste basse ove prevalgono i processi d'alluvionamento. Formazioni deltizie si hanno naturalmente là dove i fiumi portano al mare gran quantità di alluvioni e specialmente su coste nelle quali le maree sono lievi, come nel Mediterraneo, nell'Artico, nel Caspio; le oscillazioni positive non sempre hanno impedito la formazione dei delta, ma li hanno resi più complicati, come mostrano gli esempî del Po e del Reno. Infine, tra i tipi più complicati di coste, si annoverano quelle a lagune, le quali sono per lo più antiche insenature (formatesi ancora, non di rado, in connessione a processi di sommersione), isolate in tutto o in parte dal mare aperto, per l'intervento di fattori diversi: se ne hanno sul Baltico (Haffe), nel Golfo del Leone, sul Tirreno, sull'Adriatico, sul Mar Nero (limani). Nelle coste di questo tipo, soggette a considerevoli e irregolari modificazioni, è intervenuta, più spesso che altrove, l'opera regolatrice dell'uomo, diretta sia ad evitare il colmarsi di lagune e a mantenerle in comunicazione con il mare aperto, onde poterle utilizzare a scopo di traffico marittimo (Haffe del Baltico, laguna di Venezia) sia, all'opposto, a favorire i processi di colmamento o di prosciugamento.

In genere, in un paese come l'Europa, di antica civiltà e d'intensa vita marittima, si deve sempre tener presente l'opera che l'uomo ha esercitato nel modificare gli aspetti delle coste, alterando in vario modo, per i proprî fini, il naturale svolgimento dei processi modellatori.

Per riassumere, infine, con l'aiuto di alcune cifre, quanto si è detto circa la configurazione dell'Europa, si può anzitutto ricordare, per quanto si riferisce alla sua articolazione e alla penetrazione del mare, che in tutta l'Europa di SO. - cioè all'incirca a O. della linea Odessa-Königsberg (il cosiddetto istmo ponto-baltico) - nessun punto dista dal mare più di 600 km., mentre nell'Europa orientale vi sono (medio Ural) punti distanti circa 1580 km.

Per quanto si riferisce al rilievo, circa il 20% del suolo europeo è al disotto di 100 m., e il 56% al disotto di 200. Quest'altissima cifra è dovuta alla presenza del Bassopiano Russo che, con le sue appendici occidentali (pianure germanica, francese, inglese) e meridionali (Pianura Valacca), forma una distesa continua di pianure; ad esse si connette, come pianura interna, il Bassopiano Pannonico. In confronto a questa estesissima zona bassa, tutte le altre pianure europee sono assai poco estese e affacciate più o meno largamente sul mare: la più vasta è la pianura padano-veneta. Le regioni che possono dirsi collinose (200-500 m.) occupano circa il 27% dell'area, quelle della bassa montagna (500-1000 m.) un po' meno del 10%. Appena il 7% della superficie è costituito da zone sopra i 1000 m. Queste, se si eccettuino le alte terre scandinave e alcune ristrettissime aree cacuminali nelle Isole Britanniche, nell'Europa centrale e negli Urali sono tutte quante nella regione delle catene mediterranee. Questa irregolare distribuzione dei rilievi ha esercitato sempre una notevole influenza sia sugli spostamenti e le migrazioni dei popoli europei, sia sui rapporti fra territorî contermini, soprattutto nella regione mediterranea.

Clima. - Per effetto della sua situazione fra 35° e 71° lat. circa, l'Europa appartiene quasi intieramente alla zona temperata; soltanto il 6% della sua area (escluse le isole artiche) è entro la calotta polare. Per questo solo fatto della posizione mancano in Europa i grandi contrasti climatici che si riscontrano in Asia e in America. Alle su indicate latitudini prevalgono, come è noto, negli oceani, i venti di O., i quali nell'Atlantico hanno uno sviluppo particolarmente intenso; essi apportano grande umidità ed esercitano una profonda influenza mitigatrice, che tutta la parte dell'Europa rivolta all'Atlantico risente largamente. Anzi, in virtù del fatto che le coste europee, a N. del 50° lat., obliquano verso NE., questi venti possono penetrare non ostacolati da terre emerse fino a latitudini molto elevate; d'altro lato l'esistenza dell'ampia fascia pianeggiante che dalla Francia e dall'Inghilterra si prolunga verso E. fino alla Russia, non interrotta da rilievi importanti, permette la profonda penetrazione delle correnti atlantiche fin nel cuore del continente. Gl'influssi atlantici costituiscono perciò il fattore forse più importante del clima europeo. È noto che - anche per effetto delle correnti marine provenienti dalle parti equatoriali dell'oceano (Corrente del Golfo), le cui ramificazioni arrivano fino al mare polare - le acque dell'Atlantico sono molto più calde di quanto competerebbe loro alla stregua della latitudine; pertanto tutta la parte dell'Europa soggetta al complesso degl'influssi atlantici beneficia anzitutto di un'anomalia termica positiva, inoltre di escursioni annue non forti e di piogge relativamente copiose. Questi influssi atlantici s'attenuano naturalmente man mano che si procede verso oriente. L'Europa orientale, largamente saldata all'Asia, è per contro soggetta alle influenze asiatiche: poiché gli Urali non oppongono una barriera sufficiente, i venti asiatici penetrano fino nel cuore della Russia: specialmente nell'inverno, aree ad alta pressione, che predominano in Asia, si spingono fino nella Russia di SE., apportandovi basse temperature e siccità. Pertanto, per la lontananza dall'oceano e per la sua conformazione massiccia, tutta l'Europa orientale ha clima più continentale, cioè con maggiori escursioni stagionali tanto maggiori, di regola, quanto più si procede verso E. Infine nell'Europa meridionale le alte catene montuose, dirette prevalentemente in senso O.-E. (Pirenei, Alpi, Balcani), delimitano assai nettamente verso N. la zona che subisce l'influenza del Mediterraneo ed è caratterizzata soprattutto da inverni miti ed estati secche; dato peraltro il carattere montuoso delle tre penisole sudeuropee, le influenze mediterranee si attenuano, fino a scomparire quasi del tutto nelle aree più interne, anzi i caratteri tipici del clima mediterraneo appaiono sovente limitati a strette fasce costiere (v. mediterraneo).

In conclusione, si può in Europa distinguere in prima linea: 1. una parte occidentale a clima atlantico; 2. una parte orientale a clima continentale; 3. una parte meridionale a clima mediterraneo (subtropicale), alle quale si aggiunge: 4. una ristretta fascia settentrionale a clima artico. Tra la parte occidentale con clima nettamente atlantico e l'orientale a clima continentale s'interpone una zona di transizione; nell'Europa orientale, poi, si può distinguere, oltre alla zona artica, l'area sudorientale soggetta agli influssi asiatici. Caratteri climatici analoghi a quelli della zona artica hanno anche le regioni più elevate dei massicci montuosi. Si arriva pertanto alla distinzione e localizzazione dei varî tipi di climi rappresentata nella cartina a p. 594, cui servono d'illustrazione le cartine delle isoterme (p. 593) e delle piogge (cartina a p. 594).

Clima atlantico o dell'Europa occidentale. - Ha per caratteristiche essenziali la mitezza dell'inverno e la presenza di precipitazioni in ogni stagione. Si riscontra in una vasta fascia estesa dall'estremità settentrionale della Norvegia fino al Portogallo settentrionale; abbraccia presso che tutte le Isole Britanniche, gran parte della Francia, la Germania fino all'Oder e la costa occidentale dello Jütland. Le temperature diminuiscono naturalmente con il crescere della latitudine, ma assai lentamente (in media 1° ogni 3 gradi di latitud.). I venti di O. e di SO., predominanti, apportano fitte nebbie; la nebulosità è pure elevata, specie a nord (Isole Britanniche, Norvegia); essa costituisce uno schermo contro l'irradiazione notturna. Perciò le temperature medie del gennaio non scendono sotto i − 3°, e come estremi normali non si hanno, neppure all'estremità settentrionale, temperature inferiori a − 15°; le medie dei mesi più caldi oscillano fra 11° e 21°; le escursioni si mantengono fra 9° e 16°, crescendo naturalmente man mano che ci si allontana dal mare. Si può perciò distinguere una regione a clima nettamente oceanico con inverni molto miti (clima bretone, es. Brest) e una a caratteri più attenuati e con più forti oscillazioni stagionali (es. Basilea, Utrecht). Le piogge sono dappertutto assai copiose, fino a 2-3 metri nelle pendici occidentali dei rilievi dell'Irlanda, Gran Bretagna e Norvegia, 80-100 cm. altrove; molte plaghe al riparo dai venti ne ricevono ancora meno, ma per i bisogni agricoli l'umidità è ovunque sufficiente. Per quanto le precipitazioni non manchino in nessun mese, il periodo più piovoso è l'autunno; man mano che si procede verso est si fanno più copiose le piogge primaverili.

Clima di transizione. - L'anzidetto tipo di clima sfuma verso oriente nel tipo che può dirsi di transizione, caratterizzato, rispetto al precedente, da più accentuate differenze termiche stagionali e dal prevalere delle piogge in estate. Ad esso si ascrivono la più gran parte della Germania con la Polonia, il medio bacino del Danubio e i paesi circostanti al Baltico fin verso 61° N. In tutta questa vasta regione, che verso SE. si continua nella Transilvania e nelle regioni interne della Penisola Balcanica, le temperature medie annue non differiscono più di 4°-5°. Le medie del mese più freddo oscillano fra − 5° e + 0°,5; quelle del mese più caldo mostrano anche minori differenze (tra 16°,5 e 20°). Le escursioni annue crescono da O. (14°-16°) a E. (22°-23°). Notevole è soprattutto la differenza fra le parti sud-occidentali più calde e le nord-orientali più fredde, nelle quali il periodo del gelo è più lungo, talché d'inverno gelano normalmente anche i fiumi (clima polacco di De Martonne; es. Varsavia). Caratteristico è anche il ritardo nell'inizio della primavera, a mano a mano che si procede verso E.: alberi che fioriscono già nella terza settimana di aprile presso il Lago di Costanza, non fioriscono prima della seconda metà di maggio nella Prussia orientale. La quantità media delle piogge oscilla intorno a 60-70 cm., ma vi sono plaghe che ne ricevono meno di 50 (es. Praga); naturalmente i più favoriti sono i rilievi montuosi, specialmente nei versanti volti a O. La prevalenza estiva delle piogge si accentua procedendo a NO. a SE. I paesi circostanti al Baltico, oltre che piogge nell'estate (tarda), ne hanno anche d'inverno; la primavera è secca.

Clima dell'Europa orientale. - Si può dire caratterizzato dalle forti oscillazioni termiche stagionali (inverni lunghi e freddi; estati miti, a sud-est anche calde), che crescono naturalmente procedendo verso E. La quantità di pioggia è dovunque inferiore a 75 cm. e diminuisce procedendo verso est e sud-est; ma anche le parti interne della Scandinavia settentrionale e della Penisola di Kola ricevono scarse piogge. I mesi più piovosi sono sempre gli estivi. Questo tipo di clima si riscontra anche di là dagli Urali, anzi ha ricevuto il nome di clima siberiano. Le temperature medie annue diminuiscono con il crescere della latitudine, in media all'incirca di 0°,4 per grado; le medie del mese più freddo oscillano fra − 4° e − 16°, quelle del mese più caldo fra 16° e 25° con escursioni che arrivano pertanto fino a 36°. Nella Russia eentrale, con inverni non eccessivamente freddi, ma lunghi e nevosi, si hanno estati non meno calde che nella Germania di SO. I fiumi tributarî del Baltico e gli alti corsi di quelli affluenti al Mar Nero e al Caspio gelano per un periodo più o meno lungo (4-6 mesi), al pari delle coste baltiche.

Clima della Russia meridionale (Ucrainiano o Pontico). - La Russia meridionale, all'incirca a sud di una linea condotta da Leopoli a Kazan′, è caratterizzata da una quantità di piogge inferiore ormai a 50 cm.: si entra perciò nel dominio della steppa. Gl'influssi della vicina Asia si manifestano, come si è accennato, con il predominio delle alte pressioni invernali e dei venti di SE.; ne conseguono inverni ancor molto freddi (medie del gennaio fino a − 10° a − 12°) ma meno che nella Russia centrale, estati molto calde, con temperature medie del mese più caldo (luglio) superiori a 24° e perciò con escursioni che arrivano a 34°-36°. Il Mar d'Azov gela per tre mesi, ma i fiumi hanno un periodo di gelo assai breve (intorno a 2 mesi); la copertura di neve sul suolo dura anche meno. Verso SE., avvicinandosi alla conca caspica, la steppa diviene sempre più arida; le piogge si riducono a meno di 25 cm.; poco piovosa è anche la Crimea di NO. e la finitima valle inferiore del Dnepr. Altrove invece, sulle rive del Mar Nero, la piovosità è un po' più abbondante. La stagione prevalente delle piogge è ancora dovunque l'estate. Analogo tipo di clima si ha pure nella Moldavia, nella Valacchia, nella Bulgaria a nord dei Balcani. Invece la costa meridionale della Crimea appartiene già al clima mediterraneo.

Clima mediterraneo. - Le già segnalate caratteristiche essenziali di questo tipo di clima - estati secche, inverni miti, piovosi - non si riscontrano ovunque nella regione mediterranea, ma, in maniera ben netta, solo nelle regioni costiere. La penetrazione più o meno considerevole delle influenze mediterranee nelle regioni interne dipende dalla morfologia di queste: le regioni montuose della Balcania e la meseta spagnola hanno clima più vicino a quello pontico o al clima dell'Europa centrale (es. Sofia, Bucarest); e a questo si avvicina anche il clima della valle del Po. Del resto la varietà è notevole, anche in rapporto alla conformazione dei diversi bacini nei quali il Mediterraneo si divide. La parte europea del bacino mediterraneo è compresa fra le isoterme annue di 13° e 19°; l'isoterma di 20° non tocca le coste europee. Durante i mesi estivi, nei quali nel nostro emisfero la zona degli alisei si sposta verso N., il Mediterraneo si riscalda intensamente e rappresenta una zona di basse pressioni; d'altra parte l'anticiclone nordatlantico, che ha il suo centro nelle isole Azzorre, si avvicina all'Europa, onde alte pressioni dominano sulla Francia e sulla Germania; ne consegue dunque un richiamo di aria da NO. a SE. e da N. a S. Questo predominio dei venti settentrionali mitiga gli eccessivi calori della stagione estiva, specialmente nel Mediterraneo orientale (sono i venti etesii degli antichi; v. venti). Perciò le medie temperature del mese più caldo si mantengono per lo più tra 23° e 25°; raggiungono 27° in Grecia, 29° nell'Andalusia (Siviglia). D'inverno il Mediterraneo - le cui acque, al disotto degli strati superficiali, hanno una temperatura costante di circa 13°- rappresenta una specie di caldaia e mitiga i rigori delle terre circostanti, onde i tiepidi inverni, con medie del mese più freddo fra 4° e 10° all'incirca (Sicilia, Grecia; Spagna meridionale anche 11°; Malta 12°). Il Mediterraneo rappresenta allora naturalmente un'area di bassa pressione relativamente alle terre circostanti, onde le correnti di aria vi affluiscono da ogni parte. Da ciò l'irregolarità dei venti invernali. Tra questi sono caratteristici quelli provenienti da nord nelle aree dove manca la protezione delle catene montuose: tali la bora e il mistral. Riguardo alla quantità di pioggia, le differenze tra regione e regione sono grandissime. I versanti rivolti al mare dei maggiori rilievi montuosi, ricevono talora più di 2 metri di pioggia, fin verso i 3 nella Dalmazia meridionale e altrove; invece si hanno, anche in aree costiere, regioni che ne ricevono meno di mezzo metro (Sicilia di SE., Sardegna meridionale, Spagna di SE., ecc.), ma ciò rappresenta già quasi un'eccezione.

Circa la distribuzione stagionale, che ha maggiore importanza, si osserva che nel Mediterraneo occidentale, dove penetrano ancora largamente gl'influssi atlantici, e specialmente nella parte settentrionale del bacino, si hanno ancora piogge in ogni stagione, per quanto sempre nei mesi estivi meno che negl'invernali; il massimo si ha in autunno o in primavera (per maggiori ragguagli v. mediterraneo). La siccità estiva si manifesta in modo saliente a sud del 40° lat. e si accentua a mano a mano che si procede verso S.; si aggiunge l'intensa evaporazione estiva, onde il suolo è in sostanza molto arido, l'agricoltura ne soffre e deve spesso essere sussidiata dall'irrigazione artificiale. La caduta della neve si verifica d'inverno, in tutto il lato europeo del bacino mediterraneo, ma alle basse latitudini è un fenomeno raro e passeggiero. In confronto all'Europa centrale e occidentale, caratteristica dei paesi mediterranei è anche la scarsa nebbiosità, la trasparenza dell'aria, l'intensa colorazione azzurra del cielo.

Clima artico. - La regione con clima propriamente artico, caratterizzato da basse temperature durante tutto l'anno, con medie di poco superiori a 10° anche nel mese più caldo, inferiori a − 15° nel mese più freddo, occupa solo una parte della Penisola di Kola, la Penisola di Kanin, e alcune zone adiacenti. Il suolo è gelato o coperto di tundre. Il mare gela nel semestre invernale; il Mar Bianco agisce anzi come una "caldaia di ghiaccio" e la sua influenza penetra nelle terre circostanti fino verso 63° lat. Alla ristretta regione di clima prettamente polare si accompagna verso sud una fascia, malamente delimitabile, nella quale gli stessi caratteri sono un po' attenuati (clima subartico). Caratteri analoghi presenta, come si è già accennato, il clima delle alte regioni montuose (rilievi scandinavi, Alpi, Scozia Settentrionale, ecc.).

Idrografia. - I caratteri generali dell'idrografia europea sono in stretta dipendenza, sia dalle condizioni orografiche e morfologiche, sia da quelle climatiche. Data la modesta estensione dell'Europa, mancano ad essa i grandi sistemi fluviali, che caratterizzano l'Asia, l'Africa e le Americhe; anche l'Europa orientale - la sola nella quale si sviluppino lunghe arterie - non presenta un bacino centrale di confluenza delle acque, anzi queste divergono in correnti volte a quattro mari differenti. All'infuori dell'Europa orientare, il Danubio è poi il solo fiume di ampio sviluppo, ma esso risulta da più tronchi riuniti ora in un solo bacino da movimenti della crosta terrestre e da altre vicende geologiche recenti. In generale, le modificazioni intervenute in un passato geologico recente e ancor nell'epoca glaciale, con conseguenti spostamenti degli spartiacque, fenomeni di cattura, ecc., hanno avuto una grande influenza nel determinare la fisionomia attuale della rete idrografica europea, la quale perciò non appare affatto modellata sulla struttura originaria del continente.

Ciò è dimostrato del resto anche dall'andamento dello spartiacque principale, che corre all'ingrosso da SO. a NE., e divide l'Europa in due versanti, che abbracciano aree poco diverse: quello atlantico-artico, ivi compreso il Mare del Nord e il Baltico (4.740.000 kmq.), e quello del Mediterraneo, compresi il Mar Nero e il Caspio (chilometri q. 4.500.000). Se si prescinde da quest'ultimo, che ha in Europa una postura marginale, anzi come bacino chiuso appartiene all'Asia, si può dire che l'Europa manchi quasi interamente di regioni endoreiche (alcuni bacini chiusi furono anche prosciugati artificialmente in tempi recenti), come, in virtù delle sue caratteristiche climatiche, manca di regioni areiche. L'anzidetto spartiacque assai raramente corre su creste montagnose elevate (per esempio il tratto sulle Alpi Svizzere), più spesso è indicato da modesti rilievi, e non di rado attraversa aree pianeggianti o soglie pochissimo rilevate come il bacino di Parigi, la Porta Burgundica e quella Morava; in tutta l'Europa orientale è rappresentato poi da lievi intumescenze. Da quanto è stato detto consegue che, come è noto, le vie d'acqua naturali possono essere facilmente allacciate fra loro da canali, che permettono il passaggio dall'uno all'altro dei bacini fluviali finitimi e anche dal versante atlantico a quello mediterraneo; fatto che in epoca moderna ha acquistato un'importanza sempre crescente per il traffico interno europeo.

La tabella a pag. seguente indica l'area dei principali bacini in cui i due massimi versanti si possono suddividere, e i maggiori tributarî di ciascun bacino.

Circa i caratteri dei fiumi europei, è evidente il contrasto fra quelli dell'Europa orientale, i quali sin dall'inizio presentano lievi pendenze, e quelli dell'Europa di SO., che sovente hanno origine come impetuosi torrenti di montagna.

Ma i caratteri della giovanilità sono comuni a molta parte della rete idrografica europea: cateratte e rapide non mancano neppure ai corsi d'acqua della Russia; nell'Europa di SO. è poi frequente l'alternarsi di tronchi con caratteri del tutto diversi (per esempio il Danubio e il Reno).

Circa il regime dei corsi d'acqua, i fattori determinanti principali sono l'epoca dell'inizio della fusione delle nevi, l'intensità dell'evaporazione estiva, la distribuzione stagionale delle precipitazioni. In relazione ai tipi principali del clima, si possono distinguere quattro tipi di fiumi, e cioè: 1. il tipo dell'Europa occidentale (cui appartengono anche gli affluenti di sinistra del Reno), con piene invernali e magre nel cuore dell'estate, di solito senza grandi amplitudini (su queste influisce soprattutto il grado di permeabilità delle rocce); 2. il tipo dell'Europa centrale, con piene primaverili (all'epoca della fusione delle nevi; l'inizio delle piene è di solito tanto più tardivo quanto più alte sono le montagne donde il fiume ha origine) e magre nella tarda estate; 3. il tipo dell'Europa orientale (compresa la Germania orientale e la Svezia), con piene nella tarda primavera e magre d'inverno (allorché le precipitazioni si hanno prevalentemente in forma di neve e le sorgenti delle zone elevate si chiudono): a questo tipo si avvicinano anche i corsi d'acqua di montagna, che peraltro di solito hanno piene estive; 4. il tipo mediterraneo, con piene invernali (in mesi differenti) e magre estive; souo questi i fiumi a regime più incostante, determinato soprattutto dalla distribuzione stagionale delle piogge.

Degna di rilievo è anche la quantità e la distribuzione dei bacini lacustri in Europa. Secondo i computi del Halbfass, essi occupano in totale un'area di 135.000 kmq. La più ricca è la zona che può dirsi circumbaltica, nel dominio dell'area occupata dalla ghiaccia quaternaria. I più grandi laghi di questa zona occupano conche scavate nella roccia in posto, soprattutto naturalmente in rocce poco resistenti, ma alla loro formazione hanno contribuito anche movimenti recenti della crosta terrestre. Altri sono veri laghi glaciali, o sbarrati da apparati morenici o incavati in seno stesso ai depositi delle morene terminali e di fondo. Nel complesso al distretto finno-carelico si possono ascrivere oltre 72.000 kmq. di aree lacustri (Ladoga, 18.200 kmq., Onega 9835), a quello svedese circa 38.000 (Väner 5570). In confronto alla zona circumbaltica, quella alpina non comprende che 3300 kmq. di aree lacustri. I laghi più grandi (Lago di Ginevra 582 kmq., Lago di Costanza 540) occupano aree già coperte da lingue di ghiacciai quaternarî, ma per taluni è dimostrato che la genesi è connessa anche con movimenti recenti della crosta terrestre. In questa zona alpina numerosissimi sono pure i laghi di escavazione glaciale vera e propria, quelli di circo, quelli intermorenici, ecc.

In altre regioni d'Europa si hanno laghi di piccole dimensioni, e dell'origine più differente: laghi carsici, vulcanici, glaciali, ecc. Una posizione a sé ha il Balaton (600 kmq.), il più grande bacino lacustre dell'Europa centrale (v. balaton).

Flora e vegetazione. - Senza avere la inesauribile ricchezza dell'asiatica, di cui è in parte tributaria, né la potente individualità dell'africana, con la quale interferisce nei territorî circummediterranei, la flora europea ci presenta, con gli aspetti più svariati, alcuni dei quali possiamo dire proprî, un grande numero di fatti distributivi noti nelle loro linee generali e spesso in minuti particolari. Uno di questi è la distribuzione delle forme di vegetazione in rapporto principalmente con il clima.

Procedendo da nord a sud la prima regione floristica è l'artica, detta anche zona della tundra, che sfiora il nord della Scandinavia e della Russia e ha i suoi avamposti negli arcipelaghi circumpolari sin dove vi è traccia di vegetazione. Priva di alberi e di colture, non possiede che pochi arbusti e suffrutici (parecchi Salix, Betula nana, Vaccinium, Empetrum, Cassiope, Dryas, due Rubus), piante erbacee perenni, nessuna annua, associazioni a base di muschi e di licheni senza o con fanerogame, aventi una composizione analoga alle tundre siberiane, ma dove sono rupi, morene, si costituiscono consorzî rupicoli e tutti i passaggi fra la tundra e formazioni di tipo alpino si possono osservare nella zona dei fields scandinavi, mentre l'Islanda con le sue boscaglie di Betula pubescens, oggidî ridotte a miseri avanzi, collega la regione artica con la baltica e in generale con la nord-europea.

Assai più vasta è la regione forestale delle Conifere e degli alberi frondosi caducifogli che va dai limiti estremi delle foreste a contatto o anche intersecate dalla tundra sino ai territorî del sud dove diventano predominanti alberi e arbusti a fusti fortemente ramificati e a foglie persistenti e a quelli del sud-est dove, in luogo della foresta, si stende la steppa che lungo il Danubio penetra sin quasi nel cuore della media Europa. A sua volta questa regione è suscettibile di essere divisa in due zone, la prima caratterizzata da 1-4 mesi temperati e gli altri freddi in cui il periodo vegetativo dura 3-5 mesi e nella quale sono in prevalenza le Conifere, la seconda da estati temperate e inverni freddi nella quale il periodo vegetativo dura 5-7 mesi e nella quale alle resinifere si mescolano o si sostituiscono essenze frondose e principalmente la farnia, la rovere, il faggio, il castagno e subordinatamente il carpino, il tiglio, alcuni aceri, salvo quelle riprendere il predominio nelle zone montuose più elevate e nelle esposizioni più fredde. Delle Conifere comuni a tutta la regione sono il Pinus silvestris, la Picea excelsa (abete rosso), il Larix decidua (larice), mentre l'Abies alba (abete bianco) supera di poco i limiti della seconda zona ed è poi quello che si espande più a sud, mentre l'abete rosso e il larice restano confinati alla catena alpina. Non oltrepassano gli Urali o di poco si espandono verso ovest di quella catena tipi siberiani strettamente imparentati ai corrispondenti europei quali Picea obovata, Abies sibirica, Larix sibirica e molto diffuso vi è anche il Pinus cembra che poi si ripresenta nella zona più elevata dei Carpazî e delle Alpi. Come nella foresta siberiano-asiatica i boschi di resinifere sono accompagnati sin nelle loro ultime espansioni verso nord da forme diverse di betulle, che sono caducifoglie, come del resto sono i larici. Nella Balcania si aggiunge fra i pini, il P.peuce Gris. e il P. leucodermis Ant., il quale ultimo si rinvenne anche nel nostro Appennino meridionale e l'interessante Picea omorica Willk., l'isolato abete che ha i suoi prossimi parenti nel Giappone e nell'America del Nord e largo sviluppo vi assume il Pinus nigra.

Delle essenze caducifoglie caratteristiche della seconda zona quella che più avanza verso il nord è la Quercus pedunculata (farnia) che costituisce nelle regioni basse della Russia una larga cintura forestale fra il golfo finnico e il limite della steppa raggiungendo gli Urali, ma senza oltrepassarli. Più esigente è, invece, il faggio (Fagus silvatica): cresce nel sud dell'Inghilterra, si trova ancora sulle coste meridionali della Norvegia, in tutto il sud della Svezia e nella Prussia orientale senza raggiungere Königsberg, di là il suo limite orientale passa notevolmente all'ovest dei Carpazî, quindi piegando a sud si approssima all'estremità sud della catena e decorre parallelamente alle Alpi della Transilvania per ritrovarsi poi nelle catene alpine e dipendenze e sino al Caucaso, là in una forma un po' diversa dall'europea (F. orientalis). Più occidentale riesce l'area del castagno che esige un periodo di sviluppo più lungo di quello del precedente tocca anch'esso l'Inghilterra meridionale, ma non va oltre la valle del Reno, donde raggiunge la Svizzera e le Alpi e si trova po in tutta la regione mediterranea. Le coste atlantiche sono inoltre caratterizzate da parecchie specie (es. Narthecium, Myrica, Ulex, Genista anglica, Erica cinerea ecc.) che le dànno una speciale impronta e dall'ampio sviluppo delle brughiere a base specialmente di Calluna vulgaris che proseguono e si intensificano nella provincia baltica e, quindi, nel nord della Germania, e hanno anche qualche avamposto della regione mediterranea (Spartium, leccio, corbezzolo), la cui esistenza è resa possibile dalla influenza della Corrente del Golfo. È poi noto come colonie di sempreverdi si trovino nelle vallate più calde del versante sud delle Alpi specialmente in vicinanza delle conche lacustri (le tre specie ricordate, la fillirea, qualche Cistus, l'Erica arborea) coincidenti o di poco sorpassanti i limiti boreali della coltura dell'olivo: esempî classici la bassa valle del Rodano, qualche settore del lago di Como, su scala più larga il lago di Garda e la bassa valle del Sarca, i colli Euganei ecc. Ma dove la flora mediterranea assume il suo più tipico sviluppo è nei territorî direttamente influenzati da clima marittimo e, quindi, lungo il littorale e nelle immediate dipendenze e su scala più larga nelle isole. Le sue formazioni più caratteristiche sono il bosco a base di sclerofille quali il leccio e la sughera (che sono le due essenze più diffuse), quello a base di aghifoglie quali il pino d'Aleppo, il p. marittimo, il p. da pinoli, la macchia formata di arbusti più o meno sviluppati, talvolta come nella macchia-foresta a proporzioni di piccoli alberi fra i quali, come in alcuni settori della Sardegna, si mescola abbondante il Laurus nobilis che si può considerare uno dei pochi superstiti nella regione della foresta di Laurinee che sopravvive in una delle sue più tipiche espressioni nelle Canarie. Nelle radure del bosco e della macchia, che l'uomo ha contribuito ad ampliare, trovano posto alcune grandi erbe, parecchie piante provviste di organi sotterranei a tipo di bulbo, tubero, o rizoma, vaste plaghe come in Spagna, Sardegna e Sicilia sono coperte dalla palma nana (Chamaerops humilis), il solo rappresentante della famiglia che abbia resistito al glaciale, ma la prevalenza spetta alle specie monocarpiche che rendono verdi i prati d'inverno e si ecclissano prima degli ardori estivi durante i quali il paesaggio assume la fisionomia di steppa, ma vere steppe riconoscibili anche per alcuni tipi alofili sono in vasti settori della Spagna.

Del resto alla regione mediterranea non mancano alberi e arbusti a foglie caduche quali la Quercus sessiliflora, e di questa costellazione specialmente la Q. lanuginosa, il cerro, il castagno, la carpinella, il terebinto, nella Balcania la Q. macedonica e la Q. aegilops (vallonea), ma queste essenze diventano più comuni nella zona submontana ed è propria di questa la pseudomacchia dell'Adamović cosi diffusa nei paesi illiricobalcanici. A tale zona di transizione, nella quale spesso non manca lo stesso leccio che si spinge sino a 1000-1200 m., succede la zona montana caratterizzata dal faggio da solo o mescolato con le Conifere che abbiamo già ricordato e che più in alto prendono il sopravvento: nelle Alpi il larice e il cembro si spingono alle quote più elevate.

Tutte le formazioni forestali che si sono descritte trovano al disopra di 2000-2500 m. il loro limite in una regione o zona scoperta che si suole designare col nome di alpina, in quanto è largamente sviluppata nelle Alpi e che si distingue in una sottozona inferiore caratterizzata da arbusti che in generale si possono considerare come emigrati dai sottostanti consorzî boschivi spesso a rami contorti o appressati al terreno e dei quali sono esempio un pino nano (P. mugho), i rododendri, i mirtilli parecchi salici e una superiore nella quale prevalgono piante erbacee perenni delle rupi, ghiaioni, torbiere e simili stazioni appartenenti ai generi Saxifraga, Primula, Androsaces, Gentiana, Ranunculus, Campanula, ecc. e di cui è emblema la stella delle Alpi o edelweiss (Leontopodium alpinum). Delle specie che compongono la vegetazione alpina (di cui vi sono tracce anche nel nostro Appennino e nelle maggiori isole) alcune hanno un'origine circumartica e si diffusero durante il glaciale, ma altre o hanno un'origine autoctona o derivano da altre catene montuose o sono del tutto isolate e dal prevalere di quest'ultime categorie dipende il più o meno accentuato endemismo, ma alla sua volta tale prevalenza è in rapporto con l'intensità maggiore o minore del fenomeno glaciale come si rileva dal confronto dei due versanti delle Alpi dei quali il meridionale è forse il solo che possiede endemismi propriamente di specie.

Un altro limite le stesse formazioni forestali incontrano in corrispondenza dell'ampia fascia stepposa della Russia meridionale alla quale si collegano le steppe danubiane: una regione a clima tipicamente continentale che con le sue estati torride e gl'inverni assai freddi impedisce la costituzione delle foreste o queste sono limitate ai corsi di acqua o a distretti eccezionalmente privilegiati. Per i varî tipi di steppa si veda la v. Caucaso (IX, p. 488).

Fauna. - L'Europa è zoogeograficamente compresa nella regione paleartica e include tutta la sottoregione europea (Europa settentrionale e centrale) e una parte della sottoregione mediterranea (Europa meridionale). Per quanto la presenza di alte catene montuose costituisca un limite fra le terre meridionali e le settentrionali e centrali d'Europa, pure notevoli migrazioni causarono lo scambio di elementi delle due zone, sicché elementi meridionali di origine asiatica sud-occidentale giunsero nell'Europa centrale ed elementi settentrionali di origine siberiana migrarono nel sud dell'Europa. Presentemente nessuna scimmia vive in Europa, poiché la presenza della bertuccia (Macacus inuus) a Gibilterra pare sia dovuta all'opera dell'uomo e la specie vi si sia poi rinselvatichita. I Chirotteri sono rappresentati da buon numero di specie (ferro di cavallo, orecchione, nottola comune e nottola nordica, barbastello ecc.). Il riccio è il tipico rappresentante degl'Insettivori, inoltre la talpa (T. europaea) diffusa in tutta Europa, ma che manca in Irlanda, la talpa cieca (T. coeca) dell'Europa meridionale, le miogali, insettivori nuotatori dei Pirenei e della Russia meridionale; molti Rosicanti tra i quali varie specie di topi, scoiattoli, ghiri, il castoro la cui distribuzione è ora limitatissima. Tra i Carnivori il gatto selvatico, la lince, il lupo, lo sciacallo, la volpe, l'orso bruno assai raro; il tasso che vive in tutta Europa e manca in Sardegna, varie martore tra le quali la martora vera, la puzzola, la faina, l'ermellino, la donnola, la lontra comune alla quale si dà caccia attiva per la sua pelliccia e per i danni che apporta alla piscicoltura.

Tra gli Artiodattili, i Ruminanti sono rappresentati dal cervo, dal capriolo, dal daino, dall'alce che, una volta diffusa nella maggior parte d'Europa, ora è confinata nelle regioni settentrionali. Il bisonte anche un tempo diffuso in tutta l'Europa centrale è ora limitato in alcuni punti della Polonia e del Caucaso. Tra i Suidi il cinghiale, unico rappresentante del gruppo in Europa. Numerosi gli Uccelli, noti per le loro migrazioni, dei quali molte specie sono comuni alla Siberia. Fra i Trampolieri la beccaccia, la gru, il beccaccino, delle regioni settentrionali, la pavoncella, la folaga ovunque diffusa, la cicogna, varie specie di aironi. Molti Gallinacei: starna, quaglia, gallo cedrone, fagiano di monte, ecc., Gran numero di Rapaci, molte specie di Picchi, una grande schiera di Passeracei, minor numero di Palmipedi, ecc. Tra i Rettili figurano molte specie di Sauri (lucertole, orbettino, gongilo, fillodattilo, emidattilo, ecc.) di Ofidi (marasso palustre, vipera genuina, coronella, biscia d'acqua, cervone, saettone, serpe lacertina delle regioni meridionali) e di testuggini (palustre, comune). Gli Anfibî sono rappresentati da molte specie di Anuri, rane, rospi, raganella e di Urodeli quali il tritone crestato, l'alpestre, il tritone comune, varie salamandre e il proteo delle grotte dell'Istria e della Carniola.

Le acque interne sono popolate da gran numero di pesci tra i quali vanno notati il pesce persico, la carpa, il barbo, la tinca, la trota, varie specie di coregoni, le anguille dalla interessante biologia, lo storione e fra i Ciclostomi le lamprede.

Lungo sarebbe esporre le nume10se forme di Artropodi che popolano l'Europa. Fra gl'insetti i carabidi predominano per numero di specie fra i Coleotteri, che comprendono moltissime specie di Buprestidi, Lamellicorni, Longicorni, Crisomelidi, ecc. Ben rappresentati gli altri ordini d'insetti con molte specie di Lepidotteri, Rincoti, Libellule, Ortotteri, ecc. Tra i Miriapodi: litobi, scolopendre, iuli; e fra gli Aracnidi: scorpioni, molti ragni, acari ecc.

La malacofauna comprende molte specie di chiocciole e altri polmonati e di bivalvi che popolano le acque dolci.

Particolare carattere assume la fauna alpina con molte specie ad essa proprie, viventi nelle Alpi e nelle catene montuose che si estendono fino al Mar Nero. Questa fauna ha uno speciale carattere poiché mentre le condizioni ambientali delle falde di tali monti sono quelle delle regioni onde essi sorgono, quelle delle alte zone sono condizioni ambientali simili a quelle dell'Europa settentrionale e della Siberia. Sicché le specie alpine pur non essendo identiche a quelle nordiche sono a esse molto simili, infatti sembra probabile che la fauna alpina e quella nord europea e siberiana abbiano avuto una comune origine. Tra le forme caratteristiche di tale fauna citeremo la chiocciola dei ghiacci, la trota di montagna, varî mammiferi tra i quali il toporagno alpino, l'arvicola delle nevi, il camoscio, lo stambecco, la marmotta.

Divisione dell'Europa in regioni naturali. - La questione della divisione dell'Europa in regioni naturali - ardua già per il fatto che, come si è visto, l'individualità dell'Europa come insieme riposa essa stessa, più che su basi naturali, su basi antropiche e storiche - dipende dal significato stesso che si attribuisce all'espressione regione naturale (v. anche geografia). Se con essa si vuole intendere un ter ritorio individuato da un complesso di caratteri, sia orografico-morfologici, sia climatici, sia di vegetazione, la distinzione delle regioni naturali dovrebbe risultare da una sovrapposizione o combinazione della divisione in zone tettonicomorfologiche, di quella in varî tipi di clima, di quella in zone di vegetazione, ecc. L' elemento morfologico da solo non è sufficiente; è perciò errato fare una sola regione dell'Europa orientale, mettendo poi accanto a essa le altre sette o otto regioni nelle quali viene diviso il resto dell'Europa; con che si vengono anche a mettere sullo stesso piano territorî di diversissima area, poiché, come si è già detto, l'Europa orientale, come regione morfologica, abbraccia da sola poco meno della metà dell'area dell'intera Europa. Ma, se per i suoi caratteri uniformi l'Europa orientale mal si presta a un'ulteriore suddivisione basata su criterî morfologici, soccorrono qui le differenze di clima e di vegetazione, che permettono di distinguere in quella almeno cinque regioni naturali, distinzione che è del resto da tempo introdotta dai geografi russi. Altre tre regioni si possono distinguere nella Fennoscandia. Come regioni a sé, s'individuano poi molto bene, per la loro stessa assai evidente confinazione, le Isole Britanniche da un lato, le tre penisole mediterranee dall'altro, e anche, per quanto con delimitazione meno netta, la Francia. Ciò che rimane - l'Europa centrale in senso lato - è suscettibile di una suddivisione più artificiale, sia per la varietà dei caratteri morfologici, sia per il trapasso graduale nei lineamenti del clima e della vegetazione: si possono forse distinguere in essa due regioni, e un certo numero di sottoregioni. Si arriva perciò, in conclusione, a distinguere nell'Europa una quindicina di regioni naturali, che sono qui di seguito indicate: 1° la Russia artica; 2° la Russia baltica; 3° la Russia centrale; 4° la regione dell'Ural; 5° la regione steppica della Russia meridionale; 6° la regione finno-carelica (con la Penisola di Kola); 7° la regione delle alteterre norvegesi; 8° la regione svedese; go le Isole Britanniche; 10° la Francia; 11° la regione germanica (con almeno 3 sottoregioni: la marginale baltica, la regione a pianure della Germania settentrionale; la regione delle montagne medie e degli altipiani prealpini); 12° la regione centro-orientale (con 4 sottoregioni: la piattaforma polacca, la regione carpatica, il bassopiano pannonico, e la regione moldavo-valacca); 13° l'Iberia; 14° l'Italia; 15° la Balcania. A queste potrebbe aggiungersi come 16ª l'Islanda. I confini fra le varie regioni mal si possono indicare con linee, perché tra l'una e l'altra esistono zone di transizione; essi sono, a ogni modo, approssimativamente indicati nella cartina qui sopra. Per la designazione dei nomi di queste regioni non esiste un accordo; e la partizione stessa, che abbiamo indicata, può essere soggetta a discussioni, specie per quanto concerne l'Europa centrale.

Antropologia. - Gli sforzi del secolo passato per la ricerca dei rapporti raziali dell'Europa furono coronati dall'affermazione di due sintesi le quali tuttavia parvero trovarsi tra loro in opposizione così forte da giustificare la sfiducia sui risultati ottenuti nel campo della sistematica antropologica. Da un lato era l'opinione, difesa nel 1900 da W. Z. Ripley, che rappresentava il risultato di un rimaneggiamento quanto mai diligente di tutta la letteratura antropologica. Suo contrapposto era il concetto di J. Deniker, che si basava su un'estesissima rappresentazione cartografica di parecchi caratteri antropologici e costituiva la prima trattazione induttiva di grande stile del problema della sistematica antropologica.

W. Z. Ripley aderì al concetto molto diffuso nei circoli di studî antropologici, che cioè la popolazione europea rappresenti il risultato della convivenza di tre differenti razze: la teutonica, indicata dal Deniker come nordica; la alpina, classificata dal Deniker con il nome di occidentale e dal Pruner-Bey con il nome di lapponoidea; infine la mediterranea, che si deve identificare con la ibero-insulare del Deniker. Questa opinione, patrocinata dalla maggioranza dei morfologi eminenti, si basa sulla contemporanea considerazione dell'indice cefalico che da Anders Retzius in poi ha formato il centro dell'interesse generale, e della pigmentazione cui annetteva grande importanza già Paul Broca, che si può ritenere il vero fondatore della dottrina delle tre razze. Mentre il Retzius riteneva d'importanza massima il confronto fra dolicocefali e brachicefali, il punto di partenza del Broca era formato dal noto passo del De bello gallico in cui Giulio Cesare parla della tripartizione della Gallia. Il fatto che per la dottrina delle tre razze siano stati decisivi l'indice cefalico e la pigmentazione risulta dal seguente elenco combinato: 1. Razza teutonica: dolicocefalica e chiara; 2. Razza alpina: brachicefalica e scura: 3. Razza mediterranea: dolicocefalica e scura.

Il fatto però che la combinazione "brachicefalica e chiara" non fu presa in considerazione dimostra che per questa sintesi è stato decisivo il punto di vista morfologico e non lo schematismo combinatorio. Il Deniker, considerando una rilevante quantità di caratteri, pervenne alla distinzione di sei razze primarie e quattro secondarie; egli pubblicò inoltre (1898) la prima carta antropologica sintetica, nella quale sono resi visibili i territori di queste razze. La parte più essenziale della sintesi denikeriana trova espressione nella seguente sua tabella sinottica:

Abbiamo qui un tentativo di adattare il concetto sistematico, anche nel particolare, ai dati di fatto raccolti nelle estese rappresentazioni cartografiche. Finora ci si accontentava di generalizzazioni molto estensive e si scusava la diversità di opinioni riscontrata negli studî particolareggiati con la frase sacramentale che la popolazione è presentemente già molto mescolata e incrociata. La distinzione introdotta dal Deniker fra razze primarie e secondarie è un tentativo di metter in conto anche questi momenti di complicazione.

È d'uopo rilevare che dobbiamo queste due sintesi principali del secolo scorso alle ricerche fatte sui viventi, come è dimostrato dal fatto che in entrambi ha così grande importanza la pigmentazione. La ricerca craniologica, che aveva senza dubbio occupato maggiormente gli antropologi nella seconda metà del sec. XIX, portò una grande disillusione. Essa infatti non fu capace di risolvere il problema della determinazione sistematica in maniera soddisfacente, mentre ciò formava il suo compito principale. Solo con una buona determinazione sistematica del materiale trovato, era possibile un'utile collaborazione dell'antropologia con la preistoria. Il risultato complessivo dei molti decennî di faticoso lavoro era tuttavia così poco consolante che, in conclusione, non si aveva alcun concetto chiaro del vero aspetto dei cranî delle razze, che erano tema di tanta speculazione nel campo storico e preistorico. E ciò frustrava tutti i tentativi di rendersi conto delle modificazioni della popolazione europea nel corso dei tempi. Si giunse soltanto alla conoscenza che l'Europa era stata abitata nel più antico Paleolitico da una razza del tutto speciale, che si era indicata da principio come razza di Cannstatt e successivamente di Neanderthal. Minor fortuna si ebbe nello studio della razza di Cro-Magnon del più recente Paleolitico, che è apparsa come un complesso eterogeneo. Il cattivo esito degli studî nel campo della craniologia delle epoche posteriori si scusò con il fatto della forte mescolanza e del molto avanzato incrocio della popolazione. Considerato il carattere sopraccennato del patrimonio con cui l'antropologia è entrata nel sec. XX, dovevano diventare compiti principali: in prima linea la soluzione della contraddizione fra le due sintesi del Deniker e del Ripley, in secondo luogo la coordinazione della craniologia con le ricerche sui viventi.

Elementi raziali e forme miste. - Da quale parte siano da ricercare le ragioni delle divergenze nelle due principali sintesi del secolo scorso, fu già indicato dal Deniker con la distinzione di razze primarie e secondarie. Si deve tuttavia fare i conti anche con la possibilità che il Deniker non avesse in tutti i casi felicemente separati, nelle analisi dei componenti morfologici, gli elementi raziali dalle loro forme miste (razze secondarie). In tale riguardo non si deve dimenticare che da quattro elementi raziali si hanno (per combinazione di due a due) sei forme miste. Ne risultano quindi 10 tipi antropologici, un numero che corrisponde perfettamente ai componenti sceverati dal Deniker. Si è dunque costretti a formulare il quesito, se le divergenze delle due sintesi non vengano originate dal fatto che il concetto dei vecchi morfologi, sostenuto dal Ripley, si basava solo sugli elementi raziali, mentre dal Deniker venivano prese in considerazione anche le forme miste: L'ammissibilità della sopraddetta interpretazione dipende in prima linea dalla possibilità di dimostrare che nella sintesi del Ripley fu trascurato un elemento raziale, mentre dal Deniker il numero delle razze primarie fu aumentato a spese delle secondarie.

L'opinione che in Europa si abbia da fare soltanto con un elemento raziale brachicefalo la dobbiamo alla circostanza che nei primi tentativi sintetici fu assegnato significato principale alla pigmentazione accanto all'indice cefalico. Già la semplice osservazione più minuziosa della forma cranica, indusse C. Toldt (1910) alla distinzione di forme planoccipitali e curvoccipitali nei brachicefali dei paesi alpini. Questa ricerca fu degno completamento ai risultati di V. Giuffrida-Ruggeri (1908), che rivolse la sua attenzione sullo scheletro facciale e mise in relazione i brachicefali a orbite alte con l'Asia anteriore. Per questa via si giunse finalmente alla conoscenza del fatto che in Europa si devono prendere in considerazione due diversi elementi brachicefali che, pur avendo indici cefalici identici e pigmentazione scura, si differenziano in massima, in quanto a scheletro facciale. E questi erano gli elementi raziali lapponoideo e armenoideo; si venne dunque a quattro elementi raziali. Così si eliminò la difficoltà (sussistente da parte della dottrina delle tre razze) di mettere in consonanza le due sintesi.

Che in Europa si debba contare su quattro elementi raziali e sulle loro sei forme miste di prim'ordine, fu dimostrato dalla scoperta della legge della frequenza dei tipi (j. Czekanowski, 1928). Si è dimostrato che, in base alla determinazione sistematica del materiale antropologico di osservazione, le quantità dei rappresentanti dei diversi tipi antropologici corrispondono all'aspettazione matematica, la quale si basa sull'ipotesi che si ha a fare con una popolazione composta di quattro elementi raziali, popolazione nella quale le forme miste di prim'ordine nell'incrocio si comportano mendelianamente. Nel campo della morfologia si generalizzò dunque la stessa regolarità che F. Bernstein (1924) statuì per i gruppi sanguigni.

Sulla via dell'analisi quantitativa si giunse a stabilire che sono da ritenere elementi raziali la componente nordica (α), la mediterranea (ε), l'armenoidea (χ) e la lapponoidea (λ), mentre le altre devono essere interpretate come forme miste. La componente mediterranea è da identificare con la ibero-insulare e la lapponoidea con la razza principale occidentale del Deniker. Fu possibile inoltre dimostrare che la "razza nord-occidentale" (di Deniker) è da riguardare come forma mista dell'elemento nordico e mediterraneo, la "razza atlantico-mediterranea" (di Deniker) rappresenta la forma mista dell'elemento armenoideo e mediterraneo; in guisa analoga la "razza dinarica" e la "razza secondaria sub-adriatica", dall'autore di questo articolo definita come tipo alpino, sono da interpretare quali altre due forme miste dell'elemento raziale armenoideo e cioè per incrocio con il nordico e con il lapponoideo rispettivamente; inoltre la "razza secondaria sub-nordica" è da considerare come la forma mista dell'elemento lapponoideo e nordico, mentre la "razza orientale" può venire interpretata come forma mista dell'elemento lapponoideo e mediterraneo. La relazione reciproca degli elementi raziali e rispettive forme miste viene dimostrata dall'annesso diagramma, nel quale gli elementi raziali sono rappresentati dai quattro angoli di un quadrato e le forme miste dalle sei linee con le quali si possono congiungere i quattro punti angolari del quadrato. Tale identificazione delle componenti del Deniker ebbe riguardo anzitutto del fatto che quest'investigatore non previde l'apparizione dell'elemento armenoideo in Europa, allo stato puro. Per conseguenza egli non considerò che le sue forme miste. Inoltre l'autore dell'articolo ammise dapprima che la "razza secondaria vistoliana" doveva la sua distinzione alle manchevolezze del materiale disponibile. Soltanto successivamente è risultato che anche nella determinazione in base a calcolo del materiale antropologico viene confusa la forma mista mediterraneo-lapponoidea con il tipo paleoasiatico e forse anche con la forma mista asiatica dell'elememo nordico. Questo fatto rappresenterebbe certo il motivo della distinzione della "razza secondaria vistoliana" e della pigmentazione presumibilmente chiara della "razza orientale" e della sua razza secondaria.

L'analisi quantitativa delle relazioni fra le componenti sceverate dal Deniker ci porta alla conclusione che le due sintesi, in apparenza contrastanti, non rappresentano altro che formulazioni differenti dello stesso risultato.

La legge di frequenza dei tipi. - La prova che il lavoro di ricerca del sec. XIX nel campo dell'antropologia dell'Europa ha raggiunto un risultato positivo si basa sull'affermazione delle seguenti leggi: Se si considera una popolazione nella quale si incrociarono l'elemento nordico (α) nella quantità a, il mediterraneo (ε) nella quantità e, l'armenoideo (χ) nella quantità h e il lapponoideo (λ) nella quantità l, sicché la somma degli elementi venga data dall'equazione: a + e + h + l = 1, le frequenze dei componenti della popolazione incrociata vengono rappresentate dai termini del quadrato della nostra equazione. La popolazione incrociata ha dungue la seguente composizione:

a2; e2, h2, l2, sono le frequenze degli elementi raziali dopo l'incrocio e gli altri termini le frequenze delle corrispondenti forme miste. Tale risultato esige la premessa che il processo d'incrocio non venga influenzato dalla selezione e che le forme miste di primo grado nell'incrocio si comportino mendelianamente. Se si giunge per mezzo della determinazione sistematica all'accertamento della frequenza d'un numero sufficiente di componenti d'una popolazione incrociata e se risulta che la somma delle frequenze degli elementi calcolata su questa base s'avvicina sufficientemente a 1,000, abbiamo la prova che i dati di fatto non contraddicono le nostre ipotesi. Quanto più grande la cifra delle componenti dissociate, quanto più grande la concordanza delle frequenze supposte e determinate, tanto maggiore la sicurezza del nostro risultato. L'esecuzione dell'analisi d'una popolazione con l'aiuto della legge di frequenza dei tipi viene dimostrata da due esempî. Il primo è rappresentato dai 452 cranî (classificati da M. Gryglaszewska (1929) con il metodo della somiglianza) scavati dagli ossarî del cantone Vallese e riuniti in una pubblicazione da E. Pittard (1909-10); il secondo esempio riguarda l'apprezzamento dato da L. Bartucz (1927) della composizione antropologica della popolazione ungherese. Per il materiale cranico del Vallese si può costruire la seguente tabella:

Le frequenze determinate delle componenti sceverate furono qui unite con quelle teoricamente attese. Queste ultime furono calcolate in fase alla composizione della popolazione ottenuta nel modo seguente: se si ammette che nei primi tre gruppi della tabella furono tratti fuori gli elementi nordico, lapponoideo e armenoideo, mentre nel quarto gruppo è riunito il mediterraneo con le sue due forme miste, nord-occidentale e litorale, ci risultano quattro equazioni delle quali si possono calcolare le quantità degli elementi raziali della popolazione. E cioè:

Il fatto che le quantità degli elementi dànno una somma che s'avvicina moltissimo al valore teorico 1,000 e che le frequenze calcolate delle componenti dinarico-alpina e subnordico-preslavica si differenziano solo di poco dalle frequenze determinate, dimostra che le nostre ipotesi e i nostri risultati di calcolo corrispondono bene ai dati di fatto dell'osservazione. Si può quindi analizzare la composizione tlelle popolazioni e controllare le componenti sceverate.

Per l'apprezzamento della composizione antropologica della popolazione ungherese eseguito da L. Bartucz, puo essere data la seguente tabella delle frequenze determinate e teoriche:

L'analisi della popolazione fu eseguita supponendo che Homo nordicus corrisponda all'elemento raziale nordico e Hom0 alpinus insieme con la "razza mongola" al lapponoideo, mentre Homo dinaricus corrisponde alla forma mista armenoidea-lapponoidea e Homo balticus comprende le forme miste nordoccidentale, subnordica e preslavica.

Possiamo quindi fare il seguente calcolo:

La corrispondenza di questa somma con il valore teorico 1,000 e inoltre quella delle frequenze di Homo mediterraneus, di Homo caucasicus e del tipo di Rjasan è singolare. Essa permette d'identificare Homo mediterraneus con l'elemento raziale mediterraneo, il tipo di Rjasan con la "razza litorale" del Deniker e d'interpretare Homo caucasicus come il complesso dell'elemento raziale armenoideo e della sua forma mista nordica.

Il resultato più importante raggiunto è costituito dalla constatazione che la composizione di una popolazione può essere stabilita da un buon morfologo direttamente. con la stessa esattezza con cui è ottenuta dietro una penosa operazione di calcolo. La regolarità nella relazione quantitativa delle componenti che chiamiamo legge di frequenza dei tipi, permette di controllare gli apprezzamenti e determinazioni empiriche e di analizzare la composizione della popolazione.

Il problema della sinonimia. - La causa delle massime confusioni nell'antropologia consiste nella circostanza che gli stessi termini sistematici non sempre hanno lo stesso significato. S'incontra questa difficoltà non solo nell'uso del lavoro dei varî autori, ma anche nel raffronto dei varî lavori del medesimo autore. Soltanto con la scoperta della legge di frequenza dei tipi è stato reso possibile un accertamento preciso del senso sistematico delle componenti morfologiche prescelte.

Quanto grandi sieno le difficoltà nell'identificazione delle componenti sceverate, dimostra particolarmente il fatto che lo scrivente stesso, partendo dalla premessa che nei Carpazî orientali è rappresentato in maniera preminente il tipo dinarico, identificava in un primo tempo, come il Bartucz, questo tipo con la forma mista armenoidea-lapponoidea. Solo più tardi è risultato, come si debba identificare il tipo dinarico con l'armenoideo-nordico e il tipo alpino con la forma mista armenoidea-lapponoidea. Complicazioni ancor maggiori per lettori non prevenuti doveva produrre la circostanza che H. F. K. Günther ha sceverato, oltre le sue iniziali cinque razze europee, ancora una razza falisca e una sudetica.

Il fatto che le componenti sceverate dal Bartucz bastino alla frequenza dei tipi, dimostra che l'ottenuta dirisione morfnlogica possiede una base obiettiva morfologica più profonda. Altro argomento in favore è il fatto che le razze dapprima sceverate dal Günther in base alle impressioni morfologiche corrispondono alle componenti sceverate dalla Gryglaszewska per via di calcolo. A questa circostanza dobbiamo la possibilità di comprendere la reciproca relazione dei termini sistematici, più usati al presente, come si vede dalla seguente tabella:

Il parallelismo dei termini sistematici qui risultante è giusto solamente se si premette l'esattezza delle leggi di G. I. Mendel riguardo ai tipi antropologici e che i buoni morfologi arrivano a risultati obiettivamente fondati in base alle loro osservazioni. Purtroppo è esiguo finora il numero delle analisi antropologiche, e sono distribute, sotto il rispetto geografico, molto irregolarmente. Una grande complicazione è data inoltre dall'apparizione di componenti asiatiche nell'Europa orientale e dalla comparsa del tipo orientale caratteristico per Camiti e Semiti nella parte occidentale della regione mediterranea.

Tipi antropologici. - I lavori dedicati alla determinazione sistematica del materiale antropologico d'osservazione permettono già una descrizione esattissima delle componenti della popolazione europea. Tuttavia i gruppi sceverati nelle popolazioni incrociate sono sempre spostati nella direzione della loro media generale, perché il comportamento mendeliano nell'incrocio delle forme miste non risulta completo. Le antitesi morfologiche dei singoli tipi, le quali sono qui in questione, sono così grandi che l'identificazione sistematica dei gruppi sceverati non presenta difficoltà speciali. Con riguardo a questo fatto i tipi antropologici che compaiono in Europa vengono qui caratterizzati soltanto nei loro tratti principali. Cominciamo cosi la descrizione dei quattro elementi raziali.

L'elemento raziale nordico (α) è caratterizzato da statura alta, corpo slanciato, estremità lunghe, tronco breve, mani e piedi stretti, pelle bianco-rosea, capelli ondulati biondo-cinerei, occhi azzurri, faccia stretta, allungata, naso diritto talvolta curvo, cranio allungato, nella norma verticalis ovoide, occhiaie grandi e rotonde, mascella inferiore alta. Il tipo nordico è l'unico elemento raziale di pigmentazione chiara.

Il tipo raziale mediterraneo (ε) è caratterizzato da statura piuttosto bassa, complessione gracile, con anche relativamente larghe, estremità superiori relativamente corte, coscia breve in confronto alla gamba, tronco relativamente lungo, piedi stretti, ma in contrapposto al tipo nordico a volta alta, pelle piuttosto scura, capelli ondulati neri con riflessi bruni, occhi neri o bruno-scuri, faccia allungata con ovale regolare, naso stretto, cranio molto stretto, nella norma verticalis ellittico, con occhiaie basse, mascella inferiore alta e gracile.

L'elemento raziale armenoideo (χ) è caratterizzato da statura molto alta, tronco lungo, gamba sproporzionatamente corta in relazione alla coscia, torace arcuato, pelle spessa, bianca, fortemente abbronzata, capelli grossi, ondulati, neri con riflessi bluastri, occhi scuri, naso molto prominente, carnoso, molto arcuato, faccia lunga triangolare, cranio corto, alto, planoccipitale, nella norma verticalis sfenoide, con grandi occhiaie rotonde, mascella inferiore bassa.

L'elemento raziale lapponoideo (λ) è caratterizzato da bassa statura, tronco lungo, estremità brevi e muscolose, mani e piedi piccoli e larghi, pelle giallo-brunastra, occhi scuri, capelli diritti neri, naso breve, piatto, faccia piccola e larga con zigomi sporgenti, cranio molto breve, curvoccipitale, nella norma verticalis sfenoide, occhiaie piccole e basse, mascella inferiore larga e bassa.

Le sei forme miste bianche di questi quattro elementi raziali possono venire caratterizzate nella maniera seguente:

Il tipo nordoccidentale (ι) è una forma mista dell'elemento raziale nordico e mediterraneo. Questa componente della popolazione europea, studiata finora meno di tutte, è caratterizzata da statura alta, complessione robusta, tronco allungato, estremità relativamente brevi, pelle chiara, coperta spesso da efelidi, capelli rossicci, occhi grigi o verdicci spesso con macchie brune, faccia lunga e larga, naso stretto e diritto, cranio lungo e stretto con occhiaie basse quadrate, mascella inferiore, forte, a mento prominente.

Il tipo dinarico (δ) è una forma mista dell'elemento raziale nordico e armenoideo. Tutto il suo habitus avvicina questo tipo in maniera particolare alla sua componente armenoidea, con la quale viene spesso confuso. È caratterizzato da statura molto alta, complessione svelta, torace ampio, tronco di lunghezza media, estremità lunghe, mani e piedi grandi e larghi, pelle bianca bruniccia, capelli scuri, occhi bruni verdini o persino azzurri, faccia molto lunga e larga, restringentesi in basso, naso stretto, prominente e convesso, cranio largo, planoccipitale, occhiaie a media altezza, mascella inferiore piccola, bassa e stretta.

Il tipo subnordico (γ) è una forma mista dell'elemento raziale nordico e lapponoideo. In questa forma mista sta in primo piano la sua componente nordica. È caratterizzato da statura molto alta, complessione robusta, tronco molto lungo, estremità superiori relativamente corte, pelle chiara, capelli biondo-scuri, occhi azzurro-verdicci, faccia molto larga, naso di larghezza media, cranio molto largo, romboide, occhiaie rotonde e alte, mascella inferiore molto bassa e larga con angoli spesso assai prominenti, che non di rado conferiscono alla faccia dei contorni angolosi.

Il tipo litorale (ρ) è una forma mista dell'elemento raziale mediterraneo e armenoideo, in cui sta in primo piano la componente mediterranea. I suoi segni caratteristici sono: statura molto alta, complessione robusta, tronco lungo, estremità corte, mani e piedi lunghi, pelle bruniccia, occhi e capelli scuri, faccia molto larga, naso carnoso di media larghezza, cranio lungo con occhiaie basse e mascella inferiore alta e grande.

Il tipo preslavico (β) è una forma mista dell'elemento raziale mediterraneo e lapponoideo, in cui la componente lapponoidea sta in primo piano. Segni caratteristici: statura bassa, complessione tozza, tronco lungo, estremità corte, pelle giallo-bruna, capelli castani, occhi castani, faccia bassa e molto larga, naso piccolo, molto largo, concavo, cranio allungato, ma anche molto largo, con occhiaie basse, mascella inferiore alta e larga.

Il tipo alpino (ω) è una forma mista dell'elemento armenoideo e lapponoideo. Segni caratteristici: statura molto bassa, corporatura pesante, tronco lungo, estremità molto corte, mani e piedi piccoli e larghi, pelle bianca, capelli castani, occhi scuri, faccia ovale, naso stretto, cranio corto e largo con occhiaie di media larghezza, mascella inferiore bassa e relativamente larga.

La trattazione delle componenti extra-europee deve fare qui astrazione dalla distinzione fra elementi raziali e forme miste, giacché le reciproche relazioni dei singoli tipi non sono ancora chiarite. Bisogna accontentarsi della descrizione morfologica esteriore.

Il tipo orientale (κ) è caratterizzato da statura media, complessione svelta, tronco breve, estremità lunghe e magre, mani e piedi stretti, pelle bruniccia, capelli neri e ricciuti, occhi molto scuri a forma di mandorla, faccia molto stretta, naso stretto e diritto, cranio allungato, occhiaie molto alte, mascella inferiore gracile.

Il tipo paleoasiatico (π) è caratterizzato da statura bassa, complessione tozza, tronco lungo, estremità superiori lunghe, inferiori corte, mani e piedi grandi e larghi, pelle giallo-bruniccia, capelli castani, occhi scuri, faccia lunga e molto larga, naso grande e molto largo, cranio lungo, occhiaie basse, mascella inferiore massiccia e larga.

Il tipo centroasiatico (τ) è presumibilmente una forma mista dell'elemento raziale lapponoideo. Le sue caratteristiche sono: occhi decisamente obliqui e ad apertura stretta, capelli tesi e scuri, cranio basso con occhiaie grandi rotonde. Negli altri contrassegni si ha una sorprendente corrispondenza con l'elemento raziale lapponoideo.

Il tipo pacifico (ζ) è caratterizzato da statura alta, complessione slanciata, mani e piedi stretti, pelle di color giallo citrino, capelli tesi e neri, occhi scuri, faccia stretta e lunga, naso stretto spesso convesso, cranio allungato con occhiaie grandi e rotonde, mascella inferiore stretta.

Distribuzione territoriale. - Per dare uno sguardo alla struttura antropologica della popolazione dell'Europa, parleremo brevemente qui da prima della distribuzione geografica dei suoi componenti in base alla carta schematica. Si presero in considerazione i quattro elementi raziali: il nordico, il mediterraneo, l'armenoideo e il lapponoideo; inoltre tre tipi asiatici: il paleoasiatico, il pacifico e il centroasiatico; infine il tipo orientale. Però nella carta sono segnati nell'identica maniera l'elemento raziale lapponoideo e il tipo centroasiatico a motivo delle difficoltà di distinguere l'uno dall'altro. Siccome non è ancora chiarito il rapporto sistematico fra i componenti europei ed extraeuropei, nella costruzione della carta non poteva essere seguito conseguentemente un principio unitario. Per la popolazione europea, a scopo di maggior chiarezza, ci dovemmo limitare agli elementi raziali, mentre per gli altri componenti furono presi in considerazione i tipi. Se questi tipi abbiano lo stesso valore degli elementi raziali è molto dubbio, però. Inoltre è necessario contare con la possibilità che in queste parti d'Europa, dove viene separato, quale unica componente asiatica, il tipo paleoasiatico, venga messo insieme con questo anche un certo numero di forme miste asiatico-europee. I territorî delle maggioranze assolute di una data forma sono indicati con tratteggio spesso, quelli delle maggioranze relative rispettivamente di due componenti equipollenti con tratteggio intermedio e le minoranze forti con tratteggio largo. Il concentrare la nostra attenzione sugli elementi raziali e non sulle loro forme miste portò di conseguenza l'ingrandimento delle zone di maggioranza assoluta. Risulta qui il fatto, bene assodato, che la popolazìone europea è fortemente mescolata. I territorî più uniformi sono posti alla periferia, mentre il centro è molto eterogeneo. La zona territorialmente più estesa è occupata dall'elemento raziale specificamente europeo, cioè dal tipo nordico.

L'elemento raziale nordico (α) è concentrato particolarmente nei paesi che circondano il Mar Baltico e il Mare del Nord. Il presente aspetto di questo territorio è in relazione precisa con i movimenti migratorî dai quali furono accompagnate almeno le ultime espansioni delle lingue indoeuropee. Correlativo con i Germani è anzitutto il territorio continentale fra il Reno inferiore e la foce dell'Oder e poi la vicina Scandinavia. La sua zona di espansione comprende le coste finniche con il loro retroterra e il territorio tra il golfo finnico e la Daugava (Dvina Occidentale) inferiore. Lì i Germani raggiunsero la zona dell'espansione più antica delle stirpi baltiche che penetrarono da SO. I Germani del tempo della trasmigrazione dei popoli hanno invece lasciato apparentemente soltanto piccole tracce, se si eccettuano le classi sociali più alte. I territorî nordici a occidente del Reno e quelli delle Isole Britanniche si sono formati senza dubbio in concordanza con l'espansione celtica. I territorî nordici a oriente dell'Oder fino alla Daugava e al bacino superiore del Dnepr e più oltre ancora, corrispondono all'espansione delle stirpi baltico-slave. Bisogna nello stesso tempo distinguere la fase baltica più antica e quella sostanzialmente più recente slava. A tempi più recenti vanno assegnati i movimenti degli Slavi orientali, i quali, procedendo apparentemente dal centro nordico in Volinia, si sono estesi per vasti tratti e hanno formato non solamente nel bacino del Mar Bianco, ma anche fino all'Oceano Pacifico dei territorî chiusi staccati di popolazione prevalentemente nordica. Nei bacini della Daugava e del Dnepr s'incrociarono le onde di espansione dei Baltici, dei Germani e degli Slavi. Non può essere deciso per il momento, se più oltre nel sud, specie nel territorio delle steppe, sia rimasto un sedimento nordico delle più antiche espansioni indoeuropee. Non si deve trascurare il fatto che sul materiale cranico scita scavato dai Curgani predomina l'elemento nordico, mentre nelle tombe preslaviche meno antiche prevale l'elemento mediterraneo. Notevole la circostanza che gli Sciti, prima della loro apparizione in Europa, si trattennero a lungo in Asia. Si potrebbe presumere che anche l'espansione indo-iranica abbia avuto in origine un carattere antropologico nordico. È dubbio invece se si possa mettere in relazione il grande numero dei biondi nella valle del Vardar e nella Macedonia meridionale con l'immigrazione ellenica; la stessa strada è stata percorsa anche più tardi dai popoli provenienti dal nord, in primo luogo dagli Slavi.

L'elemento raziale mediterraneo (ε) è concentrato specialmente nei paesi che circondano il Mediterraneo e nelle sue isole. La sua partecipazione alla popolazione complessiva è molto più forte in Occidente che in Oriente, donde fu respinto in parte dalle successive espansioni asiatiche. Ciò calza particolarmente per l'Egitto dove l'epoca predinastica ebbe una popolazione prevalentemente mediterranea, mentre nel più tardo Egitto dinastico ebbe predominio il tipo orientale caratteristico ai Camiti e Semiti. L'elemento mediterraneo forma inoltre un'importante componente della popolazione costiera atlantica, fino addentro alla Scandinavia: ma qui è retrocesso molto fortemente dall'epoca del ferro in poi. Le coste occidentali delle Isole Britanniche formano tuttavia anche ora la zona di prevalenza della componente anzidetta. Le regioni delle steppe nell'Europa orientale, fino al limite boschivo nel Nord, sembrano aver appartenuto identicamente, in origine, alla zona dell'elemento mediterraneo. Le regioni boscose furono abitate per contro da popolazioni finniche, le quali, in riguardo antropologico, avevano già decise affinità con l'Asia gialla. Le invasioni dei popoli nomadi che si sono riversate negli ultimi due millennî sopra il territorio mediterraneo a nord del Mar Nero, dovettero lasciar dietro a sé un sedimento asiatico; a occidente del Don esso è però del tutto insignificante. Mutamenti molto maggiori furono causati invece dalla colonizzazione slava che si sviluppò in direzione sudorientale. Una conseguenza di ciò è il fatto che l'originario carattere mediterraneo della regione si è conservato molto meglio in Oriente, nel bacino del Don e nel sud, nella zona costiera del Mar Nero. Si tratta qui dunque di territorî nei quali gli Slavi non giunsero in grandi masse e si limitarono principalmente all'assimilazione linguistica e culturale della popolazione autoctona. La zona mediterranea del territorio della Russia meridionale fu designata da E. M. Čepurkovskij quale territorio del tipo Rjasan. Questi sono i discendenti della popolazione protostorica dei Curgani, così designata per il fatto che essa seppelliva i proprî morti nei tumuli (kurgan) così caratteristici per il territorio delle steppe. Nel SO. questo territorio mediterraneo dell'Europa orientale si congiunge con quello della Regione Balcanica, il quale comprende tutta la metà orientale della penisola, e precisamente la massima parte della Romania inclusa la Bessarabia, la Bulgaria, il litorale della Grecia, e, fino all'espansione slava, la zona costiera adriatica. Nella penisola appenninica riscontriamo la massima concentrazione dell'elemento mediterraneo nella metà meridionale del paese e più a nord sulla costa occidentale e sul litorale ligure. Nelle parti del territorio mediterraneo, in tempi preistorici e storici esposte alle espansioni camitiche e semitiche, compare il tipo orientale, tanto caratteristico per i popoli di queste famiglie linguistiche. Prescindendo da Malta, dove sembra predominare, è rappresentato specie nella parte sud-occidentale della penisola pirenaica; esso fu accertato in numero esiguo in Sicilia. Senza confronto più numeroso sembra riscontrarsi fra gli Ebrei sparsi per tutta l'Europa. La parte del territorio europeo circoscritto dai territorî nordico e mediterraneo forma la zona della popolazione più mista. Si tratta qui di territorî che partecipano fortemente dell'elemento lapponoideo e armenoideo, accompagnati da una grande mescolanza di elemento nordico. L'elemento raziale lapponoideo (λ) è rappresentato maggiormente nella parte settentrionale di questa zona centrale. I suoi territorî di concentrazione furono accertati nei Carpazî occidentali, in certe parti della Germania meridionale (come per es., nella Foresta Nera), nella Svizzera (nell'Oberland, sul Reno superiore). Sembra che a questa zona si possano assegnare anche certe parti del territorio centrale francese.

L'elemento raziale armenoideo (χ) domina invece sulla costa nordoccidentale del Mar Nero e nella metà occidentale della Regione Balcanica; inoltre è ancora rappresentato fortemente in Transilvania e negli annessi Carpazî orientali. Ha inoltre grande importanza nella zona meridionale dei paesi alpini e nella parte ivi confinante della Francia, e infine nella zona dei Pirenei fino alla costa spagnola occidentale. La zona di predominio dell'elemento lapponoideo nell'Europa centrale viene di solito indicata con il nome della regione alpina e la zona di predominio dell'elemento armenoideo con il nome della regione dinarica. Il tipo alpino e il dinarico sono precisamente le forme miste di questi due elementi raziali, che hanno le loro zone principali alla periferia del continente europeo. Il territorio vero e proprio dell'elemento lapponoideo forma cioè una zona residuale nel nord, nel bacino del Mare Glaciale Artico; il territorio principale dell'elemento armenoideo comprende il Caucaso e i paesi vicini. Rimane così giustificato il fatto che il Deniker ha parlato di territorî dinarici a occidente del Dnepr.

A oriente dell'anello formato dai territorî nordici e mediterranei si sono conservati i resti dell'originaria zona delle componenti asiatiche, zona che fu disgregata definitivamente dall'espansione slava. Essi hanno il carattere di relitti di popolazioni ugro-finniche e turche. Prescindendo dall'elemento raziale lapponoideo, si tratta qui di quattro tipi antropologici: il paleoasiatico, il pacifico, il centroasiatico, l'artico. Il tipo paleoasiatico (π) forma presentemente la componente caratteristica dei Finni orientali, e, prima, certo, di tutti i Finni in generale. Un'eccezione formano i Mordvini. Nelle loro vene scorre fin dai primi tempi della storia sangue dell'elemento mediterraneo, ciò che è senza dubbio conseguenza del loro antico contatto con gli abitanti della regione delle steppe. La composizione antropologica, del tutto differente, dei Lapponi, nei quali predomina l'elemento lapponoideo, è certo una traccia della loro originaria affinità con i Samoiedi. A dimostrare la grande importanza che un tempo ebbero i Lapponi in Finlandia, sta il fatto che il tipo paleoasiatico sembra invece averne poca in questo paese. Esso predomina al contrario presso i Ciuvasci, che, pur parlando un idioma turco, rappresentano certo un ceppo finnico turchizzato. Singole tracce del tipo paleoasiatico possono essere seguite fino al bacino del Dnepr e forse anche oltre.

Il tipo pacifico (ζ) è caratteristico per i Baškiri, e forma inoltre una componente importante dei Calmucchi a occidente del Volga inferiore. Il tipo centroasiatico (τ) sembra avere là il predominio e pare essere in relazione con le più recenti invasioni turche e mongoliche. Il tipo pacifico si deve invece far corrispondere con i movimenti che dal lontano oriente, dai territorî di confine della zona del tipo pacifico, sono giunti fino in Europa. In prima linea si deve pensare qui agli Unni. Se il tipo pacifico fosse una traccia dell'invasione unnica, si avrebbe una prova antropologica che gli Unni erano identici agli Hiun-Nu delle cronache cinesi. Questa stirpe problematica apparve precisamente nei tratti di confine del territorio occupato dal tipo pacifico. Infine bisogna menzionare anche il tipo artico caratteristico per gli Eschimesi (η); esso rappresenta certo un residuo della più antica ondata migratoria asiatica. Lo riconosciamo dal più tardo Paleolitico in Francia nel cranio di Chancelade. Sembra ivi che appaia ancora nel periodo neolitico, sparisce però ben presto e s'è mantenuto nel NE. ai confini dell'Asia in forma di sparsi relitti. Con maggior frequenza apparirà presso i Voguli ugri. La possibilità di penetrare le condizioni antropologiche dell'Europa pre-indoeuropea la dobbiamo alle ricerche degli ultimi anni. Esse ci permettono di stabilire che le divergenze riscontrabili nei risultati finora conseguiti, si debbono ascrivere principalmente alla terminologia, giacché da diversi studiosi furono sceverate le stesse componenti. Si giunse inoltre alla constatazione che il brachicefalo centroasiatico non rappresenta affatto l'unica traccia delle influenze asiatiche in Europa. Superati i vecchi pregiudizî, si venne alla convinzione che questo tipo è solo una componente antropologica dell'Asia gialla molto più eterogenea.

Il presente quadro della distribuzione delle componenti è molto schematico. E non va dimenticato che la suddivisione antropologica dell'Europa, nei singoli strati sociali, darebbe un quadro ben differente. Per es.: nell'aristocrazia la partecipazione dell'elemento nordico è singolarmente grande, e vi si associa ancora nell'Europa occidentale, con alta percentuale, l'elemento mediterraneo. Negli strati inferiori della nobiltà polacca, dove pure predomina l'elemento nordico, il secondo posto è occupato dall'elemento lapponoideo, anziché dal mediterraneo. È da rilevare inoltre che i processi storici e sociologici dell'Europa orientale mostrano, dal lato antropologico, una tendenza a respingere le componenti asiatiche; íatto che non sussiste soltanto nel restringersi dei territorî che non sono indoeuropei. Non meno chiara apparisce l'eliminazione antropologica. Sembra che queste componenti straniere abbiano minore resistenza e vengano respinte negli strati sociali inferiori.

Un risultato molto importante ottenuto consiste nell'accertamento che i due elementi raziali, il mediterraneo e il nordico, per l'Europa i più caratteristici e maggiormente rappresentativi, appariscono già nel Paleolitico e assumono, già da quell'epoca in poi, una grande importanza, mentre si osserva la progressiva eliminazione delle componenti extraeuropee. Questo risultato sta in patente contraddizione con le opinioni molto diffuse sulle presunte molto rapide variazioni della popolazione europea. Si parla infatti con la massima serietà dell'estinguersi della razza nordica, ciò che dovrebbe causare la rovina della civilizzazione europea. Una ragione importante di questo pessimismo, che trascura la parte presa dal territorio mediterraneo nella storia culturale, consiste nella sopravalutazione dei mutamenti nella composizione antropologica della popolazione. Si fu condotti a tali affermazioni dalle grandi oscillazioni del valore medio dell'indice cefalico.

Da lungo tempo si sa infatti che la forma della testa della popolazione europea s'è molto arrotondata dal primo Medioevo in poi. Ciò vale per tutta l'Europa, comprese le regioni delle steppe in oriente. Riguardo questi territorî lontani si ammise, in generale, che ivi si dovessero considerare le conseguenze dell'invasione asiatica che dovrebbe aver causato un forte apporto di brachicefali. Poiché questa spiegazione non poteva aver valore per i paesi europei civilizzati, si portò in primo piano la dottrina della denordizzazione della popolazione. Si affermò cioè che l'indirizzo sfavorevole del processo selettivo della vita culturale avrebbe dovuto causare un rapido estinguersi dell'elemento raziale nordico. Le sue superiori qualità spirituali avevano dovuto cioè avere per conseguenza un maggior afflusso nei centri culturali delle città e la sua ascensione sociale, ciò che a sua volta aveva causato un rapido estinguersi di questi strati sociali a motivo della loro esigua fecondità.

L'enorme rapidità con la quale dovette svolgersi questo processo nel corso del tardo Medioevo, ha sempre originato molta perplessità. Questa spiegazione è accettata presentemente dalla maggior parte degli studiosi, anche se F. Boas poté osservare che i figli degli emigrati, nati in America, si differenziano, riguardo la forma della testa, dai loro fratelli nati ancora in Europa. Questi fatti indussero l'autore dell'articolo a esaminare la relazione fra la composizione della popolazione e il valore medio del suo indice cefalico. Ne risultò che questo rapporto è complicato dal fenomeno della "dominanza" e che la moderna brachicefalizzazione della popolazione europea fu causata da un cambiamento nel rapporto degli elementi raziali dominanti e regressivi.

La spiegazione dei mutamenti nella forma della testa ottenuta con l'aiuto della legge del medio valore antropologico (J. Czekanowski, 1930) ci libera dalla necessità di ammettere i grandi cambiamenti nella composizione della popolazione europea, che non si possono stabilire obiettivamente. I rapporti antropologici sono senza dubbio molto più stabili di quanto si è ammesso comunemente. Questo sarà magari la conseguenza di un vecchio adattamento all'ambiente. Ma ciò non esclude la possibilità di cambiamenti nella forma esteriore delle popolazioni, anche se gli elementi raziali permangono costanti, come il calcolo ci permise di stabilire per l'indice cefalico.

La popolazione attuale e il suo movimento. - Un computo approssimativo della popolazione dell'Europa alla metà del 1931, dà una cifra vicina a 500 milioni di ab., cioè oltre un quarto dell'intera umanità (1950-1960 milioni di individui), laddove l'area dell'Europa è appena un quindicesimo di quella dell'intera terra emersa.

Sulla popolazione dell'Europa nei secoli passati non si sa quasi nulla. Se si potesse attribuire un certo grado di sicurezza al calcolo di G. Beloch, secondo il quale la popolazione della parte europea dell'impero romano al tempo di Augusto si aggirava intorno a 23 milioni di ab., si dovrebbe dedurne (poiché i territorî non facenti parte dell'impero erano certo pochissimo popolati), che una cifra di 30 milioni di ab., per l'intera Europa rappresenterebbe certo un massimo per quell'epoca; e, senza dubbio, il calcolo del Beloch, è, se mai, alquanto esagerato. Per tutto il Medioevo e i primi secoli dell'età moderna non si possiede nessuna base attendibile per siffatti computi: se il Riccioli nella seconda metà del secolo XVII calcola a 100 milioni gli abitanti dell'Europa, ignoriamo le fonti utilizzate per tale calcolo. Dubbio valore ha anche la cifra di 130 milioni data da J. P. Süssmilch nel 1761. Un computo complessivo si può fare con qualche fondamento per l'inizio del sec. XIX; l'Europa aveva allora 180-195 milioni di abitanti (Juraschek 185). Per il 1810 si può calcolare all'ingrosso 200 milioni di ab. (Juraschek 198). Il lungo periodo di pace subentrato dopo l'età delle guerre napoleoniche favorì il naturale incremento, che nei cinquant'anni seguenti portò la cifra totale a 290 milioni di ab. (1860); nel successivo cinquantennio 1860-1910 lo straordinario sviluppo delle industrie, e soprattutto le migliorate condizioni igieniche nella maggior parte degli stati europei, si aggiunsero ad accentuare l'aumento, che fu, in questo periodo, di circa 160 milioni: la cifra approssimativa di 450 milioni si può infatti assumere per l'anno 1910. Questo cinquantennio anteriore alla guerra mondiale rappresenta probabilmente il periodo di massimo incremento della popolazione europea: il confronto fra il dato del 1910 e quello del 1931 mostra infatti un rallentamento nell'aumento, che è in buona parte effetto diretto o indiretto, della guerra, ma che è probabilmente destinato a persistere anche in seguito, come dimostra l'esame delle cifre relative all'eccesso dei nati sui morti. Si aggiunga che nel periodo 1810-1910, l'Europa ha perduto per emigrazione, come ora diremo, almeno 33 milioni di individui, mentre dopo la guerra mondiale il flusso degli emigranti si è assai attenuato.

L'aumento della popolazione, cui si è ora accennato considerando l'Europa globalmente, è stato ed è tuttavia molto diverso nei varî stati. Esso è la risultante del movimento naturale, dato dall'eccesso dei nati sui morti, e del movimento di emigrazione e immigrazione. La natalità è oggi quasi ovunque in diminuzione, ma questa diminuzione solo in Francia è di antica data, mentre altrove ha cominciato a farsi sensibile appena alla fine del secolo scorso ed è stata ancora per alquanto tempo compensata dalla diminuzione della mortalità dovuta al miglioramento delle condizioni sanitarie, cosicché l'eccesso dei nati sui morti aumenta in genere fino verso il 1905; nell'ultimo venticinquennio invece si comincia a notare che la progressiva diminuzione della mortalità non basta più (tranne che nell'Europa orientale) a compensare la contrazione delle nascite onde l'eccesso dei nati sui morti tende a ridursi.

Le medie dell'ultimo quinquennio prebellico mostrano una natalità del 40-45 per mille tra i popoli slavi (Russi, Bulgari), del 38 per mille nei Serbi, del 32 per mille o poco più in Italia, in Spagna, in Austria, del 29 per mille in Germania, in Olanda, del 25-26 per mille nei paesi scandinavi, del 25 per mille circa in Svizzera e in Inghilterra, del 20 per mille in Francia. Le differenze nella mortalità non sono minori: si va da 13-14 per mille nei paesi scandinavi al 29 per mille in Russia. L'eccesso dei nati sui morti è massimo nei paesi slavi (17-18 per mille), minimo in Francia (i per mille), mantenendosi fra 10 e 15 per mille in tutto il resto d'Europa (Italia 12, Germania 13, Olanda 15, Inghilterra 11, Norvegia 12,4, Svezia 10,4, ecc.), salvo in Svizzera (9,5), in Spagna (9,3), in Ungheria (8,6), nel Belgio (7,7), in Irlanda (6,2).

Nel quinquennio postbellico 1921-25, la natalità è stazionaria o diminuisce ovunque, e in maggior misura nei paesi slavi (per esempio in Russia 42,5, di contro a 45,5 nel quinquennio anteriore alla guerra), ma quivi diminuisce ancora, e più intensamente, la mortalità (23 per mille in Russia), cosicché l'eccedenza dei nati aumenta, e lo stesso avviene, ma in minor misura, in Ungheria, ovunque altrove tale eccedenza è all'incirca uguale (Italia, Spagna, Olanda, Francia), ovvero inferiore a quella del quinquennio prebellico (Portogallo, Norvegia, Svezia, Inghilterra, Svizzera, Belgio).

Per quanto riguarda il movimento di emigrazione, non sono qui da considerarsi le migrazioni interne. L'emigrazione inter-europea, cioè tra stato e stato. si è fatta cospicua nel sec. XIX, a mano a mano che si moltiplicavano le comunicazioni: si può segnalare l'afflusso d'Irlandesi nella Gran Bretagna, di lavoratori slavi e romeni nell'Europa centrale, d'Italiani in Francia, nell'Europa centrale e orientale, ecc.; ma una parte di questa emigrazione aveva carattere periodico. Negli anni immediatamente seguenti la guerra mondiale, si è verificata una corrente di emigrazione a carattere permanente, p. es. verso la Francia meridionale (specie dall'Italia).

L'emigrazione extraeuropea (o transoceanica) è un fenomeno che - se si prescinda dal flusso di genti riversatesi in America subito dopo la scoperta - è proprio soltanto del sec. XIX. Esso si inizia dopo la guerre napoleoniche per opera dei popoli anglo-sassoni e germanici, presso i quali culmina nel periodo 1840-1850, ma si mantiene, con oscillazioni, anche in seguito, fin verso il 1890, poi declina rapidamente. L'emigrazione è diretta nel continente americano e sottrae in complesso 5-6 milioni di individui alla Germania, 8-10 alle Isole Britanniche (soprattutto all'Irlanda), circa 1 1/2 milioni ai paesi scandinavi, perdita quest'ultima ancor più grave relativamente al totale della popolazione. Più tardi s'inizia l'emigrazione dai paesi latini, diretta soprattutto nell'America del Sud e negli Stati Uniti; dagli ultimi anni del sec. XIX in poi essa supera l'emigrazione germanica, e in complesso sottrae all'Italia e ai paesi iberici, fino allo scoppio della guerra mondiale, non meno di 8 milioni di individui. L'emigrazione dai paesi slavi dell'Europa orientale e dalla Romania comincia intorno al 1890: vi partecipano in larga misura gli Ebrei. È diretta specie in America; ma dalla Russia si volge anche verso la Siberia e il Caucaso. Si può calcolare a circa 5 milioni il flusso totale degli emigrati da questi paesi nel periodo 1890-1913; ma una parte ritorna poi gradualmente in patria.

Lo sforzo per frenare l'emigrazione si manifesta dapprima in Germania, ma dopo la guerra si estende ad altri paesi europei. La guerra ha determinato numerosi rimpatrî, e alcuni stati americani hanno imposto severe leggi restrittive all'immigrazione. Il periodo culminante dell'emigrazione europea si può dire oltrepassato; ma non si può ancora determinare quale influenza potrà esercitare questo fatto sull'aumento globale della popolazione in Europa.

La composizione etnica attuale della popolazione. - Come risultato dei movimenti, delle sovrapposizioni e delle mescolanze di popoli, avvenute in Europa da tempo remotissimo, si può segnalare la grande unità raziale di questo continente in confronto degli altri: si è già avvertito infatti che il 95% della popolazione appartiene a quei tipi che, anche se provenienti dalla mescolanza di elementi raziali antropologicamente distinti, si sogliono riunire sotto il nome generico di razza bianca, o, con un appellativo che ha almeno altrettanta ragione di essere, razza europea. La differenziazione più avvertita, e più generalmente riconosciuta fra i popoli europei, è data oggi dalla lingua parlata, che costituisce l'elemento fondamentale della nazionalità; ma anche a questo riguardo regna in Europa una maggiore omogeneità che in qualsiasi altra parte del mondo, in quanto almeno il 92% della popolazione totale appartiene alla grande famiglia linguistica indoeuropea.

Tra gl'Indoeuropei, tre stirpi predominano, la slava, la germanica, la latina; le altre stirpi - rappresentate oggi da entità di gran lunga inferiori - la baltica (lettone-lituana), la celtica, la greca, l'albanese - sono residui di gruppi che ancor nell'evo antico erano molto più estesi e cospicui; alcune altre stirpi indoeuropee, come la tracica, si sono spente in età storica. Tra i popoli non indoeuropei, l'entità più ragguardevole è data dalla famiglia linguistica ugrofinnica; segue la famiglia semitica, rappresentata dagli Ebrei, i quali sono peraltro oltremodo disseminati. Ecco i dati numerici approssimativi (principio del 1930) dei principali aggruppamenti linguistici: per la loro distribuzione v. la carta europa linguistica.

Spazialmente, le tre maggiori famiglie indoeuropee occupano poco meno dei 5/6 dell'intera Europa. Gli Slavi da soli si estendono su quasi la metà dell'Europa, ma appaiono oggi distribuiti su due territorî separati: il maggiore che abbraccia gli Slavi orientali e meridionali da un lato (Russi, Russi Bianchi e Ucraini), gli Slavi occidentali dall'altro (Polacchi e Cecoslovacchi), il minore che abbraccia gli Slavi meridionali o Iugoslavi (Serbi, Croati e Sloveni) e i Bulgari, che erano originariamente genti finniche, slavizzate solo tardivamente (v. Bulgaria, VIII, pag. 71). Più compatta è la famiglia germanica, che si estende su un'area continua (forse 1/6 dell'intera Europa) nell'Europa centro-settentrionale, spingendo le sue propaggini in territorio slavo con colonie numerose, ma in genere non rilevanti. Anche la famiglia latina occupa un altro sesto dell'Europa ed è spazialmente compatta nel suo nucleo principale abbracciante la Francia e le due penisole iberica e italica; un nucleo isolato è formato dai Romeni. Delle quattro minori famiglie indoeuropee, quella baltica forma pure un nucleo assai compatto, e abbastanza compatti spazialmente sono anche Greci e Albanesi, mentre i Celti si distribuiscono oggi in quattro piccoli nuclei, uno più resistente (Iri), gli altri in via di rapido declino.

La famiglia ugrofinnica occupa un'area molto vasta, cui peraltro non corrisponde un'adeguata entità numerica, perché i territorî che le spettano sono in massima parte di assai scarsa densità. Il gruppo compatto dei Finni Baltici consta dei Finni proprî o Suomi, dei Carelî e degli Estoni; formano invece nuclei molto sparsi i Sirieni (175.000) e i così detti Finni del Volga (Ceremissi 400.000, Votiachi 470.000, Mordvini 1.100.000, Permiaci 1.150.000). Questi nuclei appaiono come residui di una più vasta stratificazione continua, interrotta e ridotta a brandelli dalla diffusione degli Slavi. Affini ai Finni, ma da questi spazialmente separati, sono i Magiari, immigrati solo nell'alto Medioevo sul medio Danubio. Di immigrazione ancor più recente sono le genti turco-tatariche, rappresentate, nella Russia orientale, dal nucleo compatto dei Baškiri (1.500.000) e da altri nuclei suddivisi (Ciuvasci 1 milione, Tatari di Kazan′ e del Volga, ecc.) che abitano sedi finitime a quelle delle genti finniche con le quali sono in parte fuse. Nuclei isolati formano i Tatari di Crimea, i Nogai della Ciscaucasia, ecc.

Di scarsa entità numerica sono i Lapponi e i Samoiedi nella Russia settentrionale, che mostrano alcuni caratteri mongoloidi, ma parlano lingue del gruppo ugrofinnico. Di Kirghisi, pure misti di sangue asiatico, se ne trovano pochissimi in suolo europeo. Tipi mongoli più puri sono i Calmucchi, appena 100.000, ma distribuiti su un'area relativamente vasta, immigrati di recente.

La carta linguistica d'Europa ci mostra, in conclusione, che, di contro ai grandi nuclei compatti delle maggiori nazionalità, vi è una vasta area, estesa dalle rive del Baltico a quelle del Mediterraneo orientale e Mar Nero, che rappresenta una zona di grandi mescolanze. Ed è proprio in questa zona che si incontra la grandissima maggioranza degli Ebrei, così estremamente sparpagliati, che non riesce possibile localizzarli in una carta di piccola scala.

Religioni. - La popolazione dell'Europa è in assoluta prevalenza cristiana. Poche tribù della Russia settentrionale sono tuttora pagane; relativamente pochi sono gli ebrei (circa 11 milioni) e i musulmani (circa 12 milioni) sparsi i primi in tutti i paesi di Europa; raggruppati gli altri in Romania e nei Balcani (Albania, Iugoslavia, Bulgaria, Tracia) o nell'Europa di SE. (nella Crimea, nella Ciscaucasia, ecc.); vi sono poi alcune migliaia di "senza religione" che si trovano registrati nei censimenti di quasi tutti gli stati.

Nel Cristianesimo si distinguono tre grandi confessioni, spesso tra loro in aperto contrasto: il cattolicismo, l'ortodossia e il protestantesimo. Le cifre riunite nella tabella che segue sono desunte da varî censimenti e statistiche, non tutte riferentisi allo stesso anno, e perciò debbono considerarsi come approssimative.

Dalla tabella appare che sono paesi quasi esclusivamente cattolici: l'Andorra, Austria, il Belgio, la Francia con il principato di Monaco, l'Italia con San Marino e la Città del Vaticano, il Liechtenstein, il Lussemburgo, il Portogallo e la Spagna. Sono paesi con religione prevalentemente cattolica la Cecoslovacchia, l'Irlanda, la Lettonia e la Lituania, la Polonia e l'Ungheria. Hanno invece minoranze più o meno importanti di cattolici l'Albania, la Bulgaria. la Danimarca, Danzica, l'Estonia, la Finlandia, la Germania, la Gran Bretagna, la Grecia, la Iugoslavia, la Norvegia, i Paesi Bassi, la Romania, la Russia, la Svezia e la Svizzera. Sono paesi quasi interamente ortodossi la Grecia e la Russia. L'ortodossia è solo prevalente in Bulgaria, in Iugoslavia e in Romania; è rappresentata da considerevoli minoranze in Albania, in Estonia, in Finlandia, in Lettonia, in Lituania e in Polonia. Sono finalmente paesi quasi interamente protestanti la Danimarca, la Finlandia, l'Islanda, la Norvegia e la Svezia. A Danzica, nell'Estonia, nella Germania, nella Gran Bretagna, nei Paesi Bassi e nella Svizzera la riforma in questa o quella delle sue multiformi espressioni vi è professata dalla maggioranza, mentre conta considerevoli minoranze in Bulgaria, in Cecoslovacchia, in Irlanda, in Lettonia, in Lituania, nel Lussemburgo, nella Polonia, nella Romania e nell'Ungheria.

L'Europa economica. - Generalità. - Fattori d'ordine naturale e d'ordine umano hanno insieme contribuito a determinare l'alto grado di sviluppo economico al quale oggi l'Europa è pervenuta, dopo una lunga e complessa evoluzione, che risale ai tempi preistorici. Tra i fattori d'ordine fisico si debbono annoverare la felice situazione mondiale, la già segnalata assenza di tipi di paesaggio, come i deserti e le foreste vergini, ostili all'insediamento umano, lo sviluppo delle pianure nella parte orientale, i benefici influssi climatici dell'Atlantico e del Mediterraneo a ovest e a sud. Quanto all'uomo, esso si trova sin dall'età neolitica sedentario e dedito all'agricoltura e all'allevamento, ovunque, tranne che nell'estremo nord e nelle regioni a steppe del sud e del sud-est, dove prevalse per lungo tempo, ancora in età di piena luce storica, il nomadismo. Senza dubbio i primitivi sedentarî, che seguivano ancora pratiche agricole infantili, conservavano un notevole grado di mobilità, e le superficie coltivate da principio dovevano forse avvicendarsi; l'incremento delle aree adibite alla coltura avvenne gradualmente, soprattutto a spese del bosco. Questo nei paesi mediterranei fu estirpato in gran parte già in età preistorica; la distruzione continuò poi in seguito, pur con lunghi intervalli di pausa (p. es. nell'alto Medioevo), ed è purtroppo progredita anche su aree nelle quali la scomparsa del mantello boscoso non è avvenuta a beneficio dell'agricoltura, ma solo del pascolo o dell'incolto. Nell'Europa occidentale e centrale il diboscamento fu largamente avviato già nell'evo classico là dove arrivò la conquista romana, nel Medioevo altrove; anche qui il bosco può dirsi scomparso ormai da tutte le regioni utilmente acquistabili all'agricoltura e all'insediamento umano; dal sec. XVIII data anzi un movimento a favore di un sia pur limitato rimboschimento. Nell'Europa settentrionale e orientale, invece, la distruzione del bosco è molto più recente: vastissime aree boscate sussistono tuttora, e queste costituiscono oggi una cospicua fonte di risorse, per quanto sovente ancora utilizzate in modo poco razionale. Nell'Europa orientale l'insediamento umano, in forma stabile, ha fatto grandi progressi specialmente a partire dal sec. IX-X; le aree coltivate si sono estese, soprattutto nella Russia meridionale; dopo alterne vicende di prevalenza, ora della coltura sedentaria, ora dell'allevamento nomade o seminomade, a partire dal sec. XIX il nomadismo è quasi interamente scomparso. Anche le genti seminomadi della regione balcanica e dell'Ungheria si sono da lungo tempo fissate, come sono ormai sedentarie, lungo i fiumi, alcune popolazioni del nord-est (Sirieni, ecc.). Si può dire, in conclusione, che in Europa non esistono quasi più ai nostri giorni popoli nomadi, mentre in maggiore o minor misura ne sopravvivono ancora in tutti gli altri continenti.

Ciò nondimeno l'Europa oggi non costituisce affatto nel suo insieme un'individualità economica unica, o a sviluppo economico uniforme. Due mondi ancora si contrappongono: l'orientale, che ha conservato stretti contatti con l'Asia, ed è caratterizzato dalla utilizzazione estensiva dei prodotti naturali, dal limitato sviluppo delle industrie, dalla scarsa concentrazione urbana, dalla modesta partecipazione al traffico mondiale, soprattutto a quello marittimo; l'occidentale, caratterizzato da una utilizzazione del suolo sempre più largamente sussidiata dai progressi della scienza e della tecnica, dall'intenso sviluppo delle industrie dedite alla trasformazione dei prodotti greggi, dalla concentrazione urbana e da un'alta densità di popolazione, dall'attivissima partecipazione al traffico mondiale, per il quale si schiudono all'Europa sudoccidentale le due massime arterie marittime, l'Atlantico e il Mediterraneo.

Dal punto di vista della utilizzazione del suolo per l'agricoltura e l'allevamento si può fare la seguente distinzione (v. cartina qui accanto): 1) la ristretta regione delle tundre, nella quale la vita economica ha per base la caccia, la pesca, l'allevamento delle renne; 2) la regione subartica dell'orzo, con sfruttamento delle foreste, caccia, coltura dell'orzo e allevamento bovino; 3) la regione che può dirsi dell'avena (Finlandia meridionale, Scandinavia meridionale, Danimarca, litorale germanico sul Mar del Nord, Scozia, Inghilterra occidentale, Irlanda), perché l'avena è il cereale prevalente (orzo e segala vengono dopo) e viene usato anche per l'alimentazione umana. Hanno qui grandissima diffusione anche i prati da foraggio e perciò intenso è l'allevamento del bestiame da carne e da latte (industria dei latticinî); 4) regione del grano (verso sud anche granturco, barbabietola e tabacco, qua e là anche vite) con prevalente coltura intensiva; 5) la regione della segala, che comprende una fascia settentrionale (Russia a nord del 55°-57°), nella quale, accanto alla segala, hanno importanza l'avena e il lino, e un posto notevole occupa ancora lo sfruttamento dei boschi (misti); e poi una fascia meridionale (Russia a sud del limite anzidetto e Europa centrale), a colture più variate (accanto alla segala, orzo, avena, grano, patata, barbabietola, miglio, canapa e lino) e a carattere spesso intensivo; 6) la regione submediterranea del grano e del granturco (con alberi da frutta, viti, gelsi, castagni) e con allevamento del bestiame bovino e ovino; 7) la regione delle steppe della Russia meridionale, con grano, orzo, allevamento nomade dei bovini; 8) la regione mediterranea dell'ulivo (con altri alberi da frutto, vite, cereali, legumi; allevamento, con assoluta prevalenza di ovini; agricoltura sussidiata spesso dall'irrigazione o dall'adacquamento); 9) la regione subtropicale, nella quale il cereale prevalante è l'orzo; inoltre si hanno colture di tabacco, cotone, ecc. Essa in Europa è rappresentata quasi solo dalla Crimea.

A complicare ancor più la fisonomia economica dell'Europa interviene il grande frazionamento politico, per cui ogni stato costituisce in sostanza un organismo economico a sé. Per questo riguardo l'Europa si contrappone nettamente all'America del Nord e anche all'Estremo Oriente asiatico, dove si hanno delle formazioni politiche grandi da sole quasi quanto tutta l'Europa. A caratterizzare la fisionomia economica dei singoli stati giova tener presente, da un lato la ripartizione dell'area nelle quattro categorie principali rispetto alla utilizzazione del suolo, dall'altro la ripartizione della popolazione attiva per grandi categorie di occupazioni I dati, espressi in valori percentuali e da considerarsi solo come approssimativi sono raccolti nella tabella in cima alla pagina seguente:

Stati prettamente agrarî (con più del 60% della popolazione attiva occupata nell'agricoltura) sono quelli dell'oriente e del sud-est, cui si possono aggiungere gli stati iberici: agricoltura e allevamento sono ivi le basi della vita economica, la densità della popolazione è piuttosto bassa, ma gli abitanti trovano ancora entro i confini dello stato il fondamento della loro alimentazione; lo sviluppo urbano è lento e deboli le correnti migratorie interne; anche il movimento dei capitali non è molto intenso. In alcuni di essi, nell'ultimo decennio, si manifesta un maggiore impulso delle industrie, in parte per l'afflusso di capitale straniero. Un secondo gruppo - cui appartengono la Polonia, la Cecoslovacchia, la Francia, e anche l'Italia e la Svezia - è quello degli stati agricolo-industriali: l'agricoltura forma ancora la base dell'economia, ma il numero di coloro che nei centri urbani si dedicano a occupazioni connesse con le industrie si avvicina già al 30-35% e tende ad aumentare per il permanente afflusso di lavoratori dalle campagne verso le città. Quest'ultimo processo si è verificato nel modo più intenso nel terzo gruppo di stati, quelli a economia prevalentemente industriale; iniziatosi dapprima nella Gran Bretagna (non nell'Irlanda) e nel Belgio, si è poi esteso all'Olanda, alla Svizzera, alla Germania, nella quale tuttavia sussiste ancora un forte divario fra la parte occidentale e l'orientale; ma la perdita di una frazione notevole di questa ultima parte, nella quale prevaleva l'economia agricola, ha accentuato, dopo la guerra mondiale, il carattere industriale. Simili divarî esistono anche in altri stati, come a es. nella stessa Italia, fra il Settentrione e il Mezzogiorno, in Francia tra le provincie di nord-est e quelle di sud-ovest, ecc. Negli stati a economia industriale da gran tempo ormai la popolazione non può più alimentarsi con le sole risorse agricole del paese ed è perciò dipendente, per l'approvvigionamento delle derrate, dai paesi esteri, dai quali provengono poi spesso anche molte delle materie prime utilizzate nelle industrie. La bilancia commerciale è, almeno in parte, compensata dall'esportazione dei prodotti lavorati: l'intensità del commercio estero progredisce perciò di pari passo con lo sviluppo delle industrie, e queste e quelle determinano un ingente e continuo movimento di capitali.

L'agricoltura. - La maggior parte dei terreni dedicati alle colture è occupata in Europa dai cereali, e tra essi il grano ha acquistato e acquista sempre maggior diffusione come alimentatore dell'uomo; dopo avere, nell'evo antico, soppiantato l'orzo e altri cereali secondarî nel bacino mediterraneo, si è esteso gradualmente anche nell'Europa occidentale e centrale, soprattutto, oggi, a scapito della segala; dal sec. XVI ha tuttavia veduto l'ingresso di un nuovo concorrente, il granturco, che peraltro gli rimane molto al disotto per potere nutritivo. Ma molto più rapido che non il progresso della coltura, è stato l'aumento nel consumo del grano, e oggi l'Europa ne produce appena una metà del fabbisogno. I paesi che ne hanno sovrabbondanza - ossia i paesi pontico-danubiani - sono anche quelli nei quali il rendimento per ettaro è minore, sia perché in essi i procedimenti agricoli sono più arretrati, sia perché non vi è ancora una razionale scelta delle terre più atte alla coltura, sia anche perché il clima continentale obbliga a preferire varietà di grano meno redditizio. I massimi rendimenti si hanno nella Gran Bretagna, nel Belgio, in Olanda, dove la coltura è sussidiata con tutte le risorse della tecnica e si destinano al grano solo i terreni ad esso più adatti. La segala ha oggi importanza solo in Germania e in Russia, ma tende a decrescere; l'orzo preferisce i paesi a estati calde, come la Russia centro-meridionale, l'Ungheria, i Sudeti; l'avena per l'alimentazione umana ha importanza solo in Inghilterra, mentre la Russia, già il massimo produttore di avena del mondo, è passata oggi in seconda linea. Il granturco è di largo consumo per l'uomo in Romania e nei paesi balcanici; altrove è usato per il bestiame. Il riso è coltivato solo in Italia in quantità superiore al bisogno.

Prima della guerra mondiale il principale paese esportatore di cereali era la Russia; ma oggi, in forza delle sue condizioni politico-economiche, essa è quasi interamente scomparsa dal novero degli esportatori. Rimangono l'Ungheria, la Romania, la Bulgaria, secondariamente la Polonia e la Iugoslavia, paesi che presi insieme concorrono all'ingrosso per un ottavo alla richiesta di cereali del resto dell'Europa (esclusa la Russia), richiesta che - raddoppiata rispetto agli anni prebellici - si avvicina a 325 milioni di quintali. A tale richiesta sopperisce perciò in massima parte l'importazione d'oltre mare. Certamente la produzione dei cinque paesi su ricordati e anche quella della Russia potranno in avvenire concorrere maggiormente ad approvvigionare il resto dell'Europa, perché il perfezionamento dei sistemi agricoli accrescerà sempre più il rendimento, come è avvenuto e sta avvenendo anche in altri stati, ad es. in Italia (la produzione totale dei cereali europei è pur certamente raddoppiata in un secolo); ma è ben dubbio se, anche in tempi normali - prescindendo cioè da periodi di crisi - l'Europa arriverà mai ad alimentarsi interamente con le proprie risorse.

Tra i prodotti alimentari integratori dei cereali ha una diffusione crescente la patata, la cui coltura si estende soprattutto su una zona che va dall'Irlanda, attraverso la Francia settentrionale e la Germania, fino alla Polonia e ai paesi baltici: in 50 anni, dal 1880 circa ad oggi, l'area coltivata è certo triplicata. Le colture arboree sono proprie dei paesi mediterranei. L'area adibita alla coltura della vite si valuta a oltre 8,5 milioni di ettari, di cui la metà in Italia, il 18% in Francia, altrettanto o più nei paesi iberici; ma per la produzione è alla testa la Francia (38-40%), cui segue l'Italia (28%). La coltura dell'ulivo, ancor più tipicamente mediterranea, è diffusa solo nelle tre penisole sudeuropee e nella Francia meridionale; della produzione totale europea (8 milioni di quintali), più della metà spetta agli stati iberici, nei quali l'ulivicoltura è in grande sviluppo dopo la guerra mondiale, e oltre un quarto all'Italia.

Tra le piante industriali, la più importante è oggi la barbabietola da zucchero, che fu introdotta nei primordî del sec. XIX, durante il blocco continentale, e negli ultimi quarant'anni prima della guerra mondiale si è diffusa nell'Europa centrale, specie nei territorî a löss e in altri particolarmente adatti, beneficiati da alte temperature estive: dalla Francia orientale, la zona a barbabietole si stende, attraverso la Germania, il Belgio, l'Olanda, la Polonia, fino alla Russia occidentale. Caduta durante la guerra, la produzione ha ora ripreso in pieno. La zona del tabacco abbraccia l'Europa di sud-est: Italia, Ungheria, Romania e paesi balcanici; l'area coltivata e la produzione sono in rapida ascesa, ma nei mercati mondiali il prodotto europeo ha scarsa importanza rispetto a quello degli Stati Uniti e del Giappone e di altri paesi asiatici. Per la produzione delle fibre tessili, l'Europa è passata assolutamente in seconda linea dopo l'enorme diffusione del cotone, che, come grande coltura redditizia, è praticamente esclusa dal nostro continente. Il lino ha conservato importanza solo nei paesi a clima oceanico, intorno al Mare del Nord e al Baltico, la canapa in Russia, in Italia e in alcuni paesi balcanici.

Sulla distribuzione del bosco - che, secondo stime recenti, coprirebbe all'incirca il 32% dell'area (oltre 3 milioni di kmq.) - i dati essenziali, per taluni stati assai incerti, si hanno dalla tabella a pag. 608. Nell'Europa centrale le colossali distruzioni dei secoli passati, allorché il legname si adoperava in più larga misura sia a scopo edilizio, sia per costruzioni navali, sia per combustibile nella lavorazione dei metalli, ecc., hanno ceduto il posto all'utilizzazione razionale, accompagnata da rimboschimento. Ma al bisogno di legname, enormemente cresciuto specie per l'uso che se ne fa nella fabbricazione della carta, provvedono solo gli stati del nord e dell'est, che ne hanno ancora larghe riserve (Svezia, Norvegia, Finlandia, Russia, Lettonia); in minor misura esportano l'Austria, la Iugoslavia, la Lituania, la Polonia, la Romania. Questi sono i fornitori della rimanente Europa, in concorrenza, di giorno in giorno più minacciosa, con gli Stati Uniti e il Canada, i quali, nonostante la distanza, forniscono ormai all'Europa più d'un quinto del suo fabbisogno.

L' allevamento. - Per quanto riguarda l'allevamento del bestiame, vi è ancora un contrasto fra i paesi occidentali - dove acquistano sempre maggiore sviluppo i prati artificiali con foraggi selezionati e di alto valore nutritizio, e dove perciò l'allevamento è intensivo e razionale, e il bestiame, anche per ragioni di clima, viene sempre tenuto in stalle - e i paesi orientali e sudorientali, dove si fa uso largamente di pascoli naturali, e il bestiame, specie quello ovino, vive ancora per lo più all'aperto. L'allevamento bovino ha importanza prevalente nell'Europa occidentale e centrale; nell'Europa centrale propriamente detta si accompagna con quello del maiale (mentre gli ovini sono in forte diminuzione), nell'Europa settentrionale, invece, si associa con quello delle pecore (maiali e capre hanno minore importanza). Il numero relativo dei bovini è massimo in paesi ricchi di aree pianeggianti, con clima umido favorevole allo sviluppo dei prati e con debole densità di popolazione: la Danimarca, per es., ha circa 800 bovini (e 850 suini) per ogni 1000 ab. L'allevamento ovino è molto diffuso ancora nei paesi mediterranei e in alcune altre regioni montuose dove la densità della popolazione è piuttosto scarsa; le pecore prevalgono sulle capre (Bulgaria: oltre 1500 pecore ogni 1000 abitanti). Il cavallo è largamente allevato nelle pianure dell'Europa orientale, della regione danubiana, ecc.

È difficile calcolare l'attuale patrimonio zootecnico dell'Europa, perché le statistiche per l'Unione Sovietista Russa abbracciano globalmente anche i territorî asiatici: si possono forse stimare a 130 milioni i bovini, a 180 milioni gli ovini, a oltre 80 milioni i maiali, a 40 milioni i cavalli (esclusa l'Unione Russa, le cifre date dall'Istituto internazionale di statistica per il 1927 sono: bovini 100 milioni; ovini 130; maiali 73; cavalli 23).

I prodotti dell'allevamento sono in genere insufficienti ai bisogni dei paesi fittamente popolati dell'Europa occidentale; contribuiscono a rifornirli i paesi orientali a debole densità, ma oltre a ciò quantità ingenti di carne, grassi, pelli, lana greggia sono importate d'oltre mare.

L'allevamento del baco da seta, diffusosi, sin dall'alto Medioevo, da Bisanzio in tutta l'Europa meridionale, ha avuto il suo massimo sviluppo alla fine dell'età media e nei primi secoli della moderna. La formidabile concorrenza dei paesi asiatici lo ha poi a poco a poco fatto declinare; negli ultimi decennî del sec. XIX lo hanno danneggiato anche gravi epidemie del bombice; più tardi ha gradualmente ripreso. Oggi l'Europa concorre forse per il 10% alla produzione mondiale (per più di 41/5 la produzione europea è data dall'Italia, cui seguono Francia e Spagna).

La pesca ha pure notevole importanza in alcuni paesi europei. Quella nelle acque interne è per vero ormai molto ridotta, e per l'alimentazione degli abitanti contribuisce in larga misura soltanto in Russia. Molto più cospicua è la pesca marittima, che è essenzialmente costiera nel Mediterraneo e nel Baltico, mentre nel Mare del Nord e nei mari settentrionali ha il carattere di pesca di alto mare e viene oggi esercitata con mezzi razionali e moderni, imperniandosi sull'aringa e sul merluzzo. Pertanto i paesi nordici, soprattutto la Norvegia e l'Inghilterra, possono destinare una parte del prodotto alla esportazione, che è diretta in prima linea ai paesi mediterranei.

I prodotti del sottosuolo. - La produzione mineraria dell'Europa è assai svariata, ma resta molto addietro, per ricchezza e abbondanza, a quella di tutti gli altri continenti. In gran copia vi si estraggono soltanto due fra i prodotti di importanza mondiale: ferro e carbone. Per il ferro, i giacimenti di maggior valore per qualità e purezza sono quelli della Svezia settentrionale, i più ricchi quelli delle cosiddette "Minettes" della Lorena, divisi tra Francia e Lussemburgo; tra i più notevoli sono da citarsi ancora quelli della Scozia (Blackband), dell'Inghilterra centrale e meridionale, del bacino renano-vestfalico, della Slesia, del bacino del Donec in Russia, degli Urali, dell'isola d'Elba. La produzione del minerale superò nel 1929 i 108 milioni di tonnellate, pari al 55% della produzione mondiale; quasi 50 milioni furono dati dalla sola Francia. Riserve notevoli, da utilizzarsi più largamente in avvenire, hanno la Russia, la Iugoslavia, la Spagna. La metallurgia europea trasforma peraltro anche ferro importato specialmente per opera di paesi, che, come la Germania, hanno larghe disponibilità di combustibile; perciò Germania e Francia hanno il primato, e insieme producono circa la metà del ferro metallico ottenuto in Europa.

I giacimenti carboniferi si rinvengono nei rilievi caledoniani della Gran Bretagna e in quelli armoricano-varistici che dal Galles si stendono, attraverso la Francia settentrionale e il Belgio, fino al Reno medio (Ruhr), poi riappaiono nella Slesia, i cui giacimenti sono oggi divisi fra Germania, Polonia e Cecoslovacchia. All'interno di questo grande arco si trovano i giacimenti del Plateau Central francese, della Saar, della Boemia centrale. Estese riserve ha la Russia (bacino del Donec, Ural, Russia centrale), ma il carbone, di qualità inferiore, è ivi ancora poco sfruttato. Privi o quasi di carbon fossile sono la Scandinavia, la Svizzera e i paesi mediterranei, salvo la Spagna, che ha mediocri giacimenti, da poco tempo sfruttati. La produzione totale del litantrace e antracite oscillò, negli ultimi anni, intorno a 600 milioni di tonnellate, la metà di quella mondiale; alla testa è la Gran Bretagna, che ne dà circa 6 5/12. La lignite, utilizzata come combustibile quasi solo in Europa, è estratta soprattutto in Germania; Italia, Austria, Ungheria, Iugoslavia vengono a grande distanza (produzione totale europea del 1930: 187 milioni di tonnellate, di cui oltre 145 in Germania). Dopo la guerra mondiale, la produzione dei combustibili ha raggiunto o superato il livello precedente e subisce anzi una crisi, per le minori richieste dell'industria e per la sempre crescente utilizzazione dell'energia idroelettrica.

L'insieme dei porti europei non assorbe più, nel 1930, che il 55% o poco più, del traffico mondiale. Mancano ancora dati completi per stabilire un paragone con gli ultimi anni prebellici, rispetto alla compartecipazione dei varî gruppi di porti europei. I cinque porti del nord-ovest, su menzionati, hanno conservato il loro primato, ma la compartecipazione di Rotterdam e di Anversa si accentua ancor più rispetto a quella degli altri tre. È senza dubbio aumentata anche la compartecipazione dei porti mediterranei, anche per il crescente movimento dei porti greci: sono alla testa Genova e Marsiglia, poi Trieste, Napoli, Venezia, Salonicco, Costantinopoli; è in forte contrazione il traffico dei porti del Mar Nero.

Le comunicazioni aeree assumono un'importanza crescente, per il trasporto rapido dei viaggiatori, della posta e anche dei piccoli oggetti di valore, soprattutto nell'Europa centro-occidentale, dove mancano grandi barriere montuose e gli scambî d'ogni genere sono molto intensi con tendenza a raggiungere sempre maggiore celerità. Non mancano oggi comunicazioni anche fra l'Europa centrale e i paesi mediterranei (la Milano-Trento-Monaco e la Venezia-Klagenfurt sono finora le sole che valichino le Alpi) e linee di allacciamento con l'Europa orientale, settentrionale e di sud-est, ma in queste ultime parti del continente lo sviluppo economico attuale non consente una grande diffusione delle aviolinee commerciali. Esistono già comunicazioni aeree regolari tra l'Europa e l'Africa settentrionale e occidentale, e tra l'Europa e l'Asia anteriore.

La densità di popolazione e i centri abitati. - Come si è già detto, la popolazione complessiva dell'Europa si poteva calcolare alla metà del 1931 a circa 500 milioni di ab., pari a 50 per kmq., in cifra tonda; l'Europa è pertanto il continente più fittamente popolato. Ma la densità è assai inegualmente distribuita, ed anzi nel corso del sec. XIX, con il progressivo infittirsi della popolazione (nel 1810 la densità era poco più di 20; nel 1860 circa 30), si è accentuato il contrasto fra le regioni settentrionali e orientali a popolazione rada, e quelle dell'Europa centrale e occidentale a popolazione fitta, e anche tra queste ultime e le penisole iberica e balcanica, che hanno una posizione intermedia. I lineamenti essenziali della distribuzione della densità risultano dalla cartina a pag. 616. Questa dimostra che la diversa stratificazione della popolazione rispecchia sostanzialmente le possibilità agricole, o comunque la capacità del territorio ad alimentare i suoi stessi abitanti, soltanto nelle regioni settentrionali e orientali; mentre nelle regioni centrali e occidentali l'affollamento è determinato non da condizioni del suolo eccezionalmente favorevoli, ma dallo sviluppo della grande industria.

Nella regione artica delle tundre e in quella dei boschi subartici, dove, al di fuori di pochi nomadi, si hanno gruppi di genti sedentarie solo lungo i fiumi o sulle coste (specie su quella norvegese, più favorevole), viventi soprattutto della pesca, la densità raggiunge appena 2-3 ab. per kmq. Una densità più alta (fino a 25) si ha nelle zone temperate a foreste della Scandinavia e della Russia, dove è stato possibile acquistare un po' di suolo per l'agricoltura. Procedendo verso sud la densità si eleva nell'Europa orientale (e anche in Svezia) per successive zone, fino a raggiungere valori molto alti (anche oltre 100) nella Ucraina occidentale, dove peraltro si fa già sentire l'effetto dell'affollamento industriale; si entra cioè, ormai, nella zona ad alta densita dell'Europa centrale. Questa zona (con più di 100 ab. per kmq.) abbraccia la Germania centrale con le appendici polacco-ucraine, la media e bassa valle del Reno, il Belgio, l'Olanda, la Francia di nord-est, le regioni industriali e minerarie della Gran Bretagna, la pianura padano-veneta con alcune appendici nella nostra penisola, in tutto circa tre milioni e mezzo di kmq. con più di 350 milioni di abitanti. In seno a queste aree vi sono poi dei distretti nei quali la densità si eleva ancor maggiormente, come il bacino renano-vestfalico (270), l'Inghilterra centrale con la regione pianeggiante centrale della Scozia (400-500), le regioni più fitte del Belgio, una parte della pianura padana. Più bassa è invece naturalmente la densità nelle aree montuose, anche in quelle interposte fra territorî fittamente popolati, come la montagna media germanica, le Alpi, i Carpazî, ecc. Nella Francia centrale e di sud-ovest, e più ancora nell'Irlanda e nelle penisole iberica e balcanica, la densità tende ad abbassarsi nuovamente, perché torna a rispecchiare soprattutto l'utilizzazione agricola del suolo: perciò, accanto ad aree, di solito ristrette, di grande affittimento, corrispondenti a regioni di eccezionale fertilità (Pianura Campana), si hanno aree di densità debole nei territorî interni elevati, come la meseta spagnola, gli altipiani abruzzesi, i rilievi serbo-macedoni. La densità si attenua anche nella regione steppica della Russia meridionale, e in particolare accenna a valori molto bassi verso sud-est, al limitare della depressione caspica.

Presa nel suo complesso, tutta l'Europa occidentale si può considerare già come sovrapopolata; mentre nell'Europa orientale, dove c'è ancora spazio da conquistare all'agricoltura, vi è per conseguenza ancora un assai largo margine per l'incremento avvenire.

Anche la localizzazione e lo sviluppo dei grandi centri urbani è in sostanza una conseguenza dell'intenso sviluppo industriale del sec. XIX. Se consideriamo, come si suol fare abitualmente, grandi città quelle con oltre 100.000 ab., appare che le prime tra queste (prescindendo dall'antichità) si costituirono nella Europa meridionale, soprattutto come centri di commercio negli ultimi secoli del Medioevo (Costantinopoli, Venezia, Genova, Milano, Napoli). Parigi toccò i 100.000 ab. intorno al 1300; nel sec. XVI si aggiunsero Londra, Mosca, Anversa, Roma, poi Madrid, Lisbona, ecc.; nel sec. XVII Amsterdam, Vienna, poi, successivamente, altre capitali di stati importanti. Ma ancora nel 1810 l'intera Europa aveva soltanto una ventina di grandi città, delle quali cinque erano in Italia; ora ne ha 250, con circa 80 milioni di ab. in complesso, cioè il 16% dell'intera popolazione europea. Uno sguardo alla carta dimostra che queste grandi città - all'infuori delle capitali di stato (che tutte superano i 100.000 abitanti, tranne quelle del Lussemburgo, dell'Albania e di staterelli piccolissimi) - sono o grandi focolari industriali, ovvero centri del traffico marittimo o terrestre. Nei grandi distretti industriali sono numerose anche le città medie e piccole. Se prendiamo per es. le zone più fittamente popolate della Gran Bretagna, del bacino renano, della Germania media e della valle padana, nelle quali su 500.000 kmq. si affollano almeno 140 milioni di ab., si trova che di essi il 45% vive in centri di oltre 20.000 ab. Per contro nei paesi a debole densità, la popolazione vive in sedi rurali che sono anche di solito assai distanziate; la densità dei centri rurali si accresce in misura corrispondente all'intensificarsi dello sfruttamento agricolo del suolo, ma dipende anche da molte altre cause d'ordine storico e sociale, e anche d'ordine fisico (presenza di valli, di gruppi di sorgenti), che qui non è possibile indagare. Come indice più tipico dello sfruttamento agricolo si assume la percentuale della popolazione sparsa nella campagna (di contro all'affollamento urbano, che è indice di sviluppo industriale), ma solo per alcuni paesi europei si hanno dati attendibili su questa popolazione sparsa, la quale, per di più, è spesso computata con criterî differenti e mal comparabili.

L'assetto politico attuale dell'Europa. - La storia della costituzione degli stati europei si rileva dai paragrafi che seguono dedicati alla storia dell'Europa. Qui si può accennare che, in generale, tre tendenze si manifestano, soprattutto nell'epoca moderna, nella formazione e nello sviluppo degli stati europei. Anzitutto il principio di nazionalità, cioè la tendenza ad abbracciare tutto il territorio di una sola nazione; principio che, come elemento formatore degli stati, si rivela nell'Europa settentrionale sin dall'alto Medioevo, si afferma all'inizio dell'età moderna nell'Europa occidentale, si impone sempre più nel sec. XIX e acquista riconoscimento universale durante e dopo la guerra mondiale. Su di esso si fonda l'esistenza, non solo dei nuovi stati sorti dallo smembramento dell'antico Impero austro-ungarico, ma di quelli costituitisi alla periferia dello scomparso Impero russo. Il nuovo stato russo, che, anche al di fuori di queste porzioni periferiche oggi distaccatesi, alberga nel suo seno gruppi di popolazioni molto diverse, ha cercato di risolvere il problema delle nazionalità mediante un complicato sistema federativo. Un'altra tendenza ben manifesta, soprattutto negli stati più forti e vitali, è quella di allargarsi fino a raggiungere confini che assicurino una valida protezione, coincidenti perciò il più possibile con ostacoli o barriere naturali (rilievi montuosi, mari, grandi fiumi, ecc.). Questa tendenza si complica con l'altra, ugualmente evidente, soprattutto a partire dalla fine del sec. XVII, a procurarsi un sempre più largo e libero accesso al mare; essa presiede per es. allo sviluppo territoriale della Russia, della Germania, dell'Austria-Ungheria, ecc.

Prima della guerra mondiale l'Europa comprendeva ventisei stati indipendenti, dei quali cinque si governavano a repubblica, tutti gli altri erano monarchie costituzionali. Sei grandi potenze guidavano in sostanza i destini dell'Europa: Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Austria-Ungheria e Russia; esse abbracciavano in complesso l'82% dell'area e l'86% della popolazione europea. Vi erano poi 15 stati secondarî e 5 staterelli piccolissimi.

La guerra ha, come è noto, prodotto un profondo rivolgimento nella carta politica dell'Europa; per quanto si riferisce al suo assetto attuale e anche alle condizioni avvenire, ha avuto importanza essenziale non soltanto il crollo della monarchia austro-ungarica, che ha dato vita a tre stati nazionali, tutti e tre privi di sbocco al mare, ma anche la formazione di una ghirlanda di stati che, dal Mar Nero al Baltico, vengono a interporsi fra gli stati dell'Europa centro-occidentale e lo stato russo; questo ha perduto gran parte dei suoi sbocchi sui mari europei ed è tornato anche perciò in un notevole isolamento rispetto al resto dell'Europa. Il numero degli stati europei è cresciuto a 34 (esclusa la parte europea della Turchia); l'aumento interessa soltanto gli stati secondarî; perciò le cinque grandi potenze superstiti (due delle quali, Francia e Italia, ingrandite territorialmente, altre due, Germania e Russia, considerevolmente ridotte) non rappresentano più che il 63% dell'area e il 65% della popolazione dell'Europa. Il numero degli stati retti in forma monarchica (17) uguaglia oggi esattamente quello degli stati che hanno adottato forme diverse di regime repubblicano.

Nel seguente prospetto statistico gli stati europei sono elencati in ordine decrescente di popolazione (cifre arrotondate).

Bibl.: Molte delle vecchie opere sull'Europa mancano d'una trattazione generale sufficientemente ampia sull'intero continente; anche la Nouvelle Géographie universelle di E. Reclus si limita a poche pagine. Notevoli sono invece le Vorlesungen über Europa di C. Ritter, pubblicate peraltro solo nel 1863 da H. H. Daniel, e tra le opere del secolo scorso ancora la parte generale sull'Europa in La Terra di G. Marinelli (Milano 1885 segg., II, pp. 175-296) e quella nella Länderkunde von Europa di A. Kirchhoff (I, Vienna 1886, pp. 1-87). Più recenti sono il vol. Europa nei Grundzüge der Länderkunde di A. Hettner (Lipsia 1907; 4ª ed., 1930), la Allgemeine Länderkunde von Europa di H. Wagner (II: Erste Abteil. del Lehrbuch der Geogr. di H. Wagner, Hannover 1915), la Europa als Erdteil di F. Braun nell'opera Das Erdbild der Gegenwart di W. Gerbing (Lipsia 1926, pp. 1-76), la Europa (ausser Deutschland) di A. Philippson (3ª ed., Lipsia 1928; sguardo generale, pp. 1-107), la Europa als Ganzes di F. Machatschek (nella Enzyklop. der Erdkunde di O. Kende, Vienna 1929) e l'Eurpa (ohne Deutschland) nella Geographie di E. von Seydlitz (Breslavia 1931; parte generale di F. Machatschek, pp. 1-38). Le su citate opere del Hettner, del Wagner e del Philippson hanno carattere unitario, perché anche le parti speciali dell'Europa sono del medesimo autore; mentre le altre opere sono a collaborazione molteplice. Lo stesso si dica anche della grande Géograpgie Universelle in corso di pubblicazione (Parigi 1927 segg.) dall'editore Colin, nella quale manca finora la parte generale sull'Europa. Tra le opere inglesi sono notevoli: B. C. Wallis, Europe, in Stanford's Compendium of Geography and Travel, I, Londra 1924, con un'introduzione generale sull'Europa; L. W. Lyde, The Continent of Europe, Londra 1913. - Per l'antropologia in particolare, v.: E. Banse, Rassenkarte von Europa, Brunswick 1925; L. Bartucz, La composition anthropologique du peuple hongrois, Parigi 1927; R. Biasutti, Studî sulla distribuzione dei caratteri e dei tipi antropologici, Firenze 1912; M. Boule, Les hommes fossiles, Parigi 1923; Bryn Halfdan e K. E. Schreiner, Die Somatologie der Norweger, Oslo 1929; J. Czekanowski, Zarys antropologji Polski (Trattato d'antropologia della Polonia), Leopoli 1930; J. Deniker, Les races de l'Europe, Parigi 1898; id., Les races et peuples de la terre, 2ª ed., Parigi 1926; V. Giuffrida Ruggeri, Schéma d'une classification des hominides actuels, Ginevra 1912, id. in W. Deonna, Congrès inter. d'anthrop., XIVe session, Ginevra 1912; id., Contributo all'antrop. fisica delle regioni dinariche e danubiane e dell'Asia Anteriore, Firenze 1908; M. Gryglaszewska, Tipy kranjologiczne Szwajcarji (I tipi craniologici della Svizzera), Leopoli 1929; H. F. K. Günther, Rassenkunde Europas, 3ª ed., Monaco 1929; A. G. Haddon, Les races humaines et leur répartition géogr., Parigi 1927; A. A. Ivanovskij, Naselenije zemnogo šara (La popolazione della sfera terrestre), Mosca 1912; H. Lundborg e F. J. Linders, The racial characters of the Swedish Nation, Upsala 1926; F. v. Luschan, Völker, Rassen, Sprachen, Berlino 1922; O. Menghin, Weltgeschichte der Steinzeit, Vienna 1931; G. Montandon, L'ologénèse humaine, Parigi 1928; E. Pittard, Anthropologie de la Suisse. Crania Helvetica. Les crânes valaisans de la vallée du Rhône, Ginevra-Parigi 1909-1910; id., Les races et l'histoire, Parigi 1924; W. Z. Ripley, The races of Europe, Londra 1900; G. Schwalbe e E. Fischer, Anthropologie. Kultur der Gegenwart, Berlino-Lipsia 1923; G. Sergi, L'origine dei popoli europei e loro relazioni coi popoli d'Africa, d'Asia e d'Oceania, Torino 1908; J. Tchepourkovsky, Analyse des types principaux des peuples: russe, ukrainien, blancs-russe, letto-lituanien et polonais d'après la méthode géographique, Cracovia 1925. Per le condizioni economiche, vedi il vol. Europa nella Geogr. des Welthandels di Andrée, Heiderich, Sieger (4ª ed., Vienna 1926), dove però manca un capitolo generale, e la parte dedicata all'Europa nella Spezielle Wirtschafts-geographie di E. Friedrich (Berlino-Lipsia 1926). Dal punto di vista politico notevole l'opera di W. Vogel, Das neue Europa und seine historisch-geogr. Grundlagen, Bonn-Lipsia 1921 (2ª ed., 1925). - Per la flora, v.: A. Engler e O. Drude, Die Vegetation der Erde, Lipsia 1896 segg.; G. Hegi, Illustrierte Flora von Mittel-Europa, Monaco 1930. - Per la fauna si consultino: P. Pelseneer, La "ligne de Weber" limite zoologique de l'Asie et de l'Australie, in Bul. Acad. R. des sciences, ecc., Bruxelles 1904, pp. 1001-1022; L. S. Bergh, Über die Zusammensetzung und Herkunft der Fischfauna des Amur-Flusses, ecc., in Zool. Jb., Syst. Abt. XXXII (1912), pp. 475-519; F. Sarasin, Über die Geschichte der Tierwelt von Ceylon, in Zool. Jb. Suppl., XII (1910), pp. 1-158; R. F. Scharff, The history of the European Fauna, Londra 1899, p. 364; F. Zschokke, Die Beziehungen der mitteleuropäischen Tierwelt zur Eiszeit, in Verh. d. zool. Ges., XVIII (1908), pp. 21-77; C. Depéret, La classification des temps quaternaires et ses rapports avec l'antiquité de l'homme en Europe, in Rev. gén. des. Sc., XXXIV (1923), pp. 135-141; E. G. Dehaut, Contributions à l'étude de la vie vertébrée insulaire dans la région méditerranéenne occidentale et particulièrement en Sardaigne et en Corse, Parigi 1920; K. Holdhaus, Das Tyrrhenisproblem, in Veröffentl. des naturhist. Museums in Wien, XXXVII (1924); Soc. de Biogéographie, Histoire du peuplement de la Corse, in Bul. Soc. hist. et nat. de la Corse, Parigi 1926; R. F. Scharff, European animals, Londra 1907; E. L. Trouessart, La Géographie zoologique, Parigi 1890; id., La distribution géographique des Animaux, Parigi 1922. - Per la geologia vedi trattati generali citati sotto geologia e le opere che si riferiscono ai singoli paesi d'Europa (per le quali si veda la bibliografia alle voci sui varî stati).

Carte. L'edizione provvisoria inglese della Carta Internazionale del Mondo al milionesimo abbraccia quasi tutta l'Europa. La Carte géologique internat. de l'Europe, in 49 fogli (1895-1913), è alla scala 1.500.000. Cfr. inoltre: F. Beyschlag e W. Schriel, Kleine geologische Karte von Europa 1 : 10.000.000, Berlino 1925. Tra gli atlanti più in uso, l'Atlante internazionale del Touring Club italiano ha carte di tutti gli stati europei (tranne la Polonia e lRussia) a 1 : 1.500.000, e così pure lo Stieler e l'Atlante Vivien de Saint Martin e Schrader; l'Atlante DeAgostini; L'Atlante Andrée ha carte a 1 : 1.000.000 e ad 1 : 3.000.000. Il Methodischr Atlas zur Landeskunde von Europa di M. Friederichsen (Lipsia 1914-15) è rimasto incompleto. Inspirate a criterî metodici sono tutte le carte d'Europa nel Methodischer Schulatlas del Sydow-Wagner (19ª ed., Gotha 1931). Per la cartografia dei singoli stati vedi alle rispettive voci. Utile è il Geogr. Bilderatlas von Europa di W. Gerbing (Lipsia 1920-23).

Preistoria.

Difficile e prematuro è tentar di disegnare in linee schematiche la preistoria europea. Mancano, per estese regioni, ricerche scientifiche e talora anche ritrovamenti sporadici: differiscono i criterî d'indagine per quanto riguarda le età più remote: difficoltà gravi s'incontrano quando si voglia tentare di stabilire i sincronismi. Se non si può negare che i paesi intorno al bacino mediterraneo abbiano avuto un più celere ritmo progressivo, non si può disconoscere che centri attivi sorsero anche in talune regioni del Nord. La paleo-etnologia rinnova ora i suoi metodi accostando i risultati delle indagini preistoriche e protostoriche; si sottrae alla suggestione dei testi che raccoglievano tarde e alterate tradizioni, pur non ignorandole; sospende per il momento la discussione sul problema delle origini e della derivazione delle primitive correnti, che potranno meglio esser riconosciute quando meglio saranno conosciuti i varî cicli culturali; studia l'evoluzione di tutti i materiali paleoetnologici in aree determinate per risalire alla concezione di più ampî cicli.

Età della pietra. - L'età della pietra, intesa nel suo più vasto significato, comprende tanto le culture della passata era geologica (Pleistocene o Quaternario) quanto quelle dell'alba dei nuovi tempi (Olocene), ma nulla sappiamo delle loro origini, né sappiamo sincronizzarle con quelle degli altri continenti. Discussi i passaggi dall'uno all'altro periodo. S'inizia con l'età umana protolitica cui spettano le varie industrie di rozzissime schegge, in prevalenza silicee, dette cromeriana, clactoniana, pre-amigdaliana, facies press'a poco sincrone nei tempi corrispondenti al Pleistocene inferiore, quando si ebbero le prime grandi invasioni glaciali (Gunz; Mindel), mentre ancora persistevano elementi della fauna terziaria. Vi si ascrivono gli scarsissimi e discussi resti umani di Piltdown (Inghilterra) e Mauer (Heidelberg). Dopo la glaciazione di Riss si delineano due grandi cicli, amigdaliano l'uno, con le facies di Chelles e di Saint-Acheul, che prevalgono nell'Europa occidentale, premousteriano l'altro, con le rozze schegge mal ritoccate, che occupa l'Europa centro-orientale; l'uno e l'altro accompagnato dalla grande fauna calda; segue, con il raffreddarsi del clima e con l'avvento dei primi mammut (glac. di Wurm), l'industria mousteriana diffusa per tutta l'Europa: è questa l'età paleolitica (v.) propriamente detta, in corrispondenza del Quaternario medio.

L'Europa è allora popolata dalla razza di Neanderthal, ricostruita su abbondanti resti, di inferiore morfologia, e inoltre da forme umane più elevate quali l'uomo dell'Olmo (Arezzo).

Nell'ea miolitica o Paleolitico superiore, l'Europa vede parecchi cicli culturali, dei quali è detto alle singole voci, in parte successivi, come è dimostrato per la regione franco-cantabrica, in parte paralleli o interferenti. La Penisola appenninica aveva la cultura grimaldiana, che riempie tutto il Quaternario superiore, dagli ultimi tempi di Wurm in poi; più affine a nord con la cultura francese aurignaciana, che vide gl'inizî dell'arte, si lega a sud con la cultura africana capsiana. Fenomeni analoghi presenta la penisola iberica ove si ebbe la cultura ibero-capsiana, nel centro e a sud. La cultura solutreana sembra originarsi nell'Europa orientale, spingendosi verso occidente per intercalarsi tra le culture aurignaciana e magdaleniana nella regione franco-cantabrica. L'Europa settentrionale non presenta vestigia delle industrie quaternarie.

Gravissima questione quella dell'origine della seconda grande fase dell'età della pietra, detta età della pietra polita, o più comunemente neolitica. Sotto il dominio delle idee tradizionali sulle grandi migrazioni, la si ritenne senz'altro importata dall'Oriente o dall'Africa. Fatto certo è la scarsezza dei veri depositi neolitici: molte stazioni ritenute neolitiche sembrano piuttosto rappresentare una fase attardata. Il quadro della civiltà neolitica fu pertanto ricostruito su stazioni dell'età seguente. Si è oggi indotti a ritenere che i beni che costituiscono il patrimonio della cultura neolitica: addomesticamento degli animali, invenzione dell'agricoltura, della ceramica, della levigazione della pietra, della costruzione delle case, rito funebre, non giunsero insieme e con una sola corrente, ma furono, in parte almeno, conquiste sporadiche e indipendenti presso singole popolazioni del bacino mediterraneo e dell'Europa. Col crescere degli scambî e degli spostamenti di talune famiglie, quando si scoprirono i primi metalli, oro e rame, le singole scoperte venivano a fondersi nella cultura eneolitica. Possiamo in questa fase riconoscere il principio della storia della civiltà europea che sorgeva in parecchi centri, ma certo era più specialmente emanazione di centri meridionali. Dall'Egeo si diffondeva per le vie d'Europa il culto della doppia ascia, delle corna sacre, della divinità femminile: si assiste al trasformarsi, al contaminarsi di questi simboli religiosi, man mano che ci allontaniamo dal mondo in cui son nati. Due ampî cicli di civiltà si delineano: il ciclo orientale, che diffonde i simboli religiosi e la prima bellissima pittura vascolare; il ciclo occidentale, che si espande dall'Iberia con l'alabarda, da prima di selce poi di metallo, e col bicchiere "a campana".

Tre notevoli stirpi popolano ora l'Europa, ciascuna recante il contributo del proprio genio: i Mediterranei dolicomorfi melanocroi; gli Eurasiatici brachimorfi; i Nordici dolicomorfi xantocroi.

Età del bronzo. - Si accentua nell'età del bronzo (v.) il carattere regionale della civiltà europea, man mano che le popolazioni meglio vengono a conoscere gli ambienti in cui si sono stanziate e ne subiscono gl'influssi. Già fin dall'età precedente, si erano venute aprendo ai primi scambî, fra tribù e tribù, le grandi vie europee. La via atlantica, attraverso lo stretto di Gades, che portava dall'Oriente la callaite e l'oro, sempre associati nelle tombe eneolitiche dell'Europa occidentale, mentre i primi metalli, dalla Cornovaglia e dal Portogallo, s'importavano nella regione di Tiro. Per questa via probabilmente si diffuse il concetto delle costruzioni dolmeniche, costruzioni che con larga fascia cingono l'Europa centrale, dove, nell'età del bronzo, si affermava il rito crematorio. La via del Danubio, dal sud-est a contatto con l'Asia, per l'Europa centrale e occidentale, poiché le sorgenti del grande fiume avvicinano la vallata del Reno, che mediante non difficili passi permette il transito nella valle del Rodano. La via dall'Adriatico ai mari del Nord, per cui passava il più importante commercio dell'ambra, diffondeva nell'epoca di Hallstatt le prime conoscenze siderurgiche dal Norico e dall'Illiria alle vallate del Danubio e del Reno.

Dove prima si scoprisse la lega del bronzo, non è noto. Non si conoscono miniere di rame nella remota antichità a Cipro ove gli scavi archeologici furono mal condotti. Certo, Cipro ebbe una ricca produzione nell'età del rame, e nella seguente età del bronzo, legata al ciclo miceneo. Cipro, Sidone, Brindisi, con i suoi brundisina specula, ci appaiono importanti mercati del bronzo. Di non minore importanza è l'Iberia, che per le sue ricche miniere cuprifere ebbe, nell'Eneolitico, una fiorente civiltà. Si possono ormai riconoscere nell'Europa dell'età del bronzo, o per lo meno in gran parte di essa (in alcune regioni per l'incompiutezza delle ricerche e degli studî sarebbe ancora prematura ogni inquadratura sistematica) parecchi cicli, nei quali si elabora l'etnos delle sue geuti.

Ciclo tessalo. - Nella Tessaglia, nella Focide, nella Beozia, si svolgeva il ciclo tessalo su un preesistente strato eneolitico di più elevata cultura di quello coevo cretese-miceneo. Si svolge qui, circa dal 2500 al 2000 a. C., il primo periodo del bronzo, coevo al Minoico antico e medio, facendo subito sparire la bella ceramica dipinta e incisa eneolitica, che doveva largamente fiorire nel Minoico cretese. Le differenze di sviluppo furono attribuite alle due differenti razze: l'indogermanica e la mediterranea; si attribuiva alla prima la casa rettangolare, il megaron, dei villaggi tessali di Dimini e Sesklo, alla seconda la capanna circolare. Distinzione inesatta: case rettangolari e circolari appaiono coeve nell'Eneolitico in Sicilia a Branco Grande e Sette Farine, rettangolari al Pulo di Molfetta, a Pantelleria, a Filakopi, a Melos, a Magasà, a Creta; e nel periodo del bronzo a Cannatello (Girgenti).

Ciclo miceneo. - Il ciclo miceneo rappresenta il secondo periodo del bronzo attraverso tre fasi di progrediente sviluppo. La prima è quella delle tombe a pozzo (1700-1500 a. C.), la seconda è l'epoca dei sepolcri a cupola (1500-1400); la terza (1400-1250) segna l'espandersi della civiltà micenea, fino a Creta e a Cipro, all'Italia meridionale e alla Sicilia. La più fastosa espressione si ha nelle famose tombe regali dell'acropoli di Micene, delle quali nessun'altra più ricca vide l'Europa preistorica (v. cretese-micenea, civiltà). I palazzi di Micene e di Tirinto (1550-1400) segnano il più alto grado di sviluppo del megaron rettangolare indipendentemente dall'influenza cretese, e, a differenza di quelli cretesi, furono anche fortificazioni. Sotto quello di Tirinto, apparvero i resti d'una robusta costruzione circolare. Di questa età sono i grandi sepolcri a cupola.

Ciclo siculo. - Il ciclo siculo (v. sicilia: Preistoria) corrisponde al secondo periodo dell'Orsi (dalla metà alla fine del secondo millennio, approssimativamente) anche qui legato al precedente periodo eneolitico. Ci è rivelato dalle necropoli, mentre sconosciuti restano gli abitati: solo qualche capanna fu individuata. L'ἀνάκτορον di Pantalica è l'unico esempio d'una costruzione sicula megalitica. Le necropoli costiere si distinguono dalle montane. Si ingrandiva la cella, si elevavano le cupole, vere tholoi, che talvolta superano i due metri. Nelle celle funebri si scolpiscono panchine su cui i morti seggono a banchetto: nelle anti-celle probabilmentc si seppelliscono gli schiavi. Le necropoli montane dell'interno, mostrano minore l'influsso egeo, ma enorme è il numero delle celle: 2000 a Monte Dessueri, 5000 a Pantalica, con multiple camere, certo rispondenti a città erette in forti posture. La ceramica, che ha perduto la decorazione lineare di vivi colori, è ora a stralucido rosso e ci dà i grandi bacini globari, tra i quali quello colossale di Pantalica, alto più di un metro. Questi bacini sembrano imitare modelli metallici, ma il metallo è raro nelle tombe. Il bronzo provenne certamente dal ciclo miceneo, poiché molteplici sono i legami con questo, ma non si può escludere il ciclo iberico e il nuragico coi quali già nell'Eneolitico la Sicilia occidentale ha rapporti. Di tipo miceneo sono le spade, rare nelle necropoli costiere, più rare nell'interno, le daghe, i coltelli, i "rasoi", le prime fibule ad arco di violino, ad arco semplice, o serpeggiante, ben presto riprodotte e arricchite di nuove forme dall'industria paesana. Già nella necropoli di Castelluccio, risalente all'Eneolitico, le pietre di chiusura di talune tombe presentano la spirale micenea. Il tardo miceneo ci è attestato dalla copia dei vasi esotici di Thapsos-Magnisi di Matrensa e di Molinello; dalle conterie. Sconosciute sono le idee religiose dei Siculi, mentre complessa ed alta è la vita religiosa dell'ambiente nuragico. Instancabili nel perforare le rocce per i loro sepolcri, fin dall'età eneolitica, attivi nello scavare miniere, per l'estrazione della selce, i Siculi non eressero opere murarie fino al secolo VII o al VI. Le fortificazioni di Monte Finocchito, di Adernò, di Monte Bubbonia, forse risentono ormai l'influsso greco.

Ciclo nuragico. - In pieno contrasto con la civiltà sicula, il ciclo nuragico ci presenta tutta la teoria delle sue rudi costruzioni megalitiche delle quali il nuraghe (v.) è l'espressione più caratteristica. Per lungo tempo misteriosi, sparsi a centinaia nell'isola, specie allo sbocco delle valli, in vista l'uno dell'altro, è ormai certo che i nuraghi precipuamente rappresentano un sistema di difesa. Derivano tectonicamente dallo svolgimento della capanna circolare. Semplici dapprima, con una sola cella provvista di nicchiette laterali, hanno la vòlta costituita da filari di pietre, gradualmente sporgenti: si giunge quindi per gradi alle complesse e poderose costruzioni di Losa e di Palmavera, con più recinti, che sono vere cittadelle. Meno della Sicilia permeata da correnti esterne, la Sardegna anch'essa pertinente alla grande famiglia mediterranea, svolgeva, in diversa condizione ambientale, i germi della sua civiltà. Le domus de gianas sono un tipo di sepoltura eneolitica, che si continua nell'età del bronzo e del ferro, giungendo fino alle cosiddette "catacombe", grandiose e imponenti, di S. Lucia di Bonora. Le "tombe dei giganti" sono un altro tipo di sepoltura nuragica, che invece derivano dall'evoluzione dei dolmen, legati al ciclo eneolitico iberico. I villaggi sono costituiti da capanne circolari con muretti di pietra. Le più notevoli sono quelle di S. Vittoria di Serri, con la porta, i giacigli alle pareti, i focolari, gli altari, su cui stava eretta la bipenne sacra. Un complesso pensiero religioso attestano le fonti e le caverne sacre, i santuarî presso i quali si rinvennero le singolari statuette iperantropiche, i templi semisotterranei col pozzo protetto dalla cupola, l'ara sacrificale nel pronao superiore. Nel culto antichissimo per gli avi eroizzati, dormienti nelle "tombe dei giganti), culto che a grado a grado saliva alla concezione del Sardus pater, confluivano anche poi elementi naturalistici. L'acqua, sanatrice dei morbi, fecondatrice dell'arido suolo, purificatrice della colpa, diveniva lo strumento del dio liberatore. La ricca serie dei bronzi e delle forme di fusione, se pur presenta qualche modello introdotto da fuori, attesta il valore della produzione paesana. Si conoscono miniere di rame sfruttate in epoca nuragica. Al ciclo nuragico certo si lega la cultura delle genti che eressero nelle Baleari i talayots e le navetas, e a Pantelleria i sesi. Se non tutti i dotti accettano che i Shardana e i Shakasha ricordati nelle iscrizioni di Medīnet Abu tra i popoli del mare, siano i Sardi e i Siculi, certo i Sardi, a differenza dei Siculi consanguinei, non ignorarono le vie del mare. Bronzi specifici come l'accetta "a spalla" sono diffusi sulle coste sicule e iberiche corrispondendo ad analoghe forme del bacino orientale mediterraneo; spade identiche alle sarde stanno nel materiale iberico; frequenti sono le barche votive: la barca è anche scolpita nel sepolcreto eneolitico di Anghelu Ruju; resti di pesci e molluschi d'alto mare si raccolsero in depositi preistorici sardi. Affinità generica con le costruzioni megalitiche delle Baleari, di Pantelleria e di Sardegna hanno i cosiddetti "templi" e "gigantia" delle isole maltesi, che si legano d'altro lato a più cicli del Mediterraneo.

Ciclo appenninico. - Con questo ciclo la concezione della cultura enea nella Penisola appenninica entra oggi in una nuova fase. Ricerche più progredite già da tempo erano venute mettendo in maggior valore lo studio delle stazioni provvisoriamente dette extra-terramaricole. Scoperte successive, come quelle delle caverne di Cetona e del Gargano, offrono nuove conferme. È possibile ricostruire un quadro culturale del maggior interesse. L'identità dei bronzi e degli oggetti d'ornamento si spiega col commercio. Ma la ceramica presenta i buccheri nero-lucidi con le capeduncole e i vasi a decorazione incisa di stile geometrico, che non si hanno nelle terramare (v.). La stessa evoluzione dell'ansa lunata, che si ritenne l'indice caratteristico delle terramare, si può meglio studiare presso le stazioni enee della Marca alta o dell'Italia meridionale, dove è più ricca e completa la serie, che presso le terramare. I bronzi si fusero nelle stazioni extra-terramaricole, e non vi è ragione di negare ogni importanza al rame e allo stagno dell'Etruria. Il rito crematorio che si credette esclusivamente importato col bronzo da un nuovo popolo, il terramaricolo, apparve al Pianello di Genga, in prov. di Ancona, e a Timmari nel Materano, ma queste necropoli sono relativamente tarde. Le ultime ricerche hanno dimostrato che non esiste al Pianello una terramara che doveva documentare la discesa verso sud della corrente immigratoria. Al ciclo della civiltà appenninica, nella quale, meglio che nei terramaricoli, riconosciamo gl'Italici, indubbiamente si legano i dolmen delle Puglie: non siamo invece informati riguardo ai menhir pugliesi, mancando ricerche sistematiche. Le terramare della bassa valle del Po e dell'Emilia, di cui si dirà a parte, rappresentano la seconda fase del bronzo, parallela alla precedente. Non si hanno prove indiscutibili della provenienza della corrente terramaricola dalla valle danubiana, concezione prevalente nelle scuole, quando sorse la teoria degli Indoeuropei in seguito agli studî glottologici. La stazione ungherese di Tószeg, citata in appoggio alla teoria, non contiene l'ansa lunata: questa deriva nell'Europa centrale da depositi posteriori, come di età avanzata sono le palafitte della valle della Sava: recenti sono i crannogs dell'Irlanda e della Scozia avvicinati alle terramare.

Ciclo ungarico. - La ricchezza delle miniere di rame, e la poca lontananza dei depositi di stagno, doveva permettere all'Ungheria di raggiungere ben presto un'elevata civiltà che irradia sulle regioni contermini e giunge fino alla Danimarca a N., al Trentino a S., e alla valle danubiana (v. danubiane, civiltà), interferendo col ciclo miceneo. Nella natura pianeggiante del paese, che consentiva l'addensarsi della popolazione, nei facili accessi ai paesi del sud, donde risalivano gli elementi, presto assimilati, della cultura mediterranea, specialmente emananti dal ciclo miceneo, dobbiamo vedere altre ragioni del rapido prosperare dell'Ungheria. La civiltà enea dura a lungo nell'Ungheria: i suoi prodotti compenetrano ancora gli strati corrispondenti al primo periodo di Hallstatt, nell'inizio del ferro. La sua stessa ceramica, con le sue borchie decorative, risente l'influsso metallico. Carattere dell'elegantissima decorazione dei bronzi ungarici è il largo uso delle spirali, dapprima riunite in bande, poi trasformate in foglie falcate, fino alla stilizzazione del cane corrente, motivi questi che certamente derivano dal mondo miceneo. Già d'altronde fino dall'età del rame, l'Ungheria era stata in rapporti con la Balcania: basti qui ricordare la ceramica eneolitica balcanica con la spirale graffita e dipinta. I bronzi ungarici, tra cui emerge la magnifica serie delle impugnature piene delle spade e dei pugnali, agevolmente si riconoscono anche per l'uso dell'antimonio nella lega. Ma nonostante gli studî tipologici, né la sistemazione del Miske in nove periodi, sulla traccia della sistemazione dell'Evans per Creta, né quella in quattro periodi del Reinecke, che tenta di applicarla a tutta l'Europa centrale, ci offrono ancora una base sicura per i sincronismi.

Ciclo dell'Europa centrale. - Interferisce in parte col ciclo ungarico e comprende la Boemia, l'Austria, la Germania meridionale e la Svizzera settentrionale (v. danubiane, civiltà). È sul suolo che spetta oggi alla Boemia che compare dapprima la cultura di Aunjetitz (Únĕtice), con i suoi pugnali triangolari, corti e larghi, con gli spilloni a forma di sciabola, con la ceramica d'aspetto metallico, che nel centro della Germania e della Slesia deriva da quella megalitica e dalla ceramica a zone. Le tombe sono a inumazione. Dalla cultura di Aunjetitz deriva quella di Leubingen rivelataci soprattutto dalle tombe reali di Leubingen, Helmsdorf, Nienstedt, Kirchheilingen, con grandi costruzioni di legno, o a cista di pietre molto importanti per la storia dell'architettura. Si sapeva costruire la vòlta. La cultura di Adlerberg (2100-1800 a. C.), segna nella Germania occidentale il primo periodo del bronzo. Il rito funebre è quello dell'inumazione. Perdurano numerosi gli oggetti di pietra, mentre l'ascia duplice, gli ornamenti d'avorio, il mollusco Columbella rustica, comprovano attivi rapporti col Sud. Corrisponde press'a poco alle predette, la cultura bavara di Straubing, che possiede una più bella ceramica. Nel secondo periodo del bronzo, compaiono nell'Europa centrale le grandi tombe a tumulo, nelle quali si notano tre gradi d'evoluzione. Dapprima, nei sepolcri di inumati, la ceramica mostra ancora stile decorativo di derivazione eneolitica; in seguito, accanto all'inumazione, compare l'incinerazione, che si fa prevalente nel terzo periodo con la cultura di Dantenheim (1400-1200 a. C.).

Ciclo di Lusazia (Lausitz). - Nel centro della Germania (v.), nella regione tra l'Elba e l'Oder sul finire dell'età del bronzo (1300-500 a. C.), sorgeva una civiltà che fece sentire la sua influenza sui paesi contigui, senza raggiungere, a nord, il Baltico, ma pervenendo all'Ungheria e alla valle danubiana, al Tirolo. La ceramica possiede vasi a stralucido rossicci o nerastri, di sagoma accentuata, col ventre sporgente ben distinto dall'alto collo: altri sono triconici con piccole anse. Provengono da necropoli d'incinerati povere di metallo, e derivano dalla cultura eneolitica di Bernburg.

Ciclo nordico. - Possiamo raggruppare in un vasto circolo la Germania settentrionale, la Danimarca, la Svezia, la Norvegia, (v. nordiche, civiltà), parte della Russia, paesi nei quali la civiltà enea si svolse dal penultimo millennio fin quasi alla metà dell'ultimo. Se ne ha il centro nella regione costiera e insulare del Baltico occidentale, che ripete le condizioni ambientali dell'Egeo. Tutta la civiltà enea nordica è, dapprima, tributaria del Sud: i tipi importanti si riconoscono agevolmente: non si sapevano ancora sfruttare le miniere di rame. Compaiono in seguito le forme indigene, talune anzi strettamente legate a determinate regioni, per esempio alla Svezia, alla Danimarca, all'isola di Bornholm. Si ha la decorazione incisa, l'incrostazione di materie più pregiate; le spade con le belle impugnature gareggiano e superano ora quelle ungariche; si conosce l'arte di applicare lamine d'oro sull'argilla (asce votive); si aumenta la bellezza dei vasi, incrostandoli d'ambra o aggiungendo uno speciale fondente per accrescerne lo splendore. I vasi d'oro di Boeslunde, per la magnificenza e l'eleganza delle forme, non sono inferiori a quelli famosi di Micene. Povera e rozza è invece la ceramica.

Possiamo ricostruire il quadro della civiltà nordica, fecondata da un largo commercio col Mezzogiorno, che tuttavia non perde l'impronta della propria originalità; fenomeno che trova altri riscontri etnologici, per esempio con quanto avveniva in Sardegna e sulle Murge materane. Forse i fili d'oro con tacche regolari, trovati spesso entro vasi speciali detti Hängebecken, servirono da moneta: oggetto di largo scambio era l'ambra. Le case e i villaggi conosciuti spettano a tempi tardi. Le capanne sono di varia forma: ora semi-sotterranee, col tetto rilevato a cupola; altre volte circolari od ovali col tetto conico; oppure rettangolari col tetto inclinato e anche provviste di portichetto. Nelle paludi alla foce della Vistola, le abitazioni sono erette su pali e trovano rispondenza negli Stolpepod della Norvegia, oltre che nella civiltà svizzera. Le case di Buch, presso Berlino, rettangolari e provvedute di portico, come i megara, erano allineate lungo vie. Un edificio maggiore si deve supporre destinato a speciali pratiche della vita collettiva.

Dalle sepolture, per speciali condizioni, si sono potuti avere resti ben conservati di vesti di lana. Gli uomini portavano una tunica corta ed un mantello: le gambe erano fasciate; il capo protetto con basso cappuccio o calotta. Le donne avevano un ampio vestito con le maniche strette da una cintola ornata di borchie di bronzo; i capelli accolti in una reticella. Complessa è la vita spirituale nel ciclo nordico. Le urne-capanne e quelle con la rappresentazione plastica della faccia umana e del collo, che contengono le ceneri del defunto, attestano la credenza nell'immortalità dell'anima. Le prime sono frequenti nella regione tra il Harz, l'Elba, il Mulde: si riscontrano con quelle scandinave e con quelle laziali del primo periodo del ferro. Le seconde, s'incontrarono a N. di Posen e nella Prussia occidentale, e hanno rispondenza con quelle troiane eneolitiche. Vasi materani eneolitici, presentano forse un riflesso di questa decorazione. La straordinaria scoperta fatta nella torbiera di Trundholm, a nord dell'isola Seeland, d'un piccolo carro che porta un cavallo trainante un disco verticale di bronzo, ricoperto d'oro, fu la prima prova del culto solare che i testi ricordavano per gl'Iperborei, i Germani, i Celti. Identici i dischi solari scoperti in Irlanda nel Wexford. Né questi simboli eliaci sono ignoti al sud, dove anzi risalgono a età più antica: premicenea la lamina argentea di Syra che reca, ripetuta, la figurazione del cavallo, trainante il disco solare; unicunt, in Italia, il disco di corno della terramara di Castione dei Marchesi (Parma). Sulle rupi scandinave è con molta frequenza rappresentata la barca col disco solare, come sui monumenti dell'Egitto e di Ninive, materializzazione del mitico viaggio dell'astro che doveva render penose le lunghe notti nordiche. La prua delle barche solari scandinave spesso assume la forma di una protome di cigno. Il culto del cigno astrale si diffuse per l'Europa; al ciclo eliaco si legano eroi il cui nome è Cycnus; tale il nome del re ligure che Apollo trasformò in questo uccello. Si vide l'ultimo ricordo del cigno astrale nelle protomi accostate a un disco, che decorano le urne della Scandinavia, della Germania, dell'Italia, sul finire dell'età del bronzo o sull'inizio del ferro. Alle manifestazioni della vita religiosa si legano la musica e la danza. Sul cadere dell'età del bronzo, son proprî della Danimarca, della Svezia meridionale, del Meclemburgo, i grandi luri - derivati dall'evoluzione del corno - trovati sempre a due a due e accoppiati, il destro col sinistro, che venivano imbracciati. Si è riconosciuto che disponevano di 20 tonalità musicali e dovettero probabilmente servire a pratiche religiose, meglio che alla guerra.

Ciclo occidentale. - Questo, dalla parte occidentale della Svizzera alla Francia, alla Britannia, è sotto l'influsso, più o meno diretto, degli altri cicli della civiltà europea. Dopo l'età eneolitica, bene attestata, si ha il primo periodo del "bronzo ricco di stagno" (1900-1600 a. C.), con le accette a margini rilevati che hanno assai spesso il tagliente allargato a spatola. Si assiste al nascere delle spade e dei pugnali triangolari, ma in confronto della magnifica produzione coeva della Danimarca, questa dell'Occidente resta ben povera. Nel secondo periodo (1600-1300 circa a. C.), mentre persistono le accette piatte, compaiono i paalstab (accette con margini rilevati ad alette) e tutta una svariata serie di spade, di coltelli col manico fuso, di spilloni e braccialetti. Compare la cremazione. Fenomeno singolare ci presenta l'Iberia cosicché non sarebbe esatto, almeno per ora, parlare d'un ciclo iberico, nell'età del bronzo, sebbene l'Iberia possedesse miniere di rame. Ma dopo la bella civiltà eneolitica, che ebbe tanta forza espansiva per l'Europa, dopo la civiltà argarica (da El Argar) emanante da Almería, che spetta alla fine dell'eneolitico o al principio del bronzo, sembra quasi che l'Iberia si racchiuda in sé stessa, finché cade sotto il dominio della civiltà europea di Hallstatt, civiltà guerriera, che avanza recando le grandi spade ad antenne. Non sono rari i ripostigli e gli oggetti di bronzo sporadici, ma ci mancano gli abitati. Per ora, non sono dimostrati influssi micenei; le cosiddette "mura ciclopiche" spettano alla civiltà indigena iberica, del primo periodo del ferro.

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Etnologia dell'Europa antica.

I. Le genti preindoeuropee. - Tutta l'Europa, prima che con l'età eneolitica s'iniziassero le migrazioni indoeuropee, era abitata da altre genti, come dimostrano i trovamenti archeologici, risalenti alla pura età della pietra. Di quei primi abitanti spesso non riusciamo ad avere che informazioni generiche riguardanti la loro civiltà esteriore, e talora le loro caratteristiche antropologiche (come per i piccoli cranî dolicocefali di Neanderthal nella Prussia, e di Spy nel Belgio; per i grandi cranî dolicocefali di Cro-Magnon e di Laugerie Basse in Dordogna; e per i cranî negroidi della grotta Grimaldi presso Mentone); ma in alcuni casi ai dati degli scavi si aggiungono elementi linguistici e notizie tradizionali. Di fatto, in piena epoca storica, nelle zone più montuose o periferiche, e nelle isole, sopravvivevano ancora parecchi nuclei di popolazioni che, per la lingua, la civiltà spesso arretrata, i costumi, i culti, risultano verosimilmente di razza preindoeuropea, superstiti di genti indigene antichissime, le cui sedi originarie potevano essere assai più estese, avanti le travolgenti migrazioni delle genti indoeuropee. Tralasciando quindi quei più antichi gruppi, di dubbia classificazione antropologica, di lingua e provenienza ignota e quindi storicamente inafferrabili, diamo un rapido sguardo alle condizioni etniche e storiche delle genti che vivevano in Europa subito innanzi le migrazioni indoeuropee, e che in parte riuscirono a sopravvivere.

a) Iberi. - In epoca storica gl'Iberi erano limitati alla penisola che prese il loro nome, a qualche zona della Gallia meridionale, come l'Aquitania, alle isole Baleari, e a parte della Corsica e della Sardegna (per gl'Iberi supposti progenitori dei Sicani, vedi II d); ma prima della migrazione celtica, la quale si spinse fino in Iberia, essi dovevano estendersi maggiormente verso il nord, come risulta dalla fonte di Avieno (v. 414-420) e dai riscontri onomastici. Ancora oggi, nella zona montuosa in fondo al golfo di Biscaglia, i Baschi pare rappresentino gli ultimi superstiti degli antichi Iberi, o d'una parte di essi; e il loro nome di Baschi, e quello di euskara per la loro lingua, richiamano antiche aree iberiche, all'infuori di quelle attualmente occupate, poiché il primo nome va unito con quello dei Vascones che vivevano fra l'Ebro e i Pirenei, e il secondo con quello degli Ausci dell'Aquitania. Siamo dunque di fronte ad un popolo antichissimo, che, per causa dei sempre nuovi invasori, si è andato man mano restringendo rielle più impervie delle zone inizialmente occupate. La lingua basca deriva certo da una delle lingue parlate nell'antica Iberia (Strabone, III, 1, 6 parla di due lingue iberiche) nota a noi dalle brevi epigrafi e dalla toponomastica; e può essere comparata in primo luogo coi dialetti caucasici (cfr. II, c, né mancano riscontri toponomastici), e secondariamente con quelli camitici settentrionali (si ricordino le notizie sui Libî in Sardegna) anche per accordi onomastici ibero-libici. Ciò porterebbe a immaginare da una parte la diffusione per tutto un grande arco attraverso l'Europa, dall'Iberia al Caucaso, di antichissime genti di tipo linguistico abbastanza omogeneo, arco poi rotto dall'intromissione di nuove genti; e dall'altro un rapporto, non meglio precisabile, fra gl'Iberi e i Camiti dell'Africa settentrionale (forse gl'Iberi mandarono genti fra i Camiti d'Africa, o viceversa; o forse furono preceduti nell'Iberia da genti camitiche).

b) I Pitti-Scoti. - A nord-ovest degl'Iberi, in parte della Francia attuale e delle zone contigue, e nelle isole Britanniche, i costruttori di monumenti megalitici sembrano discendenti dai popoli neolitici, e trasmettitori d'una quantità di costumi, di termini lessicali, e di fenomeni fonetici non indoeuropei ai successivi migratori celti: quei popoli di civiltà arretrata che nell'età romana, dai loro tipici tatuaggi, venivano detti Pitti, e gli Scoti. E secondo Tacito (Agric., 11) dovremmo ammettere un rapporto etnico tra alcuni di costoro (i Siluri) e gl'Iberi.

c) Liguri e affini. - Verso il nord-est invece vivevano quelli che i Greci chiamarono Ligyes (Liguri), e che pare dessero a sé stessi il nome di Ambroni (Plut., Marc., 19). In età classica erano detti Liguri specialmente gli abitanti dell'Appennino settentrionale, e di parte delle Alpi occidentali, rinserrati in quella cerchia montuosa fra Etruschi e Celti. La loro lingua, non indoeuropea, ma con forti infiltrazioni dai vicini popoli indoeuropei, si poteva distinguere da quella iberica; tuttavia le due genti dovevano essere affini se la Corsica e la zona degli Elisici fra il Rodano e i Pirenei si potevano dire così iberiche come liguri (Ecateo), e se la toponomastica tipica ligure si spinge fino in Iberia, dov'esisteva una città di nome Ligustico: con ciò s'accorda anche l'uniformità della facies culturale, specie nel neolitico. Che i Liguri avessero originariamente sedi più ampie di quelle storiche risulta non solo dalle affermazioni antiche, che possono essere ipotesi, ma anche da concomitanti riscontri onomastici. Così la desinenza -asca, che pare tipica ligure, si riscontra non solo in Piemonte, Lombardia, Emilia, Francia e Corsica, ma anche in Svizzera, Baviera e Spagna. Del pari la desinenza -incum si riscontra in Italia, Francia, Spagna, Sardegna e Corsica. Affinità culturale e onomastica pare intercorrere anche fra i Liguri, e altre genti d'Italia, che, dalla loro civiltà, conservatrice e sviluppantesi senza iati, paiono antichissime. Così per gli Elimi, antichi indigeni della Sicilia (connessi arbitrariamente coi Troiani in base a futili argomenti), ritiratisi nell'estremo occidentale della loro isola di fronte alle migrazioni italiche dei Siculi e Sicani (cfr. II, d), e che in epoca storica usavano una lingua, nota da brevi iscrizioni monetarie, né greca, né italica, né semitica. E così pure, forse, per gli Euganei, occupanti prima dell'arrivo dei Veneti tutta la Padana nord-orientale, e poi rinserrati sui monti del Veronese, senza poter sfuggire alle infiltrazioni retiche (cfr. I, f), sicché alcune località venivano dette da uno stesso autore retiche ed euganee, e alcune genti, come i Camunni, retiche da un autore (Strab., IV, 206) ed euganee da un altro (Plin., Nat. Hist., III, 20, 134). E altrettanto sarà per gli Asili pre-sabellici del Piceno, che sembrano esistiti fin dall'età neolitica, e di cui ci sono giunte alcune iscrizioni inintelligibili, dette a torto paleosabelliche.

d) Caucasici. - Altre genti preindoeuropee, che sembrano etnicamente connesse con quelle elencate fin qui, hanno i loro lontani discendenti in alcuni dei molti popoli attuali del Caucaso, parlanti numerosi dialetti distinti; in quelli cioè di lingue caucasiche (esclusi quindi gl'indoeuropei e gli uralo-altaici): del gruppo meridionale (Georgiani, Mingrelî, ecc.), di quello nord-orientale (diviso in due sottogruppi: dei Ceceni, e dei Lesgi), e del nord-occidentale (Abchazi, Circassi, ecc.), ora abbastanza lontani tra loro, ma risalenti, in origine, ad una comune lingua proto-caucasica (cfr. la voce eaucasiche, lingue).

e) Pregreci. - Che nella penisola ellenica siano vissute genti pregreche risulta, più che dalle ipotesi erudite dei Greci sui Pelasgi e simili, dai dati archeologici della pura età litica e quindi anteriori alla diaspora indoeuropea; dai molti toponimi di aspetto non greco, talora di tipo mediterraneo, e talora di tipo anatolico; dai nomi non ellenici caratterizzanti animali e vegetali indigeni; e dai culti locali, di aspetto arcaicissimo e di nome non greco. Quanto alle igole dell'Egeo esse furono certo pregreche fino al sec. XV, in cui vi cominciò la colonizzazione ellenica (cfr. II, a); e in piena epoca storica non vi mancavano gruppi di discendenti dagli antichi abitanti, come per gli Eteocretesi nell'estremo orientale dell'isola di Creta. Ma quei Pregreci poi, da una serie d'indizî, specie somatici e craniologici, paiono da dividersi in due strati successivi, di cui il più recente di tipo anatolico. Sarà lo strato più antico di tipo ibero-caucasico, come per le aree sopra esaminate?

f) Etruschi e affini. - Un insieme etnico d'origine complessa, che di poco deve aver preceduto gl'Indoeuropei nell'Europa media e meridionale, rompendo la compagine originaria ibero-caucasica, è costituito dalle genti etrusche ed etruscoidi. Per le loro connessioni originarie, antichissime, e per l'influsso delle genti con cui vissero a lungo in contatto, fuori e dentro della penisola italiana, la lingua etrusca presenta termini e fenomeni affini a quelli delle lingue caucasiche, delle anatoliche, delle ariane, e in specie delle italiche, ma il tutto, a quanto pare, sopra un substrato peculiare. Provenendo, forse, in età neolitica, dagli estremi orientali dell'Europa, attraverso la zona danubiana, e inviando, forse, qualche filone verso il sud (come i palafitticoli della Peonia, e gli abitanti di Lemno pregreca, se le loro epigrafi si devono considerare etruscoidi, invece che traciche, come pare preferibile), essi si stabilirono, al termine dell'età neolitica, con stanziamenti palafitticoli prima nei laghi transalpini, e poi nei cisalpini, nelle zone cioè in cui abbonda la toponomastica di tipo etruscoide, in cui si rinvennero epigrafi, con evidenti caratteristiche etruscoidi, divisibili in varî gruppi, e in cui gli antichi collocavano i Reti, ancora parlanti la loro lingua ai tempi di Adriano, e altri popoli affini, ch'essi consideravano d'origine etrusca. Più tardi, con l'età del bronzo, una parte dei palafitticoli orientali si stanziò a sud del Po, nelle stazioni chiamate terramare; e in fine una parte dei terramaricoli, avendo sviluppato sotto influssi esterni, specie balcanici, una nuova fase di civiltà detta Villanoviana, mandò, sotto la spinta della migrazione veneto-illirica (cfr. II, c), delle propaggini oltre l'Appennino, dando origine, fra il X e il IX sec. alla gente più propriamente detta etrusca. Costoro poi, sviluppata la loro civiltà in rapporto col nuovo ambiente agricolo, climatico, metallurgico e commerciale, e con l'influsso degli scambî coi coloni Greci e poi Fenici, pur essendo divisi politicamente, ebbero, specie nel sec. VII e VI, un poderoso sviluppo economico e coloniale: verso sud, a danno di Falisci, Latini (e Romani) e Campani; verso est, dove si dice che conquistassero 300 centri abitati umbri; verso nord, dove, superato l'Appennino, s'imposero, circa il 550, in parte della Padana, con la cosiddetta "civiltà della Certosa"; verso ovest conquistando l'Elba, e ponendo piede in Corsica e in Sardegna; verso nord-ovest, in fine, dove si spinsero, innanzi la metà del sec. IV, in zona ligure, fino a nord dell'attuale golfo della Spezia. Tale espansione coloniale ebbe però presto termine: nel Lazio, alla fine del sec. VI con la vittoria dei Latini ad Aricia e con la ribellione di Roma; in Campania, per le vittorie di Aristodemo di Cuma e poi di Gerone di Siracusa (a Cuma, 473 a. C.), e per l'avanzata sabellica (cfr. II, d); a nord, per l'invasione celtica (cfr. II, e).

g) Finni. - A nord del Caucaso, in tutta l'Europa nord-orientale, pare che le genti indoeuropee siano state precedute da quelle finniche. Anche ora varî dialetti, gli uni di tipo finnico, gli altri di tipo ugro (affini all'ungherese dei Magiari, scesi in Ungheria nel sec. IX d. C.), sono parlati nelle terre russe; quelli nel nord-ovest, e questi nel sud-est. La più antica notizia letteraria sui Fenni si ha in Tacito (Germ., 46), secondo cui essi conducevano vita sordida: non arma, non equi, non penates; victui herba, vestitui pelles, cubile humus. I Fenni di Tacito sembrano localizzati nella Russia centrale, mentre Procopio (Got., II, 15), e Jordanes (Get., 3, 21) conoscono Skritifinni (= Finni e Lapponi) fino in Thule, ossia nella penisola scandinava. Pare dunque che quella gente, forse in origine connessa con gli Altaici d'Asia (cfr. III, b), sia proceduta man mano dal sud-est verso il nord-ovest, sotto la spinta delle migrazioni indoeuropee; finché, ricacciata dalle genti slave (cfr. II, g) andò in massima concentrandosi nel nord-ovest (Estoni, Finni, Carelî, Lapponi), e nel nord-est (Sirieni, Samoiedi, Ostiacchi, ecc.).

II. Le genti indoeuropee, e le loro migrazioni. - Dalle zone originarie, probabilmente transuraliche e transcaspiane (dove anche nel Medioevo si parlavano dialetti indoeuropei così di tipo centum [il tocarico] come di tipo satem: [il sogdiano]) delle genti indoeuropee, sotto l'impulso dell'aumento demografico e delle migrazioni di altri popoli, si andò svolgendo una grandiosa e durevole immigrazione, a grandi ondate, verso il sud-est (Indo-Iranici), verso il sud-ovest (Hittiti e Armeni), e verso l'ovest, nelle terre europee: è di questa ultima diaspora che intendiamo trattare per sommi capi.

a) Genti greche. - Penetrarono nella loro penisola in varie ondate; prima gli Ioni, stanziatisi nell'Attica e nell'Eubea, con alle spalle gli Eolî settentrionali (dalla Tessaglia alla Beozia) nelle parti nord-orientali; e oltre, gli Eolî meridionali, o Arcadi, nel Peloponneso, nel periodo eneolitico, dal 2500 al 2000 circa a. C. Più tardi, circa il 1550, spinti dalla migrazione tracia (cfr. II, b) mentre si stanziavano a nord della Tessaglia i Macedoni, anch'essi Greci, come risulta dalla loro onomastica e dai loro costumi, scendevano dall'Illiria e dall'Epiro, come poi verranno detti, in cui si ritrova toponomastica di tipo dorico, per la Grecia nord-occidentale, le genti di parlata acheo-dorica, le quali, a mezzo dell'età del bronzo, come risulta dai dati archeologici, in parte piegando verso est nella valle dello Sperchio rompevano la compagine eolica tessalo-beotica (concorrendo a provocare la colonizzazione degli Eolî nelle isole settentrionali dell'Egeo e nell'Eolide d'Asia, coeva con la ionica nel medio Egeo e nella Ionia); e in parte scendevano nel Peloponneso, dove, divisi come nelle due morse d'una tenaglia, gli uni toglievano agli Arcadi le zone argive (XVI sec.), quelle laconiche (XIV) e assai più tardi la Messenia (sec. VIII); e gli altri occupavano l'Acaia e poi l'Elide (sec. XIV e segg.). Di fronte a questa invasione acheo-dorica, gli Arcadi, in un primo momento, trovarono scampo colonizzando le isole dell'Egeo meridionale (sec. XIV), le coste della Pamfilia, e parte della lontana Cipro (secoli XII-XI); ma poi anche gli Achei-Dori iniziarono la colonizzazione, occupando (secoli XIII-XII) Creta e Melos, le Sporadi e le coste della Doride. La colonizzazione greca ebbe un secondo periodo di sviluppo nei secoli IX-V, durante i quali furono popolate di colonie le coste dell'Ellesponto, del Mar di Marmara (Propontide) e del Mar Nero (Ponto Eusino), della Tracia meridionale, del delta del Nilo (Naukratis) e della Cirenaica, della Magna Grecia a cominciare da Taranto, e della Sicilia, a cominciare da Nasso, infine della zona massaliota (Marsiglia), donde diramarono sotto-colonie sulle coste dei Liguri e degl'Iberi.

b) Genti traciche. - La migrazione acheo-dorica pare fosse provocata dall'arrivo alle sue spalle delle genti traciche: il che ci porta dunque ai secoli XVII-XVI a. C. A loro volta i Traci erano seguiti, e sospinti, dagl'Illirî (v. appresso), che tolsero loro parte delle terre occupate, costringendoli a riversarsi nell'Asia Minore, e dando origine ai Frigi, loro consanguinei come risulta evidente dai testi epigrafici, e ai Misî, e contribuendo così alla caduta dell'impero hittita (sec. XIII). Fluttuazioni si ebbero anche al confine tracio-macedone, se è vera l'affermazione di Strabone (VII, 7, 1, 8) di gruppi traci abitanti in Macedonia. Alla metà del sec. IV i Traci giungevano dallo Strimone al Danubio; al principio del III coi Geti e Daci s'erano estesi oltre il Danubio fino al Tyras in zona prima scita (cfr. II, f); e ai tempi di Strabone i Geti e Daci giungevano dal Ponto Eusino fino ai Germani. La lingua dei Traci, come risulta dalle iscrizioni scoperte, era del tipo di centum.

c) Illirî. - Seguirono nella migrazione ai Traci (secoli XV-XIV), spingendoli verso il sud-est (cfr. II, b); parlavano una lingua, che pare abbia costituito il nucleo originario dell'attuale albanese, che ha assimilato elementi di tutte le lingue, antiche e moderne, parlate in zone contigue. Dall'Illiria poi la popolazione esuberante passò, parte per la via di terra, parte per mare, sulle coste adriatiche prospicienti del continente italiano, come ci dicono le fonti antiche d'accordo coi riscontri linguistici ed onomastici. Così erano Illirî d'origine i Veneti, stanziatisi nella loro regione prima del 1000 circa a. C., come ci testimonia la civiltà atestina, e che col loro sopraggiungere diedero la spinta verso il sud così alle genti italiche del tipo di Pianello (v. appresso), come, poco dopo, agli Etruschi villanoviani; alcune genti delle coste picene; e gli Iapigi (omofoni degli Iapodi d'Illiria) che abitavano la attuale Puglia fin dal 1000 circa, e ad ogni modo prima della fondazione (fine del sec. IX), della greca Taranto. Alcuno sostenne che gl'Illirî si spingessero a nord delle Alpi, col nome di Breuni e Genauni, ma si tratta di falsa integrazione d'un luogo di Strabone (IV, 6, 8), che invece deve alludere ai Pannoni e ai Breuci.

d) Italici. - Penetrarono in Italia dalle Alpi nord-orientali e poi sorpassarono l'Appennino, in varie ondate. La prima, caratterizzata archeologicamente da abitazioni in fondi di capanne, giunse ancora nell'età eneolitica (come ci dimostra l'ininterrotta evoluzione culturale da allora all'età classica) fino in Sicilia; dove si stanziarono due gruppi affini: di Siculi (sicuramente italici, come risulta dalle iscrizioni, dalle glosse e dall'onomastica, e riconosciuti come tali anche dagli antichi, i quali deducevano ciò dall'esistenza, nell'Italia meridionale, d'una gente omonima), e di Sicani (che dagli uni erano detti Autoctoni e dagli altri, in base a una fittizia omonimia, Iberi; mentre i dati linguistici e archeologici li dimostrano Italici), ricacciando nell'estremo occidentale dell'isola gl'indigeni Elimi. Nell'Italia meridionale, nell'età preclassica, fino alla metà del sec. V, ossia avanti la migrazione sabellica (v. appresso), vivevano ancora, superstiti di quella prima ondata, gli Ausonî (= Aurunci dei Latini, per rotacismo), e gl'Itali (= Enotrî nella traduzione greca, per falsa etimologia). La seconda grande migrazione d'Italici si può seguire archeologicamente da quando, lasciando la Padana con una civiltà affine a quella tarda terramaricola, derivata dalla diuturna vicinanza con gli Etruscoidi, gl'Italici, che diremo del tipo di Pianello, superarono l'Appennino, verso il 1000, spinti dall'immigrazione veneta (cfr. II, c), al trapasso dall'età del bronzo a quella del ferro, occupando la stazione di Pianello, e poi scendendo nell'Umbria, nella Sabina, nella zona falisca e in quella laziale. Dalla fusione fra questi Italici della seconda ondata e i superstiti della prima, traggono la loro origine le genti italiche storiche del centro della penisola: gli Umbri (la cui città di Ameria, secondo i calcoli di Catone, fr. 49, risaliva al 1135 a. C.), i Sabini, che si dicevano derivati dagli Umbri, e coi quali venivano collegati i Picentini, i Marrucini e Frentani, i Vestini, i Marsi e gli Ernici. Una terza migrazione, continuatrice, a distanza di tempo, della seconda, si svolse nel sec. V e al principio del IV, allorché dalle zone sabelliche partirono schiere di migranti che occuparono le terre della parte meridionale della penisola ancora abitata dagli Italici della prima ondata: si ebbero così i Sanniti, gl'Irpini, e poi dai Sanniti i Lucani; e dai Lucani, i Bruzî. Per i progressi della conquista romana nell'Italia e nell'Europa v. appresso, IV.

e) Genti celtiche. - Durante le lunghe migrazioni fino alle Alpi, s'erano tenute a contatto con le italiche, e così si spiegano i peculiari riscontri fra le loro lingue (come i passivi e deponenti in -r); poi, mentre gl'Italici scendevano nella penisola per le Alpi orientali, i Celti si spingevano, a nord delle Alpi e delle genti etruscoidi che ne tenevano entrambi i pendii, lungo un grande arco, in cui in piena età romana i nomi, con le tipiche desinenze celtiche in -dunum, -magus, -ritum, -bona, e la toponomastica fluviale come Dubra, Lutra, ecc., ricordavano all'evidenza il loro possesso. Dovettero, allora, i Celti, durante la prima età del ferro, adottare la civiltà cosiddetta di Hallstatt, tipica dell'Europa centrale. Più tardi, pur mantenendosi anche nell'Europa centrale, essi iniziarono (la più antica notizia si ha in Esiodo, fr. 132) la loro penetrazione nella Gallia (i Druidi ricordavano ancora la loro provenienza: Amm. Marc., XV, 9, 4), dove giungevano, a ovest fino all'Oceano, e a sud fino al Tirreno, in rapporti bellicosi coi Liguri, cui tolsero, fra il 350 e il 218, le terre fra i Pirenei e le Alpi, e talora bellicosi (come circa il 400), ma per lo più amichevoli coi Greci di Marsiglia, al cui influsso si deve certo lo sviluppo della nuova civiltà celtica detta della Tène. Poi cominciarono le penetrazioni nell'Iberia, già iniziate nel sec. V, quando Erodoto (II, 33; IV, 49) fa estendere i Celti delle foci dell'Istro alla città di Pirene prossima ai Cineti d'Iberia; e che portarono alla graduale occupazione, per opera dei Celtiberi, delle zone - piene di toponomastica celtica - sud-orientali, e, per opera dei Celti, della Gallecia (a nord-ovest). Intanto, non nel 390 o 386 come vuole la vulgata, ma fin dal sec. VI, come afferma, probabilmente per informazione etrusca, Livio (V, 34-35), i Celti dalla Gallia (come richiedono i nomi di genti celtiche, identici in Gallia e in Italia: Senoni, Lingoni, Boi, Insubri, Cenomani, ecc.), insieme anche con schiere di quelli transalpini settentrionali, penetravano nella Padana, incominciandovi una dura e lunga lotta di conquista a danno dei Liguri, degli Etruschi e affini, dei Veneti, e dei superstiti Italici; lotta terminata con la vittoria su quasi tutta la zona, allorquando, dal 390-86 al 225 secondo la tradizione, i Celti intrapresero una serie di spedizioni nell'Italia centrale, che si dicono iniziate con l'incendio di Roma, e che terminarono con il massacro dei Galli a Telamone per opera di Roma. È molto probabile che a questa serie di avanzate e di conquiste dei Celti nell'Occidente, abbia contribuito la pressione che su di essi dovevano operare, nelle sedi transalpine settentrionali, i Germani (cfr. II, h), i quali si spingevano sulle terre (attuali Svizzera, Austria, Stiria e Boemia) ancora occupate dai Celti. Questi, sotto tale pressione si assottigliarono, dirigendosi verso nuove terre. Così una nuova ondata, venuta direttamente dall'Europa centrale, occupava, col nome di Belgi, il paese che ne prese il nome; passando poi anche oltre, avanti la metà del sec. IV, nella Britannia, dove la tradizione, la toponomastica, e i dialetti celtici ancora parlati attestano eloquentemente la conquista. Nel contempo altre orde prendevano una direzione opposta: scendendo al principio del sec. IV, col nome di Scordisci, fra Drava e Sava (cfr. Singidunum) e poi in Pannonia e in Illiria, dove vincevano gli Ardiei e si stanziavano, come Taurisci a nord degli Iapodi, come Boi nell'attuale Boemia, e come Celtosciti fino al confine degli Sciti.

f) Sciti e altri Iranici. - I Cimmerî, già ricordati nella Odissea (XI, 14-19) devastatori dell'Anatolia e nemici degli Assiri (che li dicevano Gimirrai), dei Lidî e dei Greci, nel sec. VII; gli Sciti, ricordati primamente da Esiodo (in Strab., VII, 3, 7), che secondo Erodoto (IV, 11) provenivano dall'Asia e si chiamavano da sé Scoloti e nel 514 affermavano di essere da 1000 anni nelle loro terre; i Massageti loro affini e i Sarmati con le loro tre sezioni di Iazigi, Rossolani e Alani, pare, dai nomi e dalle glosse, che fossero tutti quanti di stirpe iranica: il che non stupisce, perché ancora nel Medioevo i Sogdî della Mongolia erano iranici, e anche ora gli Osseti del Caucaso parlano una lingua iranica. Gli Sciti, che Erodoto (IV, 100-107) fa confinare con l'Istro, il Ponto Eusino, il lago Meotide, il Tanais e gli Agatirsi, con un territorio di 4000 stadî in ambo i sensi; e che Eforo (fr. 38) considera occupanti le terre di settentrione fra i Celti a ovest e gli Indî a est, dovettero a mano a mano restringere il loro territorio di fronte alle avanzate dei Traci, dei Celti e dei Germani. Verso il 200 a. C. essi vennero soppiantati dai loro affini Sarmati, di cui gli Iazigi, che prima erano sul basso Danubio, ai tempi di Claudio passarono tra la Tissia e il Danubio; i Rossolani, che ai tempi di Mitridate erano ancora fra Boristene e Tanais, passarono poi nella prima sede degli Iazigi sul basso Danubio; e gli Alani prima a nord del Caucaso, poi si spinsero sul Danubio, per partecipare in fine alle spedizioni germaniche in Gallia e in Iberia, e, con i Vandali, all'occupazione della Mauretania.

g) Primi filoni letto-slavi. - Le migrazioni letto-slave non s'iniziarono su vasta scala se non col 493 d. C., fuori dell'ambito della nostra esposizione, e il nome di "Slavi" compare primamente in Procopio (Got., III, 14); ma non è escluso che già alcuni secoli prima alcune tribù letto-slave fossero penetrate nelle terre russe. Per alcuni (ad es. Müllenhoff) sarebbero probabilmente di razza lituana gli Aestii, che Tacito (Germ., 45) avvicina ai Suebi Germani per i costumi, e ai Britanni per la lingua. E slavi erano forse i Neuri, che secondo Erodoto (IV, 17, 51, 100, 105) abitavano a nord degli Sciti; e i Veneti o Vendi che Tacito (Germ., 46, 1-2) non sapeva decidere se fossero Germani o Sarmati.

h) Germani. - Il loro nome, non indigeno, è citato per la prima volta (astrazione fatta da un cenno, a sproposito, dei Fasti trionfali del 233 per i Gesati, Celti) per gli eventi del 73 a. C. Non furono mai uniti tutti in una nazione con un nome unico. Essi dovevano esistere da gran tempo nell'Europa centrale, innanzi la prima spedizione registrata dalle fonti classiche, quella dei Cimbri e dei Teutoni negli ultimi due decennî del sec. II a. C. (i Cimbri, provenienti dallo Jütland detto Chersoneso Cimbrico, non hanno nulla a che fare coi Cimmerî, a cui furono avvicinati per l'omofonia; e quanto ai Teutoni si fanno venire dal golfo Codano o Kattegat), che con le peregrinazioni in Illiria, in Boemia, in Bosnia, in Italia, in Gallia, nella Narbonese, in Iberia, nella Belgica, ci dànno un'idea precisa degl'itinerarî complessi, dipendenti dal caso, e della lunga durata di quelle spedizioni di nomadi. Discutono i moderni se i Germani siano un vero popolo indoeuropeo, o invece un popolo pre-indoeuropeo, indigeno delle coste baltiche, e che subì l'influenza dei Celti; ma la prima opinione pare di molto preferibile. Ai tempi di Cesare e di Augusto si avevano, procedendo dall'ovest verso l'est: i Batavi fra la Mosa e il Reno, i Frisi sulla destra del Reno, e alle loro spalle i Bructerii e i Sigambri. Alla foce del Weser erano i Chauci, e all'interno i Cherusci e i Chatti. Sull'Elba erano i Longobardi, i Semnoni, gli Ermonduri e i Marcomanni, chiamati complessivamente Suebi. Nel Jütland i Cimbri, e ad oriente i Teutoni e gli Ambroni. Infine, fra l'Oder e la Vistola: i Rugii, i Burgundî, i Gotoni (ch'è assai dubbio se siano i Goti dei tempi posteriori), i Lugii, ecc. Nuove stirpi, o confederazioni germaniche, e nuove sedi, ci appaiono a cominciare dal sec. II e III d. C. Nella Germania occidentale: i Sassoni già ricordati da Tolomeo sulle coste del Mare del Nord a est del Reno, da cui, alla fine del III e durante il IV devastarono le coste galliche, e poi le occuparono dalla Bretagna alla Schelda (Not. dign. occ., 37, 2, 3), per poi passare, con gli Angli, nella prima metà del sec. V a occupare stabilmente la Britannia; gli Alamani (che compaiono nel 213 sull'alto Reno, poi sul basso Reno nel 234, tentano d'invadere l'Italia nel 261, e nel 450 circa occupano l'Alsazia attuale e parte della Svizzera); e i Franchi (sul medio e basso Reno, da cui tentano fin dalla metà del sec. III di penetrare in Gallia, riuscendovi definitivamente nel 454). Nel tempo stesso compaiono nella Germania orientale i Longobardi (scesi sul Danubio circa il 150, e assalenti la Pannonia nel 166; e che più tardi, alla fine del sec. V, inizieranno, nel 490, una vera migrazione nel paese dei Rugii, e poi in quello degli Eruli, ecc.); i Vandali (invasori nel sec. III della Pannonia e del Norico, accolti nel 332 in Pannonia, invasori d'Italia nel 401 con Radagaiso, della Gallia nel 406, della Iberia, con gli Alani e i Suebi nel 420, e infine stanziatisi con Genserico, nel 429 e rimasti fino al 533 in Mauretania); i Visigoti (a ovest del Mar Nero, nel 332 accolti come federati nell'Impero, compagni d'Alarico nelle spedizioni di Balcania, 395-96, e d'Italia 403-410, e poi di Ataulfo in quelle di Gallia e d'Iberia 411-415); e gli Ostrogoti (a nord del Mar Nero, uniti con gli Unni, e operanti nel 450 in Pannonia, e nel 488 in Italia), di cui è dubbio se siano discendenti dei Gotoni già abitanti sulle coste del Baltico.

III. Genti allogene. - Oltre alle genti pre-indoeuropee, e a quelle indoeuropee, e facendo astrazione dagli elementi etnici non europei isolati, meritano di essere ancora ricordate:

a) le genti semitiche, nelle colonie fenicio-cartaginesi stanziate prima (dal sec. VIII) sulle coste dell'Iberia, e poi (sec. VI) su quelle della Sicilia occidentale, e (sec. V) della Sardegna meridionale; e nelle sinagoghe ebraiche sparse per tutto il mondo mediterraneo, specie dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 d. C.;

b) i primi elementi altaico-turanici, forse imparentati coi Finni, penetrati in Europa con gli Unni, che ai tempi di Adriano erano ancora sulle rive del Caspio, e che andarono a mano a mano avanzandosi, attraverso le attuali Russia meridionale, Romania e Ungheria, fino a che ebbero, nel 433, in concessione la Pannonia, e poi parte della Mesia, e, unificati per breve tempo da Attila (433-453), furono da lui trascinati nelle sue imprese di devastazione attraverso il territorio dell'Impero.

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Storia.

Una storia d'Europa in cui sullo sfondo puramente geografico emerga un'organica evoluzione politica e culturale può intravvedersi appena dall'inizio del Medioevo e dalla nuova configurazione che le invasioni barbariche e il trionfo del cristianesimo dànno alle rovine del mondo antico. La storia antica in Europa è la storia dell'assorbimento e successivo smembramento dei territorî europei quale parte dell'impero romano, la cui gesta, politicamente distinta ma culturalmente connessa con la civiltà greca, si compie secondo una propria linea e proprî concetti direttivi, non inquadrabili in una storia d'Europa e che perciò sono analiticamente esposti sotto romani: Storia. Qui, a puro scopo di orientamento, si possono solo richiamare le tappe capitali di tale processo nella sua fase ascendente e discendente.

Fine sec. VI: Roma si libera dal dominio etrusco; 500 circa-270 conquista dell'Italia centrale e meridionale, ritardata dall'invasione gallica del 386; 241 termine della conquista della Sicilia occidentale; 238-227 della Sardegna; 231 della Corsica; 222 di parte della Gallia Padana (completata dal 200 al 191); 210 della Sicilia orientale, già dominata da Gerone II; 148 della Macedonia; 146 della Grecia; 133 dell'Iberia centrale e nord-orientale; 125-120 della Gallia narbonese; 58-51 del resto della Gallia transalpina; 45 delle terre illiriche; 19 del resto dell'Iberia; 16-15 della Rezia e delle zone attigue; 12 a. C.-9 d. C. momentanea occupazione della Germania fino all'Elba; 16 a. C. conquista del Norico; 6 d. C. della Dalmazia; 6-8 d. C. della Pannonia e Mesia; 46 d. C. della Tracia meridionale, già sede dei dinasti Odrisî; 43-85 della Britannia; 107-109 della Dacia.

Fu questa l'estrema estensione della romanizzazione d'Europa. Nel 271, sotto Aureliano, la Dacia è riperduta e il confine dell'impero riportato al Danubio. Il sistema dioclezianeo della tetrarchia (293), il trasferimento della capitale a Bisanzio sotto Costantino (330), la definitiva scissione dell'impero alla morte di Teodosio (395) sono altrettante tappe del processo di sromanizzazione dell'Europa, mentre l'impero è già corso dalle invasioni barbariche. Nel 401 Alarico irrompe per la prima volta in Italia, e nel 408-410 giunge a Roma. Nel 418 si fonda il regno visigotico della Gallia meridionale e della Spagna. Nel 443 gli Alemanni occupano l'antica provincia Germania, nel 447 Angli, Sassoni e Iuti la Britannia. Nel 455 Roma è saccheggiata ancora dai Vandali di Genserico, e nel 476 Romolo Augustolo è deposto per opera di Odoacre.

Medioevo. - Intorno al 476 l'Occidente era in gran parte perduto per l'Impero. Nell'Italia peninsulare dominava Odoacre, col titolo di patricius rispetto ad esso, di rex rispetto alle milizie barbariche che l'avevano elevato al potere; Sicilia, Sardegna e Corsica erano in mano dei Vandali; il regno svevo occupava la parte nord-ovest della penisola iberica, la Galizia; sul rimanente della Spagna e sull'Aquitania, sino alla Loira, si stendeva il regno visigotico, con capitale Tolosa, sotto il re Eurico; lungo il corso del medio Rodano e dei suoi affluenti, il regno dei Burgundî; l'Armorica era occupata dai Britanni rifluenti dalla loro isola sul continente per sfuggire agl'invasori; il paese tra Mosa, Somma e Loira conservava l'indipendenza sotto Siagrio; Franchi Salî, Franchi Ripuarî, Alemanni si erano stanziati sulla sinistra del medio e del basso Reno, e tendevano a espandersi verso il sud e verso occidente; Iuti, Angli e Sassoni, respinti i Britanni ad occidente dell'isola, avevano fondato nella parte sud-est di essa parecchi regni indipendenti, di schietto tipo barbarico; delle provincie danubiane, i Gepidi avevano occupato la Pannonia, gli Ostrogoti l'Illiria, la Vindelicia, la Rezia, il Norico; rimaneva romana la Dalmazia.

Se si prescinde dalla Britannia, pure attraverso la varietà delle vicende e nel generale frazionamento, v'è dappertutto una certa uniformità di condizioni. Convivono su un medesimo territorio due società distinte, l'una civile, l'altra militare, ma ormai non più del tutto estranee fra loro per cultura: Romani e Germani. Le milizie barbariche sono ospiti delle popolazioni locali e federate dell'Impero, ne riconoscono l'autorità, ne ricercano i titoli; la vecchia organizzazione civile, le divisioni amministrative, sussistono tuttora in gran parte, con maggior tenacia in Italia. Nello stato di abbandono in cui si trova l'Occidente, v'è tuttavia da parte dei re la tendenza a esercitare un potere sovrano e a riunire i poteri civili e militari nelle mani di ufficiali barbarici, che, col nome di comites, vengono preposti al governo dei singoli luoghi. Testimonianza importantissima di questo momento storico, la legislazione barbarica che, mentre sancisce la disuguaglianza tra vinti e vincitori e ci serba il ricordo delle antiche costumanze germaniche, manifesta l'irresistibile influsso della cultura romana. Nel cadere delle forme antiche, un nuovo tessuto si è venuto formando da tempo, un nuovo elemento vitale unisce le divise popolazioni romane e perpetua la tradizione imperiale: la religione. I vinti professavano il cattolicismo e riconoscevano il primato del vescovo di Roma, metropolita d'Italia, patriarca dell'Occidente, capo della chiesa. Un vicario pontificio presiedeva alla diocesi di Gallia, e da papa Ilario (461-468) si tentò l'istituzione di un vicariato anche in Spagna. La popolazione cattolica era ormai inquadrata nell'episcopato; i vescovi, residenti nelle città e appartenenti spesso alle più alte classi sociali, erano eletti dal clero e dal popolo, amministravano per la chiesa ricchi beni fondiarî, che godevano d'immunità, esercitavano un'ampia giurisdizione arbitrale fra i cittadini, compivano gli uffici di religione e di carità inerenti al loro ministero. I Visigoti e i Germani d'Italia professavano invece l'arianesimo e costituivano una società religiosa a sé, sotto una chiesa e un episcopato nazionale.

Spagna, Gallia, Italia sono per ora i territorî dove si viene lentissimamente elaborando una vita comune europea distinta dall'Oriente; grande mediatrice in quest'opera di distacco e di unificazione, la chiesa romana che distrugge l'arianesimo e cerca riparo nel cattolicismo occidentale contro le pretese universali di Bisanzio. L' antico disegno di Ataulfo di convertire l'impero romano di Occidente in impero gotico, parve rivivere fra i suoi successori in Eurico (466-484), il maggiore dei potentati occidentali, che, approfittando della deposizione di Romolo Augustolo e in genere dell'instabile assetto politico, strappò la Provenza ai Burgundî e tentò invano d'invadere l'Italia; fronteggiò le scorrerie dei pirati sassoni e l'avanzata dei Franchi Salî; ricevette ambasciate di Eruli, Varni, Turingi minacciati dai Franchi, di Romani d'Italia avversi a Odoacre, di Persiani in lotta con Bisanzio. Ma fu trionfo passeggero. Nel vastissimo stato i Visigoti erano rispetto ai Romani una minoranza via via decrescente, impotente ad assorbirne o a cancellarne la civiltà, osteggiata, soprattutto dal clero, per il suo arianesimo. Ad alimentare il dissidio interno e a minare la monarchia, sopraggiunse, sotto Alarico II (487-507), la potenza di Clodoveo (481 o 482-511). Conquistati, prima del 500, i territorî fra la Loira e il Reno, il re dei Franchi puntava energicamente sui regni contermini dei Goti e dei Burgundî. La sua condizione in Occidente era affatto eccezionale: unico dei potentati germanici che avesse abbracciato il cattolicismo e convertito ad esso il suo popolo, egli faceva convergere sopra di sé le speranze dei Gallo-Romani, e si apriva per questo mezzo la via alla conquista. Un tentativo compiuto nel 500 contro i Burgundî, fallì per l'energia del re Gondebado e l'aiuto dei Visigoti, ma ebbe il risultato di accelerare il progresso della romanità e del cattolicismo con la promulgazione della Lex romana Burgundionum e col passaggio del figlio del re all'ortodossia. Rispetto ad Alarico, le relazioni franco-visigotiche s'intrecciano con la politica d'Oriente e d'Italia, dov'era frattanto avvenuto un importante rivolgimento. Sospettosa di Odoacre, che s'era impadronito della Dalmazia, della Sicilia e del Norico, Bisanzio aveva inviato contro di lui Teodorico, a capo degli Ostrogoti, stanziati nella Mesia inferiore e federati dell'impero. Vincitore (493), egli prese a governare l'Italia come ufficiale imperiale e come re del suo popolo, con ordinamenti civili romani e con regime militare germanico, con tutti i segni di soggezione all'Oriente, ma, di fatto, con potere indipendente. La sua stessa politica estera, fondata su numerosi legami familiari, mirava a comporre in un pacifico sistema, sotto la sua alta autorità, i regni germanici dell'Occidente. Di qui sospetti e ostilità, che giunsero al colmo quando la Pannonia fu annessa all'Italia e assicurato il confine del Danubio. Si trovarono così di fronte, congiunti per religione e per interessi politici, da una parte l'impero e i Franchi, dall'altra Teodorico e il suo genero Alarico II. Questi aveva cercato invano di conciliarsi i cattolici con le concessioni al clero e con la pubblicazione della Lex romana Visigothorum (506): la sua qualità di ariano, alcuni gravi provvedimenti contro vescovi malfidi o ribelli avevano fatto di lui un persecutore presso i Gallo-Romani, che invocavano la venuta del liberatore.

La guerra ebbe principio nel 507. Inutili riuscirono i tentativi di Teodorico per mantenere la pace, facendo appello ai re dei Burgundî, degli Eruli, dei Varni, dei Turingi. Vinto e ucciso Alarico alla battaglia di Vouillé nel 507, i Franchi s'impadronirono dell'Aquitania ed entrarono in Tolosa, la capitale del regno. L'anno seguente, mentre continuavano le operazioni nella Gallia meridionale, una flotta bizantina devastava gran parte della Puglia e ambasciatori dell'imperatore Anastasio conferivano a Clodoveo, reduce a Tours, le insegne consolari, quasi a consacrazione ufficiale della sua conquista. Ma Teodorico, respinto l'attacco, mosse contro Franchi e Burgundî, li batté ad Arles nel 509 e assicurò il litorale mediterraneo a sé dalle Alpi al Rodano, ai Visigoti dal Rodano ai Pirenei. Se la sua politica occidentale era fallita, la guerra tornò infine a suo vantaggio. Morto Clodoveo (511), il regno dei Franchi, che abbracciava due terzi della Gallia, andò diviso fra i suoi quattro figli. Nessun altro potentato d'Europa o d'Africa poteva stare a confronto di Teodorico, che, come re in Italia, come tutore del nipote Amalarico in Spagna, esercitava un potere non dissimile per autorità e ampiezza di territorio da quello degli antichi imperatori d'Occidente.

Tuttavia un pericolo comune minacciava i due regni gotici: l'insofferenza dei Romani, l'accordo del cattolicismo con Bisanzio. Finché Roma e l'Oriente erano rimasti divisi sulla questione monofisita, era riuscito più facile a Teodorico vincere l'ostilità della chiesa col suo rispetto e il suo prudente riserbo. Ma il ritorno dell'impero all'ortodossia all'avvento di Giustino (518), ebbe per effetto di orientare verso Bisanzio l'aristocrazia di Roma, di far scoppiare il dissidio insanabile tra vinti e vincitori, e, nella corte stessa dopo la morte di Teodorico (526), tra i partigiani della politica nazionale e della politica romana, di provocare l'intervento imperiale. A questo medesimo risultato condusse, in Spagna, l'opposizione civile e religiosa fra l'arianesimo gotico e il cattolicismo romano. L'antica tradizione superstite trionfò ancora una volta con Giustiniano, che riconquistò il regno ostrogoto (535-552) e la parte sud-est del visigotico tra le foci del Jucar e del Guadalquivir (554). Vittoria più vera, se anche meno clamorosa, quella dei cattolici d'Occidente, soprattutto della chiesa romana, che durante lo scisma, per bocca di papa Gelasio (492-496) e di papa Simmaco (498-514) affermava altamente l'indipendenza e la superiorità del potere spirituale sul temporale, piegava l'Oriente al cattolicismo, colpiva l'arianesimo, si assicurava con la Prammatica Sanzione (554) un'alta autorità civile, e infine nei negoziati politici e religiosi, nell'alterna vicenda delle dominazioni, trovava sé stessa, e, pur penetrando di sé l'Occidente, se ne distingueva e sfuggiva ad ogni assorbimento.

L'impresa di Giustiniano fu l'ultima grande prova e il fallimento della politica unitaria dell'impero. La monarchia visigotica, mutilata di molte fra le terre più civili e fiorenti, si restrinse alla penisola, ne compì la conquista escludendone i Bizantini (629), e, attraverso crisi gravissime, giunse alla distruzione dell'arianesimo e al pareggiamento civile dei Goti e dei Romani. Bloccata al nord dai Franchi, minacciata al sud dagli Arabi, la Spagna era destinata fra breve ad essere invasa e sottratta alla comunione europea (711); ma i lineamenti della nuova società romano-barbarica dovevano sopravvivere al dominio musulmano e riaffiorare alla riconquista. In Italia lo squilibrio prodotto dalla distruzione del regno ostrogoto e dall'insufficienza di Bisanzio, provocò l'invasione di Alboino (568). E fu uno strappo violento nella compagine dell'impero, un momento di formidabili conseguenze per le sorti dell'Occidente. I Longobardi, ariani anch'essi, discesero, non più come federati, ma come conquistatori; respinsero i Bizantini sulle coste e fondarono un regno, che dalla necessità dell'esistenza era spinto irresistibilmente all'occupazione dell'intera penisola. La chiesa, scossa nel suo legittimismo imperiale dalle pretese universali dell'Oriente, minacciata da presso da un nuovo nemico, dovette cercare altre vie alla sua politica. Il papato e i Franchi s'incontrarono, scoppiò il conflitto decisivo fra Occidente e Oriente ed ebbe principio la storia d'Europa.

Torbido quanto si vuole nelle sue vicende dinastiche, il regno dei Franchi offre uno spettacolo di barbara, giovanile energia. In un regime nuovo, fondato per gran parte sulle relazioni personali col principe e con la corte, fu forse più utile che dannosa la divisione dello stato fra i discendenti di Clodoveo. L'espansione militare e religiosa proseguì ininterrotta. Nel regno si vennero formando quattro distinte individualità: Austrasia, Neustria, Aquitania, Borgogna, conquistata l'ultima con le due campagne del 523 e del 534. Le formazioni politiche dei Baschi, dei Celti dell'Armorica, dei Turingi, dei Bavari, degli Alamanni furono assoggettate all'egemonia dei Franchi e sotto la loro guida le popolazioni germaniche contennero l'espansione degli Slavi occidentali. Rotta la soggezione verso l'Oriente, disfatta l'impalcatura burocratica imperiale in Gallia - e, si può dire, in tutta l'Europa romano-barbarica - i pubblici ordinamenti hanno la semplicità e l'elasticità di un organismo primitivo. Lo stato s'accentra nel re e negli ufficiali addetti alla sua persona; rilevano da lui direttamente gli ufficiali preposti alle singole civitates. Le esigenze soprattutto militari dànno origine al feudalesimo, cioè a un processo di ricostituzione sociale, politica, economica di carattere prevalentemente locale. La chiesa è subordinata allo stato, e, quanto più ampia si fa la penetrazione religiosa, tanto più si accentua la mondanità del clero e la sua fusione e confusione col laicato. Prodotto del servizio di corte, delle guerre e delle lotte dinastiche incessanti è la formazione di una onnipotente aristocrazia, che dalla morte di Dagoberto (639) sostituisce di fatto la monarchia coi Maestri di Palazzo, e assurge coi Pipinidi alla difesa e al governo d'Europa.

Come già nella guerra gotica, così nelle lotte, durate per un secolo e mezzo, fino alla pace del 680, fra i Longobardi e Bisanzio, la chiesa - specie per opera di Gregorio Magno - diede prova delle sue mirabili attitudini di governo nel provvedere alle popolazioni travagliate dal conflitto. Di fronte al rigido cesaropapismo bizantino, i papi, sostenuti dall'Occidente, attraverso rare concessioni strappate alla debolezza degli uomini o alla gravità delle circostanze, pur con la maggior devozione verso l'impero, mantennero intatta la posizione assicurata alla chiesa dal concilio di Calcedonia (451). Frattanto Visigoti e Longobardi venivano conquistati al cattolicismo; attraverso il Vangelo i regni anglo-sassoni entravano nel mondo civile europeo, la regola benedettina seminava di monasteri l'Occidente. Con le missioni in Inghilterra, in Scozia, in Irlanda i papi chiamavano alla loro diretta dipendenza i territorî di nuova conquista; per mezzo delle relazioni coi dinasti e con l'episcopato tentavano la riforma del clero, la soggezione delle chiese nazionali.

Nella seconda metà del sec. VII e riella prima metà dell'VIII, dall'Inghilterra conquistata una fervida corrente missionaria rifluiva sul continente. E in essa s'incontravano e si saldavano potentemente gl'interessi dei Franchi e della chiesa, s'intrecciavano quelle relazioni, che dovevano decidere fra breve delle sorti dell'Occidente. L'Europa cristiana, ormai mutilata della Spagna, veniva strappata agli Arabi per opera dei Franchi e di Carlo Martello (battaglia di Poitiers, 732); gli eserciti franchi si alleavano coi missionarî inglesi consacrati da Roma, Villibrordo, Vilfredo, Bonifacio, per la conquista dei Frisî e dei Germani; col favore di Carlo, Bonifacio riformava la chiesa nazionale. La crisi ormai matura scoppiò in occasione dei provvedimenti fiscali dell'imperatore Leone III (725) e del decreto sulle immagini (726). Insorte le popolazioni romane contro il dominio bizantino, impegnata dai re longobardi Liutprando, Rachi, Astolfo la lotta di vita o di morte per la conquista dell'intera penisola, e quindi la soggezione del papato, la chiesa ruppe decisamente con la secolare politica legittimista e cercò la salvezza della sua indipendenza e della tradizione romana, europea, nell'alleanza della sola grande potenza cattolica dell'Occidente, i Franchi. Risultato immediato della lotta dell'iconoclasmo e degli accordi, la consacrazione regia di Pipino il Breve (751), il titolo di patrizio dei Romani conferito dal papa a lui e ai suoi due figli, Carlo e Carlomanno (754), la costituzione dello stato papale sui territorî già bizantini del Ducato Romano, dell'Esarcato, della Pentapoli, per i quali Roma si considerava in certo modo come erede di Bisanzio.

Con Carlomagno il processo giunge alle sue estreme conseguenze. Nell'uomo eccezionale si assommano e culminano le tradizioni militari e politiche dei Maestri di Palazzo e dei Franchi. A un nuovo assalto longobardo contro le terre della chiesa (771-772), scese in Italia e s'impadronì del regno, facendosi incoronare a Pavia (774). Con guerre quasi incessanti di difesa e di offesa, militari e religiose a un tempo, respinse gli Arabi al sud dei Pirenei, fin presso la linea dell'Ebro, vinse Sassoni, Bavari, Avari e portò il confine all'Elba e al Danubio. L'ampiezza del dominio e lo zelo religioso di Carlo, la coscienza imperiale tuttora viva a Roma e nella corte franca, il triste reggimento muliebre di Bisanzio, condussero al mutamento del patriziato in impero e alla cerimonia del Natale dell'800, che furono la prima grande manifestazione unitaria dell'Europa cristiana di fronte a Bisanzio e all'Islam, non la fondazione di uno stabile assetto politico. Complesso di aristocrazie militari, aggregato di popoli semibarbari e di stati di vecchia data, fra i quali si distinguevano per un'ombra di autonomia la Baviera, la Longobardia e l'Aquitania, l'impero carolingio trovava la sua unità nel principe e nella sua corte, nella semplicità uniforme e primitiva dei suoi ordinamenti (contee, marche periferiche a difesa contro Arabi, Brettoni dell'Armorica, Danesi, Slavi, Bizantini, missi dominici, assemblee), nell'universale provvidenza del governo. Più che di cesaropapismo e di subordinazione della chiesa, si deve parlare qui di una compenetrazione, di una missione religiosa dello stato. Gravitavano intorno all'impero il regno delle Asturie e di Galizia, i Brettoni dell'Armorica, i regni anglo-sassoni, gli Slavi di là dall'Elba. Unica grande, tenace opposizione, quella di Bisanzio; terminata dopo lunghe guerre e trattative solo nell'812, col riconoscimento di Carlo da parte dell'imperatore e con la retrocessione dell'Istria e della Dalmazia ai Bizantini.

Alla morte di Carlo, sotto il debole governo di Ludovico il Pio (814-840), fra le ambizioni e le discordie dei suoi discendenti, ebbero più libero gioco le vigorose forze locali da lungo tempo compresse; tra le guerre e le parti procedette l'organizzazione feudale della società laica ed ecclesiastica; il sistema politico-religioso instaurato dall'impero si venne rapidamente alterando. Mentre Carlo aveva predisposto senz'altro nell'806 la spartizione dello stato fra i suoi tre figli, Ludovico il Pio, premuto dalle circostanze, cercò di conciliare l'unità dell'impero con la pluralità degli eredi, assegnando al primogenito Lotario, insieme con la corona imperiale, un potere preminente sui fratelli. Da questo assetto la lunga serie delle guerre fra i Carolingi, e l'effettivo smembramento dello stato, che, ricostituito un'ultima volta nella sua unità ini Carlo il Grosso (coronato nell'881), si dissolse definitivamente con la deposizione di costui nell'887. Discendenti diretti della stirpe imperiale non rimasero che un fanciullo, Carlo il Semplice, nipote di Carlo il Grosso, e un illegittimo, Arnolfo, nipote di Ludovico il Germanico.

Ma i Carolingi furono assai più i rappresentanti che non i protagonisti del dramma europeo. Le ambizioni e i mutevoli assetti territoriali esprimevano un vasto, profondo travaglio. Perpetuamente ondeggiante, agitata da lotte interne, battuta da Arabi, Ungari, slavi, Normanni, l'Europa diventava tuttavia più uniforme nella sua costituzione da luogo a luogo e si faceva tanto più stabile, quanto più gli uomini, quale che fosse la loro origine, si venivano abbarbicando alla terra. Attraverso questa crisi, affioravano o si rafforzavano grandi formazioni storiche: la Francia orientale tra Elba e Reno, povera di città, tutta germanica e di recente conquista; la occidentale, dove i conquistatori franchi erano stati assorbiti dalla civiltà gallo-romana; tra le due, una zona di trapasso, la Lorena, la terra più infestata dalle invasioni; Provenza e Borgogna, grande via di transito e di civiltà, luogo d'incontro e di attrazione d'Italia Francia e Germania; l'Italia, avanguardia verso Oriente, con Roma e Pavia. Ciascuna parte era chiamata ad assolvere un suo compito di difesa: la Germania contro gli Slavi che battevano al confine orientale; la Francia contro i Normanni, che occupavano le isole, risalivano i fiumi, saccheggiavano e taglieggiavano; l'Italia contro gli Arabi, che occupavano la Sicilia, Taranto, Bari, minacciavano Roma, distruggevano Luni, militavano al servizio dei principi longobardi. La formidabile espansione normanna si abbatteva anche sull'Irlanda e sull'Inghilterra, e la vicinanza e il pericolo comune contribuivano a stringere i vincoli dei re del Wessex, la potenza egemone degli Anglo-Sassoni, coi potentati di Francia e di Germania.

Nei grandi quadri politici apparivano minori unità - frazionate a loro volta all'infinito - di età, di origine, di titolo diverso: Sassonia, Franconia, Alemannia, Baviera, in Germania; regno di Bretagna, ducato di Settimania, Marca Spagnola, ducato d'Aquitania, in Francia; marchesati d'Ivrea, del Friuli, di Toscana, ducato di Spoleto, principati longobardi, in Italia. In queste signorie locali appariva l'ossatura dello stato feudale. Chiuse coi Pipinidi le grandi invasioni sul continente, le società militari, vigorosamente promosse dalle loro stesse guerre, venivano disfacendo dall'interno e trasformando con un potenziamento locale la compagine dello stato romano-barbarico. Attraverso le concessioni beneficiarie esse si apprendevano sempre più largamente alla terra, rendevano ereditarî i benefici e le cariche, mutavano queste in proprietà privata, si assumevano l'esercizio dei pubblici poteri, sostituivano lo stato, quasi inesistente, nell'ufficio di protezione personale e sociale. Sembra con ciò, che la vita politica ed economica d'Europa si atomizzi via via in un anarchico particolarismo; in realtà, proprio dall'incremento delle aristocrazie militari, dal loro abbarbicarsi alla terra derivò quello slancio di distruzione e di ricostruzione che doveva metter capo allo stato nazionale. Solo sulle coste del Mediterraneo, specie in Italia, la vita civile aveva un respiro più ampio. Ai limiti di tre mondi e di tre civiltà, Venezia e le città campane si venivano sciogliendo da Bisanzio, e mentre queste lottavano e commerciavano con gli Arabi, quella otteneva l'egemonia sull'Adriatico, dominava i traffici della valle padana, batteva le vie dell'Oriente, fronteggiava Arabi e Slavi.

Il progresso del particolarismo feudale ebbe per effetto di dissociare, di contrapporre l'uno all'altro il papato e l'impero. Reagivano contro questa dissoluzione la tendenza all'unità politico-religiosa ereditata dall'impero di Carlo Magno, le esigenze fondamentali della chiesa, le oscure aspirazioni alla pace e a un civile governo da parte della società sconvolta. Nello sforzo unitario, nell'impossibilità di un semplice ritorno al passato o di una difesa che non fosse nel tempo stesso offesa e conquista, le due supreme autorità furono spinte l'una a controllare le elezioni papali e a tentar di assorbire nello stato la chiesa, l'altra a sfuggire a questo controllo, anzi, a far valere la consacrazione come fonte della legittimità imperiale e a considerare l'impero stesso non altrimenti che come l'organizzazione terrena della chiesa per il raggiungimento dei suoi scopi. Mentre l'impero unitario si viene disfacendo, scosso dalle lotte fra Ludovico il Pio e i suoi figli, diviso a Verdun, isolato e ristretto all'Italia sotto Ludovico II, posto in balia dei papi all'elezione di Carlo il Calvo, la chiesa elude le norme della Costituzione Romana di Lotario (824) sull'elezione dei pontefici, ne ottiene la revoca col Patto di Ponthion (876) e pone le basi della teocrazia papale con le dottrine di Incmaro di Reims, con le Decretali dello pseudo Isidoro, con la politica di Niccolò I, manifestazioni diverse, ma fra loro cospiranti e intimamente connesse dell'assolutismo cattolico, tratto alle estreme conseguenze politico-religiose; della tendenza gerarchica e unitaria, che fermentava nella chiesa, come nell'unica organizzazione universale superstite, in mezzo all'anarchico particolarismo feudale; dell'aspirazione dell'episcopato, soprattutto francese, a sottrarsi agli arbitrî di metropoliti, arcivescovi, concilî, e di sfuggire all'oppressione dei potentati laici, per la sola via che gli era concessa, che era quella di dominarli in virtù della propria missione divina. Per l'energia di un uomo e per il favore delle circostanze - non ultima, il vicino, operoso governo di Ludovico II - la chiesa di Niccolò I ritorna alle sue grandi tradizioni ed enuncia principî che non saranno dimenticati: colpisce duramente l'arcivescovo di Ravenna, Giovanni, tiene testa a Bisanzio nella questione di Fozio, tenta di conquistare a Roma la Bulgaria e la Moravia. E il tentativo, fallito per la Bulgaria, sarà proseguito con fortuna per la Moravia da Giovanni VIII. Ma, scomparsi Niccolò I e Ludovico II, venuto a mancare alla chiesa ogni valido sostegno in Occidente, anch'essa è angustiata dalle sue aspirazioni verso l'Italia meridionale, dalle necessità di difesa contro i Saraceni, dalle ambizioni dei potentati italiani, e, abbandonando con Giovanni VIII una tradizione più che secolare, sulle orme di Ludovico II, si volge per aiuto dov'era la forza, verso il rinnovato impero orientale di Basilio I. Rivolgimento questo nel quale, più che una meditata direttiva politica, dobbiamo vedere un espediente e un segno del momentaneo smarrimento. Eguale debolezza, dunque, dei due poteri supremi, che, vista nel suo aspetto positivo, significa la progressiva organizzazione feudale d'Europa, la penetrazione cattolica in tutti gli strati della società, la commistione del clero e del laicato.

Per circa sessant'anni, dall'887 all'intervento di Ottone in Italia, l'Occidente è sconvolto da guerre interne, dagli stanziamenti normanni nella Francia settentrionale e nelle isole britanniche, dalle rovinose innumerevoli scorrerie degli Ungheri in Italia, in Francia, in Germania. L'impero - per sé, poco più che un titolo, valido per il prestigio che lo circondava e per la corona italica che gli andava unita - diventava preda di dinasti tedeschi, borgognoni, italiani, sollecitati, sorretti, traditi di volta in volta da pontefici e da feudatarî, e cessava di fatto nel 924 con la morte di Berengario I, marchese del Friuli, lasciando il regno agl'intrighi dei grandi, all'energica ambizione di Ugo di Provenza (926-947). Il papato cercava dapprima invano di qua e di là dalle Alpi chi resuscitasse l'impero caduto in sostegno della chiesa; poi, dominato dall'aristocrazia romana, assorbito e travolto anch'esso, come tutto il clero, negl'interessi del laicato, isolato sotto il robusto governo di Alberico II, trascorreva ad ogni abuso e smarriva la coscienza della sua missione universale. Lo sfasciarsi dell'impero di Carlo il Grosso aveva messo a nudo la grande ossatura feudale ormai giunta a maturità. Le lunghe lotte fra Carolingi e Robertingi in Francia, a cui pose fine l'incoronazione di Ugo Capeto nel 987; l'elezione di Corrado, duca di Franconia, al trono di Germania, alla morte del Carolingio Luigi il Fanciullo nel 911; le contese per la corona regia e imperiale fra gli ultimi discendenti di Carlo e i nuovi potentati d'Italia fino alla restaurazione di Ottone I (962), non sono semplici successioni dinastiche, né ritorni al passato: il processo del rinnovamento e della ricostituzione d'Europa s'avvicina al suo termine, l'anarchia feudale mette capo a poco a poco a una vasta gerarchia.

La parte d'Europa dove il nuovo assetto giunge per primo a compimento è la Germania. L'opera, iniziata da Corrado di Franconia, proseguita da Enrico l'Uccellatore di Sassonia, venne conclusa da Ottone I, suo figlio. Il quale, assoggettati gli antichi ducati nazionali, costituita di fatto se non di nome una chiesa nazionale, bilanciata la feudalità laica con l'ecclesiastica, vinti gli Ungheri sulla Lech nel 955, instaura la sola forte monarchia d'Europa. Tutte le fila della politica europea facevano capo alla corte germanica. Ottone aveva in moglie una sorella di Atelstano (925-939), il degno successore di Alfredo il Grande (871-899) e di Edoardo il Vecchio (899-925), che s'intitolava rex totius Britanniae. Aveva dato in sposa una sua sorella a Luigi IV d'Oltremare (936-954), pronipote di Carlo il Calvo e re di Francia, l'altra al suo avversario Ugo il Grande, duca dei Franchi, conte di Parigi, della casa Robertingia, e in virtù del parentado e della sua forza, s'era fatto arbitro fra i contendenti e aveva assunto una specie di tutela sul regno. Al giovane Corrado il Pacifico (937-993), figlio ed erede di Rodolfo II - che era stato re di Borgogna (911 o 912-937) e, almeno nominalmente, d'Italia - aveva imposto un grave protettorato, per cui la Borgogna era divenuta poco più che un'appendice della corona germanica. Presso di lui infine trovava rifugio (941) e a lui giurava fedeltà Berengario, marchese d'Ivrea, insidiato dal re d'Italia Ugo, che, per le sue mire sulla Borgogna, aveva unito in matrimonio suo figlio Lotario con Adelaide, sorella del Pacifico, e si trovava per ciò appunto in conflitto d'interessi col sovrano tedesco. La saldezza della monarchia, la preminenza politica in Europa, la propaganda religiosa fra gli Slavi di là dall'Elba, la vittoria decisiva sugli Ungheri, tutto destinava Ottone I all'impero. Lo chiamava la coscienza sempre viva dell'unità politico-religiosa dell'Occidente; lo spingeva, fra altri motivi, a rinnovare l'antico patto il bisogno di tenere in pugno, attraverso il dominio del papato, il clero germanico, come strumento di governo e di conquista. Uno stato forte, di portata europea, un papato bisognoso d'aiuto dovevano necessariamente incontrarsi; l'impero risorto doveva far risorgere la chiesa, nella quale era riposta tanta parte della sua forza. Presa occasione dalla coronazione regia di Berengario e dalle sue persecuzioni contro la vedova di Lotario, Ottone mosse il primo passo scendendo in Italia nel 951, assumendo il titolo di re dei Longobardi a Pavia, e unendosi in seconde nozze con Adelaide. Infine, morto nel 954 Alberico II, che aveva tenacemente contrastato a Ugo il domimo di Roma e la conquista dell'impero, chiamato da Giovanni XII contro la politica aggressiva di Berengario II, si fece coronare imperatore il 2 febbraio 962. Il Privilegio ottoniano restaurava per un momento le antiche relazioni fra papato e impero, confermava e ampliava le donazioni carolingie, richiamava in vigore le norme della Costituzione Romana di Lotario per l'elezione dei pontefici, ristabiliva una specie di correggenza su Roma e lo Stato della chiesa.

Se il modello a cui si guardava era l'impero di Carlomagno, la realtà era un'altra. Quali che fossero le pretese imperiali, si tracciavano le primissime linee di una nuova Europa, di un sistema europeo. Da nord a sud, i regni di Germania e d'Italia erano, ormai per lungo tempo, uniti sotto sovrani tedeschi. Al nord, sotto gli Ottoni, la monarchia lottava con alterna fortuna contro il particolarismo dei ducati nazionali e del feudalesimo laico con le armi, con tentativi di accentramento burocratico, con la politica familiare, soprattutto con la costituzione di una salda chiesa nazionale, incorporata nello stato, di nomina regia, immensamente arricchita dal re e a lui vincolata dagli obblighi feudali. Al sud, fra le grandi casate feudali, sulle rovine del comitato franco, dall'età dei re italici in avanti, nell'interesse del principe e delle popolazioni locali, venivano prosperando le immunità dei vescovi e rifiorendo intorno ad esse le città. Anche qui dunque, sia pure in circostanze alquanto diverse, un alto clero incorporato nello stato, organo e parte dello stato feudale. L'influenza politica e religiosa della Germania si propagava con gli eserciti, le missioni e le fondazioni ecclesiastiche di là dall'Elba, nei territorî occupati dagli Ungheri e dagli Slavi, che, ora tributarî, ora ribelli, ora partecipi delle stesse ribellioni del regno, ma definitivamente arrestati, prendevano stabili sedi, si convertivano, formavano gli stati di Boemia, di Polonia, di Ungheria ed entravano nell'orbita civile d'Europa. Dal settentrione minacciavano a quando a quando i Normarmi. A occidente, in Francia, l'assunzione al trono di Ugo Capeto eliminava da quel regno una causa di debolezza; ma il re, i cui dominî si accentravano intorno a Parigi e ad Orléans, rimaneva pur sempre uno, e non il maggiore, fra i grandi signori feudali. Fra i due stati contermini una zona bilingue, un focolare di rivoluzioni politiche e religiose, la Lorena, posseduta dalla Germania, ambita dalla Francia, era oggetto di continue contese. A sud-ovest infine la dinastia borgognona andava via via declinando sotto l'influsso dei Sassoni.

A mezzodì, sul Mediterraneo, cristiani e Arabi press'a poco si bilanciavano. V'era tuttavia qualche segno di riscossa in Spagna, e i Saraceni erano cacciati dai covi del Garigliano (916) e di Frassineto (972); donde qualche maggior sicurezza nell'Italia meridionale e in Piemonte. Sempre ondeggiante era il confine fra Occidente ed Oriente: i principati longobardi venivano attratti nell'orbita ora dell'uno, ora dell'altro impero. Acquistavano invece una effettiva indipendenza le città campane e Venezia, ormai grande potenza marinara, che, assodato dopo lunghe lotte interne il dogato elettivo, unita da vantaggiosi trattati di commercio coi due imperi e con gli Arabi, stringeva intime relazioni coi Sassoni e, con la conquista del basso Adriatico, accoglieva nel suo impero marittimo le città romane della Dalmazia, minacciate alle spalle dagli Slavi.

Congiunta al papato, investita dell'impero e dell'Italia, la monarchia germanica era tratta da necessità immediate e da antiche tradizioni a prendere sopra di sé la grande politica dell'Occidente cristiano, e condannata alla dura fatica di fronteggiare nemici sempre rinascenti in due campi diversi e lontani. L'Italia era malsicura, mutilato l'impero, finché durava l'occupazione e il pericolo arabo, finché i Bizantini mantenevano, insieme col possesso del Mezzogiorno, la loro pregiudiziale politica. Queste esigenze coincidevano e s'univano con le vecchie aspirazioni del papato verso il Sud, infestato dagli Arabi, col bisogno di contrastare l'avanzata della chiesa orientale. E i Sassoni costituirono in un blocco potente gran parte dell'Italia centrale e meridionale, combatterono gli Arabi, tentarono con le armi e con le parentele di escludere i Bizantini. Non mai definitivamente vincitori, vinti anzi talvolta, tuttavia logorarono il nemico e ne impedirono i progressi. La necessità di assicurarsi la penisola e di avere in pugno il clero, doveva spingere gli Ottoni a impadronirsi di Roma e del papato. Così la chiesa di Alberico e dei Crescenzî, strappata violentemente al particolarismo e alle fazioni cittadine, fece capo all'impero. Con esempio nuovo, Giovanni XII fu deposto da un sinodo convocato e presieduto dall'imperatore. Gl'imperatori stessi, da capi di una chiesa nazionale e da elettori di vescovi, si fecero a eleggere i pontefici e, quasi segno di una nuova universalità, levarono alla cattedra papale un tedesco come Gregorio V, un francese come Silvestro II.

A queste innovazioni più propriamente politiche, si accompagnava un largo e vario moto di rinnovamento cattolico. La chiesa aveva potuto arricchirsi, penetrare tutta la società, solo adattandosi alla sua natura e ai suoi interessi, diventando mondana, soggetta ad agire per motivi terreni, a esercitare e a subire la violenza. Contro questa confusione di clero e di laicato, di sacro e di profano, mossero i cluniacensi, eremiti come San Romualdo e San Nilo, ecclesiastici secolari come Attone di Vercelli e Raterio di Liegi, condannando da un lato la corruzione, protestando dall'altro in nome del primato di Roma e dei principî teocratici. Le accuse d'immoralità e di empietà, dietro le quali fu deposto Giovanni XII, il violentissimo attacco mosso dal clero francese al concilio di Verzy (991) contro gli scandali della chiesa romana e dei pontefici, i primi divieti contro la simonia e il concubinato, rivelano, insieme con l'interesse politico, un nuovo interesse religioso. Al particolarismo della chiesa feudale, si contrappone l'assetto gerarchico dei monasteri cluniacensi, facente capo al papa. Giovanni XV, Gregorio V, Silvestro II parlano di nuovo altamente del primato romano. L'ascetismo e la crudeltà che si alternano in Ottone III, la vantata renovatio imperii e la smentita che gli viene insistente dai fatti, il riconoscimento del primato, la devozione verso la chiesa, e il dominio tirannico ch'egli esercita su di essa, non sono il segno d'una fantasia malata, in perpetuo contrasto con la realtà. Il contrasto è dell'età sua, di cui egli compie le aspirazioni e le attese. Sotto l'impulso delle esigenze unitarie dell'impero, dell'antica tradizione imperiale e della nuova coscienza religiosa, Ottone III più decisamente del primo e del secondo, ma dietro le loro orme, orienta la sua politica verso l'Italia e Roma: unifica le cancellerie dei due regni, accoglie in sé e leva in alto sulle fazioni locali l'idea imperiale romana, tenta l'estremo sforzo per incorporare nell'impero il papato, per assumere in quello la missione della chiesa. Vero è che l'impalcatura imperiale diveniva via via meno sufficiente a difendere dall'esterno, a contenere dall'interno Italia e Germania, sempre meno rispondente ai suoi intendimenti universali. Vero, anche, che la politica ecclesiastica ottoniana, con la pretesa di elevare materialmente e moralmente la chiesa, e di chiuderla nello stato, implicava una contraddizione insanabile, poneva la necessità di un ulteriore svolgimento.

Attraverso le missioni e l'alleanza di Corrado II con Canuto la Germania del sec. XI proseguì la sua opera di civiltà fra Tedeschi, Slavi, Anglo-Sassoni e Normanni, fino all'Elba e alle foci del Weser, in Inghilterra, Danimarca, Svezia, Norvegia. Nel 1032-1033, raccolse l'eredità della corona di Borgogna, chiudendo la via ai maneggi dei grandi d'Italia contro la sua sovranità. Ma il sistema politico ottoniano trovava un ostacolo sempre più grave nel carattere personale della monarchia, nel nesso dei due regni, fra loro lontani e difformi per costituzione, nel vigore dei vecchi potentati e delle nuove forze locali. La supremazia verso la Francia era, di fatto, tramontata. I Capetingi progredivano, sia pure lentissimamente, nella lotta contro i grandi, e nei sovrani tedeschi trovavano semplici alleati ora per combattere i conti di Fiandra, ora per condurre innanzi la riforma ecclesiastica. Boemia, Polonia, Ungheria intrigavano coi ribelli di Germania, e con l'aiuto di quelli e della chiesa, ora vinte, ora vittoriose, venivano acquistando l'indipendenza. Da Ottone III a Enrico IV non vi fu successione senza guerra, non regno senza ribellioni. Quasi normalmente, alla pace del Settentrione furono sacrificati gl'interessi del Mezzogiorno, o, viceversa, si sacrificò la pace in Germania dietro il miraggio ineluttabile della corona regia e imperiale, del dominio di Roma e del papato, della conquista dell'Italia meridionale.

Un solo grande interesse sembra accomunare la maggior parte della società europea nella prima metà del sec. XI: il religioso. Le sue manifestazioni più significative sono il moto riformatore contro la simonia e il nicolaismo, il moto per la pace e la tregua di Dio; i più alti interpreti di esso, i sovrani di Germania, di Francia, d'Inghilterra. Promosse qua e là dal clero secolare e regolare, animate da una coscienza cattolica e morale più viva, le nuove idee traggono una forza irresistibile dalla profonda trasformazione che si va compiendo nello stato e nella società. Assai prima della lotta delle investiture, riforma e tregua di Dio sono, specie in Italia e in Germania, il sintomo della crisi della grande feudalità ecclesiastica e della sua funzione politica. Ciò che chiedono i riformatori in nome dell'ufficio spirituale e del buon costume, chiedono i re e i principi per tenere in pugno la chiesa nazionale e impedire lo sperpero della proprietà ecclesiastica, che è tanta parte della loro potenza. E gli uomini nuovi che si affacciano ora alla storia: cavalleria di Francia, ministeriali di Germania, valvassori italiani, cittadinanze cresciute all'ombra dell'immunità vescovile, popolazioni agricole in continuo progresso, tutti, per una o per altra via, hanno ragione d'intervenire nella contesa.

L'atto di forza con cui Enrico III a Sutri nel 1046 pone fine allo scisma romano, la successiva elevazione di quattro papi tedeschi, rispondevano alle esigenze sia dell'impero, sia del mondo cattolico. Ma fu così compiuto il passo decisivo per cui la riforma culminava e s'incardinava in Roma, tramontava definitivamente il sistema politico ottoniano dell'incorporazione della chiesa nell'impero, della grande feudalità ecclesiastica quale fondamento dello stato; il clero veniva districato violentemente dal laicato, il governo dell'Occidente passava dall'impero al papato. Questo risultato fu raggiunto attraverso la lunga, laboriosissima crisi dei papi riformatori e della lotta delle investiture. La crisi fu di tutta Europa, ma divenne più tragica e decisiva in Italia e in Germania, per le aspirazioni universali dell'impero, per la sua fatale attrazione verso il papato, per l'interesse sostanziale della corona germanica al dominio sulla chiesa nazionale. In un assetto economico, politico, sociale in cui clero e laicato erano pareggiati e stretti l'uno all'altro in modo inestricabile, l'osservanza del celibato e il divieto della simonia si dimostrarono in pratica principî tremendamente rivoluzionarî. Gli ecclesiastici concubinarî opposero viva resistenza alla restaurazione del costume e alla dissoluzione delle loro famiglie. Se in un primo momento s'intese vietare il commercio delle cose sacre, in progresso di tempo, di fronte all'insufficienza del rimedio, si mirò all'investitura laica dei benefici ecclesiastici, come radice di ogni corruzione. Ciò che significava colpire a morte l'impero nella sua pretesa di dominare il papato, abbattere un sistema economico fondato sulla chiesa privata, un sistema politico fondato sulla chiesa nazionale.

Da Leone IX, l'ultimo papa eletto da Enrico III, in avanti, la rivoluzione è in pieno sviluppo; i divieti furono accompagnati da severe sanzioni disciplinari, si restaurarono le norme canoniche dell'elezione a clero e popolo, fu affidata ai cardinali e sottratta all'imperatore l'elezione papale (1059), si decretò che nessun ecclesiastico potesse ricevere una chiesa dalle mani di un laico (1059). Infine, dinnanzi alla resistenza disperata di Enrico IV, Gregorio VII, con esempio nuovo, traendo alle estreme conseguenze i principî di supremazia papale, depose l'imperatore, sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà, elesse all'impero Rodolfo di Svevia e si fece da lui prestare giuramento. Nel tempo stesso, si rinnovavano gli uomini secondo le nuove esigenze; attraverso i legati papali la volontà di Roma si affermava in Francia, in Spagna, in Inghilterra; sulla rovina delle chiese nazionali, si costituiva una salda rete gerarchica distesa per tutto l'Occidente e facente capo al pontefice, supremo giudice e maestro; e al pontefice stesso venivano direttamente assoggettati in numero sempre crescente istituti secolari e regolari per mezzo delle esenzioni. Tutte le forze del mondo cattolico entrarono in gioco, tutte le energie furono promosse dalla lotta. Si combatté con le armi, con la violenza di piazza, con gli argomenti storici e dottrinali; non vi fu grande moto che non toccasse direttamente o indirettamente la religionie. La chiesa fece leva sulle cittadinanze e si unì coi patari di Milano per scalzare i vescovi simoniaci e concubinarî; mise in scacco l'impero con l'alleanza tosco-lorenese e tosco-bavarese; promosse le aspirazioni della Polonia, della Boemia, dell'Ungheria all'indipendenza; benedisse l'impresa di Guglielmo il Bastardo, che doveva assicurare la riforma in Inghilterra; si alleò coi Normanni dell'Italia meridionale. Ciò ch'era per un verso fermento religioso, era per un altro e nel tempo stesso esuberanza di vita ed espansione europea. Il Conquistatore, con la cavalleria francese, mise fine alla lotta fra Danesi e Anglo-Sassoni per il dominio dell'Inghilterra e saldò l'isola alla storia d'Europa. Gli Spagnoli mossero con maggior fervore contro gli Arabi e fondarono i regni di León e Castiglia, di Navarra e Aragona, la contea, poi regno, di Portogallo. Gli Altavilla liquidarono anch'essi la vecchissima eredità dei principati longobardi, delle città campane, di musulmani e di Bizantini, cacciando quelli dalla Sicilia, questi dal mezzodì della penisola, unificando progressivamente il paese, e, per necessità di vita e di difesa, si misero senz'altro sulle orme dei vinti, mirando col Guiscardo alle Isole Ionie, all'Albania, e di là a Costantinopoli. Genova e Pisa raccolsero l'eredità delle città della Campania, rovinate dalla conquista normanna, e, ormai sicure di Arabi e di Bizantini, si gettarono sulla Sardegna e sulla Corsica, si spinsero sulle coste d'Africa. Venezia consolidò la supremazia sulle isole e le città dalmatiche, e, difendendo Alessio Comneno contro i Normanni, si assicurò una condizione di assoluto privilegio sui mercati bizantini. Intorno al nucleo primitivo dei regni di Francia, Germania, Borgogna e Italia, si venne così costituendo un'Europa periferica, sulla quale la chiesa, nella sua ascesa e nella sua lotta contro l'impero e il clero nazionale, a diverso titolo e con diversa fortuna da luogo a luogo, cercò d'imporre una sovranità di tipo feudale. Dalla chiesa fin dal 1001 riconoscevano la corona i re d'Ungheria; a Guglielmo il Conquistatore fu richiesto, per ora invano, il giuramento di fedeltà, che fu invece prestato volonterosamente da Alfonso VI di Castiglia, bisognoso dell'aiuto cristiano; sconfitto Leone IX a Civitate (1053), le ambizioni papali sul Mezzogiorno furono di necessità trasferite ai Normanni, che divennero vassalli della chiesa; e in base alla donazione di Costantino, fu pretesa la sovranità sulla Spagna, la Sardegna e la Corsica.

Consumato nel 1053 lo scisma orientale, cacciati i Bizantini dalla penisola, la definitiva separazione dell'Occidente dall'Oriente fu un fatto compiuto. Bisanzio stessa sotto la minaccia dei Turchi, fu costretta nel 1076 e nel 1095 a chiedere aiuto a Roma. E allora la chiesa, rinnovata e potente, ma ancora incerta dell'ultima vittoria, interprete della coscienza religiosa e delle giovani, torbide energie dell'Europa cristiana, diede all'una e alle altre una meta e un governo col bando della crociata (concilî di Piacenza e di Clermont, 1095), che apriva le porte alla colonizzazione della cavalleria franca sul Mar di Levante e doveva sollecitare per due secoli gli interessi religiosi, militari, economici di gran parte d'Europa. Poco dopo, i tre Concordati con l'Inghilterra (1107), la Francia (1108) e l'impero (1122) mettevano fine alla lotta delle investiture, con quasi insensibili conseguenze per le due prime, gravissime per l'ultimo, la cui potenza era fondata sulle elezioni vescovili.

D'ora in avanti, per più di un secolo, fino al trionfo di Innocenzo III, pure fra mille contrasti, la chiesa impronta di sé tutta la vita europea. Il distacco fra il clero e il laicato si può dire compiuto. L'episcopato riflette via via sempre meglio la politica di Roma. Con gli appelli e le visite ad limina, si fa più stretta la subordinazione alla Santa Sede. Il fervore religioso si manifesta in tutta la sua forza nel nuovo ordine dei cisterciensi (1098), nel misticismo di san Bernardo, nella speculazione di Sant'Anselmo, di Ugo di San Vittore, di Berengario, di Lanfranco, di Abelardo, nelle eresie dei Valdesi, degli Arnaldisti, degli Albigesi. Lo spirito d'avventura e di conquista si fonde con la religione negli ordini militari di Spagna, di Germania, d'Oriente. Le assise d'Europa sono i concilî, le sue imprese le crociate, non più opera di grandi feudatarî e di cavalieri francesi, ma di re e di popoli. Alla caduta di Edessa nel 1144, si crociarono Luigi VII e Corrado III; e sotto il medesimo impulso, i principi sassoni e polacchi mossero contro i Vendi pagani; una flotta anglo-tedesca andò in aiuto di Alfonso di Portogallo per la conquista di Lisbona contro gli Arabi. Alla presa di Gerusalemme nel 1187, l'Europa divisa pare unificarsi al fervore della fede e tutti i re prendono la croce. La chiesa fa trionfare i suoi candidati all'impero: alla morte di Enrico V (1125), il suo più tenace nemico Lotario di Supplimburgo, contro l'erede presuntivo Federico di Svevia, e, in modo analogo ed inverso, alla morte di lui (1147), il ghibellino Corrado di Hohenstaufen, contro il guelfo Enrico il Superbo di Baviera. Essa scomunica, depone, chiama al suo vassallaggio i sovrani, persegue e fa perseguire come delitto di stato l'eresia. Il mondo rinnovato trova la sua giustificazione e la sua sistemazione giuridica nel Decreto di Graziano.

Eppure, sotto questa vecchia fisionomia teocratica appaiono i lineamenti di una nuova Europa. A trent'anni da Worms, ricomincia la lotta tra papato e impero, ed è ormai essenzialmente guerra per il dominio d'Italia contro le forze promosse dalla chiesa durante la riforma e le investiture: i comuni ed il Regno. Attraverso crisi formidabili, Roma serba intatti i suoi principî. Per il naturale antagonismo contro la Germania, per il potente contributo dato al trionfo papale, la Francia è, nei gravi momenti, il più sicuro presidio dei pontefici; ma nella vasta trama europea, l'alleanza francese non esclude altre molto varie combinazioni. Sciolto l'intimo nesso, scissa l'antica unità fra chiesa e impero, questo, spogliato di fatto della sua missione religiosa, contro la dottrina e la pratica della teocrazia, è costretto a fondare su altri principî le sue pretese universali, e si appella ufficialmente al diritto romano, che invocheranno poco dopo con miglior fortuna a fondamento della monarchia i sovrani di Francia e d'Inghilterra. Protagonisti della lotta politica italiana sono i comuni e, più ancora, il Regno, che col suo spirito d'indipendenza, con la sua politica mediterranea, colpiva in pieno gl'interessi di Venezia da un lato, di Genova e Pisa dall'altro, minacciava Bisanzio, offendeva le secolari aspirazioni dell'impero e le pretese del papato sull'Italia meridionale. Né il conflitto fra le due potestà universali basta più ad abbracciare in tutto o in gran parte la vita dell'Occidente. Con l'impresa del Conquistatore, un nuovo grande sistema politico sorge in Europa, un antagonismo secolare, fondato sulla dipendenza feudale dei re inglesi dai francesi e sulla loro esorbitante potenza sul continente. Due matrimonî: di Matilde, figlia e unica erede di Enrico I, vedova dell'imperatore Enrico V, con Goffredo Plantageneto; e di Eleonora d'Aquitania, divorziata da Luigi VII, col figlio di Goffredo, Enrico II, fanno quest'ultimo signore di due terzi della Francia. La quale, dopo aver ripiegato sino al termine del sec. XII dinanzi all'abilità e all'energia dei due Enrichi, prenderà il sopravvento con Filippo II Augusto di fronte al debole governo di Giovanni Senza Terra. Il conflitto non rimane isolato: i Capetingi debbono tener testa a due nemici, che naturalmente sono condotti a incontrarsi, Inghilterra e Germania. Segno di questo doppio antagonismo, il matrimonio, già ricordato di Matilde con Enrico V, e l'assalto anglo-imperiale contro Luigi VI nel 1124. E alla fine, dopo contatti e intrecci occasionali, i due sistemi politici si fondono in uno alla successione del Barbarossa e di Enrico VI, con la formazione delle due leghe nemiche anglo-guelfa e franco-ghibellina. Nell'uno e nell'altro campo, sotto aspetti diversi, lottano oscuramente il feudalesimo e lo stato moderno in via di formazione. Frattanto, dalla Spagna s'inizia un nuovo processo politico, che toccherà fra breve profondamente tutto il sistema europeo. Gli stati spagnoli, nati dalla riconquista sugli Arabi, solleciteranno per un verso le ambizioni della Francia e la minacceranno da mezzogiorno, dando la mano all'Inghilterra; per un altro, tenderanno al dominio del Mediterraneo occidentale, entreranno in contatto e in conflitto col Regno e per questa via saranno involti nella lotta tra il papato e gli Hohenstaufen. Scismi come quelli di Innocenzo II e Anacleto II, di Alessandro III e di Vittore IV, non rimangono ristretti alla cerchia dove son nati, delle fazioni romane, del papato e dell'impero, ma diventano questioni europee. Lo zelo delle crociate è soggetto a tutte le alternative e i contrasti della politica occidentale, le crociate stesse diventano una parte di questa politica.

In modo analogo alla chiesa, e sia pure con grandissima varietà da luogo a luogo, i potentati d'Europa mirano all'accentramento monarchico, cioè all'istituzione di un corpo di funzionarî, di un esercito e di una finanza regia. Loro problema comune è di superare il particolarismo feudale, d'infrenare o asservire la chiesa locale, di dare ordine a uno stato in cui trovino posto le borghesie cittadine e le popolazioni rurali, di sostituire la legge al contratto personale di vassallaggio. Comune è l'indirizzo di governo che seguono: appoggiarsi alle città, alla borghesia in genere, all'aristocrazia burocratica, che in gran parte da essa deriva, contro la feudalità. Ed ecco apparire a fianco dei sovrani i grandi ministri, Lanfranco, Anselmo, Tommaso Becket, Maione di Bari, Suidgero, e più tardi Taddeo da Sessa, Pier della Vigna; ecco pullulare un po' dappertutto le istituzioni parlamentari con la rappresentanza dei tre ordini. Sotto questo aspetto, l'Europa rimane ormai per secoli distinta in due parti. In Germania e nell'Italia settentrionale e centrale, dove è aperta la lotta tra papato e impero, dove il sovrano pretende a un potere universale, a dispetto dei tentativi degli Svevi, la monarchia fallisce al suo scopo, e prevalgono di qua dalle Alpi i comuni, di là dalle Alpi città, leghe, signorie laiche ed ecclesiastiche, divisi gli uni e le altre sotto la bandiera imperiale o papale, guelfa o ghibellina. Dove invece, come in Francia e in Spagna la monarchia è venuta su dalla terra e dalla guerra con un lento processo organico, o dove, come in Inghilterra e in Sicilia, si è sovrapposta con violenza, ha messo fine con disperata energia all'anarchico particolarismo, e assunto in sé i nuovi grandi interessi economici e politici della nazione, essa mette radici e pone le prime basi dello stato moderno. Le cronache cittadine, le letterature romanze, nate appena o fiorenti, le università di Bologna, di Napoli, di Montpellier, i maestri assoldati in sempre maggior numero da privati e da comuni, esprimono, di contro all'universalismo della coltura ecclesiastica, la coscienza laica e nazionale dell'Occidente.

Alla morte di Guglielmo I, duca di Puglia (1127), Ruggero II, conte di Sicilia, s'era impadronito con la forza della sua eredità e s'era fatto investire del ducato da Onorio II nel 1128. Alla doppia elezione papale del 1130, l'Europa fu divisa: per la fervida eloquenza di Bernardo di Chiaravalle, tennero per Innocenzo II il re di Francia, quello d'Inghilterra, l'impero. Ruggero, insieme con qualche città di Lombardia, fra cui Milano, si buttò dalla parte di Anacleto II e ne ottenne la corona regia, nel tempo stesso in cui conduceva un'ambiziosa politica marinara per il dominio dei due bacini del Mediterraneo. Si formò così, a poco a poco, una coalizione fra tutti i nemici del re, destinata, per il conflitto dei reciproci interessi, a decomporsi e a trasmutarsi in una lega antimperiale. Se Lotario, nella seconda spedizione in Italia (1136-1137), ottenne contro Ruggero l'aiuto di Genova e di Pisa, Corrado III non esitò ad allearsi con Bisanzio, alleata a sua volta con Venezia. Ma il re, che aveva cercato invano d'isolare l'imperatore verso l'Oriente e verso la Francia, approfittò della crociata che teneva impegnati i due imperi, per occupare Corfù, il capo Malea, Cerigo, Mahedia, Susa (1148), e tenne in scacco i nemici, da un lato aiutando Eugenio III a rientrare in Roma contro la rivoluzione di Arnaldo da Brescia (1148), dall'altro lanciando, d'intesa con Luigi VII, la proposta d'una grande crociata, che doveva punire i Bizantini della loro doppiezza e liberare i Luoghi Santi. E quando papa e imperatore, riavvicinatisi, si furono accordati nel disegno della lotta contro i comuni, Roma e il Regno, la morte di Corrado III (1152) venne in aiuto della Sicilia. Il pericolo risorse più grave col Barbarossa, che, pacificata la Germania soprattutto con l'amicizia e l'ingrandimento del guelfo Enrico il Leone, dal 1155 duca di Sassonia e di Baviera, mirò decisamente all'Italia e alla restaurazione imperiale. Questo lo scopo del trattato stretto a Costanza nel 1153 con Eugenio III, che contemplava la lotta contro i Normanni e il comune romano, e inoltre l'esclusione dei Bizantini dalla penisola. Se non che, il fallimento della spedizione italiana del 1154, o, meglio, l'insanabile opposizione degl'interessi, spinse Adriano IV, prima a invadere il regno con l'aiuto di Bisanzio, poi, vinto, a rompere definitivamente il patto di Costanza col Concordato di Benevento (1156), e a rafforzare il sistema antimperiale, stringendo pace tra Guglielmo I di Sicilia e Manuele Comneno, aspirante a rinnovare l'unità dell'impero (1158), e unendosi in lega con Milanesi, Bresciani e Piacentini (1159). Scoppiato lo scisma, per un solo momento Enrico II d'Inghilterra si lasciò indurre da Enrico il Leone, suo genero, e da Federico ad abbandonare l'obbedienza di Alessandro III (1165), in odio a Luigi VII, che se n'era fatto ardente campione e che aveva accolto, profugo, Tomaso Becket. Le milizie tedesche, i Ghibellini d'Italia, Genova e Pisa, non valsero a domare la potente coalizione capeggiata dal papa, che inflisse al Barbarossa lo scacco di Roma nel 1167 e la sconfitta di Legnano nel 1176.

La tregua di Venezia (1177) e la pace di Costanza (1183), che significavano la fine dello scisma, il riconoscimento dei comuni, Ia temporanea rinuncia alla restaurazione imperiale e italiana, ebbero conseguenze gravissime per tutto il sistema europeo. Voltosi Federico alla politica germanica, tratta occasione dall'infedeltà di Enrico il Leone, disfece la sua potenza (1180-1181) e contro i Guelfi e l'Inghilterra, loro alleata, strinse una lega, che durò per dieci anni, con Filippo II Augusto di Francia (1187). In Italia, venuto meno lo scopo comune, ciascuno ritornò alle sue tradizioni e ai suoi interessi particolari. Così i pontefici rimasero isolati, impotenti a sottomettere Roma e a vincere le pretese di Federico. Bisanzio, agitata da disordini interni dopo la morte di Manuele Comneno nel 1180, era ormai esclusa dalla penisola e dall'Occidente. Guglielmo II proseguiva con rinnovato vigore la guerresca politica orientale sua e dei re normanni mirando a Costantinopoli (1185) e battendo le coste d'Egitto (1175-1177).

Ma tutto fu rimesso in gioco per il matrimonio del figlio del Barbarossa, Enrico, con l'erede presuntiva della corona sicula, Costanza (1185). Il secolare sogno imperiale era sul punto di compiersi, l'impero vinto levava la più paurosa minaccia contro il papato e i comuni. Enrico VI fu in tutto l'erede delle ambizioni universali del padre e della politica normanna. Egli ebbe al suo fianco la Francia, contro di sé una formidabile coalizione (1192), composta dell'Inghilterra, della Danimarca, dei Guelfi di Germania, e fiancheggiata, oltre che dal papa, dai ribelli del Regno, che alla morte di Guglielmo II (1189) avevano opposto a Costanza, un illegittimo, Tancredi, conte di Lecce. Avuto nelle sue mani il re d'Inghilterra, Riccardo Cuor di Leone (1193), lo costrinse a giurargli il vassallaggio per il suo regno e gli diede in feudo la corona di Borgogna, senza nascondere le sue ambizioni sull'Aragona come dipendenza di essa, e il suo proposito di assoggettarsi anche la Francia. Sottomesso quindi il Regno, occupata ai danni della chiesa gran parte dell'Italia centrale e affidatala al governo dei suoi ufficiali (1194-1195), intese con tutte le forze a rendere stabile ed ereditaria nella sua casa l'unione delle due corone siciliana e imperiale, a fondare un impero che, rispettoso per il momento dei comuni, avrebbe dovuto proseguire la tradizione tedesca e normanna, esprimere tutto lo slancio dell'Europa crociata, abbracciare l'Occidente e l'Oriente, assicurare alla chiesa, in cambio delle terre perdute e dell'adesione ai suoi disegni ereditarî, lauti benefici finanziarî e la supremazia dell'investitura imperiale. Con questi propositi, Enrico bandì nel marzo 1195 e promosse con grande energia una nuova crociata, sottrasse a Bisanzio e chiamò alla sua dipendenza i regni della Piccola Armenia e di Cipro, appartenenti ai Lusignano, levò tributo dagli Almoadi d'Africa, fece sposare al fratello Filippo di Svevia, la figlia di Isacco Angelo, Irene, ottenne dal fratello di lui Alessio III, usurpatore del trono, un annuo tributo in cambio del riconoscimento, intavolò infine lunghe trattative con Celestino III. Ma l'opera, irta di difficoltà, minacciata dal malcontento di tutta Italia e da una nuova ribellione, repressa crudelmente, non domata nel Regno, fu interrotta dalla morte dell'imperatore (1197).

Grazie all'abilità, all'energia, all'alta coscienza d'Innocenzo III al favore di circostanze eccezionali, la potenza papale e il cattolicismo ottennero allora, sulla fine del sec. XII e nei primi decennî del secolo XIII, i loro più grandi trionfi. L'accerchiamento imperiale era spezzato. Nella successione all'impero, il papato ebbe buon gioco di destreggiarsi fra i due eletti, il ghibellino Filippo di Svevia, figlio del Barbarossa, e il guelfo Ottone IV, figlio di Enrico il Leone, e di contrapporre infine a quest'ultimo Federico di Sicilia, promettendogli la corona imperiale solo a patto che non la riunisse con quella del Regno (1216) e che andasse crociato. Riconobbero in quel tempo la signoria feudale della Santa Sede l'Inghilterra, l'Aragona, il Portogallo, e il pontefice dispose a suo arbitrio del trono d'Ungheria. Lo stesso Filippo II Augusto dovette piegare al giudizio papale nella questione del divorzio da Ingeburga di Danimarca. Sotto questi aspetti, la dottrina della translatio imperii, i principî teocratici banditi da Innocenzo III, non erano più semplici affermazioni di principio, ma rispondevano a piena realtà. Il cattolicismo era vittorioso su tutti i campi: per opera dei cavalieri Teutonici e dei Portaspada nelle provincie baltiche; degli stati spagnoli, che, sotto la guida aragonese e sotto l'egida papale, battevano gli Arabi a Las Navas (1212); dei feudatarî della Francia settentrionale, che soffocavano l'eresia albigese e distruggevano la civiltà provenzale; dei crociati che, sulle rovine dell'impero greco, fondavano l'impero latino (1204-1261) e riunivano di fatto la chiesa bizantina alla romana. L'istituzione dei francescani e dei domenicani era il segno di un diffuso fervore religioso; il Santo Ufficio, di una conseguente vigilanza sempre più risoluta sulle coscienze. Il quarto concilio laterano (1215) poté dare per un momento il senso del mondo cristiano unificato sotto il governo di Roma.

In realtà, nell'atto stesso che la potenza papale si afferma, è in corso il processo della sua dissoluzione. Nel fervore di san Francesco e dei seguaci della rigida osservanza, nel loro dissidio da frate Elia e dai suoi fautori, era implicita la condanna della politica temporale della chiesa. Come questa nella sua lotta contro l'impero aveva fatto leva su tutti i suoi ribelli, così fra non molto l'impero e gli stati faranno leva sugli "spirituali" per scalzare la chiesa. L'Inquisizione mostrava l'ansia di soffocare un nemico sempre più minaccioso; la persecuzione dell'eresia da parte dello stato non era che un'arma dell'assolutismo regio. La Somma di san Tommaso darà tra poco l'ultima formulazione a un sistema ormai prossimo a perire e offrirà nel tempo stesso un vigoroso strumento alla rinascente speculazione filosofica. Le crociate, concepite come impresa cristiana contro gl'infedeli al comando del papa, sono un passato irrevocabile. La quarta, alla quale non partecipò alcuno dei sovrani d'Europa, fu deviata e compì, per iniziativa e a vantaggio di Venezia, il sogno di Ruggero II e di Enrico VI, cioè la distruzione dell'impero greco. Le successive ebbero carattere parziale, sporadico, mirarono, come l'ottava (1270), a interessi particolari, furono talvolta disapprovate, talvolta aspramente osteggiate dai papi. Nel 1241 l'Ungheria poté essere devastata dai Tartari, senza che l'Europa rispondesse alle sue invocazioni e provvedesse alla propria difesa. L'opera politico-religiosa in Oriente andò rapidamente distrutta: Gerusalemme fu perduta, ormai per sette secoli, nel 1244; l'impero greco, non più che un'ombra, fu restaurato nel 1261; nel 1291 cadde il regno di Gerusalemme. Il disegno, vagheggiato un momento, di un'azione comune dell'Europa e dei Tartari contro i potentati arabi e turchi, non giunse a compimento. Il cattolicesimo in Levante mise capo invece a un grande moto di cultura, e più che distruggere nemici, promosse le relazioni e gli scambî. Vera erede delle crociate fu Venezia, che aveva messo le sue flotte a servizio delle potenze europee, s'era servita di queste ai suoi scopi, e con le colonie, col più rigido protezionismo veniva affermando il suo monopolio commerciale. Le fu emula Genova, che s'avvantaggiò della caduta dell'impero latino, e, per il commercio coi Tartari, disseminò di colonie il Mar Nero, dove, a sua volta, fu raggiunta dalla rivale. Se i francescani e i domenicani inviati da Innocenzo IV e dai suoi successori fra i Tartari si adoprarono invano per la conversione e l'intesa politico-militare, essi furono i viaggiatori e i descrittori dell'Asia i precursori e i compagni dei Polo, fra i maggiori promotori delle grandi scoperte geografiche. La sovranità feudale della chiesa, politicamente arretrata, mal poteva reggersi, nella crisi della coscienza religiosa, di fronte a formidabili interessi e moti nazionali, a nuovi ordinamenti statali come le monarchie di Sicilia, di Francia, d'Inghilterra, i comuni e le signorie d'Italia e di Germania. Le forze suscitate o promosse dalla chiesa contro l'impero, giunte a maturità, le si volgevano contro. La stessa potenza di Innocenzo III era un poco illusoria. Principi e sovrani giuravano il vassallaggio verso la Santa Sede per sfuggire ai pericoli imminenti; in maniera via via più sensibile, Roma, anziché dominare, inseriva i suoi interessi, entrava come semplice parte nel gioco politico europeo, talvolta serviva al gioco stesso. Il comando, ch'era stato prima dell'impero, poi del papato, ora comincia a sfuggire anche al papato e a diventare prerogativa della casa di Francia.

Era morto da poco Innocenzo III (1216), quando Federico fu ricondotto fatalmente ai disegni paterni della restaurazione imperiale, dell'unione e dell'ereditarietà delle corone, e sottomise l'impero a una prova che ne fu l'agonia. Per raggiungere i suoi scopi, mutò d'ora in ora politica in Germania, largheggiando di privilegi prima coi principi ecclesiastici (1220), poi coi principi laici (1231), poi con le città, spogliando la corona delle sue prerogative, favorendo l'atomismo politico e l'anarchia. Preso dalle cose italiane, lasciò devastare l'Ungheria dai Tartari (1241) e prosperare sul Baltico l'egemonia danese (Valdemaro II, 1202-1241), che fu poi rotta dai principi, dalle città marittime tedesche e dagli ordini militari. Il centro di gravitazione e di lotta fu l'Italia, dov'ebbe, nemici implacabili e spesso alleati contro di lui, la chiesa accerchiata e minacciata di schiavitù, gran parte dei comuni ormai adulti, alcuni, anzi, vere potenze europee, che avevano approfittato dei torbidi precedenti per andar oltre i patti di Costanza. Per tutti i contendenti la vittoria era questione di vita o di morte. Non giovò a Federico verso la chiesa l'aver rioccupato Cipro e Gerusalemme (1228); nel frattempo Gregorio IX gli ribellava e gli faceva invadere il regno. Gli arbitrati pronunciati dai papi nel 1227 e nel 1233 fra imperatore e comuni per il ritorno allo statu quo ante, scontentarono le parti e non risolsero la questione. Se, dietro le orme dei re normanni, Federico riuscì a piegare i baroni e a fronteggiare le ingerenze papali facendo della Sicilia una monarchia fortemente accentrata a base burocratica (Costituzioni di Melfi, 1231), egli fallì, come il Barbarossa ed Enrico VI, nel tentativo di estendere un ugual regime: tutta Italia (1241). L'uomo e la sua corte - luogo d'influssi e di relazioni mondiali - segnarono, certo, un momento importantissimo nella coltura italiana ed europea; ma in lui fu vinto alla fine l'antico impero romano-germanico. La vittoria tuttavia non rimase al papato, prima esule in Francia (Concilio di Lione, 1245), poi ansioso di suscitare competitori agli ultimi Svevi; bensì ai comuni, che coi loro ordinamenti civili, con le arti, le industrie, i traffici s'avviavano a dare all'Europa cristiana un nuovo tipo di civiltà.

Non mai per l'innanzi era stato così insistente l'appello dei due secolari nemici all'opinione pubblica europea, così accesa la campagna della pubblica denigrazione. Ma i re di Francia e d'Inghilterra, presi dai gravi interessi dei loro stati - e, Luigi IX, del cattolicismo in Oriente, - nemici fra loro, condannati quindi a lottare in campi opposti, e tuttavia concordemente più timorosi d'una vittoria imperiale che d'una sconfitta papale, se n'erano rimasti in disparte. Un diverso problema, conseguente al diverso processo di formazione, agitava i due regni. Di qua dalla Manica l'iniziativa politica partiva dalla monarchia, che nelle guerre esterne, nella continua lotta contro le grandi signorie territoriali, nei conflitti ecclesiastici, si appoggiava in sempre maggior misura sulle popolazioni cittadine, chiamava a partecipare ai parlamenti le borghesie, a fianco del clero e della nobiltà, tendeva a rappresentare sempre più pienamente lo stato e la nazione nella sovranità della legge, nell'ampiezza dei confini, nella comunione degl'interessi. Di là dalla Manica, l'iniziativa moveva dal clero e dalla nobiltà, che strappava a una monarchia umiliata la Magna Charta (1218) e le Provvisioni di Oxford (1259), la costringeva ad ammettere ai parlamenti i rappresentanti delle città, e risolveva prima per sé, poi, in definitiva, per l'intera nazione, il problema del governo, delle relazioni tra sudditi e sovrano. La politica estera rispecchia questo svolgimento interno. A differenza di ciò ch'era avvenuto nel secolo precedente tra l'energico dispotismo dei primi Normanni e le angustie dei Capetingi, ora l'equilibrio si sposta decisamente a favore della Francia, che conquista la Bretagna, il Poitou, il Maine, l'Angiò per opera di Filippo II Augusto, ne ottiene il riconoscimento col Trattato di Parigi (1259) contro la cessione a titolo feudale della Guienna e di alcune altre terre, liquida a suo favore la Crociata Albigese col Trattato di Perpignano (1258), si assicura le terre a nord dei Pirenei, abbandonando alla corona aragonese il Rossiglione e la contea di Barcellona. Enrico III d'Inghilterra tentò di uscire dall'isolamento e di accerchiare il nemico, negoziando con la chiesa la corona di Sicilia per suo figlio Edmondo e facendo eleggere imperatore suo fratello Riccardo di Cornovaglia; ma il tentativo rimase senza seguito.

La monarchia francese era ormai preponderante in Europa. Con atto gravissimo di conseguenze, fu impegnato nella lotta contro gli Svevi Carlo d'Angiò, fratello di Luigi IX. Il quale, conquistato il regno contro Manfredi e Corradino, fu tratto quasi fatalmente dalle tradizioni locali, dalle necessità del suo stato e della chiesa, dalla difesa dei suoi possessi provenzali e piemontesi, a svolgere una grande politica italiana e mediterranea. Mirò anch'egli alle corone di Gerusalemme e di Bisanzio, esercitò effettivamente il suo dominio sull'Albania e le isole Ionie, sulla Morea, l'Eubea, le Cicladi e sopra Acri; infine spinse Luigi IX all'infelice crociata contro Tunisi, per riassoggettarla a tributo. Senatore in Roma, vicario imperiale in Toscana per concessione papale, signore di parecchie terre in Piemonte e in Lombardia, cercò di dominare la penisola col favore dei Guelfi e contro i Ghibellini. Ma la chiesa, aggirata dal suo liberatore, si riscosse sotto due papi italiani, Gregorio X (1274-76) e Niccolò III (1277-1280), e ruppe l'egemonia angioina, come aveva vinto la sveva. Con la riunione della chiesa orientale all'occidentale (1274) i sogni bizantini furono sventati, favorita la pacificazione in Italia, privato il re dei suoi alti uffici. Di più: contro Carlo, a sollievo dell'Italia divisa, della Germania abbandonata in preda all'anarchia, fu restaurato l'impero vacante, a favore di Rodolfo di Absburgo (1273). Ma il pericolo maggiore venne dagli stessi sudditi siciliani e dall'Aragona. Questa potenza che in passato aveva aiutato Raimondo VI di Tolosa contro la Francia, e, nonostante la sconfitta di Muret (1213), s'era assicurato il confine dei Pirenei, che aveva stretto alleanza con Genova e s'era impadronita delle Baleari, entra ora decisamente per la prima volta nella grande politica europea. Il sistema franco-napoletano significava per essa l'esclusione da quel mare ch'era la sua ragione di vita; di qui, e dai legami familiari con gli Svevi, l'aiuto prestato da Pietro III, genero di Manfredi, agli avversarî del nuovo regime e l'occupazione della Sicilia allo scoppio del Vespro (1282). L'Aragona fu allora assalita da due parti: da Filippo III l'Ardito - prima coi maneggi per la successione alla Castiglia e alla Navarra, poi, inutilmente, con le armi - e da Carlo d'Angiò, impegnatosi in una lunga guerra non fortunata, chiusa nel 1302 con la pace di Caltabellotta, che riconosceva il regno di Trinacria a favore del figlio di Pietro, Federico.

L'elezione di Rodolfo d'Absburgo aveva risposto all'immediata necessità del papato e aveva rivelato nel tempo stesso il tragico dissidio della chiesa di fronte alla nuova Europa, della coscienza di una dominazione universale cattolica che, concresciuta con l'impero, aveva dovuto abbatterlo per affermarsi, se non che, raggiunto lo scopo, s'era sentita venir meno, fatta preda alle forze che aveva promosse contro il nemico, ed era stata costretta alla restaurazione. Ma fu per gran parte creazione nuova. Per la prima volta, forse, fu ristretto il voto ai sette principi elettori. Sradicato dall'Italia, risorto per volontà papale, affidato a un principe di recente potenza tutto preso dalla necessità di pacificare la Germania e di costituirsi un ricco dominio familiare, in cambio del vecchio demanio imperiale perduto, l'impero si venne sempre più straniando dalla penisola e ritraendo di là dalle Alpi. La fine dell'interregno fu piuttosto la fondazione d'una grande dinastia, che, sotto Rodolfo, arrestò l'espansione della Boemia strappando al re Ottocaro II l'Austria, la Stiria, la Carinzia, la Carniola (1278), sotto il figlio di lui, Alberto, mirò alla Boemia stessa e all'Ungheria, segnando fin d'allora le mete della sua lontana fortuna.

Scosso il giogo angioino, fattasi dell'impero una sua creatura, il papato poté ritener giunto il momento di dominare la politica italiana e di riaffermare in Occidente la sua potenza. Al duplice intento Bonifacio VIII riordinò il Patrimonio; si adoprò con la guerra del Vespro a mantenere l'integrità del Regno, vassallo della S. Sede; negoziò con Adolfo di Nassau prima, poi con Alberto d'Austria la corona imperiale, a patto di aver mano libera in Lombardia e in Toscana, e di ottenere il riconoscimento della supremazia papale sull'impero; cercò d'impadronirsi di Firenze con la solidarietà dell'alta borghesia bancaria toscana, avversa a una restaurazione ghibellina in veste aragonese, e interessata nella sua larghissima cerchia di affari alle sorti della politica ecclesiastica; intervenne infine nelle relazioni dell'Inghilterra e della Francia.

I due stati erano di nuovo in guerra dal 1293, per la contestata esecuzione della pace di Parigi. Ambedue internamente potenti: la Francia, di struttura ancora feudale ai tempi di Luigi IX, è ormai, sotto Filippo IV, una monarchia burocratica saldamente accentrata, provvista di larghi mezzi finanziarî, che per bocca dei legisti cerca i titoli della sua legittimità nel diritto romano e s'avvia verso l'assolutismo. Le sue mire d'ingrandimento sono verso la Guienna, tra Rodano e Reno sulle terre del regno di Borgogna, verso la Fiandra, dove il re s'appoggia alla nobiltà contro la borghesia, legata per vitali interessi economici all'Inghilterra. Questa, sotto il saggio governo di Edoardo I (1272-1307), stabilisce l'equilibrio tra corona e parlamento sulla base del riconoscimento alla prima del potere esecutivo, al secondo del legislativo e del diritto d'imposizione. Paga di quel che le resta dei dominî continentali, s'ingrandisce nell'isola annettendosi il Galles e tentando invano la conquista della Scozia. Le due nazioni si stringono concordi intorno al loro re per la lotta contro il nemico ereditario. Nel nuovo conflitto, interrotto nel 1298 da una sentenza arbitrale pronunciata da Bonifacio VIII, come privata persona, non come pontefice, tenne per i Francesi la Scozia, per gl'Inglesi la Fiandra che, nonostante la splendida vittoria di Courtrai (11 luglio 1302), dovette alla fine cedere al nemico le città di Lille, Douai e Béthune. Degl'imperatori, attratti anche essi come parti secondarie nel sistema franco-inglese, Adolfo di Nassau si strinse a Edoardo I, Alberto d'Austria a Filippo il Bello.

Ma la guerra, chiusa provvisoriamente nel 1303 con la restituzione della Guienna all'Inghilterra, ebbe ben altra importanza. Per sostenerla i due re dovettero tassare anche il clero; Bonifacio s'interpose come pacificatore e protestò contro la violazione dell'immunità ecclesiastica; il dissidio sostanziale, fra supremazia della chiesa e sovranità dello stato, fu alimentato dagli spirituali, inasprito da privati risentimenti, e mise capo alla bolla Unam Sanctam, all'invocazione d'un concilio che giudicasse della legittimità di Bonifacio, all'insulto di Anagni. La repubblica cristiana non rispose più all'appello della chiesa; per la prima volta lo stato moderno affermò altamente le sue esigenze. E allora il papato, vinto, privo d'appoggio, malsicuro di Roma e del Patrimonio, non poté che cercar di salvare ciò che gli rimaneva di forza e di prestigio, al riparo della potenza egemone d'Europa. Il trasferimento ad Avignone (Cattività di Babilonia, 1305-1377) assicurò alla S. Sede una certa calma esteriore, una continuità d'azione inconsueta, un più severo controllo sul clero francese. Ma le furono attribuiti a colpa - e tornarono alla fine a suo danno - l'abbandono di Roma, del Patrimonio e dell'Italia, la devozione che parve talvolta servile verso la Francia, lo sfruttamento della cristianità a scopo nepotistico e a favore dei Francesi il formidabile fiscalismo, la mondanità. Vero è anche, per altro, che i benefici e le condiscendenze pagavano un aiuto indispensabile, che nella libera disposizione delle chiese, nell'organizzazione fiscale, nella fedeltà interessata degli uomini si cercava un compenso ai redditi via via sempre più scarsi, un sostegno alla declinante autorità. E frattanto una nuova corrente politica rifiutava con sempre maggior tenacia il suo aiuto finanziario, tendeva ad annullare le immunità, a chiuder la chiesa nell'orbita dello stato; frattanto un nuovo orientamento religioso, per bocca dei valdesi, degli spirituali, dei lollardi, di Marsilio da Padova, di Giovanni di Jandun, di Guglielmo Ockam, di Giovanni Wycliffe, attaccava sempre più violentemente la disciplina e la dottrina ecclesiastica.

Se il papato avignonese non abdica ai principî di supremazia e alle sue rivendicazioni verso l'impero, la posizione dei due poteri e le loro relazioni reciproche si vengono sempre più profondamente alterando. La morte di Alberto d'Austria, nel 1308, segna il momentaneo arresto della potenza degli Asburgo, travagliati dalle aspirazioni dei Cantoni Svizzeri all'indipendenza, e delusi nelle loro mire sull'Ungheria e sulla Boemia. Dei due stati, dopo l'estinzione delle dinastie nazionali, l'uno passa a ingrandire la potenza angioina nell'Europa orientale (Carlo Martello, 1290-1296, Carlo Roberto, 1308-1342), l'altro a costituire il dominio familiare dei Lussemburgo, la nuova dinastia che, a contrasto con l'asburghese, occuperà direttamente o indirettamente l'impero per più di un secolo e farà le sue ultime prove di fronte al papato medievale. La discesa di Enrico VII (1310) scatenò ancora nella penisola le passioni dei Guelfi e dei Ghibellini e fu annientata dalla diffidenza papale, dagl'intrighi di Roberto d'Angiò, capo del guelfismo e massimo potentato italiano, infine dalle armi di Firenze. Ludovico IV, impadronitosi della corona per una elezione contestata e per la fortuna delle armi, senza approvazione papale, tenne testa a Giovanni XXII, che l'aveva scomunicato e deposto, si fece acclamare in Campidoglio dal popolo e coronare da un antipapa minorita, da lui stesso eletto e incoronato, e alla dieta di Coblenza, in virtù della sua potestà universale, decise in favore del suo alleato Edoardo III la successione al trono di Francia. Cerimonie, distribuzioni di uffici, azioni militari e diplomatiche non restaurarono l'autorità imperiale in Italia. Ma l'impero si faceva interprete dell'opposizione degli spirituali, che aveva fiancheggiato i Colonna contro Bonifacio VIII, della coscienza democratica, teorizzata a sistema politico da Marsilio di Padova, della coscienza romana che, trasfigurata, doveva rivivere tra poco nei sogni universali e nazionali di Cola di Rienzo. E la dieta di Rense (16 luglio 1338) rompeva ormai il vincolo della dipendenza imperiale stabilito dopo il Grande Interregno, limitando l'ufficio del pontefice al conferimento del titolo al nuovo eletto. L'Italia adulta, dove, agitato da torbidi dinastici il Regno, grandeggiavano la signoria viscontea e la Firenze delle arti, assistette ormai senza commozione al rapido passaggio di Carlo IV, l'eletto della chiesa contro Ludovico e il successore di lui. Ma fu vittoria vuota: con la Bolla d'oro (1356) egli riaffermò il distacco dal papato, e compì la trasformazione dell'impero in una confederazione di sette stati sovrani, dando la preminenza alla Boemia, che divenne per opera sua uno splendido focolare di cultura.

L'assetto medievale di chiesa e d'impero, d'Italia e Germania, era così sostanzialmeme finito. La riconquista del Patrimonio, avviata da Cola e compiuta da Egidio d'Albornoz (1353-7, 1358-67), non fu più legata alle vecchie questioni politico-religiose; fu la preparazione all'invocato ritorno dei papi, la lotta, come altrove, del principe o dello stato contro l'anarchico particolarismo di partiti, di comuni, di signorie, la presa di posizione, quasi da stato a stato, di fronte alle due grandi potenze antagonistiche della penisola. E quando i Fiorentini si ritennero minacciati dalla ricostituzione del Patrimonio e dagl'intrighi degli ufficiali papali in Lombardia, essi, gli antichi guelfi, non ebbero scrupolo di unirsi ai Visconti ghibellini, di raccogliere intorno a sé gran parte dell'Italia settentrionale e centrale non esclusa Roma, e, al grido di libertà, di combattere per tre anni contro la chiesa (Guerra degli Otto Santi, 1375-1378).

Il ritorno di Gregorio XI da Avignone (1377), la doppia elezione, avvenuta alla sua morte (1378), dell'italiano Urbano VI in Roma sotto le pressioni locali, del francese Clemente VII a Fondi per opera dei cardinali francesi, misero in luce le nuove condizioni del papato rispetto all'Europa e aprirono la via a una graude crisi del mondo cattolico. L'Occidente fu lacerato per quarant'anni da uno scisma (Grande Scisma d'Occidente, 1378-1417) che, mentre di nome faceva capo ai pontefici, di fatto trovava per gran parte la sua ragione e la sua forza in due aggruppamenti politici antagonistici - Francia, Napoli, Scozia da un lato, Italia, Impero, Inghilterra, dall'altro - nell'avversione contro il fiscalismo romano, nelle opposizioni dottrinali e disciplinari contro la chiesa, negl'interessi dei cardinali e nella loro tendenza, rivelatasi da tempo, a limitare a loro favore l'assolutismo monarchico del papato. La questione divenne in sempre maggior misura oggetto di trattativa e di discussione da parte dei sovrani, di membri del Sacro Collegio, delle università, prima fra esse quella di Parigi, di pubblicisti e riformatori. Alla fine, nell'impossibilità di ogni accordo diretto fra i capi o coi capi, non si ravvisò altro mezzo che di ricorrere all'espediente rivoluzionario, proposto un secolo innanzi da Filippo il Bello contro Bonifacio VIII, cioè a un concilio ecumenico, non convocato dai papi, che decidesse della loro legittimità e sanasse lo scisma. Lo scopo, fallito dal concilio di Pisa (1409-1410), venne raggiunto con l'elezione di Martino V dal concilio di Costanza (1414-1418). Convocato dall'imperatore Sigismondo, esso fu la grande assemblea politico-religiosa d'Europa, volta verso il passato nell'intento di ricostituzione cattolica e nella condanna del hussitismo; negazione di quel passato nella sua natura, nelle rappresentanze e nel voto per nazione, nelle insistenti richieste di riforma, negli stessi concordati conclusi dai singoli paesi con la S. Sede. Stretta da troppi interessi, esitante di fronte al carattere rivoluzionario del moto riformatore, la chiesa non poté soddisfare se non in minima parte, nei concilî di Basilea (1431-1437), Ferrara, Firenze, Roma, alle nuove esigenze del cattolicismo. Grande vittoria per il papato parve nel 1439 la riunione delle chiese occidentale ed orientale. Ma fu trionfo effimero, prodotto, come altre volte nel passato, dai pericoli che minacciavano Bisanzio e dal bisogno di aiuto. L'invasione ottomana batteva alle porte. I paesi dell'Oriente europeo: Boemia, Polonia, Ungheria, terre di più recente civiltà, poste al margine del mondo cattolico, agitate da troppi interessi mutevoli e contrastanti e da antagonismi di stirpe, non avevano trovato uno stabile assetto dinastico e politico. Asburgo e Lussemburgo si erano scontrati nel comune disegno di unificare i dominî asburghesi con la Boemia e l'Ungheria. La via era poi stata loro tagliata da Luigi il Grande d'Angiò (morto nel 1382) e dal genero Ladislao Jagellone di Lituania, che avevano, l'un dopo l'altro, riunite le corone di Ungheria e di Polonia, e avevano, l'uno tolto a Venezia la Dalmazia e allargato le sue conquiste sulla Serbia, la Valachia, la Moldavia, l'altro ingrandito la Polonia ai danni dell'ordine Teutonico e, con la conversione sua e del suo popolo dal paganesimo al cattolicesimo, incluso la Lituania nell'orbita della civiltà occidentale (1386). Lo scopo fu raggiunto momentaneamente per la prima volta per opera di Sigismondo, a favore del genero di lui, Alberto II d'Asburgo (1438); ma, alla sua morte precoce (1439), la successione contrastata mise capo all'elezione di Giorgio Podiebrad in Polonia, di Giovanni Hunyadi e poi di suo figlio Mattia Corvino in Ungheria. E frattanto - origine e conseguenza a un tempo delle agitazioni dinastiche - la monarchia era costretta a umilianti patteggiamenti con la nobiltà, e il sentimento nazionale reagiva con sempre maggior vigore all'influsso tedesco, levando in Boemia come bandiera di riscossa l'hussitismo. All'avanzata dei Turchi, alle invocazioni di Eugenio IV e di Niccolò V per la crociata, i maggiori potentati d'Europa non si mossero; l'unico aiuto venne dalla chiesa e dai principi danubiani più direttamente minacciati: Giorgio Castriota, signore dell'Albania, Ladislao d'Ungheria, Giovanni Hunyadi. L'Ungheria fu salva dall'invasione; ma la penisola balcanica venne occupata e la mattina del 29 maggio 1453 anche Costantinopoli cadde in mano di Maometto II. Una nuova grande potenza, giovane, esaltata dalla conquista, si affacciava così al bacino del Mediterraneo.

Fra i paesi d'Europa, il pericolo più grave fu per l'Italia. Falliti i tentativi egemonici di Gian Galeazzo Visconti (morto nel 1402) e di Ladislao di Durazzo (morto nel 1414), i grandi potentati della penisola si erano venuti assestando in un equilibrio via via più stabile in seguito alla restaurazione dello stato papale, alla formazione del dominio veneto di terraferma contro le ambizioni di Gian Galeazzo e poi di Francesco Sforza, al sorgere della signoria medicea, alla fine delle lotte dinastiche nel Napoletano e alla vittoria di Alfonso, re, oltre che dell'Aragona, della Sicilia e della Sardegna (1442). Alla caduta di Costantinopoli, papa Niccolò V riuscì bensì a metter pace fra Milano e Venezia (Pace di Lodi, 1454), ma tentò invano di far fronte ai Turchi stringendo in lega i cinque maggiori stati italiani. Essi infatti non mirarono ad altro che a mantenere l'equilibrio e a impedirsi l'un l'altro ogni ingrandimento. Sola a combattere fu Venezia, per il monopolio in Oriente, salvato per ora, dopo l'invasione dell'Ungheria e le devastazioni del Friuli, a costo di gravi sacrifici, cioè il pagamento di un annuo tributo e la perdita di Lemno, di Negroponte, di parecchi luoghi dell'Albania (1479). La politica di equilibrio assicurò all'Italia quarant'anni di pace. Ma la minaccia, tanto più seria, quanto meno avvertita, venne dalle grandi monarchie in via di formazione, soprattutto dall'Aragona, già padrona del Mezzogiorno, e dalla Francia, che vantava ragioni ereditarie sul Napoletano e sul Milanese.

La pace del 1303 tra Francia e Inghilterra aveva lasciate insolute due questioni fondamentali: l'anacronistico assetto dei due paesi e dei due sovrani rispetto alla Guienna; le aspirazioni francesi sulla Fiandra che, soddisfatte, avrebbero rovinato l'importazione delle lane inglesi e l'industria laniera fiamminga. Ad alimentare la discordia, si aggiunse nel 1328 la successione dell'ultimo dei Capetingi diretti, Carlo IV, ambita contemporaneamente da Edoardo III d'Inghilterra e dal figlio di Carlo di Valois, Filippo (VI). Così, nonostante gli sforzi di Giovanni XXII e di Benedetto XII per la pacificazione, era scoppiata la guerra dei Cento anni, che fu la prova decisiva delle due monarchie sui vecchi ordinamenti feudali e condusse la Francia alla conquista di tutto il territorio nażionale a esclusione di Calais. Chiuso il conflitto l'anno stesso della caduta di Costantinopoli, Inghilterra e Francia furono quasi immediatamente involte in una crisi, che parve doverle trascinare a rovina: la prima nella furibonda guerra delle Due Rose, che mise capo in fine al saggio ed energico governo di Edoardo IV di York, alla pacificazione sotto Enrico VII Tudor e al consolidamento del potere regio; la seconda nella lotta della monarchia contro i grandi signori feudali, stretti nella Lega del bene pubblico (1464), in specie contro Carlo il Temerario, duca di Borgogna. La potenza borgognona si era venuta formando durante la guerra dei Cento anni su territorî dipendenti dalla corona di Francia o dall'impero, al sud sulla Borgogna e la Franca Contea, al nord sulla Piccardia, l'Artois, la Fiandra, l'Hainaut, il Brabante, il Lussemburgo. Erano luoghi, s'è visto, d'importanza politica ed economica europea, zona di gravitazione degl'interessi anglo-germanici. Il Temerario ambì alla restaurazione del regno di Lorena e all'impero; contro Luigi XI, si alleò, naturalmente, con l'Inghilterra, i sovrani spagnoli, l'impero, promettendo la figlia Maria a Massimiliano, figlio di Federico III. Ma fu vinto dal mancato aiuto del suocero, dall'abilità del re francese, dalle armi del duca di Lorena e dei Cantoni Svizzeri, ch'egli doveva soggiogare per aprirsi la via verso il sud. La vittoria rimase a Luigi XI, che, in seguito al trattato d'Arras con Massimiliano (1482), s'impadronì della Piccardia, dell'Artois, della Franca Contea, della Borgogna, mantenendo l'alta sovranità sulla Fiandra; e dagli ultimi discendenti degli Angiò ottenne a titolo ereditario l'Angiò, la Provenza e le loro pretese dinastiche sul Napoletano (1480-1481).

Nel medesimo giro di tempo la conquista della Cerdagna e del Rossiglione da parte della Francia e un suo infelice intervento con mire di conquista in Catalogna, promovevano il ravvicinamento della Castiglia e dell'Aragona, rivali da secoli. Col matrimonio di Isabella e di Ferdinando, con la rispettiva assunzione ai troni di Castiglia e d'Aragona, con la caduta di Granata dopo dieci anni di guerra (1482-1492) e la liberazione della penisola dagli Arabi, la Spagna assumeva un posto di prim'ordine nella politica europea.

Tre grandi monarchie erano così sorte in Occidente con più di un carattere comune: unità di territorio, forza del sovrano fondata sull'esercito, la finanza, la burocrazia, sua solidarietà col terzo stato, sua cura degl'interessi industriali e commerciali, con indirizzo mercantilistico, energica politica ecclesiastica. Nel gioco delle forze europee, l'Italia, tuttora fiorente, ma seriamente minacciata nel suo primato economico, con una pace fondata sul fragile, geloso equilibrio dei suoi piccoli stati, divenne un centro di fatale attrazione per le potenze straniere. Insieme con l'eredità di Borgogna, le pretese di Francia e Spagna al Napoletano, di Francia e impero alla Lombardia daranno il moto alle nuove guerre d'Europa.

L'Europa medievale era tramontata. Le relazioni fra Occidente e Oriente erano poste su nuove basi. Mentre alla grande mediatrice, Venezia, si venivano chiudendo le porte dell'Oriente, si aprivano a favore della Spagna e del Portogallo le nuove vie segnate da Cristoforo Colombo e da Vasco de Gama. Il movimento economico rifletteva il grande moto politico: la vita d'Europa si veniva trasferendo dalla Germania, dall'Italia, dal Mediterraneo, verso l'Occidente e sull'Atlantico. Con lo sguardo volto al passato il Medioevo aveva atteso per secoli la renovatio; essa era stata la fede di Ottone III, di Gioacchino da Fiore e degli spirituali, di Dante, di Cola di Rienzo. Ora il rinnovamento era compiuto; non, secondo le invocazioni, nell'universalismo di chiesa e d'impero, ma contro di esso. Si chiamava Umanesimo e Rinascimento, era critica contro tutto il passato, nuova concezione politica, che scopriva nello stato stesso la sorgente del suo potere e il suo scopo, nuova concezione religiosa che contrapponeva alla tradizione cattolica le Sacre Scritture interpretate secondo il libero esame, sentimento e letterature nazionali, irresistibile impulso alla conquista e alla conoscenza dell'uomo e del mondo.

Epoca moderna e contemporanea. - Se parlar d'Europa si possa, sul finire del '400, Europa ha un senso soltanto come unità morale-religiosa. Non altra unità, né - a maggior ragione - il senso né la tendenza ad altra unità. Non unità di civiltà materiale: terre pulsanti di vita urbana (Italia, Francia, Paesi Bassi, Spagna, Germania occidentale e meridionale); popolazioni prevalentemente o unicamente rurali (Germania settentrionale, Scandinavia, Polonia); più in là ancora, la Moscovia, che è Europa ancora solo in senso geografico. Non un comune sostrato nella vita economica, negli organismi militari, negli ordinamenti degli stati. E però Europa, civiltà europea, poteva essere soltanto il corpus christianum. Anche un estraneo a quel mondo, solo in questo concetto poteva riconoscere l'Europeo: mentre tutta una serie di caratteri distintivi, davanti ai quali pur non si poteva chiudere gli occhi, razza, lingua, tradizioni, costumi, si scoloriva e perdeva quasi ogni significato. Solo nella grande comunità cristiana ci si riconosceva e si era riconosciuti fratelli: Europa si contrapponeva a mondo pagano, europeo a infedele. Nella pratica l'ideale della fede poteva anche essere relegato in un canto: anzi, quanto sono numerose, in questo tardo '400, le figure di assertori indomiti della loro personalità, che è ben terrena, al di fuori e al disopra di ogni idea morale; e quanto son rari, in questa epoca, gli atti di grande e vero eroismo, le gesta dei santi della chiesa. Nella sfera stessa del pensiero quante incrinature, quanti accomodamenti nelle idealità cristiane; la vita vera era spesso una quotidiana offesa a quegl'ideali. Ma essi mantenevano tutto il loro valore. Nessuno giustificava, e, meno ancora, santificava il peccato. Non gli umanisti: in essi quietamente ondeggiavano le nostalgie di un passato pagano, curiosamente accomodate con visioni e idealità cristiane. Umanesimo essenzialmente estetizzante ed erudito, in Italia e in Francia, e, generalmente, non grande vigore critico; umanesimo morale e critico in Germania e nei Paesi Bassi.

Mondo complesso, che aveva nel suo seno ricchezza di vita e di contrasti e che - se credeva ancora agl'ideali del Medioevo, ma quasi per abitudine mentale - pur era in attesa di qualche cosa, in cui credere veramente e, credendo, vivere. C'è la chiesa; ma la sua azione morale è debole, più debole ancora la sua azione politica. Le tendenze conciliari, le aspirazioni episcopali non sono bene spente ancora; la gerarchia e la disciplina lente e fiacche. Il papato non riesce a coordinare uno sforzo collettivo in una crociata contro i Turchi, che pure incalzano e urgono sul Basso Danubio, sull'Adriatico, a Rodi, a Cipro. C'è anche l'Impero, altra colonna dei passati secoli, ma i tentativi di infondergli vita sono stati vani, di contro alle tendenze autonomistiche di città e di principi.

La Francia invece, è già allora, il più bel regno d'Europa, ricco di uomini, di commerci e di belle campagne, forte della sua cavalleresca nobiltà; gente orgogliosa e bellicosa, che sente qualche cosa che è già quasi patriottismo; una compagine più salda di quella riunita sotto le corone di Castiglia e di Aragona. Ci sono gl'Italiani: per lo sviluppo intellettuale ed economico - benché in certo ristagno, questo - alla testa di tutti, ma incapaci di un'azione comune. Le loro signorie sono tutte rimaste più o meno municipali. Anche Venezia, tutta presa dalla sua politica in Oriente, agisce in Italia solo al servigio di una politica di calcolato equilibrio. Il regno più considerevole, quello di Napoli, è impoverito e avvilito, economicamente arretrato, già un po' lontano dai ganglî vitali dell'Europa, in un Mediterraneo poco sicuro, senza una forte marineria propria. Gl'Italiani cominciano già ora a vivere di rendita sul loro passato ideale e materiale; non si avvedono che, come la vita economica non fa più centro solo e principalmente in Italia, così va perdendo molta della sua suggestione quella forza spirituale e politica che era il papato, gloria italiana. E già si veniva profilando quel fatale dilemma, da cui gl'Italiani, negli anni decisivi della prima metà del '500, non seppero o non vollero uscire: o col vecchio mondo, col papato, con l'impero; o con il nuovo, in varia guisa, politica e religiosa, insorgente contro lo spirito e l'eredità di Roma. Gl'Italiani, carichi di una tradizione secolare, non ne potevano far getto, né potevano portare nella lotta il radicalismo degli ultramontani, che questo patrimonio ideale non avevano da serbare; gl'Italiani, avversi o favorevoli al papato e alla chiesa che fossero, intuirono tuttavia che di esso non potevano fare a meno, che, nella loro frammentarietà e inconsistenza politica, quella - Roma, chiesa, papato - era la loro patente di nobiltà sugli altri popoli, che riformare la chiesa dal di fuori era lo stesso che distruggere la chiesa. Questo, sotto il regno di Roma e del papato, fu il patriottismo e, a un tempo, l'universalismo degl'Italiani; ma per aver serbato fede allo spirito universale di Roma, videro altri popoli porsi alla testa del nuovo assetto europeo e la storia politica e militare d'Europa aver nome da Francia, Germania, Olanda, Inghilterra.

All'alba del secolo, solo in due popoli e coacervi di popoli, Francesi e Spagnoli, si disvelano forze latenti e attitudini a compiere azioni di portata europea. Solo in essi, e più in Francia che in Spagna, la monarchia è riuscita, se non a sciogliere, almeno ad allentare la stretta della vecchia casta feudale, a farsi unica o preminente interprete dello spirito nazionale, a tradurre in azione politica e militare le naturali e oscure tendenze della nazione. Di fronte a Francesi e a Spagnoli, altri popoli stanno in attesa come di un imminente duello, quasi l'inaugurazione di una nuova era.

Questi organismi statali valgono per quel che valgono i sovrani, e tanto più valgono quanto meno i monarchi sono implicati in questioni d'interesse dinastico sì, ma estranee ai sentimenti e agli interessi nazionali. Assai più sciolta, in tal senso, la monarchia francese; mentre quella spagnola è irretita nelle incoerenze e contraddizioni cui la trascina il sovrano, sul cui capo troppe corone e troppe eredità politiche si sono accumulate: i vecchi paesi asburgici, la recente eredità borgognona, e, dopo il 1519, la formidabile dignità e responsabilità dell'impero. Carlo V era uomo da sentire altamente questa dignità e questa responsabilità. Sentimentalmente attaccato alla patria fiamminga, era, in fondo, un estraneo, in Germania, in Austria, in Italia, in Spagna. Incapace di comprendere la realtà delle monarchie nazionali, tutta la sua vita si rifugiò in un ideale politico universale, l'Impero, da cui la realtà ogni giorno si mostrava più lontana. Eppure tanta era ancora la forza di quell'ideologia universalistica, che le stesse monarchie nazionali, ignare della forza che covavano in petto, solo assorbendo o distruggendo quell'ideologia, credevano di averne ragione: quasi che esse portassero in sé la scoria di un peccato originale e non avessero i titoli per affermare, anche idealmente, il loro diritto alla vita. Non diversamente tutto che era terreno e ispirato a fini terreni non osava e non sapeva giustificarsi in sé stesso; mentre l'impero, librato a mezz'aria tra cielo e terra, ancor si faceva forte, morendo, d'una tradizione e d'un sentimento medievali, non del tutto spenti.

Tra Francia e Spagna dunque si combatterà per l'egemonia. Il mastodontico impero asburgico troppo si viene assiepando attorno al regno di Francia; la stretta può farsi più forte, in futuro; occorre dare un respiro alla Francia, sboccare per i varchi non chiusi, verso il Reno, verso l'Italia, allargarli prima che l'anello si chiuda. E anche di là dall'Oceano, che è pure il mare della Francia, l'azione di questi Spagnoli è un'incognita.

Nel 1492 un italiano, ai loro servizî, si è buttato alla disperata, ha messo il piede laggiù in nuove isole, ha visto nuove terre. Ma per ora, di là non viene che qualche po' d'oro e d'argento e il racconto favoloso di popoli strani, ignari di Cristo e delle armi da fuoco. Non peranco vengono di laggiù i galeoni stipati d'oro e d'argento, da convertire in bei ducati, per assoldare milizie. Ma i re che vogliono denaro, poiché col denaro si fa ora principalmente la guerra, e denaro ci vuole per assoldare Svizzeri o lanzichenecchi, sanno dove averlo, in Europa, ad Anversa, a Parigi, a Lione, a Marsiglia, a Barcellona, ad Augusta; ma specialmente in Italia, a Milano, a Venezia, a Firenze, a Genova. Anche perciò l'Italia è una bella preda, che Francesi e Spagnoli si contendono, con alterna fortuna, fra il 1494 e il 1559, non senza che intervenga, con scarso effetto pratico, ma con significativo atteggiamento, l'Inghilterra dei Tudor, uscita dall'aspra crisi delle Due Rose.

Da più parti si scorgono segni di vita nuova o di una maggiore energia di vita; in più parti un senso di aspettativa di cose nuove: nell'ordine morale, un bisogno di dare un senso profondo alla vita, di sostituire con altri gli schemi ideali della tradizione medievale o di riportarsi alle scaturigini religiose di questa tradizione. Bisogno più intensamente sentito che altrove, in Germania, nei Paesi Bassi, nella Francia, in Inghilterra, e variamente contesto con i motivi sgorganti dalla nuova cultura umanistica degli ecclesiastici e dei laici, dalla nuova realtà politica e sociale, dall'autorità categorica del passato, dalla lezione e dal paragone delle cose presenti.

In questo punto cruciale della sua storia, molta parte d'Europa si riconobbe in Lutero, nelle parole e negli scritti di lui credette veder chiariti i problemi del proprio spirito, udì riaffermato il valore capitale della sola fede, interiormente e intensamente sentita. In questa rivoluzione morale, religiosa e politica, molta parte d'Europa, con giovanile veemenza, si rituffava, in certo senso e con diversa coscienza, nel Medioevo; risentire in sé gl'ideali religiosi dell'età apostolica, apriva i cuori a quella fede sentimentalmente ottimistica, che è nel fondo della concezione luterana. Ma la terra ha pure le sue esigenze: e all'azione religiosa di Lutero, alla sfida alla bolla di scomunica (dicembre 1520), alle sue parole alla dieta di Worms (aprile 1521), rispondono atti di altro e non dubbio colore: violenze di plebi rurali, rapine di cavalieri, folli esperimenti comunistici e anarcoidi, sgretolarsi del mondo ecclesiastico tedesco e della forza economica e sociale che esso rappresentava, e adesione fin troppo rapida di masse, e specialmente di principi, alla nuova fede. Così anche sul Baltico, dove, con la Riforma, si spezza l'unione dei tre stati scandinavi (1523) e gli Svedesi acquistano, con Gustavo Wasa, libertà d'azione politica. Difficile dire, fino a qual punto, caso per caso, l'atteggiamento dei principi fosse dettato da prepotente impulso religioso, o non anche da calcolo politico: essi che vedevano nelle loro terre la potenza del clero andare dispersa, e quella ricchezza e quella somma di autorità accumulate nei secoli non attendere che un erede. Perciò, la nuova fede luterana, come era un'insurrezione contro l'autorità religiosa e politica di Roma e del papato, così portava a una diminuzione morale dell'impero, a dispetto di Lutero e della prima generazione luterana, che fu ossequiosa verso l'imperatore. Il luteranesimo non si poneva un ideale politico universale; ma dotato di scarso senso politico, giungeva, implicitamente, a svalutarlo, come materia indifferente alla fede, o solo a riconoscerlo come valore meramente tradizionale. Carlo V, per parte sua, non seppe vedere quello che nel movimento protestante vi era di originalmente nuovo e destinato a vivere oltre le contingenze; ma, tutto preso dai contraddittorî motivi che a lui venivano dall'essere re spagnolo, sovrano in Italia e nei Paesi Bassi e imperatore, non poté né fieramente combatterlo né arditamente favorirlo, né comprendere il significato nazionale che in quel movimento si manifestava. Così tutto il suo agire si rivela al servigio di una politica di conservazione: tutto il mondo si vien mutando, cadono le vecchie fedi, altre ne sorgono, il corpus christianum è a brandelli, ed egli, per quarant'anni di regno, accorre dalla Spagna al Danubio, dall'Italia ai Paesi Bassi, a reggere le parti pericolanti di quell'edifizio. La guerra o le complicazioni esteriori ben di rado gli permisero d'intervenire con energia nelle questioni interne. Tant'è vero che la pace di Madrid (1526), effimero successo di Carlo V nella contesa con la Francia, è pur anche quasi contemporanea alle decisioni della dieta di Spira, per le quali, in sostanza, l'imperatore cedeva di fronte ai principi luterani. Cedeva, secondo lui, solo provvisoriamente, ora che il recente acquisto dell'Ungheria e della Boemia, poneva lui e la sua casa faccia a faccia con tremendi problemi. Già tre anni dopo (1529) i Turchi assediavano Vienna; e ora spettava agli Asburgo di difendere la cristianità, di assumere quella missione che era stata, principalmente, del regno di Santo Stefano. Quasi da soli; non era più possibile unire in un fascio l'Europa cristiana. Lo stesso pontefice, fra il 1526 e il '29, mantiene un atteggiamento assai dubbio; e mentre i Turchi incalzavano in Ungheria, anche il vicario di Cristo veniva a trovarsi dalla loro, stando il re di Francia con i nemici dell'imperatore. Le ragioni di vita e di sviluppo degli stati soffocavano ogni altra considerazione ideale; la tradizione europeo-cristiana della lotta contro l'infedele subiva una fiera sconfitta, la quale contribuiva poi ad aggravare il disorientamento degli spiriti nel campo dei cattolici e dei riformati. La primitiva intransigenza ideale di questi ultimi si venne attenuando alla luce dell'esperienza; si desiderò, e invano, di giungere a transazioni e a compromessi con gli zwingliani di Svizzera e della Svevia; e anche non si rifiutò l'intesa con un ardente cattolico, qual'era il duca di Baviera, ostilissimo però a Carlo V; e pochi, contro il parere dei più, osarono perfino (1532) legarsi apertamente con Francesco I di Francia.

Il tempo lavora per i luterani; e l'imperatore, ogni volta che vorrebbe intervenire energicamente nella questione religiosa, deve, invece, constatare i progressi della nuova fede e riconoscere, sia pure provvisoriamente, il fatto compiuto qual'è nel 1526, qual'è nel 1532, e via via. Ché le necessità della guerra sempre lo traggono altrove; in Italia, gran parte spagnola, dopo il 1529, ma non senza contrasti; in Africa, nei Paesi Bassi, in Spagna, e contro l'inconciliabile nemico di Francia. Così nel 1536-38, nel 1542-44. Fortuna, almeno, che Spagna, Austria, Paesi Bassi e Italia non sono travagliate da turbamenti religiosi: nei dominî ereditarî, o lui o il fratello Ferdinando sanno stroncare sul nascere i movimenti pericolosi o, almeno, contrastarli nel loro sviluppo. Ma che può fare l'imperatore negli stati dell'Impero, se i riformati soverchiano i cattolici? Potrà mettersi alla testa di una lega degli stati, o, per precisare, dei principi cattolici; ma sarà poi tutto questo compatibile con il prestigio dell'impero e dell'imperatore? Il confronto con altre monarchie, vieppiù accentratrici, come Francia, Svezia, Inghilterra, non mostrava piuttosto la fallacia di tali forme federative? Ma nell'impero la realtà era questa: verso il 1546 l'imperatore trovò gia schierate in campo le forze pronte a combattere in suo nome, forze cattoliche, ma anche di protestanti transfughi nel campo imperiale, come Maurizio di Sassonia. La giornata di Mühlberg (1547), fu, certo, un grave colpo per la parte luterana; ma valse, almeno, a spazzar via le superstiti illusioni già coltivate dalla generazione scomparsa con Lutero. La quale, nell'imperatore, aveva sempre additato l'unto del Signore, finché aveva potuto illudersi di vedere l'imperatore unirsi ad essa nell'opposizione a Roma, e con lui restituire all'Impero l'unità religiosa, una unità riformata.

Dopo Mühlberg le posizioni sono nette nei loro termini politici e religiosi; e bastò che la Francia intervenisse nella lotta, ora finalmente bene accetta protettrice dei principi protestanti; che Maurizio di Sassonia consumasse un secondo tradimento, perché la situazione si capovolgesse e i protestanti strappassero quella pace (Augusta 1555), che l'imperatore non volle sottoscrivere: piuttosto abdicare, che essere imperatore a quel modo. La pace, concedendo la libertà religiosa ai principi, non ai sudditi, tradusse la Riforma in termini politici, non religiosi, e diede testimonianza dell'infiacchirsi della passione religiosa dei Tedeschi: non diversamente, fin dagl'inizî, era avvenuto nei paesi baltici, in Danimarca, nella Svezia. Così vien maturando, nell'anima dei Tedeschi, quell'ossequio tranquillo e mansueto, quella pigra devozione all'autorità costituita, che, va, indubbiamente, a detrimento del senso della dignità umana, della responsabilità individuale.

Fu il calvinismo che pose l'uomo, tremendamente solo, davanti a Dio e alla coscienza. Nel 1536 esce la Institutio religionis christianae di Calvino; dal 1541 la sua dottrina irradia da Ginevra e si diffonde in Francia, nei Paesi Bassi, nella Germania renana, nell'Ungheria, in Polonia, in Inghilterra, in Scozia e se non dappertutto riesce a trionfare, dappertutto lascia tracce profonde di sé. Chi è tratto nell'ordine di idee delle dottrine calvinistiche non se ne libera più. Nessuna possibilità di transazione con i reprobi: il calvinista è sdegnosamente settario. Dal cupo sentimento del peccato e dell'indegnità umana, egli attinge energia di carattere e un senso di orgoglio della sua personale predestinazione; frugando il suo animo, ascoltandone le voci anche più fioche e discordi e cercando di rendersene ragione, ricerca in esso i segni della grazia di Dio; affina il suo senso morale, della sua coscienza individuale fa pietra di paragone degli uomini e delle cose. Fermamente convinto del valore della propria vita interiore, è portato a considerare con rispetto l'individualità umana; il che non è, peranco, spirito di tolleranza. Fissi gli occhi agl'ideali biblici, si sente degli eletti di Dio sulla terra; e, come tale, incline a chiudersi in conventicole di spiriti affini, a frantumare l'ordine sociale in gruppi e gruppetti, a costituire una diaspora di chiese autonome con reggimento rigorosamente democratico. Per il calvinista la vita è un aspro dovere da compiere fino in fondo: una serie di ardui cimenti, ai quali il fedele è chiamato e contro i quali esperimenta la forza del suo animo, quasi a saggiare in esso la presenza della grazia divina. Per questa nuova fede, una somma incalcolabile di sentimenti nuovi, di forze rivoluzionarie si spandeva in Europa, imprimeva alla vita un quasi febbrile indirizzo. Ma solo assai più tardi, e in varia mescolanza con altri motivi, se ne videro gli effetti specialmente nell'ordine economico e sociale. Per ora, nell'ordine politico, la sua azione si manifestò specialmente in Francia e nei Paesi Bassi. Quella, per poco, non la scontò con lo smembramento dello stato; ma in definitiva, la crisi favorì l'assolutismo della monarchia, che ne uscì rafforzata. Dal 1562 al 1593 durò qui la lotta religiosa che, in più di un momento, assunse, essenzialmente, l'aspetto di un'insurrezione della nobiltà o cattolica o ugonotta contro la Corona. E il prestigio della Corona sarebbe caduto irreparabilmente più in basso quando (1585) la lega cattolica dei Guisa apertamente fece causa comune con le armi spagnole, se queste armi, a loro volta, non fossero state, contemporaneamente, impegnate nei Paesi Bassi. Anche qui, nella seconda metà del secolo, le dottrine calviniste avevano trovato un fertile terreno; ma, accanto ad esse, anche le dottrine luterane, e nel sud aveva resistito, con maggior tenacia, il cattolicesimo. Gli spiriti erano certamente in fermento e predisposti ad accogliere suggestioni rivoluzionarie; tuttavia, qui, la lotta si inizia (1564), secondo vecchi motivi, per la rivendicazione dei tradizionali diritti degli stati, delle città, dei nobili, conculcati dagli Spagnoli, e si svolge, per quasi un decennio, secondo forme legalitarie di protesta. Come in Germania, per i luterani, l'imperatore era pur sempre l'imperatore, così, nei Paesi Bassi, Filippo II è pur sempre il legittimo signore, spagnolo, ma erede di Carlo V. Nonostante gl'incitamenti francesi, gli aiuti che venivano sottomano dall'Inghilterra, ci volle tutta la cecità politica di Filippo II per spingere i suoi sudditi dei Paesi Bassi alla ribellione aperta. Ma una volta aperta, fu veramente una lotta senza quartiere: perduto l'appoggio delle provincie meridionali, rimaste spagnole e cattoliche (1579), le provincie del Nord sostennero, per alcuni anni, quasi da sole, tutto il peso della lotta contro il più potente monarca del tempo, e ad esse si deve se Filippo II non poté coronare il suo sogno d'una monarchia universale. Dopo l'86, nuovi fatti concorsero ad allentare la stretta spagnola attorno ai Paesi Bassi: l'Inghilterra, facendo fallire la spedizione punitiva dell'Invincibile Armata, dava un colpo tremendo alla potenza e al prestigio di Filippo II (1588); in Francia, prima le armi, poi gli spiriti si volgevano a favore del re ugonotto; nel 1598, Filippo II moriva, lasciando la disperata eredità della guerra contro l'Inghilterra e i Paesi Bassi, in un'Europa che già assisteva alla rapida decadenza della monarchia e della nazione spagnola, esaurita per l'enorme sforzo durato per fondare, senza fortuna, l'egemonia spagnola in Europa e per dare il suo sangue, la sua civiltà, la sua lingua a buona parte del nuovo continente d'oltre Oceano.

Sulle rovine di questo sogno egemonico, si erano invece costituite saldamente le fortune di tre stati nazionali: la Francia, rimasta, per gran parte, cattolica e uscita dal lavacro di sangue delle guerre civili e religiose rafforzata nella sua unità monarchica e ambiziosa di attuare un suo primato in Europa; l'Inghilterra, prossima a ereditare le terre di Scozia, e già conscia dei suoi destini sul mare; gli Stati Generali d'Olanda, piccolo popolo e piccola terra, che pur riempirà di sé mezzo secolo di storia e sarà all'avanguardia nel diffondere il nome d'Europa nell'America del Nord, nella Malesia, nell'Australia.

Nel tener testa a Filippo II, né Italiani né Tedeschi erano stati attori; ma quelli già subivano il predominio spagnolo, e sotto l'alto comando spagnolo avevano combattuto a Lepanto, questi già più non agivano nei quadri dell'impero. Segno indubbio che l'Europa era, in un secolo, profondamente mutata, anche come concetto; l'Inghilterra di Elisabetta, più ancora i Paesi Bassi indipendenti, dovevano dimostrare che un'unità cristiana, sotto il segno di Roma e del papato, non era più restaurabile, nonostante gli sforzi dei gesuiti e la riforma che di sé la chiesa romana veniva compiendo dal concilio di Trento in poi. Eppure gli spiriti, in questa età così nostalgica ancora di idealità che sempre più si perdevano nella nebbia del passato, non riuscivano ancora a concepire civiltà al di fuori dei concetti religiosi, né a ritrovarsi in altra idea comune, ora che l'unità religiosa era infranta e altri popoli erano venuti a inserirsi nella storia, a fianco dei vecchi. Così la Danimarca, la Svezia, la Polonia con la Lituania, la Russia, formano ancora, per rapporti e interessi, un gruppo quasi a sé; ma già la Danimarca e la Svezia hanno avuto qualche parte nella lotta contro Filippo II, già la Francia gareggia con gli Asburgo per il trono di Polonia. Tutti poi questi stati gravitano verso il Baltico e si preparano a sbarazzarlo dai residui anseatici. La più energica è, ora, la Russia, con Ivan III, e, dopo il 1560, con Ivan IV; già essa mostra i due poli della sua politica, ondeggiante verso l'Europa e verso l'Asia. Ma verso l'Europa il passo le è conteso da Svezia e Polonia, e la Russia non giunge al Mar Baltico. È un primo scacco; ma l'Europa nordica ha già presentito l'incognita del pericolo russo; e anche per prevenirlo, la Svezia pone piede sul Baltico orientale.

Morto Filippo II, l'Europa rimaneva tuttavia in uno stato d'incerto equilibrio: contiguo alla Francia, irrobustita nella sua compagine morale, un impero indebolito da divisioni politiche e religiose. Quale tentazione per un re come Enrico IV! E infatti la sua diplomazia spiega un'attività finissima, e ha mano in mille intrighi, fra i principi dell'impero, ecclesiastici e laici, cattolici e luterani, ma anche nei Paesi Bassi e in Italia, alla corte dell'irrequietissimo duca di Savoia specialmente. Tuttavia, in capo ai pensieri di Enrico IV è ancor sempre la Spagna, e meno assai l'impero: pur sul declino, la Spagna è sempre una vicina preoccupante. Da Parigi alla frontiera dei Paesi Bassi spagnoli è breve il passo; e Parigi ha già cominciato, come poi sempre farà, a indettare la politica alla Francia, e per dar respiro a Parigi i re di Francia condurranno guerre, per un secolo e mezzo, e ogni miglio che la frontiera procederà verso la Mosa e verso il Reno sembrerà vantaggio da compensare tanti sacrifici. I dominî iberici degli Asburgo, lontani dal cuore della Francia, non dànno fastidî; un po' più quelli italiani, attraverso i quali, rompendo qualche debole diaframma, l'Asburgo di Spagna potrebbe dar mano a quello d'Austria. E poi la Francia non vuol essere assente del tutto dall'Italia: c'è sempre, laggiù, qualche stato, come Venezia, che gode di molto credito; c'è il papa, forza temporale insignificante, ma spirituale ragguardevole, troppo abbandonato agli Spagnoli, che hanno, con i Veneziani, l'unica flotta bene armata nel Mediterraneo; al contrario, da quasi un secolo, il re di Francia è alleato del Sultano, e lo istiga a rompere contro le frontiere asburgiche in Ungheria, e dà mano a ogni magnate ungherese che insorga contro l'Asburgo. Questi è ora un imbelle: non è arrivato al punto di concedere la libertà religiosa ai sudditi della corona boema (1609)? Quello che hanno avuto i Boemi, ora pretenderanno i sudditi d'Austria, di Slesia, di Stiria.

Anni di attesa nervosa, fra il 1598 e il 1610. L'ex calvinista, che è ora re di Francia, attira su di sé gli sguardi dell'Europa: e guardano a lui come a segnacolo Olandesi, e calvinisti e luterani di Germania, Danesi, Svedesi. Il suo assassinio (1610) scompiglia, più che un "gran piano", l'intuizione di esso. Ne rimane scosso, con il duca di Savoia, Carlo IX di Svezia, gran mulinatore anche lui di piani grandiosi, a sfondo religioso e politico: combattere la Polonia, tornata cattolica dopo il regno del Báthory, e rivale della Svezia nel tagliarsi una parte in Russia durante l'epoca dei torbidi (1598-1613), dei Boris Godunov, dei falsi Dimitri. Ricompare con insistenza l'incubo della Russia. I vicini vogliono impedirle il passo verso occidente. Il momento sembra buono perfino per la folle idea di smembrare e assorbire la Russia: ci si provano, a gara, Svezia e Polonia: marcia dei Polacchi su Mosca (1611). Ma la Russia fiacca gl'invasori, e si dà, con Michele Romanov (1613) lo zar nazionale. Svedesi e Polacchi devono accontentarsi di precludere alla Russia la via del Baltico; e intanto stancarsi con guerriglie fra loro e con i Danesi, fino al 1629, quando ai meglio agguerriti, gli Svedesi, si apriva più vasto campo d'azione.

Era tempo che una potenza protestante intervenisse a sollevare le sorti della parte protestante in Germania. La Lega trionfava: aveva fiaccata l'insurrezione boema e austriaca (1620), e mentre l'Inghilterra di Giacomo I e la Francia di Maria de' Medici rimanevano spettatrici, la Spagna, il papa, e qualche altro stato italiano, si schieravano con l'imperatore. Il quale, imbaldanzito dai successi, più che suoi, della Lega, su Cristiano IV re di Danimarca e duca di Holstein; dai ben congegnati piani spagnoli per dargli mano attraverso la Valtellina, proprio nel 1629 emanava l'editto di restituzione contro i protestanti. La Francia, dal 1624 nelle forti mani di Richelieu, si sentì di nuovo minacciata, come ai tempi di Carlo V e di Filiupo II, da questo ridestarsi della potenza asburgica. Ma trascorsero sei anni prima che la Francia dovesse scendere direttamente in campo: per ora, contro gli Asburgo e contro la Lega cattolica, mise in campo Gustavo Adolfo di Svezia, animato da fervore religioso e da più forte spirito avventuroso. I suoi Svedesi, per diciottti anni, scorrazzeranno, da padroni, per le terre di Germania. Richelieu stesso se ne preoccupa e, per ogni evento, fa occupare fortezze verso il Reno. Due anni dopo gli stessi principi protestanti, o molti fra essi, in odio a quei tracotanti protettori svedesi, si riavvicinano all'imperatore; e l'imperatore sospende il decreto del '29. La Francia deve scoprire il vero volto della sua politica e nel 1635 scendere in guerra e trascinare con sé e con la Svezia i Paesi Bassi, Savoia, Mantova, Venezia; questi ultimi, gl'Italiani, interessati piuttosto alle cose spagnole che a quelle imperiali. I motivi religiosi, che pur erano all'origine di questa lotta sono, ora, sfumati, nei loro lineamenti: ci sono qua e ci son là, cattolici e luterani e calvinisti, e la Spagna cattolica si trova ad aver avversaria la Francia cattolica; e la politica francese, impersonata in un cardinale della chiesa romana, alleata di luterani e calvinisti, fuori di Francia, li perseguita invece entro il regno. Il vero è che tutti questi stati lottano per la loro esistenza, per il prestigio dei loro sovrani, per l'omogeneità religiosa dei sudditi, senza la quale, e in difetto di un senso civico indipendente dai motivi religiosi, lo stato stesso è scosso nei suoi presupposti morali; le idee medievali sono cadute in discredito, ma non fino al punto da negare del tutto allo stato la sua origine divina; e se è vero che questo ha perduto qualche po' della sua maestà, come creatura di Dio, non è men vero che la persona del sovrano ne ha ereditato gran parte; e lo stato non più dà, ma riceve dal sovrano il suo crisma divino. E però il sovrano non può ammettere che i sudditi, in fatto di religione, sentano diversamente da lui; la formula che era stata alla base della pace religiosa di Augusta riflette un sentimento che non era della sola Germania imperiale, ma di gran parte d'Europa. La quale non ha, forse, sotto gli occhi l'esempio vivente dell'impero che, da quando è diviso per motivi religiosi, è anche più debole di prima? Ricondurre una fede nell'impero sarebbe come risvegliare e ridonar forza a un gigante dormiente, almeno così si pensa; per questo la Francia attraversa tutti i piani degli Asburgo e della riscossa cattolica in Germania, come si opporrebbe a quello stato protestante (la Svezia, per es.) che volesse dare all'Impero un suggello protestante. Dal 1640 le sorti di questa guerra europea volgono male per la Spagna e per l'impero: Portoghesi e Catalani insorgono, gli Olandesi depredano navi e rubano colonie, gli Ungheresi passano da ribellione a ribellione. Eppure la guerra generale si trascina ancora per otto anni; poi alla spicciolata, questo o quel belligerante, esce dalla lizza; i più si accordano, nelle paci del 1648, dalle quali la Svezia, con l'acquisto della Pomerania, esce consacrata grande potenza in Europa, egemonica nel Baltico; i Paesi Bassi arricchiti e temuti; umiliato l'impero, ribadita la sua divisione religiosa, a tutto vantaggio della Francia, che si atteggia a protettrice, contro l'imperatore, di principi protestanti, e mette le mani sull'Alsazia. Solo la Spagna non si dà per vinta e continua fino all'esaurimento completo di tutte le sue risorse (1659: pace dei Pirenei), invano attingendo speranze di vittoria da certi avvenimenti: la Francia in preda alla guerra civile (1648-1653), ultimo conato di vecchia aristocrazia e di vecchie istituzioni contro l'assolutismo regio; la Svezia di Carlo X, imbarcata, col Brandeburgo (1655), in una incerta impresa contro la Polonia e la Danimarca; e soprattutto gli Olandesi, trascinati in una guerra con l'Inghilterra e gravemente feriti nei loro interessi dal Navigation Act, che il Parlamento Lungo del Commonwealth e Oliviero Cromwell hanno voluto. Si vedrà un'intesa fra la cattolica Spagna e i puritani regicidi del 1649? In Oliviero Cromwell molto può la fredda e calcolata energia dei suoi sentimenti puritani, anche contro i correligionarî di Olanda; ma più ancora può contro il Re Cattolico; e l'intesa non si fa: assestato il colpo all'Olanda, l'Inghilterra puritana riprende il suo posto a fianco dell'Olanda e della Francia. La pace dei Pirenei sanziona la scomparsa della Spagna come elemento attivo della politica europea; oramai, essa sarà presente in Europa soltanto in quanto conglomerato di terre, asse ereditario che attende un erede; pericolosa certo, anche cadendo, per le gelosie che suscita fra i molti pretendenti. Ma conviene attendere.

Più ardenti cupidigie suscita, invece, l'Olanda, piccolo popolo, ma febbrilmente attivo, presente, con la flotta mercantile più folta d'Europa, in tutti gli oceani; e nel Baltico dà noia agli Svedesi, nei mari del Nord agl'Inglesi, e ad essi ancora e ai Francesi negli altri mari. Rifugio di ebrei portoghesi e spagnoli, di dissidenti d'ogni più variopinta setta, di derivazione calvinistica più o meno diretta, l'Olanda è, per mezzo secolo, la cellula più vitale dell'Europa. Come quel piccolo popolo abbia potuto tener testa a un mondo di nemici, è, per i contemporanei, un mistero che essi spiegano soltanto con la sua prodigiosa prosperità economica e finanziaria; onde i politici, anche da questo esempio vivente, traggono a rincalzo nuovi argomenti per assegnare allo stato fini essenzialmente economici e nell'indicare nei fattori economici i veri elementi della forza dei regni. Non cose nuove, o non del tutto nuove, naturalmente; ma ora soltanto vigorosamente affermate, nella teoria e nella pratica dei governi. L'assolutismo regio se ne fa assertore dappertutto, ora prima ora poi, con maggiore o minore energia: e perciò l'ordinata amministrazione, il ferreo sistema doganale, l'audace e spregiudicata politica coloniale, l'incoraggiamento alle industrie e ai commerci, sono messi in primo piano nell'azione dei governi, diventano motivi essenziali nella politica interna ed estera. L'arte di governo sembra essere non più l'arte di dominare gli animi, abilità essenzialmente psicologica, ma piuttosto applicazione quasi di schemi razionali, dominio della vita economica. Spirito economico che, per la sua stessa unilateralità, ebbe una grandiosa influenza sulla vita europea. Ora soltanto, alla distanza di quasi due secoli, l'Europa comincia a essere pienamente consapevole di quello che, per essa, ha significato l'età delle grandi scoperte geografiche, a considerare le nuove terre come i polmoni che hanno dato all'Europa un più ampio respiro. Ormai la Terra è già, grosso modo, tutta conosciuta almeno nel profilo delle sue coste. Il settore d'ombra dell'ignoto si è sempre più ristretto, la natura è venuta svelando alcuni dei suoi misteri, il divino ha ceduto molto all'umano e il mondo si è venuto componendo nella mente dell'uomo come qualche cosa di armonico regolato da leggi che la ricerca razionale può scoprire e perfino utilizzare. Questo spirito nuovo aleggia più sull'Europa occidentale, in Inghilterra, in Francia, nei Paesi Bassi. Sui Paesi Bassi dunque si appuntano le gelosie di Francia, d'Inghilterra, di Svezia; ma, gelose anche fra loro, non riuscirono mai a presentare un fronte unico contro l'Olanda, e se questo valse a salvarla, non bastò però per mantenerla, oltre alla fine del secolo, all'alto livello cui era giunta. Cominciò l'Inghilterra, alleata la Svezia, a osteggiare l'Olanda (1665-67); venne poi la Francia di Luigi XIV a tentar di rompere il debole diaframma dei dominî spagnoli che la divideva dall'Olanda; e perciò, Inghilterra e Svezia si fanno avanti, protettrici ora, dell'Olanda. Luigi XIV deve lasciare la preda (trattato di Aquisgrana; 1668). Ma non abbandona il piano; cerca, anzi, di staccare dall'Olanda tutti i possibili sostenitori: col denaro compra il re d'Inghilterra, col danaro sostiene un partito francofilo in Svezia e si accaparra favori fra i principi dell'impero, primi i Wittelsbach di Baviera. Nel 1672 la preparazione sembra matura: gli Olandesi isolati, sorretti dal solo elettore di Brandeburgo. Ma non passa un anno che la situazione si rovescia; di fronte al pericolo di una schiacciante egemonia francese, fanno coalizione con gli Olandesi, che anche da soli si difendono bravamente, imperatore, Spagna, Danimarca, i più dei principi dell'Impero. La parola d'ordine, lanciata da Guglielmo III d'Orange è: equilibrio europeo. Formuletta che avrà fortuna, d'ora in poi, e sarà considerata la stella polare, secondo la quale si orienterà la politica dei governi europei. Non cosa nuova, nella pratica, nemmen questa; ma che sia stata teorizzata e ridotta a formula in questi tempi è pur segno di una maggiore coscienza dell'unità europea, di un riconoscimento dell'esistenza autonoma degli stati, del tramonto definitivo di vecchie ideologie miranti all'unificazione politica del continente e alla sua organizzazione sotto la necessaria tutela di uno stato egemonico. E non è difficile vedere nella stessa enunciazione della formula l'influsso che la nuova scienza viene esercitando su tutta la vita, portando a concepire la stessa gara fra gli stati secondo gli schemi dei fenomeni fisici e meccanici.

La Francia, abbandonata anche dall'Inghilterra, poco o male secondata dalla Svezia, alleata della Polonia, ma alleata anche dei Turchi in guerra con la Polonia, resiste quasi da sola a un mondo di nemici; i quali possono vedere che cosa significhi un grande stato, una gloriosa monarchia accentratrice e assolutistica, una ricca e laboriosa popolazione, un esercito bene organizzato e armato, bene articolato nelle specialità che la tecnica bellica viene imponendo. Certo, sul mare, per i Francesi le cose non vanno molto bene; anche di poi la Francia, vittoriosa sul continente, sarà battuta sugli oceani. Le paci cercheranno di compensare queste due diverse partite, per mezzo di compromessi che significheranno, quasi sempre, per la Francia, qualche acquisto in Europa e qualche perdita altrove.

Intanto la pace di Nimega (1678) non è sfavorevole a Luigi XIV, che ne esce anzi imbaldanzito, e, a sfida contro l'imperatore, passa alla politica delle riunioni (1679-81). Onde nuovo allarme in Europa, e nuova coalizione di Olanda, Impero, Spagna, e anche Svezia, contro la Francia. Il momento è grave per Luigi XIV, ma egli para il colpo rivolgendo contro l'Asburgo la rinascente forza combattiva dei Turchi; nel 1683, assedio di Vienna. Psicologicamente, fu un errore grosso da parte del re francese: l'intervento turco lo liberò dalle pressioni dei nemici, ma provocò nell'Europa, e non solo nell'Europa cattolica, un'ondata di passione e di entusiasmo che è forse l'unica di questo secolo, piuttosto alieno da tali esuberanze. L'Asburgo, sorretto dal favore di gran parte dell'opinione pubblica europea, e un'opinione pubblica europea ora comincia a contare, sorretto anche da Polonia, Venezia, papa, perfino da Baviera, ha il suo momento di vero splendore. Quell'Austria, che avrà poi così gran parte nei due secoli successivi, nasce veramente ora; e in questo momento significa ordine, civiltà, argine opposto a Costantinopoli, contrappeso alla strapotenza francese, elemento utile, anzi necessario alla vita europea. Per l'Asburgo è un trionfo; nel 1687 è incoronato re ereditario d'Ungheria, l'anno dopo è padrone di Belgrado, nel '97 le sue armi, ai comandi d'un geniale principe italiano, vincono a Zenta, nel 1699 è la pace.

Gravi colpi questi, sia pur indiretti, per la politica francese: in questi anni l'Europa, in quanto sentimento di una comune civiltà, non fu nel campo di re Luigi, ma piuttosto in quello dell'imperatore Leopoldo, personalmente di tanto inferiore al Re Sole. Questi, nel 1688, sfida di nuovo l'Europa con la spedizione devastatrice nella valle del Reno e del Neckar; ma la sfida ha subito la sua risposta con l'assunzione al trono inglese di Guglielmo III d'Orange, l'irreconciliabile nemico di Luigi XIV. Quel che significò questo avvenimento per la storia costituzionale d'Inghilterra, è noto; né, da questo lato, ebbe, allora, una ripercussione sulla vita degli stati europei, ché anzi sarebbe difficile trovare nella storia interna d'Inghilterra un momento più di questo distante dal comune sviluppo interno degli stati continentali; in quelli, l'affermazione aperta del potere parlamentare, in questi l'assolutismo regio più completo. Ma l'aumnto di Guglielmo III significò anche l'inizio di una lotta più che secolare, almeno fino al congresso di Vienna (1815), fra le due nazioni; in questa lotta la Francia riuscirà a mantenere non sempre l'egemonia, bensì una parte di primo ordine nella politica europea; non riuscirà, però, a piantarsi né in Olanda, né nei Paesi Bassi spagnoli; sciuperà i promettenti inizî del suo impero coloniale nel Canada, nella valle sterminata del Mississippi, nell'India. Ma, sul momento, i fatti sembrano togliere gran parte del suo significato all'ostilità inglese: la pace di Ryswick (1697), dopo quasi un decennio di guerra lasciava intatto il territorio francese, anzi lo arricchiva con il possesso di Strasburgo; la preponderanza francese sembrava non scossa, ma rafforzata.

Questo dissidio franco-inglese rimane uno dei temi principali della storia del sec. XVIII; ma non è il solo. Certamente il principio dell'equilibrio europeo ha un'altra risonanza ora che se ne fa assertrice non più la piccola Olanda, ora sempre più piccola e insignificante, ma la grande Inghilterra. Solo che ora, nel corso del secolo, i componenti importanti di questo mondo europeo vengono crescendo di numero e complicano quindi i rapporti di forza; non più il blocco francese accanto a una Spagna in decadenza, ai frantumi dell'impero, a una Svezia sul declinare, a un'Inghilterra quasi sempre assente; ma è sorta un'Austria che, da sola, oppone già un suo peso non trascurabile alla Francia; sta inserendosi nella politica europea la Russia; sorgerà la potenza prussiana, scomparirà la Polonia, e, si può dire, anche la Svezia; il Mediterraneo, dopo un secolo e mezzo di obliterazione, col decadere della potenza turchesca, tornerà a essere campo di gare fra le nazioni, e non solo e non tanto di quelle rivierasche, ma anche dell'Inghilterra; e col ripulsar della vita nel suo mare, l'Italia pure, anche se non solo per questo, verrà riprendendo la sua parte, benché ancora passiva, nella storia d'Europa.

Spira aria di giovinezza e di ottimismo, in Europa, e soprattutto grande energia e volontà di fare, di provare, di cercare. I progressi della tecnica, a parte, forse, la tecnica bellica, in quanto armamento, non sono ancora così avanzati che anche popoli extraeuropei non sappiano fare quello che la l'Europeo: essere agricoltore, marinaio, minatore, tessitore, tipografo, ecc. Eppure non fanno: solo l'Europeo fa, sente la gioia di fare, gira, va, viene, cade, risorge e, se muore, altri prende il suo posto. Va nelle terre d'altri, non altri vengono nelle sue. Il nocciolo della storia europea è qui, in questa energia vitale che altri non hanno. È dal '700, principalmente, con le scoperte scientifiche, con la metodicità razionale applicata a tutto, dall'arte di governo al lavoro manuale, metodicità razionale più consona allo spirito dei popoli ad essa preparati da determinati orientamenti religiosi, e specialmente dal calvinismo, è da questo tempo che l'Europa, rinnegando il tradizionalismo e l'incerto empirismo, prende un vantaggio incolmabile sugli altri continenti e afferma su di essi la sua superiorità spirituale e materiale.

Naturalmente questa vitalità non appare ugualmente fervida presso tutti i popoli europei, e vario è il contributo di pensiero e di azione che essi portano alla storia d'Europa: primeggiano Francesi e Inglesi. Non a Roma, né a Madrid, né a Vienna, lo straniero avrebbe cercata l'Europa, ma a Parigi e a Londra; a Parigi soprattutto, dov'è una corte splendida, un re ambizioso, una società pronta a ricevere e dare, rielaborare e far sue le idee dell'Europa. La Francia monarchica è al vertice della sua potenza e del suo splendore; eppure già nei primi anni del secolo si avverte, da alcuni segni, che lo slancio iniziale della politica imperialistica francese va perdendo d'impeto, anche se si svolge in più ampio quadro. Infatti attraverso le vicende di una dura guerra (1701-14), un Borbone di Francia riesce a passare e a mantenersi sul trono di Spagna, ma nel corso della guerra la Francia baldanzosa che l'aveva provocata, mostra le sue debolezze; è una serie di sconfitte, e re Luigi più d'una volta deve implorare la pace. E se riesce a ottenerla, questo deve a una crisi del governo inglese (la caduta dei whigs, 1710) e all'atteggiamento sospettoso dell'Inghilterra di fronte all'Austria, erede ora delle terre periferiche della corona di Spagna (Paesi Bassi, Milanese, Napoli, Sardegna); forte, dunque, quanto basta per costituire un contrappeso non solo alla Francia, ma anche alla Spagna, depauperata di queste terre; ché se poi questa vorrà riacquistarle, come nel 1717, con la politica audace dell'Alberoni, ecco l'Inghilterra riapparire nel Mediterraneo a salvaguardare lo statu quo. Essa potrà ammettere, due anni dopo, che l'Austria scambî la Sardegna con la Sicilia, ma non più profondi turbamenti dell'equilibrio mediterraneo: dai primi del secolo ne guarda la porta, da Gibilterra e da Minorca, contro ogni velleità delle corti borboniche di Francia e di Spagna.

Al di fuori di questi rapporti di forze che, in sostanza, si imperniano sul dissidio franco-inglese, si svolgono invece i profondi mutamenti nell'Europa nordica: la Svezia dà gli ultimi guizzi della sua potenza, e sulle rovine dei suoi dominî del Baltico orientale, sorgono la Russia e la Prussia. Dopo aver pencolato fra Oriente e Occidente, la Russia si affaccia decisamente all'Europa; ma lo stesso Pietro il Grande è stato, per un po', titubante, e solo dopo il suo primo soggiorno in Occidente (1697), la decisione è presa; giungere al Baltico, anche prima che al Mar Nero e al Caspio. La stessa nuova capitale è costruita dopo una sconfitta, in zona di guerra, quasi in terra nemica. È un atto di fede del sovrano nelle virtù del suo popolo, trascinato a forza nella vita europea. Le conseguenze si sentiranno poi sempre nella storia del popolo russo, il quale non riuscirà mai bene a inserirsi nella civiltà europea. Del resto, Pietro I ammirò di questa civiltà specialmente alcuni aspetti materiali: l'organizzazione militare e marinara, la prosperità industriale e commerciale, la tecnica dell'amministrazione accentratrice assolutistica. Tutto questo egli accollò pari pari al suo popolo; il quale pertanto, in certo senso, si trovò di fronte alla civiltà europea in una situazione non molto diversa da quella nella quale, in seguito, si verranno a trovare i popoli di colore, che pure adotteranno gli aspetti esteriori dell'Occidente. Qualche cosa si ruppe nella compagine del popolo russo: le caste superiori, l'aristocrazia dell'esercito e dell'amministrazione, si assimilò l'Occidente in tutti suoi aspetti, anche i peggiori; la folla dei contadini, attaccata all'ortodossia, che era divenuta, con la soppressione del patriarcato (1720), mero strumento di governo, proseguì le tradizioni russe. Le caste superiori e la massa popolare, non cementate da una borghesia intermedia, ignota in Russia o formata solo da stranieri (Ebrei, Tedeschi, ecc.) si ignorarono, quasi, a vicenda, e gli strumenti dell'apparato amministrativo-militare russo furono come una estranea civiltà in terra russa. Tuttavia l'azione di Pietro I fu, davvero, grandiosa, e conferì da allora in poi un rilievo e un'importanza capitale alla politica russa nei confronti dell'Europa; di più: da allora in poi, le potenze europee furono inclini ad attribuire all'impero moscovita una forza valutata spesso al di sopra di quella reale e a dedurre dall'estensione e dalla popolazione di esso una capacità offensiva e difensiva, una coesione materiale e spirituale che esso ebbe, invece, assai di rado.

Dopo Poltava (1709) la potenza svedese è infranta; e insieme con i Russi, si avventano su quei brani di eredità Prussiani, Danesi, Annoveresi; già truppe russe, semibarbariche, fanno apparizione in Germania. Il gruppo delle potenze occidentali non può ignorare questa forza nuova entrata a complicare le cose d'Europa; e l'Inghilterra, per porre argine alla potenza russa, si fa avanti mediatrice di pace e salva quanto è salvabile della Svezia. Dopo quasi un secolo da Gustavo Adolfo, non ci sono più Svedesi in terra tedesca: con l'acquisto della Pomerania si accentua l'ascesa del nuovo regno di Prussia. In questa divisione dell'eredità svedese, la sola Polonia era rimasta a mani vuote; non passerà molto che essa subirà sorte anche peggiore. Già si parla di smembramento fra i più forti vicini: soluzione perfettamente in coerenza col concetto dell'equilibrio e che si sarebbe voluta applicare anche alla Turchia, da parte di Austria e di Russia: la pace di Passarovitz, vantaggiosissima per la prima, parve un avviamento; ma la guerra condotta in comune fra il 1735 e il '39 non fu fortunata, terre conquistate in Balcania furono perdute; ci si dovette fermare nell'esecuzione di questo programma. Torna in primo piano la Polonia: e attorno ad essa si accende una guerra (1733-38) suscitata, in realtà, per ragioni di prestigio delle due corti borboniche contro Austria e Russia. Contro la prima rinverdiscono i piani dell'Alberoni: e infatti l'Austria perde parte dei possessi italiani (Napoli e Sicilia), passati ai Borboni di Spagna, e l'indiretto possesso della Toscana ripara male alla perdita della Lorena, entrata nella sfera francese. Carlo VI, nei suoi ultimi anni, vede con preoccupazione accumularsi germi di ostilità contro la sua casa e le corti borboniche aspettar solo la sua morte per contendere all'erede le terre d'Asburgo. Infatti (1740), si scatena contro l'Austria la variopinta coalizione (Prussia, Baviera, Sassonia, Sardegna, Spagna, Francia); l'Austria è sorretta solo dall'Inghilterra, e solo dopo il 1745 con maggiore energia. L'Inghilterra vede l'occasione per ferire la Francia negl'interessi coloniali; ma anche fra i coalizzati gli scopi di guerra sono molto diversi, sicché Maria Teresa, decisasi ad abbandonare la Slesia alla Prussia, può tener testa agli altri. La pace (1748) riafferma i diritti asburgici: il piano borbonico non è riuscito, ma, d'altra parte, nemmeno è riuscita l'Inghilterra a scacciare la Francia e la Spagna dall'America del Nord. Quindi, otto anni dopo, le ostilità fra l'Inghilterra e le corti borboniche si riaprono; ma in un quadro diverso. L'Inghilterra ha preferito concedere il suo patrocinio alla Prussia; interessi strettamente dinastici (i re d'Inghilterra sono anche re di Hannover), non sono stati estranei a questo mutamento. E a questo ne risponde un altro: contro l'intesa Prussia-Inghilterra, si forma un'intesa Francia-Austria, con l'aggiunta di Russia e Svezia e Sassonia. L'Inghilterra è lontana e pensa soprattutto alle colonie francesi; ben difficilmente vorrà prender parte attiva alla guerra; la quale, perciò, graverà tutta su Federico II (1756-63). È la prova del fuoco per lui e il suo stato; ed egli la sostiene brillantemente, nonostante che anche l'Inghilterra l'abbia abbandonato, paga delle conquiste coloniali e in India, così cospicue che la pongono sulla scena del mondo come prima potenza coloniale, dopo la Spagna, e a molta distanza, oramai, dalla Francia.

Dopo le paci di Parigi e di Hubertsburg, il regno di Prussia tiene in Europa la posizione che il fermo contegno nella guerra dei Sette anni gli ha meritato; la personalità di Federico II, il prestigio del suo esercito, la saldezza di quell'organismo statale s'impongono nei calcoli delle potenze europee; sembra ormai una forza intangibile, la Prussia, dopo il cruento collaudo delle due ultime conflagrazioni europee. E, per converso, quanto più sale il prestigio della Prussia, di tanto scende quello dell'Austria, almeno nei quadri del decrepito impero: già molti principi guardano piuttosto a Berlino che a Vienna, e solo il meccanismo delle elezioni imperiali preserva l'impero da un capo protestante; del resto, di fronte a velleità di Giuseppe II sulla Baviera, il re di Prussia non esita a costituire una lega di resistenza con altri principi dell'Impero. La Prussia pertanto non poteva essere ignorata nemmeno nei piani e nell'esecuzione della prima spartizione di Polonia (1772); grave scacco, questo, per la politica francese che aveva sempre tessuto intrighi in quel regno, vederlo ridotto a resti miserevoli e assistere inerte alla spartizione. Tutti i maggiori stati d'Europa avevano tratto profitti dalle ultime guerre: l'Inghilterra, nei continenti extraeuropei, la Prussia, saldando in uno i due tronconi delle sue terre, l'Austria, facendosi la sua parte al banchetto polacco, la Russia avanzando in Polonia e più verso il Mar Nero e i Balcani. Le due guerre del 1768-74 e del 1787-92 portavano infatti la Russia in Crimea e al Dnestr e già i trattati di pace le attribuivano facoltà di pescare nel torbido, come protettrice dei cristiani di Turchia; già l'Inghilterra cominciava a impensierirsi di questa marcia verso il Bosforo. Tutti si erano avvantaggiati: solo la Francia non aveva avuto nulla, anzi aveva perduto molto, di là dal mare, né poteva trovare un equo compenso nel trionfo dei ribelli americani, che essa aveva aiutati in odio all'Inghilterra (1776-83). L'equilibrio europeo si era spostato a spese della Francia: Potsdam, Vienna, Londra, Pietroburgo, potevano, ognuna, pretendere per sé il rango che aveva avuto Versailles. Di qui, in Francia, contro la corte e le caste dominanti, una sorda irritazione che si alimentava e accendeva di tutti i motivi accumulati da un mezzo secolo di critica corrosiva a tutto quanto sembrasse avvalorato dalla tradizione, nella vita sociale o politica; di qui, contro il dogma dell'equilibrio europeo, quale era concepito dalle cancellerie, come reciproco contrappeso agli appetiti delle dinastie, l'intuizione confusa e il presagio di un nuovo, naturale equilibrio, affermazione dei diritti dei popoli contro i diritti delle dinastie. Eppure a queste dinastie si deve un trentennio di prosperità economica, paragonabile forse soltanto a quello precedente la guerra mondiale. I progressi nella tecnica delle industrie minerarie e, soprattutto, delle industrie tessili, la legislazione economica così tipica dell'assolutismo illuminato, la soppressione o, almeno, l'allentamento dei vincoli feudali e corporativistici medievali superstiti, la concezione economica dei fini dello stato, hanno dato nuovi impulsi alla vita economica; in Inghilterra si parlerà, addirittura, di una rivoluzione industriale.

Le borghesie, dove più, dove meno, si sono elevate economicamente, socialmente, moralmente. Lo stato assolutistico, burocratico, ha loro spianato la via nelle amministrazione, nelle imprese commerciali e industriali di stato, nelle grandi forniture per gli eserciti e le flotte; questo stesso stato, per giustificare la sua autonomia, ha dovuto combattere più di una battaglia col clero e col papato: è del 1773 la soppressione della Compagnia di Gesù, atto consensuale del pontefice e dei governi: in realtà, atto di debolezza e di umiliazione per il papato. La cultura, patrimonio prima di pochi e quasi sinonimo di agio e di ozio, diventa, col crescere del livello economico delle classi borghesi, patrimonio anche loro, indipendentemente dall'agghiacciante atmosfera dell'equivoco mecenatismo delle corti, diventa fiera attività, indipendente, orgogliosa di sé e ardente di misurarsi con altre. Appena incipriato di un vago teismo, questo spirito, essenzialmente antistoricistico, affonda i suoi ideali nell'antichità classica, attinge da Tacito ideali genericamente repubblicaneggianti, di dignità personale e di libertà politica, ammira, con qualche sottintesa volontà mimetica, la costituzione inglese o quella americana o, più lontano ancora, si lascia vellicare e cullare da un nostalgico e dolciastro esotismo. Questo spirito nasce cosmopolitico: e abbraccia in un fascio Europa e Asia e America e rinnega le tradizioni nazionali. Tra le file della stessa aristocrazia, in Francia, in Germania, in Italia, molti non trovano una ragione nella politica tradizionale degli stati, in quel contrastarsi per il prestigio di un monarca, per un lembo di terra, per una questione di tariffe, e credono di vedere nella politica dei gabinetti un ostacolo al progresso, magica parola, che ora comincia a celebrare i suoi fasti e nefasti, un impedimento al trionfo degl'ideali filantropici e cosmopolitici. La stessa Massoneria, o consorterie similari, hanno contribuito assai, sul finire del '700, a diffondere queste idee di fratellanza nello spirito, di nativa bontà e ingenuità e malleabilità della natura umana, guastata dall'ordinamento sociale e politico degli stati. Per i suoi stessi ideali cosmopolitici, gente che pensa assai alla civiltà, alla civiltb tout-court, non alle civiltà nazionali; quindi all'Europa, più che ai singoli popoli e paesi d'Europa. Di qui critica, ora elegantemente superficiale, ora penetrante e mordente, all'ordine attuale, spregio o, almeno, scarsa intelligenza per i valori religiosi, irrazionali; fede, all'opposto, nella forza ingenita della ragione, nell'efficacia della discussione e della persuasione, nella saggezza degli organismi rappresentativi e delle maggioranze, negl'imprescrittibili diritti individuali.

L'accentuazione più viva e più radicale di questi sentimenti si ebbe in Francia: qui in un travolgente periodo d'anni (1789-1815), dalla vecchia monarchia di diritto divino, attraverso la repubblica e la monarchia napoleonica, si consumò l'esperienza rivoluzionaria; e una generazione che aveva esordito con la dichiarazione dei diritti dell'uomo, e aveva creduto nel re costituzionale, questo stesso re mandò a morte, credette nella repubblica, mandò a morte i regicidi, curvò il capo a un despota glorioso e fece ancora in tempo a vedere il re restaurato. Fu un tempo di grandi illusioni e delusioni, per Francesi, ma anche per Italiani, Spagnoli, Tedeschi e Polacchi. Ché i capi della Francia rivoluzionaria vollero e seppero dare a quel movimento - secondo le tendenze e le formule di una vecchia abilità della politica francese - un significato e un valore universali. La Francia - dissero - sanguinava non solo per sé, ma per un migliore avvenire di tutti i popoli europei: e questo motto: "il popolo" o "i cittadini", con il senso di dignità e di fierezza che conteneva agiva come un fermento contagioso. La teoria rivoluzionaria bandisce una nuova geografia politica dell'Europa: per essa il continente si configura, con l'evidenza delle leggi naturali, in popoli-stati, i Tedeschi, gl'Italiani, ecc., non l'Impero o questo o quello stato d'Italia. Questo principio d'individualità nazionale, lanciato lì nel campo dei governi di gabinetto, anche se non era assolutamente nuovo, pur acquistava ora un valore e un significato nuovi e si potenziava al contatto con gl'ideali di libertà individuale, di partecipazione alla vita politica. La parola d'ordine che sarà di tutto un secolo, è gettata: un'Europa organizzata in stati nazionali democratici.

È - o dovrebbe essere - la fine dell'equilibrio europeo; ora si istituirà un nuovo e non artificioso equilibrio; perché è mai possibile che fra i popoli, resi alla libertà, entro i giusti e naturali confini, liberati dalla cappa dei governi monarchici retrivi e impelagati nelle loro piccole questioni di prestigio dinastico, è mai possibile - si pensa - che fra questi stati nazionali possano sorgere motivi di contrasto e di rivalità? Ben diversa la realtà: la Francia rivoluzionaria fu la più risoluta prosecutrice della politica egemonica di un Luigi XIV; non per nulla la monarchia era caduta nel discredito proprio e principalmente per i colpi sofferti dal prestigio francese nell'ultimo trentennio e tanto più sensibili quanto più si erano accompagnati al disastro finanziario.

Così la Francia rivoluzionaria, sorta a sfida contro l'Europa legalitaria, si disse minacciata dai despoti d'Europa; in parte, era il vero; e si difese (1792), ma anche, come era inevitabile, passò a offendere, ché non accennavano a ribellarsi i popoli per i quali essa sanguinava, bandendo un nuovo vangelo. Ora, respinti i nemici dal sacro suolo della patria, sarebbero accorsi gli eserciti rivoluzionarî a rompere quelle catene. E però spedizioni sul Reno, a Magonza, nei Paesi Bassi austriaci, in Olanda, poi in Italia. Nei paesi "liberati" la popolazione rispondeva e non rispondeva: gruppi borghesi e transfughi della nobiltà aderivano cordialmente, si compromettevano anche, irreparabilmente, con i "liberatori", ma molte illusioni cadevano: i Francesi badavano soprattutto a sé, erano altezzosi, tracotanti, lesti di mano, maltrattavano la libertà a loro benefizio. Le masse popolari si tenevano, in genere, più riservate, quando non sordamente ostili, specie nei paesi cattolici, dei quali questi giacobini sovente offendevano i sentimenti religiosi: la Rivoluzione aveva rovinato e perseguitato il clero non giurato, aveva tolto al papa Avignone, più tardi gli toglieva anche Roma e trascinava via il vegliardo pontefice.

Questi diffusi sentimenti antifrancesi spianavano la via agl'intendimenti dei governi europei. Rinascevano in essi, angosciosi, i timori del tempo di Luigi XIV, ora che la repubblica ne proseguiva la politica, e con quali mezzi!: un intero popolo in armi, generali indiavolati e pericolose armi morali in azione. Per Austria, Russia e Prussia la linea di condotta è tracciata: potrebbero sopportare anche una Francia repubblicana, e meglio se indebolita da crisi interne (Vandea, ecc.), mai una Francia conquistatrice. Per l'Inghilterra non c'è dubbio di sorta, come da un secolo in qua: non nutre gravi timori che le dottrine rivoluzionarie possano contagiare il popolo inglese: in Inghilterra altra tradizione politica, altra mentalità, che toglie le punte pericolose a ogni radicalismo. Ma teme la Francia nei Paesi Bassi, dove l'ha lanciata, forse inconsapevole delle conseguenze, il Carnot; la Francia nel Mediterraneo, in Italia, in Egitto, in Siria.

Le speranze di un ritorno alla politica di equilibrio, s'infrangono contro il genio militare di Napoleone. È ben logico che la Francia, la vecchia e la nuova, si riconosca nel vittorioso, nel degno erede del re Cristianissimo: l'incoronazione in Notre-Dame è il naturale sviluppo dei presupposti della Rivoluzione. Ormai l'imperatore è preso nel suo fatale fare e disfare. L'Italia quasi intera obbedisce; così pure l'Elvezia, l'Olanda. Come Luigi XIV, anche Napoleone mira al Reno, alla Germania e al suo smembramento: con lusinghe, offerte, minacce, trova i complici e lo strumento: Confederazione renana, sotto la sua egida. Conseguentemente, morte illacrimata del decrepito Sacro Romano Impero. Ma si potra fermar qui? L'Inghilterra non disarma: i suoi diplomatici, il suo oro operano assiduamente in Austria, in Prussia, in Russia. Nuova scossa contro il despota; nuove sconfitte dei vecchi stati. E Napoleone a rimettersi a rifare la carta d'Europa, trascinato a portar più oltre i termini dell'onnipotenza francese: fino all'Elba, alla Vistola, alla Sava, e oltre i Pirenei, fino all'oceano. Ma quanto potrà durare? Il buon popolo di Francia ha versato sangue da tutte le sue vene; ora è la volta dei popoli soggetti. La Prussia è a terra, l'Austria è umiliata anche nell'onore della sua dinastia: una Asburgo nel talamo del parvenu di Corsica. Ma l'Inghilterra non transige: Trafalgar, e risposta, blocco continentale. È ancora in piedi anche la Russia, un'incognita, con la quale Napoleone vuole intendersi, con la quale sembra, per un istante (Tilsit 1807) essersi inteso. Ma l'imperatore si è messo per una via senza fondo: l'Europa non si lascia dominare da un solo padrone. Napoleone vuol prendere la Russia alla gola: crede, e si illude, che, toltala di mezzo, possa aver tregua quel disperato combattere ed essere saziato il suo anelare alla pace. Ma una pace come la vorrebbe Napoleone, schiacciante, una pace di tutta l'Europa contro l'Inghilterra, per giungere poi a un'altra e più vera pace, nemmeno una Russia sconfitta la potrebbe assicurare. Non c'è forza d'uomo che possa stringere in pugno tutta l'Europa, perché non c'è, dietro quest'uomo, il popolo da tanto.

Siamo all'anno '13, l'anno della ribellione d'Europa contro il suo padrone. Le vecchie monarchie si dànno un gran da fare per muovere i popoli contro il tiranno, e per abbatterlo si servono delle stesse sue armi. Leva in massa di popoli: in Spagna, già da qualche anno, e ora anche in Prussia, in Austria, in Russia. E poi parole inconsuete scendono dall'alto dei troni: parole di non obliato colore rivoluzionario: incitamenti a combattere per l'onore della dinastia, per la salvezza della religione, ma anche per la "patria", parola incendiaria che i governi legittimisti avevano quasi sempre evitata; ma adesso hanno imparato dall'oppressore e armano contro di lui i fantasmi da lui evocati, lasciano cadere discorsi sui diritti dei popoli all'indipendenza e nel dare questi incitamenti le vecchie dinastie non appaiono più come la manifestazione della volontà provvidenziale di Dio, ma piuttosto come il punto di fuoco in cui si concentrano gli ardori ideali di un popolo. Si fanno strappi negli ordinamenti sociali, molti privilegi di casta vengono aboliti; e non è detto che le monarchie non vedano in ciò il loro tornaconto, anche oltre la contingenza del momento. L'ideale dello stato paternalistico è, almeno per il momento, abbandonato e si è disposti a riconoscere che anche le forze spontanee germoglianti nel grembo delle nazioni hanno il loro valore e a raccoglierne gl'impulsi.

Il despota viene abbattuto, e sul folle sogno napoleonico spunta il gracile germoglio della Santa Alleanza. Un po' per la calcolata magnanimità dei vincitori, un po' per l'abilità del vinto, la Francia non viene umiliata troppo; e poi, per i Francesi, è la pace tanto sospirata, finalmente. Ma presso gli altri, molte promesse sfumano, molte illusioni cadono. I Tedeschi si crede di accontentarli nel loro sentimento nazionale ridestando ad umbratile vita il vecchio Impero: ed è il Deutscher Bund, che non soddisfa nessuno, evanescente com'è, sotto l'egida austriaca: strumento, soltanto, per soffocare le tendenze liberali e per arginare il patriottismo dei Prussiani e dei simpatizzanti per la Prussia. Delusi sono, ben presto, anche gl'Italiani, i Polacchi, i Belgi, gli Spagnoli; questi ultimi, doppiamente delusi per lo sfacelo del loro impero coloniale sudamericano, che ripudia la madrepatria in nome di quei principî di libertà nazionale, per i quali proprio gli Spagnoli d'Europa avevano sparso tanto sangue.

Nessuna voce nuova sa dire la Santa Alleanza ai popoli europei. Per gl'Inglesi è, alla meglio, un sistema di equilibrio europeo, quanto al resto se ne disinteressano. Per i Francesi è il puntello di Luigi XVIII, il fantasma della sconfitta che brucia, il simbolo della vita quieta o meschina, senza palpiti, dopo la splendida avventura napoleonica. Per gli Spagnoli è il prepotere di camarille di corte e del clero, per gl'Italiani è Metternich e i governi di polizia, per i Tedeschi è l'Austria con i suoi interessi tedeschi, ma non solo tedeschi. È per tutti non generatore dinamico, di vita, ma un sistema per la conservazione di vecchi e frusti organismi: che è anch'esso un modo di vita, non però destinato alla longevità. La stessa Santa Alleanza alimenta nel suo seno insanabili contraddizioni: la Russia, mentre soffoca il patriottismo dei Polacchi, esaspera quello dei popoli balcanici contro la Turchia: dei Greci, specialmente, ma anche dei Romeni, dei Bulgari, dei Serbi: omaggio all'ortodossia, ma anche al mito nazionale. E questo, mentre da pochi anni, oltre ai Polacchi, ha incorporato anche i Finlandesi, già sudditi svedesi. Il sistema della Santa Alleanza desta simpatia soltanto nelle file dell'alta aristocrazia conservatrice, dell'alta burocrazia, delle sfere militari, del clero, delle masse grige e incolori, plebi, non popoli; per dir meglio, è il rifugio della generazione che era stata giovane verso il 1790, consumata nel turbinio dell'ultimo trentennio, delusa in quelli che erano stati i suoi ideali, desiderosa soltanto di un punto fermo, che significasse ordine e pace; perciò molti ripiegano verso le religioni e le chiese tradizionali. Ma la generazione ascendente non è con essi; la dura esperienza dei padri si trasfigura in mito nel cuore dei figli. Dove Napoleone aveva stampato più vasta orma di sé, in Francia, in Italia, nella Germania occidentale, non lo si può dimenticare: era stato un despota, un dissanguatore di popoli, ma quale energia nel suo governo, quale sollecitudine e sensibilità per i bisogni veri, quale potente respiro di vita, quale vigore nell'affermare idee grandiose, una amministrazione, un codice, una organizzazione militare, una unità economica; quale possibilità per i valori veri di essere riconosciuti, apprezzati, utilizzati a pro del pubblico bene, al difuori della lenta routine degli uffici, al disopra dei privilegi di casta. Nasce il mito dell'eroe, di schietta impronta romantica, ch'è un'infatuazione di origine estetico-letteraria; ma a parte ciò, si viene operando una revisione nei giudizî del legittimismo sull'età napoleonica. Indietro non si torna; ma molti popoli, questa sensazione ce l'hanno, dopo il '15, di essere tornati agli anni di prima dell'89. La diffidenza dei governi verso i governati offende ed esaspera. Come, quei buoni popoli, mercé i quali - e solo per essi - il tiranno còrso era stato abbattuto, ora sono trattati con sistemi di polizia? Quella gioventù universitaria, che era accorsa sotto le bandiere, che aveva cantato le canzoni di Teodoro Körner, ora era invigilata, tenuta al guinzaglio; gli uomini che, in buona fede, avevano dato il meglio delle loro forze ai governi vassalli istituiti da Napoleone, si vedevano ora trattati con sospetto, esclusi, ancora giovani, dai pubblici uffici; risorgevano barriere doganali e vincoli economici che erano stati tolti, privilegi aboliti? L'espressione di questi sentimenti era nella parola dell'epoca: costituzione. Variamente intesa ed estesa: da alcuni, more britannico, come governo di gabinetto, garante verso la Corona, ed emanazione dei due classici partiti; da altri alla maniera giacobina, radicale, repubblicaneggiante, largamente democratica, con un popolo generico padrone dei suoi destini. Di qui, fra il '15 e il '48, tutti i moti costituzionali, i pronunciamenti militari, le congiure, il lavorio delle sette, in Spagna, in Italia, in Francia, in Germania, nei Paesi Bassi; spesso collegati e coordinati fra loro, apparentemente identici, eppure profondamente diversi, intessuti di diversi motivi e sottintesi nei diversi luoghi. Esiste, di fatto, un'Internazionale europea sotterranea, tenebrosa e ribellistica, che stende le sue ramificazioni un po' dappertutto; poco, ancora, in Russia, dopo il fallimento decabrista; poco o nulla, in Inghilterra, dove - a parte l'Irlanda cattolica - manca la materia su cui far presa, per l'evoluzione politica diversa dal resto d'Europa. Il movimento cartista non rientra in questo quadro, bensì nella caratteristica della vita inglese, nella sua rivoluzione industriale, nel prevalere dell'economia sulla politica, mentre nell'Europa forti idealità politiche d'indipendenza nazionale, di libertà costituzionale, albori di rivendicazioni sociali la vincevano sulle ragioni economiche o le travestivano e assorbivano in forme politiche.

Gli occhi di Europa erano di nuovo rivolti alla Francia: la monarchia di luglio (1830-48), pur non mutando per nulla la carta d'Europa, non nasceva e perciò non poteva vivere nel sistema dei governi legittimisti: di nuovo la piazza deponeva un re, un altro ne innalzava. In quei giorni di parapiglia, e anche in seguito, la stampa, la tribuna parlamentare si facevano eco di sentimenti non meramente francesi, parlavano ben oltre le frontiere; ed entro le frontiere si accoglievano stranieri fuorusciti politici, perseguitati dalle polizie. Quest'unità dell'Europa liberale si rivela appieno nel '48: l'atmosfera è carica dei fermenti deposti dalla predicazione rivoluzionaria di un Mazzini, di un Blanc, dal ribellismo alla moda romantica, concepito come estro e fantasia. Le prime grandi città, Parigi, Vienna, Berlino, Milano, sono focolai ardenti; qui si accentrano delicate funzioni di governo e funzioni economiche, finanziarie, industriali; un buon colpo assestato qui paralizza tutto lo stato, già disposto a subir tutto dalla capitale. La rivoluzione del '48 è la pietra di paragone della maturità dei popoli europei: da quello inglese che non la fa perché l'ha già fatta nei secoli della sua storia, a quello russo, che non la fa perché non la può fare. La Francia ha di nuovo dichiarato che farà molta strada: guerra di classe; parola che ora fa molta paura, ed è sempre presente, nello sfondo, in quell'anno e in seguito, e spiega certi ondeggiamenti e certe titubanze della borghesia.

Comunque, la rivoluzione del '48 rimette in valore la Francia nel concerto europeo: le ridà, nella politica estera, parte almeno di quel prestigio che aveva perduto dopo il '15. Il colpo di stato del 2 dicembre, la monarchia del terzo Napoleone sono, sì, prodotti dal timore del comunismo e dell'anarchismo, dall'apporto del partito clericale, ma non meno dall'anelare alla gloria militare, al prestigio in Europa o fuori; onde gl'interventi nell'Italia centrale, il patronato franco in Siria e Terra Santa, l'intesa con l'Inghilterra contro la Russia, la guerra di Crimea, la diffidenza, sempre più aperta, dal '58 in poi, verso la Prussia, l'alleanza col Piemonte e la guerra del '59, la spedizione franco-inglese in Cina, l'intervento nel Messico, la mediazione nel '66. Di questa politica, a cose fatte, spesso gli stessi Francesi ripudiarono una parte; ma solo perché non era riuscita secondo il programma. Così, in Italia, dove, attraverso un moderato ingrandimento del Piemonte, la Francia avrebbe voluto sostituire la sua alla preponderanza austriaca. Andò diversameute: e l'Europa assistette, nel triennio 1859-61, al rapidissimo costituirsi di uno stato nazionale italiano indipendente. I più con occhio non benevolo: l'Austria, perché vinta; la Francia, perché quella creatura italiana non era uscita del tutto secondo i suoi desiderî; non era in tutto sua ancella, e poi di spiriti piuttosto anticlericali, impregnata di mazzinismo e di garibaldinismo, mirava fatalmente a Roma papale. L'Inghilterra poteva dirsi più soddisfatta: il nuovo regno, come aveva escluso l'Austria dalla penisola, così non era troppo legato alla Francia, come aveva temuto; in tal caso, gli avrebbe forse conteso Sardegna o Sicilia. Il regime parlamentare a cui il nuovo stato si era abbandonato, lasciava anche in certa perplessità i governi assolutistici o quasi, come Prussia, Austria, Russia; non si nutriva molta fiducia nella serietà, coerenza, volontà e capacità di mantenere le obbligazioni internazionali, del governo del nuovo stato, che sembrava troppo soggetto alle pressioni della piazza e dei politicanti. La volpina scaltrezza della politica cavourriana e degli epigoni educati a quella scuola, l'atteggiamento necessariamente ambiguo nella Questione romana e nel reprimere le generose impazienze, sembrano confermare questa diffidenza. Qualche cosa di ciò trapela, anche, dai rapporti con l'alleata prussiana nella guerra del'66, dalla quale l'Italia, soddisfatta in talune elementari pretese territoriali, uscì con un certo disagio morale.

Ad ogni modo, dopo che in Grecia e nel Belgio, gl'ideali nazionali avevano celebrato uno splendido trionfo con l'unificazione italiana. Seguì la Germania. Qui la nazione si fece stato, da un lato soffocando le tendenze radicaleggianti, che non erano mai state, del resto, molto forti, dall'altro operando un crudo taglio nelle sue stesse carni: schierandosi attorno al re di Prussia, considerato l'interprete genuino dell'anima tedesca, ripudiando l'Asburgo; il che significa sacrificare alcuni milioni di Tedeschi austriaci, abbandonare la cosiddetta missione del germanesimo verso i Magiari, gli Slavi del Sud, l'Oriente. Ma furono più forti altri motivi: l'antipapismo dei protestanti, il prestigio militare della Prussia, garanzia di sicurezza contro il colosso russo, le tradizioni storiche che avevano visto la Germania sempre piuttosto sul Reno che sul Danubio. Ciò spiega, poi, come il movimento nazionale tedesco si coroni proprio con una guerra vittoriosa contro la Francia, e nella prostrazione della rivale, nella riconquista di Strasburgo, veda il fatto culminante dell'indipendenza tedesca.

L'epilogo sanguinoso del '70 pone i problemi che affaticheranno l'Europa nel quarantennio successivo. L'esercito tedesco, con la sua fama d'imbattibilità, conferisce al nuovo Impero un prestigio grandissimo: i Moltke, i Clausewitz imperano in tutte le scuole militari, in tutti i corpi di Stato maggiore. Ma Bismarck ha per questa creatura, ch'egli può dire in molta parte sua, le ansie più gravi: egli vuole la pace. E garanzia di pace egli crede di trovare nell'intesa fra i tre imperatori (Germania, Austria, Russia), che anche le comuni tendenze conservatrici portano ad unirsi pur nella politica interna. Sa che la Francia non dimentica: tutti i suoi sforzi sono diretti a impedire un'intesa fra Russia e Francia, la guerra contemporanea sui due fronti. Meno lo preoccupa un'intesa anglo-francese: prima di tutto è difficile; ci sono rivalità coloniali aperte; e poi, quale aiuto potrebbe avere la Francia dall'Inghilterra, quale danno la Germania, non ancora avviata a una politica mondiale? Certamente, nel Congresso di Berlino (1878), l'onesto paciere vede la precarietà della situazione: rivalità e sospetti fra Russia e Inghilterra, per gli stretti, per la Persia, per l'India; rivalità fra Russia e Austria, per i Balcani, rinfocolate dalle mene dei panslavisti; e poi l'immanente rivalità franco-tedesca. In quel consesso berlinese altri germi furono deposti, che segneranno la futura storia d'Europa; l'Inghilterra, che ha già avuto la soddisfazione di veder ricacciata la Russia entro il Mar Nero, rafforza la sua posizione mediterrauea con Cipro, poco dopo con l'Egitto (1882); la Francia va a Tunisi (1881); l'Italia, nella preoccupazione dell'isolamento, dell'espansione austriaca sull'altra sponda adriatica, di un non impossibile ritorno offensivo dell'Austria, entra nel congegno bismarckiano (1882); il meno peggio, forse, che potesse fare, soluzione di ripiego che seppe abilmente migliorare in seguito.

Le tendenze nazionali all'indipendenza non sono più il motivo dominante della politica europea: tranne che nella monarchia asburgica e nei Balcani. Nel vecchio Impero assorbono ogni altro motivo politico: il compromesso del '67 ha accontentato solo gli Ungheresi, che hanno subito instaurato una politica di sopraffazione delle stirpi soggette, animati dal sentimento mistico della missione affidata alla sacra corona di S. Stefano. Nell'Austria le caste dominanti, clero, alta aristocrazia e burocrazia, militare e civile, non hanno un preciso colore nazionale, sono superstiti residui di mentalità legittimistiche, legate alla dinastia, non all'idea di uno stato nazionale. Non c'è un'idea che regga e sospinga lo stato verso l'avvenire: solo un tessuto economico, che ha, certamente, il suo valore, ma non tale da spingere, come le altre potenze, anche l'Austria sulla via delle imprese coloniali. Sintomo evidente di fiacchezza, di adattamento a ineluttabili destini. Ad espandersi verso i Balcani, l'Austria è trascinata da motivi prudenziali rispetto alla Russia. Ma ai Balcani non ci si accosta senza rimanere scottati. È un mondo in continua ebollizione. Le dottrine nazionali, male assorbite da popoli arretrati, usciti or ora dal secolare servaggio turco, frammischiati gli uni agli altri, divisi da motivi religiosi, con un clero politicante, una casta militare usa agl'intrighi di palazzo, una borghesia sparuta, superficialissimamente colta, abbacinata dalle idee e dai costumi dell'Europa occidentale, ma pregna ancora di tutti i pregiudizî inveterati della vita di clan o di villaggio, portavano all'esasperazione, al radicalismo più spinto, alla guerra di bande, ai colpi di mano, a una politica da giocatori d'azzardo. Terreno fecondissimo per gli emissarî delle grandi potenze, che lo lavoravano, russi e austriaci, specialmente.

Nel resto d'Europa altri motivi sono più vivamente sentiti: industria, commercio, colonie, espansione nel mondo, imperialismo, sono le grandi parole, e in relazione con esse, democrazia, lotta di classe, proletariato, politica sociale, emigrazione, e nel campo speculativo, positivismo, darwinismo, evoluzionismo, ecc. Questo specialmente in Germania, in Francia, in Italia, nel Belgio, e, con atteggiamenti tutti particolari, in Inghilterra e in Russia. Ma erano anche, questi, gli stati che volevano vivere e prepararsi le vie del futuro.

Nell'ultimo settantennio la faccia dell'Europa era mutata: dappertutto un grande incremento demografico: nei centri minerarî, industriali, commerciali d'Inghilterra, di Francia, di Germania, del Belgio, nelle città e nelle campagne d'Italia, d'Austria, di Russia. Gli enormi sviluppi della tecnica industriale, specie di quella mineraria e siderurgica, tessile, chimica, dei mezzi di trasporto e di comunicazione terrestri e marini, della stessa tecnica agricola razionale, l'impiego di nuove forze, come quella elettrica, prima sconosciute, davano tangibilmente il senso del progresso materiale, nel quadro degli stati, entro il quale questi progressi erano stati resi possibili o facilitati, entro il quale il capitale vedeva aprirsi ogni giorno nuovi orizzonti d'impiego e di profitto. Nei fini economici sembrano risolversi ed esaurirsi i fini supremi dello stato. Ora che tutti gli stati, Inghilterra esclusa, hanno adottato il servizio militare obbligatorio, lo sviluppo demografico delle nazioni acquista un'importanza grandissima. E non meno quello industriale: l'armamento degli eserciti e, prima della guerra mondiale, più ancora quello delle marine da guerra, si vale di tutti i perfezionamenti della tecnica meccanica; guai a rimanere addietro. Ed è una gara fra le grandi potenze per assicurarsi i colossi del mare più potenti e meglio armati, per accaparrarsi le materie prime (metalli, carbone, legnami, gomme, petrolî, ecc.) necessarie alla costruzione e all'esercizio di simili mostri. Le spese militari sono in tutti gli stati il capitolo più oneroso dei bilanci: non solo si vuole, ma si deve essere forti per essere più e più ricchi, ed essere ricchi per essere anche più forti. Circolo chiuso, senza via d'uscita, in cui precipita l'imperialismo delle grandi potenze europee. Sfruttamento intensivo di quanto è o può diventare sfruttabile sulla faccia della terra. L'Europeo si è, ormai, insediato dovunque le condizioni di clima e di suolo glielo permettono: nell'America del Nord ha sterminato quasi per intero un'altra razza e si è assiso, solo padrone, nella terra degli estinti; non molto diversamente si è comportato nell'America del Sud, nell'Africa meridionale, nell'Australia. La gara coloniale per i migliori bocconi si è chiusa con netta superiorità inglese, già nel primo Ottocento: ma la Francia si butta sul meglio ancora disponibile (Algeria, Madagascar, Indocina). Dopo il '70 i due nuovi stati nazionali, Italia e Germania, vogliono anch'essi sacrificare alla dea del giorno: e prendono quanto è ancora possibile di prendere. Spesso, le colonie sono, per il momento, un aggravio: ma si cerca di metterle in valore, di piantare una bandiera perché non ve la piantino altri.

Così, l'Europeo, alla vigilia della guerra mondiale, tutto il disponibile, buono e men buono, s'era preso, sulla terra. Se qualcosa non aveva toccato ed era rimasto in mano di non Europei, era oggetto di cupidige e origine di futuri conflitti. Ma l'America, dal 1823 (dottrina di Monroe) non si tocca; nell'Africa e nell'Asia, quello che non si tocca, o appartiene al mondo musulmano, materia troppo ardente e connessa, attraverso il califfato, con le sorti dell'Impero turco, o è sommosso da forti spiriti guerrieri, come l'Abissinia, e non franca la spesa; o è la Cina, ricchissima e immensa, a suo modo civile, che oppone questa sua indolente civiltà e il formicaio della sua popolazione alla penetrazione e alle cupidige europee; in questa terra, per condizioni di clima e di suolo così confacente all'Europeo, proprio l'Europeo non ha saputo e potuto compiere quella radicale sopraffazione della razza indigena che Spagnoli, Portoghesi, Francesi e Inglesi avevano compiuta in America. Ormai è troppo tardi: l'Impero cinese si sostiene anche perché è oggetto di contrastanti brame di potenze europee e di una potenza asiatica, che ha rapidissimamente assimilato, per non morire, le forme materiali della civiltà europea, e brillantemente sostenuto lo scontro col colosso russo (1904-05); ed è troppo tardi quando anche il mondo cinese apre i battenti alla civiltà europea, e se ne appropria, indigeste, le idee e gli strumenti: un Yüan Shik'ai, un Sun Yat-sen, sono grandi figure anche nella storia d'Europa, perché all'Europa, in nome dell'Europa, oppongono una barriera. Il sistema nervoso che fa capo all'Europa si è ramificato su tutta la terra; niente avviene nel mondo a cui l'Europa, in qualche modo, non reagisca. E questo tiene in uno stato di tensione i popoli europei, costretti a vivere gomito a gomito. Equilibrio europeo presuppone, se non staticità, un ritmo di vita lento e misurato nella vita dei popoli; e invece, nel decennio anteriore alla guerra, agiscono in essi fermenti potenti, che mettono in pericolo questo equilibrio: rivalità economiche e coloniali, popoli in ascesa che vogliono farsi largo e sanare le ingiustizie codificate nei trattati, contro quei popoli che possono vantare dietro di sé maggiore anzianità di vita statale; patriottismi esasperati e nazionalismi dogmatizzati, reazioni contro la grigia vita intesa a bassi fini economici e aspirazioni più o meno vaghe all'eroico che ha abbandonato il mondo, critiche al conservatorismo in nome del liberalismo, al liberalismo in nome del democratismo, a tutto in nome del socialismo o dell'anarchismo. La caduta di Bismarck aveva significato freddezza nei rapporti fra Germania e Russia, senza che, a parziale compenso e freno della conseguente intesa franco-russa, si stringessero vincoli fra Germania e Inghilterra. Anzi questa era messa sempre più in sospetto dalle costruzioni navali tedesche, di questa flotta potente, sorta per tutelare gl'interessi germanici in tutto il mondo, ma, di fatto, concentrata nel Mar del Nord e nel Baltico. La Francia non dimenticava la sconfitta del '70 e anelava a riprendere l'egemonia in Europa; quell'egemonia che, anche nel campo morale, sentiva scossa, di fronte allo spirito tedesco quale si manifestava nella cultura e nella scienza organizzatissime, nell'industria e nel commercio razionalmente praticati. La tendenza generale era verso i governi a larga base democratica, verso i governi di partito o di coalizione, come si venivano costituendo nel Belgio, nei paesi scandinavi; e, in questo campo, la Francia poteva aver buon giuoco contro il governo imperiale tedesco, basato sul sistema del cancellierato; ma era anche un fatto che nessun paese poteva vantare una legislazione sociale così democratica quanto la Germania. E poi, gettava un'ombra sulla Francia democratica l'alleanza con la Russia assolutista; ma anche per la Germania, si risolveva in un peso l'alleanza strettissima con l'Austria, organismo malato e senza avvenire. L'Italia, nel 1896, e meglio dal 1902, aveva saputo abilmente interporsi fra i due sistemi di alleanze; così l'Inghilterra, se era riuscita ad accordarsi soddisfacentemente con la Francia nelle questioni mediterranee e coloniali, affiancava l'intesa franco-russa solo in odio alla Germania, non all'Austria: ché anzi non vedeva con dispiacere l'Austria contrastare la Russia nei Balcani, sulla via di Costantinopoli. Per un certo tempo, dopo il 1897, fu in potere della Germania di modificare la situazione in suo favore, rinunciando al programma della flotta, per essa non vitale, come per l'Inghilterra; non averlo fatto a tempo fu un errore enorme della politica tedesca, che perpetuò e solidificò per essa una situazione sempre più sfavorevole.

Ogni piccolo mutamento politico poteva essere pericolosissimo. Già la crisi marocchina fu grave, più grave quella della Bosnia (1908-09), in cui Austria e Germania poterono prevalere solo per l'impreparazione della Russia, uscita da poco da una guerra perduta e da una sanguinosa rivoluzione. Aver creduto di poter ripetere il giuoco anche nel '14 fu altro grossissimo errore della politica tedesca, tirata a rimorchio dalla inconsulta leggerezza del governo di Vienna. Già le guerre balcaniche del 1912-13 erano state un colpo indiretto al prestigio austro-tedesco: l'amico turco quasi cacciato di là dallo stretto, la Serbia pericolosamente ingrandita e incoraggiata nelle rivendicazioni nazionali a spese dell'Austria.

Nel luglio '14 il governo austriaco vide nell'attentato di Sarajevo un attentato alla sua esistenza: e qui entrò in opera l'ingranaggio fatale delle alleanze, degl'impegni, delle convenzioni militari: nel giro di pochi giorni, mobilitazioni irrevocabili, sconfinamenti, i primi scontri, le prime cannonate: e tutta l'Europa, tutto il mondo in fiamme. Gli stessi pochi neutrali si trovarono in una situazione morale penosissima, e mai come ora, che era divisa in due campi avversi e feroci, l'Europa sentiva, sotto la tragica necessità delle nazioni in lotta, la solidarietà della civiltà europea, l'unità dei contrarî.

I belligeranti e i neutrali videro la guerra come una lotta per il dominio nell'Europa e quindi - si poté credere allora - nel mondo: da un lato la Germania vittoriosa, avrebbe assunto da sola la posizione dominatrice che ora divideva con l'Inghilterra, Francia e Russia; dall'altro, non si vedeva bene come si sarebbe configurata la vittoria: l'Inghilterra avrebbe rafforzato il suo dominio extraeuropeo; ma la Francia, e, soprattutto, la grande incognita, la Russia? Dall'una e dall'altra parte si battagliò assai con l'orpello di magnanimi principî: da parte dell'Intesa, per il diritto delle genti, violato e conculcato dal militarismo tedesco, con la fatale invasione del Belgio, con frasi imprudenti, con la caparbia affermazione di non voler abbandonare il Belgio a nessun costo, ciò che manteneva l'Inghilterra nel campo avverso; per l'indipendenza dei popoli oppressi (si alludeva all'Austria, ma, nei primi anni, piuttosto a voce fioca, per riguardo alla Russia). Da parte delle potenze centrali, altro diluvio di parole, ma con assai meno successo: libertà dei mari, libertà dal giogo inglese: libertà ai Polacchi, ma con qualche riserva; bando alla Francia che adopera soldati di colore contro gli Europei. Assai più coerenti alla loro storia, quegli altri stati, come l'Italia e gli stati balcanici, che erano scesi in lizza per le loro rivendicazioni nazionali: operavano ancora in essi i principî che avevano giustificato il loro avvento a dignità di stati. Ma più che la propaganda dei sacri principî, schierò buona parte del mondo contro la Germania, sia l'incapacità di sostenere un atteggiamento indipendente contro la soverchiante potenza navale inglese (così il Portogallo, la Grecia), sia la sistematica disfida della Germania ai diritti e agl'interessi dei neutrali, con la guerra subacquea; mentre la Germania non seppe far valere contro i nemici l'argomento della fame, a cui l'Intesa sottoponeva le popolazioni degl'Imperi centrali assediati.

Alla guerra, che dopo due anni e mezzo, non riusciva ancora a trovare una soluzione, diedero un diverso avviamento due fatti capitali: l'intervento americano e la rivoluzione russa.

Apparentemente nessun motivo materiale spingeva gli Stati Uniti d'America a fianco dell'Intesa, nessuna rivendicazione territoriale da compiere. Solo affermazioni di principî: tutela del cittadino americano dovunque fosse; libertà e autodecisione dei popoli; diritti delle nazioni civili, dell'industria, del commercio contro la prepotenza della spada; democrazia contro militarismo. Fossero o non fossero queste frasi travestimento anche di interessi ben concreti, resta il fatto che l'apporto ideale e materiale degli Stati Uniti fu grande; e però salutato con gioia nel campo dell'Intesa. Tanto più poi, in quanto, proprio allora, l'Intesa vedeva progressivamente straniarsi alla guerra attiva la Russia rivoluzionaria. Ciò che era, per essa, militarmente un male, politicamente un bene: ché solo ora l'Europa occidentale vedeva con sollievo allontanarsi dal Bosforo l'ombra della Santa Russia, solo ora, con maggiore intensità l'Intesa poteva mettere in opera l'azione efficacissima della propaganda delle idee di democrazia e di autodecisione dei popoli. Non è dato di valutare nemmeno ora quale sia stato il peso di queste idee nello smantellare la resistenza degl'Imperi centrali e nel deprimere lo spirito delle truppe e delle popolazioni. Sotto i colpi di ariete decisivi, assestati in Macedonia, nel Veneto, nella Champagne, la resistenza militare cedeva, mentre l'interno apriva porte e finestre ai 14 punti di Wilson. I vincitori entravano nei paesi degli ex-nemici, convertiti in un baleno al più autentico democraticismo, mentre l'Austria-Ungheria, contro la quale era stata particolarmente efficace la propaganda wilsoniana, sfumava come ente statale e si scomponeva in stati nazionali secondo la migliore etichetta americana. Ma le difficoltà risorgevano. Nella pratica, specie nell'Europa centrale e nei Balcani, l'applicazione integrale dei punti wilsoniani si dimostrava madre di innumerevoli soprusi e causa di violenze e disordini. In odio alle classi accusate come colpevoli della sconfitta e anche quasi a sfida ai vincitori e per sfuggire alla loro vendetta, traboccavano dalla Russia in Europa, in Ungheria, in Germania, effimeri esperimenti comunistici: convogliati dalle difficoltà enormi della smobilitazione degli spiriti e delle cose. Alla conferenza della pace tenzonavano principî astratti e interessi ben concreti. Wilson, giocato in assai più di 14 punti, varava il suo progetto di una Lega delle nazioni, non solo europea, ma mondiale, ma poi non era approvato dai suoi stessi connazionali: lega della quale le potenze europee, e specialmente la Francia, cercavano, sotto l'usbergo degl'ideali e secondo vecchie ricette, di farsi uno strumento di egemonia. Attorno alla Germania, mutilata di vasti territorî, onerata da un debito di guerra colossale per la durata di parecchie generazioni, umiliata a riconoscersi colpevole della guerra, si alzava una siepe di nuovi stati nazionali (Polonia, Cecoslovacchia), guardiani della pace che li aveva consacrati. Così attorno all'Ungheria sorgeva la Iugoslavia, era immensamente ingrandita la Romania. In tal modo lo spirito di Wilson sembrava - ed era anche - tradito; ma restava il fatto che la nazione americana si era posta alla testa del mondo; che nessuno stato europeo, preso singolarmente, poteva competere con la repubblica stellata. La quale, con uno sforzo militare piuttosto esiguo, aveva dato a sé stessa e agli altri la sensazione di essere una grandissima nazione: veramente, e pluribus unum, secondo il suo motto.

Dal 1920 l'Europa cammina sulle aspre vie della pace. Pace che gronda sangue, come tutto che non sia ispirato a perfetto senso di giustizia. E la storia di questi dieci anni non è altro che il dissidio, latente e aperto, fra chi vuole conservare questa pace nello spirito e nella lettera dei suoi trattati, e chi vuole modificarla o ha vivo il senso della transitorietà dei trattati, eppur vede come il toccarli significhi un salto nell'incognita di nuove guerre. Da un lato la Francia con la schiera degli stati clienti; di qui le interminabili contese con la Germania per i debiti, le innumerevoli revisioni delle prime cifre astronomiche, l'occupazione del bacino della Ruhr, l'affannosa e vana ricerca di garanzie e alleanze, con l'Inghilterra, con l'America; la costituzione della Piccola Intesa. Dall'altro, la Germania in preda a convulsioni economiche sociali, politiche, inflazioni monetarie, tentativi comunistici, putsch di destra, e pure dominata da una mirabile febbre di rinascita, vinta, ma decisa a dire ancora una sua parola nell'Europa futura. Attorno a questi due gruppi centrali e contrastanti, altri gruppi: quello capeggiato dall'Italia, uscita vittoriosa dalla guerra, ma con la sensazione di non aver avuto dalla pace quanto i suoi sacrifizî, la grande vitalità del suo popolo, il suo fulgido passato le davano diritto di avere; e però, dopo incertezze politiche, turbolenze interne, nei primi anni della pace, ben decisa a battere vie sue, sotto il governo del fascismo, ad avere una voce sua nella futura storia d'Europa e ad imprimere in essa una sua impronta; attorno ad essa, paesi vinti dell'Europa centrale e balcanica.

Incerta, fra questi aggruppamenti, la posizione dell'Inghilterra: essa risente e vede soprattutto le ripercussioni economiche della paradossale situazione politica europea: una Germania condannata a pagare con la sovrapproduzione industriale, che rovinerebbe l'industria inglese, già priva del mercato russo, chiuso o quasi quello australiano, indiano, paesi che vanno istituendo loro industrie. Onde la politica accondiscendente verso la Germania nelle questioni economiche: ma l'appoggio - sia pur cauto - alla Francia nelle questioni politiche, riconoscendo, come meno peggio, l'egemonia politico-militare della Francia nell'Europa.

Ingrandito con l'incorporazione, sotto veste di mandati, di molte delle ex-colonie tedesche e di parte delle terre già turche, l'Impero britannico è, se non in declino, certo a un difficile punto della sua esistenza.

Ad aggravare le pene di questo travagliato dopoguerra, si distende nell'Europa l'ombra della Russia, sempre presente nei problemi europei, anche quando si pretende di ignorarla. Il sistema economico-politico ivi instaurato e vivo malgrado la lotta, anche militare, sferratagli contro dall'Europa occidentale, ha perduto assai della sua forza espansiva e suggestiona assai meno la mimetica di altri popoli europei. Certo è che, spiritualmente, la Russia si è staccata dall'Europa e che il suo verbo può sperare di avere maggior presa fra popoli non europei, fra i Mongoli della Cina o gl'Indiani. Eppure, nonostante lo sbandierato internazionalismo, la Russia bolscevica prosegue con raddoppiata energia la politica nazionale russa degli zar: l'ha dimostrato con la guerra contro la Polonia, con la sempre aperta controversia con la Romania per la Bessarabia, con la politica sua verso l'India inglese, verso la Persia, l'Afghānistān, la Manciuria.

In sostanza, la guerra e la pace hanno dato all'Europa il senso pieno della sua relatività nel mondo. E non pure rispetto al mondo americano, ma anche a quello giapponese, a quello cinese, a quello indiano. A qualche mente volta al pessimismo già si presenta il pericolo della detronizzazione dell'Europa dalla sua posizione di dominatrice del mondo. L'odierna crisi economica - per alcuni, addirittura, crisi di civiltà - ha posto l'Europa davanti a un esame di coscienza: pochissimi i punti fermi ideali nella moderna Europa; quasi tutte le fedi discusse o in discredito. Siamo in periodo di empirismo: e non è col solo empirismo che si fa la grande storia. Ci sono, è vero, i progetti di una Paneuropa o di una confederazione economica europea, ma non sembrano uscire dall'ambito di astrazioni o di sterili schemi giuridici. Profonde revisioni si vanno compiendo nelle idee economiche, che avevano fin qui informato di sé la politica degli stati: da questa revisione dipenderà il destino della futura Europa. Non sembra tuttavia ardito affermare che la civiltà non è più un fatto esclusivo dell'Europa, nel senso che altri continenti hanno, a lor modo, assorbito e assorbono la civiltà europea e crescono e più in seguito cresceranno, evolvendo in modo autonomo questi germi europei: l'Europa, come termine di civiltà, si va dissolvendo nel mondo.

Bibl.: G. Volpe, Il Medioevo, 2ª ed., Firenze 1932; F. Gregorovius, Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter, Stoccarda 1886 segg.; S. Hellmann, Storia del Medioevo dalle invasioni barbariche alla fine delle crociate, Firenze 1924; K. Kaser, Il basso Medioevo, trad. E. Besta, Firenze 1925; Ch. Bémont e G. Monod, Histoire de l'Europe au Moyen Âge (395-1270), Parigi 1921; Bémont e Doucet, Histoire de l'Europe au Moyen Âge (1270-1493), Parigi 1931; L. Halphen, Les Barbares, H. Pirenne, A. Renaudet, E. Perrot, M. Handelsman, L. Halphen, La fin du Moyen Äge, in Peuples et Civilisations, Histoire Générale, dir. L. Halphen e Ph. Sagnac, V e VII, Parigi 1926 e 1931; The Cambridge Medieval History, a cura di J. B. Bury, Cambridge, I, segg. 1911 segg.; E. Lavisse e A. Rambaud, Histoire générale du IV siècle à nos jours, 2ª ed., I segg., Parigi 1913; G. Romano, Le dominazioni barbariche in Italia, in Storia politica d'Italia scritta da una società di professori, Milano 1910; J. Loserth, Geschichte des späteren Mittelalters von 1197 bis 1492, in Handbuch der mittelalterlichen u. neueren Geschichte, Monaco e Berlino 1903; F. Schneider, Mittelalter bis zur Mitte des dreizehnten Jahrhunderts, in Handbuch für den Geschichslehrer, III, Lipsia e Vienna 1929. E cfr. R. Wallach, Das europäische Gemeinschaftsbewusstein im Mittelalter, Lipsia 1929.

Non esiste un lavoro che tratti organicamente il formarsi di una coscienza europea, cioè della coscienza di un'unità spirituale europea. Ma spunti si trovano in tutte le cosiddette storie universali, che sono poi, in sostanza, storie europee: dal Ranke all'Oncken, al Lindner, Pflugk-Harttung, Hartmann, dalla Cambridge Modern History alle storie universali dirette da Lavisse-Rambaud-Halphen e Sagnac; né un quadro in sostanza diverso si ha nelle poche che si intitolano Storie di Europa, come quella del Freeman, antiquata, o in opere ristrette a un determinato periodo, come l'ottima Geschichte Europas seit dem Wiener Kongress bis zum Frankfurter Frieden dello Stern, voll. 10, 2ª ed., Stoccarda-Berlino 1921-1930. Cfr. inoltre la Storia d'Europa nel sec. XIX di B. Croce, Bari 1932. Si hanno poi buoni lavori specialmente per la storia diplomatico-politica, per quanto concepiti esclusivamente da un punto di vista francese, come il Manuel historique de politique étrangère di E. Bourgeois, voll. 4 (dal 1610 al 1919), Parigi 1927-28; l'Hist. politique de l'Europe contemporaine (1814-1912), di Ch. Seignobos, voll. 2, Parigi 1928, 1930, e l'Hist. diplomatique de l'Europe (1815-1916) di A. Debidour, voll. 4, Parigi 1916-18.

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