Ermeneutica

Enciclopedia del Novecento (1977)

Ermeneutica

Hans-Georg Gadamer

di Hans-Georg Gadamer

Ermeneutica

sommario: 1. L'ermeneutica nell'antichità. 2. L'ermeneutica nell'età moderna. □ Bibliografia.

1. L'ermeneutica nell'antichità

Come spesso accade con parole analoghe prese in prestito dal greco, che hanno trovato accoglienza nel nostro linguaggio scientifico, il termine ‛ermeneutica' ricopre disparati livelli di riflessione. ‛Ermeneutica' vuol dire in primo luogo - come indica il fatto di richiedere l'integrazione di τέχνη - una prassi tecnicamente fondata. L'arte, di cui qui si tratta, è quella dell'annunciare, del far da interprete, dello spiegare e dell'interpretare, e abbraccia naturalmente la sottostante arte del comprendere, di cui v'è necessità ogniqualvolta il senso di qualcosa non si mostri in modo aperto e inequivoco. Già nell'uso più antico della parola c'è quindi una certa ambiguità. Ermes era il messaggero degli dei, colui che recava agli uomini le ambasciate degli dei; nella narrazione omerica, egli spesso non faceva altro che riportare alla lettera il messaggio affidatogli. Spesso però, e specialmente nell'uso profano, l'ufficio dell'ἑρμηνεύς consiste nel tradurre, nella comprensibile lingua di tutti, qualcosa che è stato espresso in una lingua straniera o in modo incomprensibile. L'ufficio del tradurre comporta perciò sempre una certa ‛libertà'. Esso presuppone la piena comprensione della lingua straniera, ma più ancora la comprensione della specifica intenzione significativa di ciò che è stato espresso. Chi vuole riuscire comprensibile deve dare una nuova espressione linguistica a quel che altri hanno inteso dire. L'operazione dell'ermeneutica consiste sempre in una siffatta trasposizione da un mondo in un altro, dal mondo degli dei in quello degli uomini, dal mondo di una lingua (straniera) a quello di un'altra (la propria). (I traduttori umani possono tradurre sempre e soltanto nella propria lingua). Ma poiché il compito proprio del tradurre consiste nel ‛ridisporre' ciò che si è voluto dire, il senso dell'ἑρμηνεύειν oscilla tra la traduzione e l'indicazione pratica, tra il comunicare e il richiedere obbedienza. In verità, ἑρμηνεία vuol dire, in un'accezione affatto neutra, ‛enunciazione di pensieri'; è però caratteristico che Platone (Politico, 260 d) non ricomprenda sotto questo termine tutte le espressioni di pensieri, ma soltanto quelle (per es. nel caso del re, dell'araldo, ecc.) che possiedono il carattere dell'ingiunzione. Né si potrebbe intendere altrimenti l'affinità dell'ermeneutica con la mantica (Epinomide, 975 c): l'arte di trasmettere la volontà degli dei non è lontana dall'arte di divinare tale volontà o il futuro a partire da segni. È comunque caratteristico per l'altra componente del significato - quella puramente intellettuale - che nel περί ἑρμηνείας Aristotele tratti unicamente il senso logico dell'enunciato, il λόγος ἀπoϕαντικός. In sintonia con l'uso aristotelico, si sviluppa nella tarda grecità il senso puramente intellettuale di ἑρμηνεία e di ἑρμηνεύς, che possono significare rispettivamente l'esegesi dotta e l'esegeta o il traduttore. Naturalmente, all'‛ermeneutica' come arte rimane sempre un poco attaccata la vecchia derivazione dalla sfera sacrale: è un'arte i cui responsi esigono sottomissione ovvero vengono riconosciuti con aminirazione, poiché essa consente di comprendere e di render noto qualcosa che altrimenti rimarrebbe precluso: un discorso in una lingua straniera o una convinzione inespressa. È dunque un'ars (in tedesco Kunstlehre), come l'oratoria o l'arte dello scrivere o quella del far di conto: più un'abilità pratica che una ‛scienza'.

Quando oggi parliamo di ermeneutica, ci collochiamo invece nella tradizione scientifica dell'età moderna. È con la nascita del moderno concetto di metodo e di scienza che si afferma l'uso moderno del termine ‛ermeneutica'. Oggi il termine implica sempre una qualche sorta di consapevolezza metodica. Non ci si limita a possedere l'arte dell'interpretazione, ma si sa giustificarla teoricamente. La prima attestazione di ‛ermeneutica' come titolo di un libro risale al 1654 (J. K. Dannhauser, Hermeneutica sacra sive methodus exponendarum sacrarum litterarum). Dopo di allora, si distinguono un'ermeneutica teologico-filologica e una giuridica. Sul piano teologico, ermeneutica significa l'arte della retta interpretazione della Sacra Scrittura; arte che, in sé antichissima, era stata portata a consapevolezza metodica già in epoca patristica, soprattutto da Agostino nel De doctrina christiana. Una dogmatica cristiana traeva infatti il proprio compito dalla tensione esistente tra la storia particolare del popolo ebraico - com'era interpretata, in termini di storia della salvezza, dal Vecchio Testamento - e l'annunzio universale di Gesù nel Nuovo Testamento. Appunto a tale proposito l'ermeneutica, in quanto riflessione metodica, doveva recare aiuto e fornire soluzioni. Nel De doctrina christiana Agostino, con l'ausilio di rappresentazioni neoplatoniche, insegna che lo spirito ascende, dal senso letterale e da quello morale, al senso spirituale. Egli risolve così il problema dogmatico e così facendo ricapitola da un punto di vista unitario l'antica eredità ermeneutica.

Il nocciolo dell'ermeneutica antica è il problema dell'interpretazione allegorica (la quale è in sé ancora più remota). ‛Υπόνοια, il senso che sta dietro, era originariamente la parola usata per indicare il senso allegorico. L'interpretazione allegorica era usuale già al tempo della sofistica, come aveva già sostenuto A. Tate e come è stato confermato da recenti testi papiracei. È chiaro il nesso storico che sta alla base di ciò: dal momento in cui il mondo di valori dell'epos omerico, che era destinato a una società aristocratica, perse la propria imperatività, divenne necessaria, per la sua trasmissione, una nuova arte interpretativa. Ciò avvenne con la democratizzazione delle città, il cui patriziato aveva raccolto l'etica aristocratica. Espressione dello stesso processo era l'idea di cultura propria della sofistica: Odisseo toglie ad Achille il primato e, sulla scena, assume non di rado tratti sofistici. In seguito, l'allegoresi assurse a metodo universale soprattutto con l'interpretazione omerica della Stoa, nell'ellenismo. A questa si riallacciò l'ermeneutica patristica, che fu ricapitolata da Origene e da Agostino. Nel Medioevo essa fu sistematizzata da Cassiano e poi sviluppata nel metodo del quadruplice senso delle Scritture.

2. L'ermeneutica nell'età moderna

Un nuovo impulso l'ermeneutica lo ricevette dal ritorno della Riforma alla lettera della Sacra Scrittura; al contempo, i riformatori si mostravano polemici verso la tradizione dottrinale della Chiesa e verso il suo trattamento dei testi per mezzo di metodi come quello dei molteplici sensi della Scrittura (cfr. le ricerche di K. Holl sull'ermeneutica di Lutero: Luthers Bedeutung für den Fortschritt der Auslegungskunst, 1920, e la loro continuazione per opera di G. Ebeling, Evangelische Evangelienauslegung. Eine Untersuchung zu Luthers Hermeneutik, 1942, e Die Anfänge von Luthers Hermeneutik, 1951). In particolare, venne allora rifiutato il metodo allegorico, ovvero la comprensione allegorica fu limitata ai casi nei quali il senso delle parabole la giustificava in modo specifico. Nello stesso tempo si destò una nuova coscienza metodica, che voleva essere obiettiva, legata all'oggetto, libera da ogni arbitrio soggettivo. Il motivo centrale rimane però di natura normativa: quel che è in questione nell'‛ermeneutica teologica' o ‛umanistica' dell'età moderna è la retta interpretazione di testi i quali contengono la vera autorità, che occorre recuperare. La motivazione dello sforzo ermeneutico, pertanto, non è da ricercarsi tanto, come più tardi in Schleiermacher, nel fatto che un dato contenuto tramandato è difficilmente comprensibile e dà adito a fraintendimenti, quanto piuttosto nel fatto che esso viene assoggettato a una rinnovata comprensione, mentre una tradizione costituita viene spezzata o trasformata dalla riscoperta delle sue origini sepolte. Il senso originario, celato o deformato, deve essere nuovamente ricercato e rinnovellato. L'ermeneutica cerca dovunque, ritornando alle fonti originali, di raggiungere una rinnovata comprensione di qualcosa che è stato corrotto dallo snaturamento, dalla deformazione e dall'abuso: la Bibbia, dall'insegnamento tradizionale della Chiesa; i classici, dal barbaro latino della Scolastica. I nuovi sforzi dovevano quindi mirare non solo a una più corretta comprensione, ma a ridare validità a qualcosa avente un valore normativo esemplare.

Accanto a tale motivazione - di natura concreta - era però operante nell'ermeneutica, all'inizio dell'età moderna, anche una motivazione formale, in quanto la coscienza metodica della nuova scienza, che si serviva specialmente del linguaggio della matematica, spingeva verso una teoria generale dell'interpretazione delle lingue costituite da segni. Per la sua generalità, essa fu trattata come una parte della logica (cfr. l'esposizione di L. Geldsetzer nell'introduzione alla ristampa di G. F Meier, Versuch einer allgemeinen Auslegungskunst, 1965; specialmente pp. 10 ss.). A questo proposito, il ruolo decisivo fu certo svolto dall'inserimento di un capitolo ermeneutico nella Logica di Ch. Wolff (Philosophia rationalis sive logica, 17322, parte III, sezione III, capp. 6, 7). Era qui all'opera un interesse logico-filosofico, che mirava alla fondazione dell'ermeneutica entro una semantica generale. Il disegno di una tale semantica è rinvenibile dapprima in Meier, che ha in Chladenius un precursore d'ingegno (J. A. Chladenius, Einleitung zur richtigen Auslegung vernunftiger Reden und Schriften, 1742, ristampa 1970). In generale, però, la disciplina dell'ermeneutica, che andava emergendo nella teologia e nella filologia, rimase nel sec. XVII allo stato frammentario e servì a scopi didattici piuttosto che filosofici. Pragmaticamente orientata, essa ha elaborato, è vero, alcune fondamentali regole metodologiche, in grandissima parte tratte dall'antica grammatica e retorica (Quintiliano, Institutio oratoria); rimase però nel complesso solo una raccolta di spiegazioni di passi, destinata a dischiudere l'accesso alla comprensione della Scrittura (o, sul terreno umanistico, dei classici).

Il vocabolario concettuale dell'ermeneutica del ‛primo protestantesimo' deriva interamente dalla retorica antica. Il riadattamento - operato da Melantone - dei concetti fondamentali della retorica al corretto studio dei testi (bonis auctoribus legendis), che aveva il suo modello già nella retorica della tarda antichità (Dionigi di Alicarnasso), fu a questo proposito decisivo. Così, l'esigenza di comprendere ogni particolare a partire dal tutto risale al rapporto tra caput e membra, rapporto assunto a modello dalla retorica antica. In Flacius, questo principio ermeneutico conduce naturalmente a un'applicazione ricca di una tensione estrema, giacché l'unità dogmatica del canone, che egli difende contro l'interpretazione singola degli scritti neotestamentari, limita fortemente il caposaldo luterano del ‛principio scritturale' (Schriftprinzip). Quel paio di regole ermeneutiche generali - fondate sulla retorica antica - che si trovano anticipate in queste ‛ermeneutiche', non giustificano certo un interesse filosofico per questi scritti. Nondimeno, nella preistoria dell'ermeneutica protestante si rispecchia già la più profonda problematica filosofica, che doveva venire pienamente alla luce soltanto nel nostro secolo. Il principio luterano sacra scriptura sui ipsius interpres contiene, è vero, un chiaro ripudio della tradizione dogmatica della Chiesa romana; ma, giacché tale principio non voleva affatto venire in soccorso di un'ingenua teoria dell'ispirazione, e poiché in particolare la teologia di Wittenberg, seguendo la dotta traduzione luterana della Bibbia, utilizzava, per giustificare la propria esegesi, un ricco apparato filologico ed esegetico, la problematicità implicita in ogni interpretazione doveva coinvolgere anche il richiamo al sui ipsius interpres. Il paradosso di tale principio non era che troppo palese, ed era inevitabile che i difensori della tradizione dottrinale cattolica, il Concilio di Trento e la letteratura della Controriforma ne svelassero la debolezza teorica. Non si poteva negarlo: neppure l'esegesi biblica protestante lavorava senza linee direttive, che in parte erano raccolte sistematicamente negli ‛articoli di fede', e in parte venivano suggerite nella scelta dei loci precipui. La critica a Flacius di Richard Simon (Histoire critique du texte du Nouveau Testament, 1689) è oggi per noi un documento caratteristico della problematica ermeneutica della ‛precomprensione', nella quale, come si mostrerà poi, si celavano implicazioni ontologiche che soltanto la filosofia del nostro secolo doveva rendere evidenti. In connessione con il rifiuto della dottrina dell'ispirazione verbale, infine, anche l'ermeneutica teologica del primo illuminismo cerca di raggiungere regole generali del comprendere. In particolare, la ‛critica storica della Bibbia' trova allora la sua prima legittimazione ermeneutica. Il Tractatus theologico-philosophicus di Spinoza fu l'avvenimento capitale. La sua critica, per esempio, al concetto di miracolo era legittimata dalla pretesa della ragione di riconoscere soltanto il razionale, cioè il possibile. E quella spinoziana non era semplicemente una critica; essa conteneva a un tempo un momento positivo, in quanto avanzava l'esigenza là dove, nella Scrittura, la ragione trova motivo di scandalo - di una spiegazione naturale. Ciò conduce a volgersi alla storia, a volgersi cioè dalle (incomprensibili) narrazioni di miracoli alla (comprensibile) fede nei miracoli.

A un tal risultato negativo-illuministico si contrappose l'ermeneutica ‛pietistica', che, a partire da A. H. Francke, associò nel modo più stretto l'applicazione ‛edificante' al- l'interpretazione dei testi. In ciò si scorge la tradizione della retorica antica e della sua dottrina sul ruolo degli affetti, come è specialmente chiaro nella dottrina della predica (sermo), che nel culto protestante aveva ricevuto un nuovo grande ruolo. L'ermeneutica di J. J. Rambach (Institutiones hermeneuticae sacrae, 1723), che ebbe grande autorità, pose esplicitamente, accanto alla subtilitas intelligendi, la subtilitas applicandi, dalla quale la predica trae certamente il suo significato. Il termine subtilitas (finezza), che deriva certo dalla mentalità competitiva del- l'umanesimo, allude con eleganza al fatto che la ‛metodica' dell'interpretazione - come in generale ogni applicazione di regole - richiede una facoltà di giudicare, la quale non può a sua volta essere assicurata mediante regole (cfr. Kant, Kritik der Urteilskraft, 17992, VII). Questa circostanza doveva significare, per quanto riguarda l'applicazione della teoria alla prassi ermeneutica, una costante limitazione. Per di più l'ermeneutica, come disciplina ausiliaria della teologia, cerca sempre, ancora nel tardo sec. XVIII, il compromesso con l'interesse dogmatico (per es. in Ernesti, Semler).

Stimolato da F. Schlegel, F. Schleiermacher scioglie l'ermeneutica, in quanto teoria universale del comprendere e dell'interpretare, da tutti i momenti dogmatici e occasionali, che in lui trovano una loro legittimità ermeneutica solo su un piano secondario, in considerazioni speciali sulla Bibbia. Con la sua teoria ermeneutica egli difese la scientificità della teologia, e ciò specialmente contro la teologia dell'ispirazione, la quale metteva radicalmente in questione la verificabilità metodica della comprensione della Sacra Scrittura con i mezzi dell'esegesi testuale, della teologia storica, della filologia ecc. Ma sullo sfondo della concezione schleiermacheriana di un'ermeneutica universale stava non solo un siffatto interesse per uno sviluppo della teologia come scienza, ma un motivo filosofico. Uno degli impulsi più profondi dell'epoca romantica era la fede nel dialogo in quanto peculiare fonte di verità: fonte non dogmatica né sostituibile da alcun dogmatismo. Se Kant e Fichte avevano indicato nella spontaneità dell'‛Io penso' il principio supremo di ogni filosofia, nella generazione romantica degli Schlegel e degli Schleiermacher, contrassegnata da un ardente culto dell'amicizia, quel principio si trasformò in una sorta di metafisica dell'individualità. L'ineffabilità dell'individuale stava anche alla base della svolta verso il mondo della storia, il quale emerse alla coscienza in seguito alla rottura con la tradizione, propria di quell'età di rivoluzioni. La capacità di amicizia, la capacità di dialogo, di scambio epistolare e in generale di comunicazione: tutti questi tratti del sentimento romantico della vita vennero incontro all'interesse per la comprensione (o per il suo fallimento); e quella primordiale esperienza umana costituì appunto, nell'ermeneutica di Schleiermacher, il punto di partenza metodico. A partire da lui, la comprensione dei testi, la comprensione di tracce spirituali straniere, remote, oscurate e irrigidite nella redazione scritta - cioè la vivente interpretazione dei testi letterari e soprattutto della Sacra Scrittura - si presenta come un'applicazione specializzata.

Naturalmente, l'ermeneutica di Schleiermacher non è del tutto sgombra da una certa polverosa scolasticità tipica della precedente letteratura ermeneutica, come d'altra parte anche la sua opera propriamente filosofica si è sviluppata all'ombra degli altri grandi pensatori idealisti. Egli non ha infatti né la forza cogente della deduzione fichtiana, né la eleganza speculativa di Schelling, né la robusta originalità dell'‛arte concettuale' di Hegel: egli era un oratore - anche là dove filosofava - e i suoi libri sono i brogliacci di un oratore. Ma in particolare i suoi contributi all'ermeneutica hanno un forte spicco e, quel che più interessa sotto l'aspetto ermeneutico, le sue osservazioni sul pensare e sul parlare non si trovano nell'‛ermeneutica', ma nella ‛dialettica'. Siamo però sempre in attesa di una maneggevole edizione critica della Dialektik (v. Vattimo, 1968). Il senso normativo fondamentale dei testi, che aveva originariamente conferito allo sforzo ermeneutico il proprio significato, in Schleiermacher arretra nello sfondo. Il comprendere è la ‛ripetizione riproduttiva', sulla base della congenialità degli spiriti, della produzione mentale originaria. Tale era l'insegnamento di Schleiermacher, con - sullo sfondo - la sua concezione metafisica dell'individualizzazione della vita universale. Emerge così, e in modo tale da superare radicalmente l'esclusivo interesse della filologia per la letteratura scritta, il ruolo del ‛linguaggio'. La fondazione schleiermacheriana del comprendere sul dialogo e sull'intesa interumana significava a un tempo approfondire le basi dell'ermeneutica, così da consentire l'edificazione, su base ermeneutica, di un sistema delle scienze. L'ermeneutica divenne il ‛fondamento di tutte le scienze storiche dello spirito', e non solo della teologia. Il presupposto dogmatico dell'autorità del testo, sotto il cui dominio il lavoro ermeneutico - sia dei teologi sia dei filologi umanisti (per non parlare dei giuristi) - svolgeva la sua originaria funzione di mediazione, è ora scomparso. Lo storicismo ha così la via libera.

Dopo Schleiermacher, fu soprattutto l'interpretazione ‛psicologica', sostenuta dalla teoria romantica della creazione inconscia del genio, a divenire sempre più nettamente la base teorica delle scienze dello spirito nel loro complesso. Ciò si manifesta nel modo più istruttivo già in Steinthal (Einleitung in die Psychologie und Sprachwissenschaft, 1881), e in Dilthey si arriva a una rifondazione sistematica dell'idea di scienze dello spirito sulla base di una psicologia comprendente (verstehend) e descrittiva. Non è in Schleiermacher, naturalmente, che si trova la più profonda fondazione filosofica delle scienze storiche. Egli appartiene piuttosto alla linea di pensiero dell'idealismo trascendentale fondato da Kant e da Fichte: e specialmente la Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre di Fichte quasi eguagliò, per importanza epocale, la Kritik der reinen Vernunft. Come già mostra il titolo, si tratta qui della derivazione di ‛tutto' il sapere da un supremo principio unitario, quello della spontaneità della ragione (Fichte parlava di ‛atto' anzichè di ‛fatto'); e questa svolta dall'idealismo ‛critico' di Kant all'idealismo ‛assoluto' sta alla base di tutti gli sviluppi posteriori, da Schiller e Schleiermacher, Schelling, Friedrich Schlegel e Wilhelm von Humboldt sino a Boeck, Ranke, Droysen e Dilthey. Che la ‛scuola storica', a dispetto del suo rifiuto della costruzione aprioristica della storia universale nello stile di Fichte e di Hegel, condivida le basi teoriche della filosofia idealistica, è stato mostrato specialmente da E. Rothacker (v., 1920). Particolare autorità ebbero le lezioni del celebre filologo August Boeck sull'‛enciclopedia delle scienze filologiche'. In esse Boeck determinava il compito della filologia addirittura come quello di ‟riconoscere il conosciuto": era una buona formulazione del carattere secondario della filologia. Il valore normativo della letteratura classica, che era stato riscoperto nell'umanesimo e aveva costituito l'impulso primario all'imitatio, sbiadiva nell'indifferenza della storia. Dal compito fondamentale di un siffatto ‛comprendere' Boeck distingueva poi i diversi modi interpretativi nella sfera grammaticale, in quella dei generi letterari, in quella storico-reale e in quella psicologico-individuale. È qui che si riallacciò Dilthey con la sua psicologia ‛comprendente'. Naturalmente, l'orientamento ‛gnoseologico' si era nel frattempo mutato, specialmente sotto l'influsso della ‛logica induttiva' di J. H. Mill, e quando Dilthey difese contro la psicologia sperimentale, che andava espandendosi sulla base dell'opera di Herbart e di Fechner, l'idea di una psicologia ‛comprendente', egli condivideva certo il generale punto di vista dell'‛esperienza', anche se ovviamente nella forma basata sul ‛principio della coscienza' e sul concetto di ‛esperienza vissuta' (Erlebnis). Ebbe inoltre per lui il valore di una costante sollecitazione lo sfondo culturale - intessuto di filosofia della storia, anzi di teologia della storia - sul quale si stagliava la penetrante istorica di J. G. Droysen, come anche la severa critica che il suo amico, il luterano Yorck von Wartenburg rivolgeva allo storicismo ingenuo dell'epoca. Entrambi questi fattori hanno contribuito all'aprirsi, nel successivo sviluppo di Dilthey, di una nuova strada. Il concetto di Erlebnis, che in lui aveva costituito il fondamento psicologico dell'ermeneutica, fu integrato dalla distinzione di ‛espressione' e ‛significato', in parte sotto l'influsso della critica rivolta allo psicologismo da Husserl (nei Prolegomena alle Logische Untersuchungen) e della sua teoria platonizzante del significato, e in parte per una ripresa della teoria hegeliana dello spirito oggettivo, che gli si era chiarita anzitutto attraverso i suoi studi sul giovane Hegel (v. Dilthey, 1914-1936). I frutti di questi sviluppi sono maturati nel Novecento. I lavori di Dilthey sono stati continuati da G. Misch, E. Spranger, Th. Litt, J. Wach, H. Freyer, E. Rothacker, O. Bollnow e altri. La summa della tradizione idealistica dell'ermeneutica - da Schleiermacher a Dilthey e oltre - fu redatta dallo storico del diritto E. Betti (v., 1954 e 1955). Naturalmente, Dilthey non riuscì realmente a venire a capo del compito che lo tormentava, quello cioè di mediare teoricamente la ‛coscienza storica' con la pretesa di verità propria della scienza. La formula di E. Troeltsch: ‛dalla relatività alla totalità', la quale doveva rappresentare la soluzione teorica del problema del relativismo nel senso di Dilthey, rimase in verità, al pari dell'opera personale di Troeltsch, impigliata nello storicismo che presumeva di superare. È caratteristico che anche nella sua opera in tre volumi sullo storicismo Troeltsch si abbandonasse continuamente a - splendidi - excursus storici. Dilthey, al contrario, cercava, dietro a ogni relatività, di risalire a una costante e abbozzò una ‛teoria tipologica' delle Weltanschauungen (destinata ad avere un influsso grandissimo), la quale doveva corrispondere alla multilateralità della vita. Ciò non rappresentava che in un senso molto limitato un superamento dello storicismo. La base essenziale di questa, come di ogni altra analoga teoria tipologica, era infatti costituita dal concetto di Weltanschauung: cioè un atteggiamento della coscienza non ulteriormente indagabile, che si poteva solo descrivere e comparare con altre Weltanschauungen, ma si doveva lasciare allo stato di ‛fenomeno di espressione della vita'. Che la ‛volontà di conoscere per concetti', e quindi la pretesa ‛di verità' della filosofia, debba cedere dinanzi alla ‛coscienza storica' era l'irriflesso presupposto dogmatico di Dilthey; un abisso divide quindi la concezione diltheyana dal detto, spesso abusato, di Fichte: ‟La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo" (J. G. Fichte, Werke, a cura di I. H. Fichte, 1845-1848, I, p. 434), il quale rappresentava una lampante professione di idealismo. Ciò doveva venire in luce, prevalentemente in modo indiretto, nei seguaci di Dilthey: le teorie tipologiche elaborate in campo pedagogico-antropologico, psicologico, sociologico, artistico e storico dimostrarono ad oculos che la loro fecondità dipendeva in verità dal segreto dogmatismo che stava alla loro base. Tutte le tipologie di Max Weber, Spranger, Litt, Pinder, Kretschmer, Jaensch, Lersch ecc. mostrarono di possedere un certo limitato valore di verità, che però perdevano non appena volevano afferrare la totalità di tutti i fenomeni, cioè volevano la completezza. Per ragioni essenziali, una siffatta ‛costruzione' di una tipologia onnicomprensiva conduce all'autodissoluzione, cioè alla perdita del suo dogmatico nocciolo di verità. Anche la ‛psicologia delle Weltanschauungen' di Jaspers non era affatto libera (come invece pretese più tardi - con buona ragione - la sua filosofia) da questa problematica tipica di ogni tipologia. Lo strumento concettuale della tipologia, in verità, è legittimabile soltanto collocandosi in una posizione di estremo nominalismo; senonché, persino l'ascetico radicalismo nominalistico di Max Weber aveva i suoi limiti, e fu integrato dall'ammissione, affatto irrazionale e volontaristica, che ognuno debba scegliere il ‛proprio Dio'.

L'ermeneutica ‛teologica' dell'epoca che ha inizio con la fondazione generale di Schleiermacher è rimasta impigliata in modo analogo nelle sue aporie dogmatiche. Già Lücke, l'editore delle lezioni di Schleiermacher sull'ermeneutica, aveva fortemente sottolineato il loro momento teologico. Nel complesso, la dogmatica teologica dell'Ottocento tornò alla problematica del primo protestantesimo, che si riassumeva nella regula fidei. Di fronte a essa stava, con atteggiamento di crescente indifferenza, l'esigenza storica della teologia liberale, critica verso ogni dogmatica. Nell'epoca della teologia liberale non ci fu quindi, in fondo, alcuna problematica ermeneutica specificamente teologica. Fu pertanto un avvenimento capitale quando, passando attraverso lo storicismo radicale e sotto l'impulso della teologia dialettica (Barth, Thurneisen), la riflessione ermeneutica di R. Bultmann - che doveva sfociare nella parola d'ordine della demitizzazione - fondò un'autentica mediazione tra esegesi storica ed esegesi dogmatica. Naturalmente, il dilemma tra analisi storico-individualizzante e continuazione del kerygma rimane teoricamente insolubile, e il concetto bultmanniano di ‛mito' si rivelò presto una costruzione, oltremodo ricca di presupposti, edificata sul terreno del moderno illuminismo. Egli negò la pretesa di verità, che è incorporata nel linguaggio del mito: una posizione, dal punto di vista ermeneutico, estremamente unilaterale. Il dibattito sulla ‛demitizzazione', com'è stato presentato con compiuta informazione da G. Bornkamm (Die Theologie Rudolf Bultmanns in der neueren Diskussion, in ‟Theologische Rundschau", NF 29, 1963, Heft 1/2, pp. 33-141) rimane tuttavia di grande interesse ermeneutico generale, poiché in esso torna a nuova vita, in una variante contemporanea, l'antica tensione tra dogmatica ed ermeneutica. Nella propria autoriflessione teologica, Bultmann si era allontanato dall'idealismo, avvicinandosi al pensiero di Heidegger. In questo processo operava l'esigenza che avevano avanzato K. Barth e la teologia dialettica, quando avevano portato a consapevolezza la problematica, così umana come teologica, del ‛parlare di Dio'. Bultmann cercava una soluzione ‛positiva', cioè giustificabile metodicamente, una soluzione che non prescindesse dalle conquiste della teologia storica. La filosofia heideggeriana dell'esistenza sembrò offrirgli, in Sein und Zeit, una posizione neutrale, antropologica, a partire dalla quale l'autocomprensione della fede potesse sperimentare una fondazione ontologica (sulla discutibilità di un tale ricorso ‛neutrale' alla filosofia dell'esistenza, cfr. K. Löwith, Grundzüge der Entwicklung der Phänomenologie zur Philosophie und ihr Verhältnis zur protestantischen Theologie, in ‟Theologische Rundschau", 1930, pp. 26 ss., pp. 333 ss.). La futurità (Zukünftigkeit) dell'esserci nel modo dell'autenticità e, sull'opposto versante, la deiezione nel mondo si potevano spiegare, teologicamente, mediante i concetti di fede e di peccato. Non si era con ciò, in verità, nella linea dell'esposizione heideggeriana del problema dell'essere, bensì in quella di una reinterpretazione antropologica. Ma la rilevanza universale del problema di Dio per l'esistenza umana, che Bultmann fondò sull'autenticità del poter essere, condusse a una reale conquista ermeneutica, consistente soprattutto nel concetto di ‛precomprensione' (per non parlare del cospicuo vantaggio, sul piano esegetico, derivante da una siffatta consapevolezza ermeneutica).

Il nuovo approccio filosofico di Heidegger non si limitò a produrre effetti positivi in teologia, ma mise soprattutto in grado di spezzare l'irrigidimento relativistico e tipologico che predominava nella scuola di Dilthey. Spetta a G. Misch (Phänomenologie und Lebensphilosophie, 1929) il merito di aver nuovamente liberato, attraverso il confronto con Husserl e Heidegger, gli impulsi filosofici di Dilthey. L'edizione, curata da Misch e altri, dei molti saggi sparsi nei volumi V-VIII delle Werke - come anche le dotte introduzioni dello stesso Misch - hanno portato alla luce, per la prima volta negli anni venti, il lavoro filosofico di Dilthey, eclissato in precedenza dalla sua opera storica. Con la penetrazione delle idee diltheyane nella fondazione fenomenologica della ‛filosofia dell'esistenza', il problema ermeneutico sperimentò la sua radicalizzazione filosofica. Fu allora che Heidegger creò il concetto di un'‛ermeneutica dell'effettività', formulando con ciò, contro l'husserliana ontologia fenomenologica delle essenze, il compito paradossale di interpretare il ‛non-pre-pensabile' (das Unvordenkliche: Schelling) dell'‛esistenza', anzi di interpretare l'esistenza stessa come ‛comprensione' e ‛interpretazione', cioè come un progettarsi a partire dalla propria possibilità. Si raggiungeva così un punto nel quale l'orientamento metodico strumentalizzante del problema ermeneutico doveva volgersi all'ontologia. Il ‛comprendere' non è più un comportamento tra gli altri del pensiero umano, un comportamento che si lasci disciplinare metodicamente ed educare all'uso di procedimenti scientifici, ma costituisce la mobilità di fondo dell'esistenza umana. La caratterizzazione e accentuazione heideggeriana dell'interpretazione come movimento fondamentale dell'esistenza rientra così nella linea del concetto di interpretazione sviluppata nella sua portata teorica soprattutto da Nietzsche. Tale sviluppo si basa sul dubbio riguardo agli enunciati dell'autocoscienza (come afferma Nietzsche: ‟è necessario dubitare più radicalmente"). Ma il risultato di questo dubbio in Nietzsche è una modificazione del senso della verità in generale per cui il processo interpretativo diventa una forma della volontà di potenza e assume quindi una valenza ontologica.

Un analogo senso ontologico acquista nel XX secolo il concetto di storicità tanto nel giovane Heidegger quanto in Jaspers. La storicità non è più una determinazione limitativa delle pretese della ragione di raggiungere la verità, ma piuttosto una condizione positiva della verità. In tal modo viene a mancare ogni fondamento effettivo alle argomentazioni del relativismo storico, perché il criterio di una verità in senso assoluto si rivela astratto e perde il suo significato metodologico. La storicità cessa di evocare lo spettro del relativismo storico.

In questo nuovo orientamento si inserisce efficacemente soprattutto una rinnovata influenza del pensiero di Kierkegaard ispirando (dopo Unamuno, Th. Haecker e altri) una nuova critica all'idealismo dal punto di vista del ‛tu' come venne sviluppata da F. Gogarten, E. Grisebach, F. Ebner, M. Buber, K. Jaspers, V. von Weizsäcker (v. anche il libro di K. Löwith, Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, München 1928).

Ma quando Heidegger riconobbe come insufficiente la fondazione trascendentale della sua teologia fondamentale, e quando, nella ‛svolta' (Kehre), l'ermeneutica della ‛effettività' si trasformò nella ‛illuminazione' del ‛ci' (Da) dell'essere, la problematica ermeneutica della tradizione idealistica subì un'ulteriore radicalizzazione. Anche l'ingegnosa dialettica, attraverso la quale E. Betti cercò di giustificare l'eredità dell'ermeneutica romantica nel reciproco giuoco di soggettivo e oggettivo, doveva rivelarsi insufficiente dopoché Sein und Zeit ebbe mostrato l'anticipazione ontologica del concetto di soggetto e quando i successivi sviluppi di Heidegger infransero, nella ‛svolta', il quadro della riflessione filosofico-trascendentale. L'evento della verità, che costituisce lo spazio proprio del disvelamento e dell'occultamento, diede a ogni disvelamento - anche a quello delle scienze ‛comprendenti' - una nuova valenza ontologica. Divenne così possibile porre all'ermeneutica tradizionale una serie di nuovi interrogativi.

Il fondamento psicologico dell'ermeneutica idealistica si dimostrava ‛problematico': si esaurisce realmente il senso di un ‛testo' nel senso ‛inteso' (mens auctoris)? È la comprensione null'altro che la riproduzione di una produzione originaria? Che questo non sia il caso dell'ermeneutica giuridica, che ha palesemente una funzione di creazione del diritto, è chiaro. Tale funzione è però stata attribuita alla sfera normativa, e quindi considerata come una faccenda pratica che non ha niente a che vedere con la ‛scienza'. Al contrario, il concetto di obiettività della scienza richiedeva l'osservanza del canone costituito dalla mens auctoris. Ma può esso bastare realmente? Come vanno le cose, per esempio, nell'interpretazione di opere d'arte (che nel regista, nel direttore d'orchestra e nel traduttore ha ancora la conformazione di una produzione pratica)? È forse possibile negare che l'artista che riproduce ‛interpreti' la creazione originale (non ne fa cioè una nuova creazione)? Noi distinguiamo molto accuratamente tra interpretazioni riproduttive adeguate e interpretazioni ‛non consentite' o ‛non conformi allo stile'. Con qual diritto si separerà questa natura riproduttiva dell'interpretazione da quella della scienza? Forse che un siffatto interpretare ha luogo in uno stato di sonnambulismo e senza alcun sapere? Non si può certo limitare il senso contenuto nell'interpretazione a ciò che discende dal senso consapevolmente immesso nell'opera dall'autore. Com'è noto, l'autointerpretazione degli artisti ha un valore discutibile. Il senso della loro creazione pone tuttavia all'interpretazione un compito consistente in una non ambigua approssimazione: la riproduzione non è per nulla affidata all'arbitrio.

E come vanno le cose con il senso e con la spiegazione di eventi ‛storici'? La coscienza dei contemporanei è caratterizzata dal fatto che essi, che pure ‛vivono' (erleben) la storia, non sanno che cosa loro accada. Al contrario Dilthey tenne fede con intera coerenza al suo concetto di Erlebnis, come insegna, per quanto riguarda la teoria diltheyana della connessione storico-effettuale, il modello della biografia e dell'autobiografia (v. Dilthey, 1914-1936). Anche l'acuta critica rivolta alla coscienza metodica del positivismo da R. G. Collingwood (Autobiography, 1939), il quale si serve del resto degli strumenti dialettici dell'hegelismo crociano, rimane chiusa con la sua teoria del reenactment in una sfera di problemi angustamente soggettivistica. Qui Hegel stesso era più coerente. La sua pretesa di riconoscere nella storia la ragione era fondata sul suo concetto di ‛spirito', alla cui essenza appartiene il fatto di ‛cadere nel tempo' nonché il fatto che il suo contenuto viene determinato unicamente dalla propria storia. Certo, anche per Hegel si davano ‟individui cosmico-storici" (weltgeschichtliche Individuen), individui che egli chiamava ‟portatori dello spirito del mondo" e le cui decisioni e passioni personali si accordavano con ciò che ‟era nell'aria". Questi casi eccezionali però non definivano per lui il senso del comprendere storico, ma venivano al contrario definiti come eccezioni dalla comprensione concettuale, che appartiene al filosofo, della necessità storica. La scappatoia, già tentata da Schleiermacher, di presumere nello storico una congenialità con il suo oggetto non porta evidentemente ad alcun progresso. In tal modo, infatti, si trasforma la storia universale in uno spettacolo estetico, il che significherebbe da una parte caricare lo storico di un peso eccessivo e dall'altra sottovalutare il suo compito, consistente nel confrontare il proprio orizzonte con quello del passato.

Come si presentano poi le cose con il senso ‛kerygmatico' della Sacra Scrittura? Qui il concetto della congenialità conduce chiaramente all'assurdo, evocando lo spauracchio della teoria dell'ispirazione. Anche l'esegesi ‛storica' della Bibbia trova però qui i propri limiti, specialmente nel concetto guida dell'‛autocomprensione' degli autori della Sacra Scrittura. Il senso salvifico della Scrittura non è forse necessariamente qualcosa di diverso da quello risultante dalla mera somma delle vedute teologiche degli autori del Nuovo Testamento? A questo proposito merita sempre attenzione l'ermeneutica ‛pietistica' (A. H. Francke, Rambach) poiché essa, nella sua teoria esegetica, aggiunse alla comprensione e alla spiegazione la ‛applicazione', indicando così il rapporto della Scrittura con il presente. È qui racchiuso il motivo centrale di un'ermeneutica che prenda realmente sul serio la storicità dell'uomo. Di tale motivo tiene certo conto anche l'ermeneutica idealistica, e specialmente E. Betti con il canone della ‛corrispondenza di senso'. Pure, soltanto il deciso riconoscimento del concetto di precomprensione e del principio della effettualità storica (Wirkungsgeschichte), cioè il dispiegamento di una coscienza storico-effettuale (wirkungsgeschichtliches Bewusstsein), sembra offrire una sufficiente base metodica. Il concetto di canone nella teologia neotestamentaria vi trova, come caso speciale, la propria legittimazione. Anche l'importanza teologica del Vecchio Testamento è difficile da giustificare, se si tien fermo al canone della mens auctoris, come dimostrarono soprattutto i risultati grandemente positivi dell'opera di G. von Rado che supera le strettoie di questa prospettiva. Da un tale stato di cose è dipeso il fatto che le più recenti discussioni sull'ermeneutica hanno coinvolto anche la teologia cattolica (cfr. G. Stachel, Die neue Hermeneutik, 1967; E. Biser, Theologische Sprachtheorie und Hermeneutik, 1970; E. Coreth, Grundfragen der Hermeneutik, 1969). Nella teoria della letteratura si trova qualcosa di analogo sotto l'etichetta di ‛estetica della ricezione' (Rezeptionsästhetik, Jauss), anche se proprio in questo campo è divenuta manifesta la resistenza della filologia legata alla metodologia, la quale teme per l'obiettività della ricerca (cfr. R. Jauss, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft, 1970; E. D. Hirsch, Validity in interpretation, 1967; Th. Seebohm, Zur Kritik der hermeneutischen Vernunft, 1972).

Alla luce di questo problema la venerabile tradizione dell'ermeneutica ‛giuridica' recupera una nuova vita. All'interno della dogmatica giuridica moderna essa non poteva svolgere che un misero ruolo, per così dire quello di una macchia vergognosa, mai del tutto evitabile, su una dogmatica mirante a trovare in se stessa la propria completezza. Non è stato però possibile misconoscerne la natura: l'ermeneutica giuridica è una disciplina normativa esperta nella funzione dogmatica di integrazione del diritto. In quanto tale, essa conserva un compito per sua natura indispensabile, poiché deve gettare un ponte sull'ineliminabile iato tra la generalità della norma giuridica e la concretezza del caso singolo. Per questo già Aristotele (nell'Etica Nicomachea), discutendo del problema del diritto naturale e del concetto di aequitas (ἐπιείκεια), aveva delimitato, entro la teoria del diritto, lo spazio destinato all'ermeneutica. Anche rifacendosi alla sua storia (cfr. F. Walch, Prefazione alla Hermeneutica Juris di C. H. Eckard, 1779), è palese che il problema dell'interpretazione è inestricabilmente connesso con quello dell'applicazione. Alla scienza giuridica un tale duplice compito si pose in modo particolare a partire dalla ‛ricezione del diritto romano'. Bisognava allora, infatti, non soltanto comprendere i giuristi romani, ma, nello stesso tempo, applicare la dogmatica del diritto romano al mondo culturale dell'età moderna (cfr., tra gli altri, P. Koschaker, Europa und das römische Recht, 19583). Ne risultò, per la scienza giuridica, una connessione tra compito ermeneutico e compito dogmatico non meno stretta di quella che si era istituita in teologia. Una teoria dell'interpretazione del diritto romano non poteva costituirsi (occorrendo allo scopo una sufficiente estraniazione storica) fintantoché il diritto romano conservava effettivo valore di legge. Nell'interpretazione del diritto romano data da Thibaut (A. F. J. Thibaut, Theorie der logischen Auslegung des römischen Rechts, 1799, 18062, rist. 1967) si considerava come cosa ovvia il fatto che la teoria dell'interpretazione non possa appoggiarsi unicamente sull'intenzione del legislatore, ma debba elevare a proprio canone ermeneutico il ‛fondamento della legge'. Con l'avvento delle ‛codificazioni moderne', il classico compito primario dell'interpretazione del diritto romano poté perdere il suo interesse dogmatico nella sfera pratica per divenire un elemento dell'impostazione degli studi storico-giuridici. In quanto partecipe della storia del diritto, l'interpretazione del diritto romano poté allora associarsi senza riserve alla metodologia delle scienze storiche. Al contrario, l'ermeneutica giuridica, in quanto disciplina sussidiaria di una dogmatica giuridica di nuova specie, fu relegata al margine della giurisprudenza. Ma il capitale problema della ‛concretizzazione nel diritto' (v. Engisch, 1953) continua a sussistere, e il rapporto tra storia del diritto e scienza normativa è di gran lunga troppo complicato perché la storia del diritto possa sostituire l'ermeneutica. Per istruttiva che possa risultare - ermeneuticamente - l'illuminazione delle circostanze storiche e delle effettive riflessioni del legislatore prima o durante l'emanazione di un testo legislativo, la ratio legis non si risolve in ciò e continua a costituire, per ogni giurisdizione, ineliminabile istanza ermeneutica. Il problema ermeneutico rimane quindi di casa in ogni scienza del diritto, proprio come lo è per la teologia e il suo incessante compito di demitizzazione.

Occorre perciò chiedersi se la teologia e la teoria del diritto non possano fornire un contributo essenziale a un'ermeneutica ‛universale'. Per rispondere a questo interrogativo, non può certo esser sufficiente la problematica metodica immanente nella teologia, nella scienza giuridica e nelle scienze storico-filologiche. Si tratta, infatti, proprio di indicare i limiti della concezione che la conoscenza storica ha di se stessa e di restituire all'interpretazione dogmatica una sua limitata legittimità (v. Rothacker, 1954). A ciò si oppone naturalmente il concetto della mancanza di presupposti propria della scienza (cfr. E. Spranger, Über die Voraussetzungslosigkeit der Wissenschaft, in ‟Abhandlungen der Berliner Akademie der Wissenschaften", 1929; l'autore ha indicato l'origine di questa parola d'ordine nel clima del Kulturkampf dopo il 1870, naturalmente senza concepire il minimo sospetto circa la sua illimitata validità). Per queste ragioni la ricerca da me intrapresa in Wahrheit und Methode muoveva da una sfera d'esperienza che in un certo senso può essere chiamata sempre dogmatica, in quanto richiede il riconoscimento della sua pretesa di validità e non può essere tenuta in suspenso: l'esperienza dell'arte. Nel campo dell'arte, comprendere significa, in tutta l'ampiezza dell'espressione, ‛riconoscere' e ‛lasciare agire': ‟Comprendere (begreifen) ciò che ci afferra (ergrezft)" (Staiger). L'obiettività della scienza dell'arte o della scienza letteraria, che in quanto lavoro scientifico conservano pienamente il proprio valore, rimane però sempre, quando si fa esperienza dell'arte o della poesia, subordinata. Ora, nell'esperienza dell'arte non è affatto possibile separare l'applicatio dall'intellectio e dall'explicatio, fatto che, per la scienza dell'arte, non può restare senza conseguenze. La problematica di cui ci occupiamo è stata discussa per la prima volta da H. Sedlmayr nella sua distinzione di una prima e di una seconda scienza dell'arte (H. Sedlmayr, Kunst und Wahrheit, 1959). I molteplici metodi che sono stati elaborati dalla ricerca scientifica in campo artistico e letterario debbono, in ultima analisi, convalidare la propria fecondità sempre a questa stregua: per quanto grande sia l'ausilio prestato nell'illuminare e nel rendere adeguata l'esperienza dell'opera d'arte, essi abbisognano per ragioni interne dell'integrazione ermeneutica. Doveva dunque assumere importanza la struttura dell'applicazione, che ha il suo ereditario diritto di cittadinanza nell'ermeneutica giuridica. Certamente, il rinnovato accostamento del comprendere storico-giuridico e del comprendere dogmatico-giuridico non può cancellare le loro differenze, come è stato sottolineato specialmente da Betti e da Wieacker. Ma il senso dell'‛applicazione' (Applikation), che rappresenta un elemento costitutivo di ogni comprendere, non è quello di un'applicazione (Anwendung) posteriore ed esterna di qualcosa che è originariamente per sé. L'applicazione di mezzi per scopi predeterminati o l'applicazione di regole nel nostro comportamento non significa in generale che noi subordiniamo a uno scopo pratico un dato in sé autonomo, per esempio qualcosa che ci è noto in via ‛puramente teorica'. Al contrario, i mezzi e le regole sono in generale determinati, o addirittura astratti, a partire rispettivamente dagli scopi e dal comportamento. Già Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, ha analizzato la dialettica di legge e caso singolo, nella quale la concreta determinatezza si frantuma. Anche la struttura applicativa del comprendere (ove non faccia ricorso alla filosofia analitica) non comporta quindi alcuna limitazione della disponibilità ‛priva di presupposti' a comprendere ciò che il testo stesso dice, e neppure assolutamente significa estraniare il testo dalla sua intenzione significativa ‛autentica' e farlo servire a intenzioni precostituite: la riflessione svela semplicemente le condizioni, alle quali il comprendere sempre sottostà e che, in quanto costituenti la nostra ‛precomprensione', sono sempre ‛applicate' quando ci affatichiamo intorno all'enunciato di un testo. Con questo non si vuole assolutamente lasciare ulteriormente vegetare le scienze dello spirito (in quanto scienze imprecise) in tutta la loro deplorevole manchevolezza, fintantoché non possano essere elevate alla science e incorporate nell'unity of science. Al contrario un'ermeneutica ‛filosofica' arriverà al risultato che il comprendere è possibile solo quando colui che comprende mette in giuoco i suoi propri presupposti. Il contributo produttivo dell'interprete appartiene ineliminabilmente al senso del comprendere stesso. Ciò non legittima la privata arbitrarietà di prevenzioni soggettive, poiché ciò di cui sempre si tratta - il testo che si vuol comprendere - rimane l'unico metro valido. Anzi, la necessaria ineliminabile distanza delle epoche, delle culture, delle classi, delle razze - o anche delle persone - è essa stessa un momento sovrasoggettivo, che conferisce vita e tensione a ogni comprendere. Si può descrivere questa situazione anche dicendo che l'interprete e il testo posseggono ciascuno il proprio ‛orizzonte', e che ogni comprendere rappresenta una fusione di tali orizzonti. La problematica dell'ermeneutica si è dunque spostata, sia nella scienza neotestamentaria (anzitutto in E. Fuchs e G. Ebeling) sia, per esempio, nel literary criticism o anche nell'ulteriore elaborazione ‛filosofica' della posizione heideggeriana, dalla base soggettivo-psicologica in direzione del senso obiettivo, mediato dalla effettualità storica. Il dato fondamentale per la mediazione delle distanze cui si accennava è il ‛linguaggio', nel quale l'interprete (o il traduttore!) dà una nuova espressione linguistica a ciò che è stato compreso. I teologi come i poetologi parlano addirittura di evento linguistico. In un certo senso, l'ermeneutica s'avvicina, seguendo una propria strada, alla ‛filosofia analitica', derivante dalla critica neopositivistica alla metafisica. Da quando la filosofia analitica non si sforza più, analizzando i modi di dire e rendendo univoci tutti gli enunciati per mezzo di linguaggi simbolici artificiali, di dissolvere una volta per tutte ‛l'incantesimo del linguaggio', anch'essa non può più evitare di concentrarsi sul funzionamento della lingua nel ‛giuoco linguistico', come proprio le Philosophische Untersuchungen hanno mostrato. Apel ha sottolineato, a ragione, che naturalmente la continuità della tradizione è descrivibile, attraverso il concetto di giuoco linguistico, soltanto in modo discontinuo (K. O. Apel, Wittgenstein und das Problem des Verstehens, in ‟Zeitschrift für Theologie und Kirche", 1966, LXIII). Nella misura in cui l'ermeneutica, con la riflessione sulle condizioni del comprendere (precomprensione, carattere preliminare della domanda, storia motivazionale di ogni enunciato) supera l'ingenuità positivistica che si cela nel concetto di dato, essa rappresenta a un tempo una critica della mentalità metodologica positivistica. Fino a che punto essa segua in ciò lo schema di una teoria trascendentale (Apel) o piuttosto quello di una dialettica storica (Habermas) è cosa controversa (cfr. i contributi in ‟Hermeneutik und Dialektik" e recentemente Gadamer, Nachwort, in Wahrheit und Methode, 19723).

In ogni caso, l'ermeneutica possiede una tematica autonoma. Ad onta della propria universalità formale, ‛non' è possibile incorporarla legittimamente nella logica. In un certo senso, essa condivide con la logica l'universalità, e può anzi addirittura superarla sotto questo profilo. In verità, ogni nesso di enunciati può essere considerato nella sua struttura logica: è sempre possibile applicare a nessi di discorsi e di pensieri le regole della grammatica, della sintassi e infine le leggi consequenziali della logica. Accade però di rado che nessi siffatti soddisfino le esigenze rigorose della logica degli enunciati. Il discorso e il dialogo, infatti, non sono ‛enunciati' nel senso del giudizio logico, enunciati cioè la cui univocità e il cui significato siano verificabili e realizzabili da tutti, ma hanno i loro aspetti occasionali. Essi hanno luogo in un processo comunicativo, nel quale il monologo del discorso scientifico o la dimostrazione non costituiscono che un caso speciale. Il modo di manifestarsi proprio della lingua è il dialogo, e sia pure il dialogo dell'anima con se stessa, come Platone chiama il pensiero. L'ermeneutica pertanto, in quanto teoria del comprendere e dell'intesa, presenta un'estrema universalità. Essa comprende ogni enunciato non soltanto nella sua valenza logica, ma come risposta; e, poiché deve cogliere il senso dell'enunciato a partire dalla sua storia motivazionale, il comprendere deve necessariamente andare oltre il suo contenuto logicamente afferrabile. Un principio siffatto sta già al fondo della dialettica hegeliana dello spirito, ed è stato poi rinnovato da Croce, Collingwood e altri. The logic of question and answer è, nell'Autobiography di Collingwood, un capitolo estremamente degno di attenzione. Ma anche un'analisi puramente fenomenologica non può sottrarsi al fatto che non esistono né percezioni isolate né giudizi isolati. Questo fatto è stato fenomenologicamente fondato ed elaborato, sotto l'influsso del concetto esistenziale heideggeriano di mondo, dalla Hermeneutische Logik di H. Lipps, sulla base della teoria husserliana delle intenzionalità anonime. In Inghilterra Austin ha continuato in modo analogo la svolta operata dal secondo Wittgenstein. Come conseguenza di questo ritorno dal linguaggio della scienza al linguaggio della vita quotidiana, dalle scienze dell'esperienza all'esperienza del mondo della vita (Lebenswelt), è risultato che l'ermeneutica può riorientarsi, anziché verso la logica, verso la più antica tradizione della retorica, con la quale, come abbiamo mostrato sopra, era un tempo strettamente associata. Essa riprende in tal modo un filo che si era spezzato nel sec. XVIII. Allora, soprattutto G. B. Vico aveva difeso, contro le pretese monopolistiche della scienza ‛moderna', da lui chiamata ‛critica', l'antica tradizione retorica, ch'egli rappresentava come professore di retorica a Napoli. In particolare, egli sottolineò la sua importanza per l'educazione e per la formazione del sensus communis, e in effetti rientra nell'ambito dell'ermeneutica, come in quello della retorica, l'argomento ‛persuasivo', l'εἰκός. La tradizione della retorica, che in Germania, a dispetto di Herder, subì nel sec. XVIII una scomparsa particolarmente radicale, era rimasta nascostamente operante in campo estetico, come ha mostrato soprattutto K. Dockhorn (recensione di H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode, in ‟Göttingischer gelehrter Anzeiger", 1966, pp. 218 ss.). Di fronte alle pretese monopolistiche della logica matematica moderna e ai suoi ulteriori sviluppi, anche nella nostra epoca si preannunciano le resistenze della retorica e della razionalità forense, per esempio a opera di Ch. Perelman e della sua scuola (cfr. anche Philosophy, rhetoric and argumentation, a cura di M. Natanson e H. W. Johnstone jr., 1965).

A questo punto si dischiude al problema ermeneutico una dimensione ancora più vasta, connessa con la posizione centrale, che è stata assunta in campo ermeneutico dal linguaggio. Il linguaggio, infatti, non è soltanto un medium tra gli altri - all'interno del mondo delle forme simboliche (Cassirer) - ma sta in un rapporto particolare con la potenziale comunanza della ragione che, appunto, si attualizza comunicativamente nel linguaggio, come ha già sottolineato R. Hönigswald: il linguaggio non è soltanto ‛fatto' (Faktum), ma ‛principio'. Su ciò poggia l'universalità della dimensione ermeneutica. Una siffatta universalità s'incontra già nella teoria del significato di Agostino e di Tommaso, in quanto essi vedevano il significato dei segni (delle parole) soverchiato dal significato delle cose e quindi giustificavano l'andare al di là del sensus litteralis. Certamente, l'ermeneutica non potrà oggi puramente e semplicemente seguire una concezione del genere, né potrà intronizzare una nuova allegoresi, giacché, a tale scopo, bisognerebbe presupporre una lingua della creazione, per mezzo della quale Dio parli agli uomini. Non si può però eludere la considerazione che non soltanto il discorso e la scrittura, ma tutte le creazioni umane sono compenetrate di un ‛senso', che è compito dell'ermeneutica estrarre. A ciò Hegel ha dato espressione con la sua teoria dello ‛spirito oggettivo', e questa parte della sua filosofia dello spirito è rimasta vitale, indipendentemente dal complesso del suo sistema dialettico, (cfr. per es., la teoria dello spirito oggettivo di Nicolai Hartmann e l'idealismo di Croce e di Gentile). Non soltanto, per esempio, il linguaggio dell'arte richiede legittimamente di esser compreso, ma in generale ogni forma della creazione culturale dell'uomo. Anzi, il problema si amplia ancora di più. Ogni conoscenza umana del mondo è mediata linguisticamente. Infatti, che cosa non appartiene al nostro orientamento nel mondo (linguisticamente formulato)? Un primo orientamento nel mondo si compie già nell'apprendimento della lingua. Non solo; la linguisticità del nostro ‛essere-nel mondo' articola in fin dei conti l'intero campo dell'esperienza. La logica dell'induzione, che Aristotele descrive e che Bacone innalzò a fondamento delle nuove scienze dell'esperienza (Aristotele, Secondi analitici, II, 19), può anche, come teoria logica, risultare insoddisfacente e abbisognare di correzioni (cfr. K. R. Popper, Logik der Forschung, 19662): in essa però emergeva in modo evidentissimo la concreta prossimità all'articolazione linguistica del mondo. Già Temistio, nel suo commentario, ha illustrato il relativo capitolo dei Secondi analitici (II, 19) per mezzo dell'apprendimento del linguaggio. Ciò vale anche in un senso assai più ampio: ogni esperienza si compie nella continuamente progrediente elaborazione comunicativa della nostra conoscenza del mondo. Essa è sempre, in un senso molto più profondo e generale di quanto intendesse A. Boeck con la sua formula del lavoro filologico, riconoscimento del conosciuto (Erkenntnis von Erkannten). La tradizione in cui viviamo, infatti, non è una cosiddetta tradizione culturale, che consisterebbe unicamente in testi e monumenti, e medierebbe un senso linguisticamente concepito e storicamente documentato. La verità è piuttosto che il mondo stesso esperito comunicativamente ci viene continuamente tramandato (traditur), e come una totalità aperta. In null'altro che in ciò consiste l'esperienza; essa è in sé ‛ermeneutica'. Lo sforzo ermeneutico ha successo oguiqualvolta il mondo viene esperito e una mancanza di dimestichezza superata, ogniqualvolta ha luogo una dilucidazione, una penetrazione, un'appropriazione; e in ultima analisi il più nobile compito dell'ermeneutica, come teoria filosofica, sta nel mostrare che soltanto l'integrazione di tutta la conoscenza della scienza nel sapere personale del singolo può chiamarsi ‛esperienza'.

La dimensione ermeneutica coinvolge così in modo particolare il lavoro del ‛concetto filosofico', lavoro che si estende attraverso i secoli. In quanto trasmissione dell'esperienza pensante, esso deve essere inteso come un unico grande dialogo, al quale ogni epoca partecipa senza poterlo guardare dall'alto né dominarlo criticamente. Questa era stata la debolezza della storia dei problemi (Problemgeschichte), il credere cioè di poter leggere la storia della filosofia unicamente come conferma della propria visione dei problemi, anziché considerarla come una controparte critica, che delimita la nostra propria visione. A tal proposito è ovviamente opportuno far intervenire la riflessione ermeneutica. Essa ci insegna che il linguaggio della filosofia presenta sempre alcunché di inadeguato e che, nella sua intenzione, esso persegue più di quanto esprima a parole nelle sue enunciazioni. Le parole-concetti, infatti, che in esso vengono trasmesse e ricevono la propria impronta, non sono contrassegni e segnali stabili, per mezzo dei quali venga indicato qualcosa di univoco, ma scaturiscono dal movimento comunicativo dell'umana interpretazione del mondo, quale ha luogo nella lingua; da tale movimento vengono sospinte e trasformate, si arricchiscono, entrano in nuovi nessi che ricoprono i vecchi, decadono a un'esistenza in parte vuota di pensiero, e nuovamente riacquistano vita in un pensiero problematico. Alla base di tutto il lavoro filosofico del concetto sta quindi una dimensione ermeneutica, che viene oggi designata, con un termine un po' impreciso, ‛storia dei concetti' (Begriffsgeschichte). Non si tratta di una ricerca di carattere secondario, nella quale, anziché parlare delle cose, si parlerebbe dei mezzi che intervengono nell'intesa: essa costituisce invece un elemento critico nell'uso dei nostri stessi concetti. Il furor del profano, che esige definizioni arbitrarie e univoche, come anche la smania di univocità di una unilaterale teoria semantica della conoscenza, misconoscono sia la natura del linguaggio sia il fatto che il linguaggio del concetto non può essere oggetto di escogitazione né può essere mutato, adoperato o messo da parte arbitrariamente: esso discende invece dall'elemento nel quale ci muoviamo con il pensiero. Ciò che incontriamo nella forma artificiale della terminologia è soltanto la crosta indurita di questo flusso vivente di pensiero e di linguaggio. Ma anche la terminologia è sospinta e trascinata dal processo comunicativo, che noi realizziamo parlando e nel quale si costruisce la comprensione e l'accordo (cfr. Gadamer, Die Begriffsgeschichte und die Sprache der Philosophie, Arbeitsgemeinschaft für Forschung des Landes Nordrhein Westfalen, Heft 170, 1971). Questo è il punto di convergenza tra lo sviluppo della filosofia analitica in Inghilterra e l'ermeneutica. Tuttavia il loro parallelismo rimane limitato. Come nel sec. XIX Dilthey accusava l'empirismo inglese di mancare di cultura e sensibilità storica, così l'ermeneutica storicamente fondata avanza la pretesa critica non tanto di rendere dominabili le modalità del parlare nella loro struttura logica, secondo quello che è all'incirca l'ideale della filosofia analitica, quanto piuttosto di rendere possibile l'appropriazione dei contenuti linguisticamente mediati con il loro intero sedimento di esperienza storica.

Il problema ermeneutico è andato poi incontro a una nuova radicalizzazione polemica nel campo della logica delle scienze sociali. Anche quando si riconosce che la dimensione ermeneutica, stando alla base di ogni esperienza del mondo, svolge perciò un ruolo anche nel lavoro delle scienze naturali - come ha mostrato specialmente Th. Kuhn (The structure of scientific revolutions, Chicago-London 19702) - bisogna poi però ammettere che l'oggetto stesso delle scienze sociali (e non soltanto la loro elaborazione teorica) è dominato dalla dimensione ermeneutica, in quanto la società ha sempre un'esistenza esplicantesi linguisticamente (cfr. Ch. Taylor, Interpretation of the sciences of man, in ‟The review of metaphysics", 1971, XXV, pp. 3-51). Con la critica ermeneutica dell'ingenuo oggettivismo delle scienze dello spirito concorda anche la critica dell'ideologia di ispirazione marxista (J. Habermas, Zur Logik der Sozialwissenschaften, Beiheft della ‟Philosophische Rundschau", 1967; Hermeneutik und Ideologiekritik, 1971; cfr. anche la violenta polemica di H. Albert, Konstruktion und Kritik, 1972). Naturalmente, la critica dell'ideologia contesta come ‛idealistica' la pretesa di universalità dell'ermeneutica e, per legittimare la pretesa critico-sociale di un'ermeneutica rettamente intesa, offre il modello della psicanalisi: il discorso razionale e libero da costrizioni deve ‛guarire' la falsa coscienza sociale così come il dialogo psicoterapeutico riconduce il malato alla comunità dei dialoganti. In realtà, la guarigione per mezzo del dialogo è un rilevante fenomeno ermeneutico, del quale soprattutto P. Ricoeur e J. Lacan hanno nuovamente discusso le basi teoriche (P. Ricoeur, De l'interprétation. Essai sur Freud, 1965; Le conflit des interprétations, 1969; J. Lacan, Écrits, 1969). La portata dell'analogia tra malattie mentali e malattie della società è però dubbia (cfr. Hermeneutik und Ideologiekritik, a cura di J. Habermas). La situazione dello scienziato sociale dinanzi alla società, infatti, non è comparabile a quella dello psicanalista di fronte al suo paziente. Una critica dell'ideologia che voglia essa stessa tenersi fuori di ogni compromissione ideologica è non meno dogmatica di una scienza sociale che si spacci per una tecnica sociale. Secondo l'ermeneutica, invece, ogni sforzo di comprensione tende in linea di principio a una possibilità di accordo e, in verità, deve essere sorretto da un accordo vincolante, se mai si deve riuscire a intendersi. Questo non è affatto un assunto dogmatico, ma una semplice descrizione fenomenologica. Perciò anche la critica dell'ideologia deve necessariamente introdurre l'ultima istanza del discorso razionale, che deve rendere possibile intendersi in modo non costrittivo, e lo stesso procedimento della psicanalisi ne dà conferma. La riuscita del dialogo terapeutico psicanalitico non si fonda soltanto sul lavoro spontaneo di riflessione del paziente che riesce a rimuovere con l'aiuto del medico - mediante la talking cure - i suoi blocchi: lo scopo definito è quello di riconquistare la sua capacità naturale di comunicazione e cioè ritornare a quell'accordo di fondo che rende possibile il parlarsi l'uno con l'altro.

C'è qui una differenza che non è possibile ignorare. La critica dell'ideologia pretende di essere riflessione emancipatrice e, analogamente, il dialogo terapeutico pretende di comprendere e risolvere i mascheramenti dell'inconscio; tutti e due presuppongono un sapere e credono di essere scientificamente fondati. La riflessione ermeneutica come tale non compie invece nessuna assunzione contenutistica preliminare del genere; così pure non pretende di sapere che i rapporti sociali rendono possibili soltanto comunicazioni deformate il che implica il credersi in possesso di quelle corrette - né si sente di operare come un terapeuta che porta a buon fine il processo di riflessione del paziente avvalendosi di una visione superiore dello stato delle cose. Tanto nella critica dell'ideologia quanto nella psicanalisi l'‛interpretazione' è guidata da un sapere preliminare muovendo dal quale opera la dissoluzione delle opinioni preconcette e dei pregiudizi. Al contrario, l'esperienza ermeneutica considera con scetticismo la pretesa di un qualsiasi sapere preliminare. Il concetto di ‛precomprensione' (Bultmann) significa proprio che i nostri pregiudizi vengono messi in giuoco nel processo di comprensione. Concetti come quelli di rischiaramento, di emancipazione, di discorso libero da costrizione si rivelano nella concretezza dell'esperienza ermeneutica come povere astrazioni. L'esperienza ermeneutica sa bene quanto profondamente possono essere radicati i pregiudizi e quanto poco un primo farne prender coscienza sia già sufficiente a dissolverne la forza. E questo ben sapeva uno dei padri dell'illuminismo moderno, Cartesio, quando cercava di legittimare, com'è noto, attraverso ‛meditazioni' il suo nuovo concetto di metodo. Inoltre proprio in Cartesio viene in luce quello che vale per la maggior parte dei contributi della filosofia e della scienza e cioè che essi devono necessariamente valersi anche dei mezzi della retorica. L'intera storia del pensiero conferma l'antica vicinanza tra retorica ed ermeneutica. Ma l'ermeneutica contiene un elemento che per principio va al di là della retorica. L'esperienza ermeneutica istituisce un confronto con le opinioni altrui. I testi da comprendere, come pure tutte le creazioni culturali di altro genere, per essere comprese, devono sviluppare al tempo stesso una forza di persuasione. L'ermeneutica è un elemento della filosofia proprio in quanto non può venir limitata alla tecnica della comprensione dell'opinione altrui. La riflessione ermeneutica mette piuttosto in luce che in ogni comprendere si compie un'autocritica. L'esperienza ermeneutica non si fonda su una posizione superiore, ma indica il fatto che la verità possibile viene messa alla prova. Questo è implicito in ogni comprendere come tale e in tal modo il comprendere contribuisce a formare la coscienza storico-effettuale.

Il modello di quest'esperienza è il dialogo. Un dialogo, com'è noto, non è possibile se uno dei partners crede di trovarsi senz'altro in una posizione superiore a quella dell'altro in quanto possiede un sapere preliminare circa i pregiudizi di cui l'altro sarebbe prigioniero. Egli stesso si chiude così nei propri pregiudizi. Una comunicazione dialogica è però impossibile anche nel caso che uno dei dialoganti non si impegni veramente nel dialogo. Un caso del genere si ha quando un'osservazione di tipo psicanalitico nel campo sociale non prende sul serio gli enunciati altrui, ma crede di potersi collocare alle spalle dell'interlocutore attraverso l'interpretazione. Questo problema è stato fatto oggetto di una discussione sistematica soprattutto da parte di P. Ricoeur. Nella sua dottrina riguardo al conflitto delle interpretazioni Ricoeur contrappone a Marx, a Nietzsche e a Freud l'intenzionalita ‟fenomenologica" della comprensione dei simboli. Ricoeur cerca una mediazione dialettica in quanto presenta da una parte la derivazione genetica (‛archeologia') e dall'altra l'orientamento verso un orizzonte di senso (‛teleologia') come due modi diversi, ma entrambi legittimi, di comprendere i simboli, pur limitandosi ai simboli religiosi. Questo è certamente anche ai suoi stessi occhi soltanto un lavoro preliminare per una ermeneutica ‛universale'. Una tale ermeneutica dovrebbe chiarire la funzione costitutiva universale del comprendere e dell'intendersi con l'aiuto di ‛simboli' - e specialmente dell'intendersi con il linguaggio - per l'esistenza della società in generale.

L'universalità dell'ermeneutica dipende dall'alternativa seguente: se cioè il carattere teoretico, trascendentale dell'ermeneutica, sia limitato al suo valore nell'ambito scientifico, o se invece esso valga anche per quanto riguarda i principî del sensus communis e quindi il modo onde ogni uso della scienza viene integrato nella coscienza pratica. L'ermeneutica, intesa nella sua universalità, si sposta così in prossimità della filosofia pratica, la cui resurrezione in seno alla tradizione della filosofia trascendentale tedesca è cominciata con i lavori di Ritter e della sua scuola. L'ermeneutica filosofica è di ciò ben consapevole (cfr. J. Ritter, Metaphysik und Politik, 1969 e M. Riedel, Zur Rehabilitierung der praktischen Philosophie, 1972). Una teoria della prassi è evidentemente teoria e non prassi; una teoria della prassi non è, però, una ‛tecnica' o una scientificizzazione della prassi sociale: essa è una riflessione filosofica sui limiti posti a ogni dominio scientifico-tecnico della natura e della società. Sono verità, queste, la cui difesa - dinanzi al concetto di scienza dell'età moderna - è uno dei più importanti compiti di un'ermeneutica filosofica (cfr. Gadamer, Theorie, Technik und Praxis, in Neue Anthropologie, vol. I, 1972).

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