ENRICO IV imperatore

Enciclopedia Italiana (1932)

ENRICO IV imperatore

Giovanni Soranzo

Nacque da Enrico III e da Agnese di Poitiers l'11 novembre 1050; fu designato re di Germania a Treviri nel 1053 e incoronato ad Aquisgrana il 17 luglio 1054. Successe al padre, nell'ottobre 1056, sotto la reggenza della madre. Debole donna, ella lasciò rientrare in Italia l'audace duca di Lorena, Goffredo; in Germania patteggiò a caro prezzo la devozione dei grandi, menomando così il retaggio della corona; affidò col ducato di Svevia il governo dell'Impero al suo favorito, il borgognone Rodolfo di Rheinfelden, dandogli in moglie la sorella Matilde. Contro il suo governo, ritenuto dannoso allora, da Annone arcivescovo di Colonia, una congiura; le fu rapito il piccolo Enrico e, portato a Colonia, lì fu educato. Agnese, abbandonata da tutti, andò a cercare conforto nel monastero di Fruttuaria in Piemonte. Annone insieme con Adalberto, arcivescovo di Brema, assunse il governo dello stato in nome del giovane principe. Nel 1065 E. uscì di minorità; ma, temperamento indocile, crebbe spregiudicato e di costumi scorretti. A fatica s'indusse nel 1066 a sposare Berta, figlia di Ottone conte di Savoia; ma non fu un buon marito; anzi nel 1069 tentò pratiche di divorzio, che dovette abbandonare, quando S. Pier Damiani lo ammonì a nome del papa che gli sarebbe stata negata l'incoronazione imperiale. Nel 1069, assunta la personale direzione dei pubblici affari, volse tutti i suoi sforzi alla restaurazione dei diritti della corona e si trovò a dover lottare contro i Sassoni, contro Rodolfo duca di Svevia, Bertoldo duca di Carinzia e Ottone duca di Baviera, lotta a quando a quando rotta da tregua, ma durata parecchi anni. Ci fu un momento in cui egli ebbe contro di sé un rivale, eletto pure re di Germania, e parve perduto.

A dar esca a tante ostilità, concorse anche il veemente contrasto che Enrico ebbe con la Santa Sede. Già i suoi consiglieri, accusati di aver favorito gli abusi del nicolaismo e della simonia, erano stati dal papa colpiti di scomunica. Ora, Enrico fu invitato ad allontanarli da sé e, poco appresso, citato dal tribunale della Curia romana, per rispondere anch'egli a gravi accuse. Per sua fortuna morì proprio allora papa Alessandro II e il successore Gregorio VII (22 aprile 1073) si mostrò animato dai più benevoli riguardi verso il re; Enrico stesso, anche perché impensierito della rivolta della Sassonia, si mostrò subito desideroso di conciliazione; ma la S. Sede come prezzo chiedeva la riforma morale della Chiesa, che il re avrebbe dovuto aiutare, mentre in Germania essa era gravemente ostacolata. Così quando Gregorio, intorno alla Pasqua del 1074, mandò suoi legati a convocare un concilio in Germania e promulgarvi i canoni del precedente sinodo di Roma, questo concilio non si poté tenere, per l'opposizione di Sigfrido e di Litmam arcivescovi di Magonza e di Brema, che, come metropoliti della Chiesa tedesca, accampavano il diritto di discutere in precedenza sulla convocazione o no del concilio. Il re mostrò di appoggiare i legati, ma costoro dovettero tornarsene senza aver eseguito il loro mandato. Un successivo concilio romano (22-28 febbraio 1075) calcò ancor più la mano sui vescovi simoniaci e concubinarî e, sotto l'evidente impulso di Gregorio VII, promulgò il famoso decreto, che interdiceva agli ecclesiastici di ricevere da mano laicale il governo d'una chiesa o d'un'abbazia. Enrico IV, che aveva, come i predecessori, fatto largo uso di questa investitura con vescovi e abati dell'Impero, e anche senza vera opposizione della S. Sede, non si sentì disposto a rinunciare a questa potente arma di governo, tanto più che ora, umiliati i Sassoni a Hohenburg (9 giugno 1075), si sentiva sicuro sul trono. Continuò perciò a disporre a suo talento dei vescovadi vacanti e non vacanti: a Milano, a Fermo, a Spoleto, a Bamberga. Richiamato dal papa e ammonito l'8 dicembre 1075, E. risponde convocando il 24 gennaio 1076 a Worms i vescovi e principi di Germania e facendo dichiarare Gregorio "falso monaco e non papa". Convocata a Piacenza una dieta, a cui invitò i vescovi dell'Italia settentrionale osò mandare un messo a Roma per far la stessa dichiarazione e invitare i prelati, riuniti in concilio, a recarsi in Germania a ricevere dal re un nuovo papa. Gran tumulto si levò nell'assemblea contro il messo, solo calmato dall'intervento del papa.

Il concilio romano allora incoraggiò Gregorio VII sulla via delle più energiche sanzioni: fu stabilito che al re fosse interdetto il governo del regno di Germania e d'Italia e i sudditi fossero sciolti dal giuramento di fedeltà, qualora entro un anno egli non si fosse fatto assolvere dalla scomunica, che in pari tempo veniva comminata ai suoi consiglieri laici ed ecclesiastici. Enrico apprese questa dura sentenza a Utrecht, il sabato santo 26 marzo 1076, e trovò nel vescovo di quella città il docile prelato che nel pontificale del giorno seguente pronunciava l'anatema contro il papa, accompagnando la sentenza con una fiera invettiva contro Gregorio, "spergiuro, adultero e falso apostolo"; indirizzò poi al papa una lettera d'inaudita violenza, affermando i diritti della regia corona di fronte a quelle che per lui erano usurpazioni della S. Sede. Ma nel frattempo parecchi vescovi si sottraevano alla sua devozione e i Sassoni si mettevano di nuovo in rivolta; alla dieta da lui convocata a Worms, nel giugno seguente, pochissimi vescovi e grandi laici intervennero. E. non accennò a mutare rotta; solo quando i principi di Germania, riuniti a Treviri, discussero su di una eventuale successione al trono di Germania, capì che gli conveniva di riconciliarsi col pontefice e accettò il consiglio d'invitare il papa in Germania, perché presiedesse un'assemblea che in Augusta il 2 febbraio avrebbe dovuto decidere in merito. Gregorio VII accettò l'invito e l'8 gennaio 1077 si trovò a Mantova; in pari tempo una scorta di soldati tedeschi doveva giungere alle Chiuse, per accompagnarlo in Baviera; ma la scorta non venne e Gregorio, temendo un agguato, non proseguì. Rispose ciò a un disegno di E., che cercava d'evitare il giudizio d'Augusta? Sta il fatto che il re, in tutta segretezza, lascia la Germania e per Besançon, Ginevra, Val di Susa, Torino, Pavia, Piacenza, si dirige verso il castello di Canossa, dove nel frattempo il papa si era ritirato, ospite della contessa Matilde. Arrivò dinanzi a quelle mura il 25 gennaio con pochi compagni e chiese di esser ammesso davanti al pontefice: "Tre giorni egli stette innanzi alla porta del castello, senz'alcuna regia insegna, a piedi scalzi, in veste di penitente, non cessando d'implorare la nostra misericordia con tale passione e pianto che ne furono commossi quanti lo videro o lo seppero. Costoro tutti si fecero a intercedere per lui con molte preghiere e lacrime, meravigliandosi dell'insolita durezza dei nostri intendimenti, dicendo non esser in noi l'austerità del rigore apostolico, ma quasi la crudeltà di tirannica fierezza. Finalmente per la fermezza della compunzione di lui e per le grandi suppliche di coloro che ivi erano, sciolto il vincolo dell'anatema, lui accogliemmo nella grazia della Comunione e nel seno della Santa Madre Chiesa, previe certe assicurazioni lasciate in iscritto, delle quali si fecero garanti l'abate di Cluny, le nostre figlie Matilde e contessa Adelaide e gli altri principi, vescovi e laici, che ci parvero opportune". Questo, quasi presentendo l'accusa di aver fatto una riconciliazione separata e troppo facilmente perdonato, Gregorio VII stesso scrisse il giorno seguente (28 gennaio 1077) ai prelati e signori del regno di Germania e d'Italia e allegò la copia delle assicurazioni date dal re con le firme dei garanti. Queste assicurazioni non ci sono note nel testo originale: ma per altra via consta essersi il re impegnato di rimettersi in ogni caso alla sentenza che, con l'intervento dello stesso pontefice, avrebbe data l'assemblea di Augusta di prossima convocazione: intanto, poiché egli non era reintegrato di fatto come sovrano, né i sudditi obbligati a obbedirlo, il re non avrebbe nulla innovato per conto suo; avrebbe poi provveduto che il papa non avesse molestie e violenze nel suo viaggio verso la Germania. L'impressione nella cristianità per questo avvenimento fu immensa; il Papato sembrò trionfare nelle sue concezioni di spirituale e universale dominio. Tuttavia l'assoluzione del re non trovò consenso fra i principi di Germania: riunitisi a Ulma e successivamente a Forehheim, deliberarono, presenti due legati pontifici che invano chiesero una dilazione sino alla venuta del papa, la deposizione di E. e l'elezione a re di Germania di Rodolfo, duca di Svevia. E. si appellò a Roma; dal canto suo il re neo-eletto si disse pronto a stare agli ordini della S. Sede; Gregorio VII dichiarò che avrebbe risolto la controversia in una prossima dieta di Germania. Ma né E. né Rodolfo si diedero premura di garantire la sicurezza personale del pontefice durante il viaggio: per cui, deluso, Gregorio se ne tornò a Roma. Allora E., fallita una soluzione pacifica del conflitto, raccolse le milizie dei fedeli, affrontò l'avversario, lo vinse a Melrichstadt (7 agosto 1078) e più gravemente a Flarehheim il 28 gennaio 1080; non poté tuttavia debellarlo, anche perché i legati pontifici e altri personaggi s'interposero per un accordo e perché, sotto l'accusa di aver impedito l'assemblea che avrebbe dovuto esaminare la causa secondo giustizia, E. fu nel concilio romano (7 marzo 1080) nuovamente scomunicato e dichiarato decaduto dalla sovranità; in sua vece Rodolfo di Svevia era riconosciuto re.

Il Papato e l'Impero ritornavano così ai ferri corti. Da concilî tenuti successivamente a Bamberga (12 aprile 1080), a Magonza (31 maggio) e a Bressanone (25 giugno) E. fece sentenziare deposto dalla dignità pontificale Gregorio VII, quale eretico e come "esecrando perturbatore delle leggi divine e umane", e fece dare a lui per successore Guiberto, lo scomunicato arcivescovo di Ravenna, che si chiamò Clemente III, senza riguardo alcuno al decreto di Niccolò II, che regolava altrimenti l'elezione del papa. Reduce da Bressanone, E. riprese la guerra contro il rivale e lo vinse a Merseburg sull'Elster 115 ottobre 1080); Rodolfo morì in battaglia. I partigiani di E. proclamarono questa vittoria come un giudizio di Dio contro la recente sentenza del concilio romano. Enrico poté così pensare ai molteplici interessi dell'Impero in Italia: assicurato il confine orientale da possibili attacchi degli Ungari, con l'investitura della marca austriaca al duca di Boemia Vratislao, alla fine di marzo del 1081 scese con poche truppe in Italia, e a Pavia, dove entrò quasi senza opposizione, cinse la corona ferrea. Le difficoltà cominciarono dopo. Nella sua marcia su Roma, trovò resistenze nelle ben munite rocche della contessa Matilde di Canossa nell'Appennino tosco-emiliano. Anche a Firenze incontrò opposizione tenace. E solo il 21 maggio poté porre il campo presso Roma. Egli si attendeva che il popolo gli aprisse le porte e gli consegnasse il pontefice; ma così non fu. Per ciò, dopo vani tentativi, si ritirò deluso in Lombardia. Approfittarono di questo scacco i principi tedeschi, per eleggere, al posto di Rodolfo, un nuovo re di Germania. L'eletto fu il conte Ermanno di Lussemburgo, che combatté e vinse a Hochstadt Federico di Svevia, luogotenente di Enrico in Germania (11 agosto 1081); ma gli venne meno l'occupazione di Augusta, gli mancò la collaborazione di principi tedeschi su cui contava ed ebbe solo il magro conforto di farsi incoronare il 20 dicembre seguente a Goslar. Enrico non rientrò neppure in Germania; anzi riprese le ostilità in Italia e nel marzo del 1082 fu di nuovo a campo presso Roma. Ma neppur questa volta i Romani furono con lui. Temendo poco dopo che il rivale di Germania, sollecitato dal papa, scendesse in Italia, E. tornò in Lombardia rinunciando a una progettata spedizione nel Mezzogiorno. Tornò contro Roma al principio del 1083, dopo aver conchiuso alleanza con l'imperatore greco Alessio Comneno contro il Guiscardo, comune nemico, per impedire che questo movesse in soccorso del papa. Il 2 giugno 1083, mentre Gregorio riparava in Castel S. Angelo, E. occupava la Città Leonina, e poco dopo, il 21 marzo, faceva consacrare l'antipapa Clemente III, da cui riceveva la corona imperiale (31 marzo). Gregorio VII resistette, finché venne a liberarlo Roberto il Guiscardo; ma l'occupazione normanna della città portò seco gravissime violenze e devastazioni. Enrico era uscito da Roma tre giorni prima, diretto in Germania.

Qui, la nazione era in grande turbamento: gli orrori della guerra civile esasperavano i sudditi. Diffidando dei vescovi e dei conti, che cambiavano partito con le circostanze, E. pensò di appoggiarsi ai borghesi delle città, avversi ai conflitti religiosi e politici, e fece appello ai sentimenti della nazione tedesca, mentre il suo avversario cercava aiuti tra i fedeli di Roma, pur avendo con sé anche i Sassoni, i Bavaresi, gli Svevi. A impedire che egli trovasse un alleato anche in Vratislao duca di Boemia, E. largheggiò con costui, proclamandolo nella dieta di Magonza (aprile 1086) re di Polonia: atto gravido di conseguenze. Ciò nonostante, l'esercito imperiale l'11 agosto fu battuto a Bleichfeld; non migliore sorte ebbe E. l'anno dopo: ché, nel soccorrere il suo luogotenente Federico di Hohenstaufen, fu sconfitto presso Würzburg; un compromesso tentato a Spira il 1° agosto 1087 fallì. Tuttavia la sua situazione migliorò: scomparvero l'un dopo l'altro i suoi più temibili avversarî, Burcardo, vescovo di Halberstadt, Ermanno di Lussemburgo, l'antiré, ed Erberto, margravio di Misnia (Meissen, 1088-1090). Anche in Italia, la causa di E. si risollevò con la morte di Gregorio VII, con l'elezione di Vittore III, papa mite e non inviso a Enrico, e con la fine di Roberto il Guiscardo, che lasciò due figli a contendersi il suo retaggio. Solo la contessa Matilde tenne testa al re di Germania. Il cielo d'Italia tornò a intorbidarsi con l'elezione di Urbano II, papa di grande energia e di schiette tendenze gregoriane. Questi caldeggiò il matrimonio di Matilde di Canossa con Guelfo di Baviera, che tanto spiacque a Enrico, per i legami che si venivano a porre fra la Germania meridionale e l'Italia settentrionale e centrale.

Di fronte a questo stato di cose, per molteplici aspetti preoccupante, E., libero dalla pressione avversaria in Germania, verso la fine del 1090 scese di nuovo in Italia per la via dell'Adige; largì, per sgretolare il dominio matildino, immunità e autonomie a quelle città e borgate. Mantova però gli resistette undici mesi; tennero fermo Piadena e Nogara e varie rocche canusine del Modenese e del Reggiano, come Montebello e Canossa. Qui, anzi, fu sconfitto e costretto a battere in ritirata, mentre le città della Lombardia, già iniziate al libero comune, cacciavano, tra grande entusiasmo, i rappresentanti imperiali e si univano tra loro. A queste iatture di E. altre, anche più amare, se ne aggiunsero: nella Pasqua del 1093 il figlio Corrado, già designato re di Germania, gli si ribella sotto il presunto assillo dei rimorsi di coscienza; minacciato di cattura, ripara presso la contessa Matilde. L'anno dopo è accolta a Canossa, fierissima accusatrice di E., anche Prassede, la principessa russa, sua seconda moglie dal 1088, poi ripudiata e perseguitata sotto gravi imputazioni. Maturato poi il grandioso movimento per la crociata, promosso dallo stesso Urbano II (anno 1095), E. è lasciato in disparte; nessuno si rivolge a lui; nessuno lo interpella: molti dei suoi seguaci, tra cui Goffredo di Buglione, partono senza consultarlo per la Terra Santa. Egli rimane inattivo nell'alta Italia, col timore che l'esercito crociato marci contro di lui. Non gli giova neppure la riconciliazione con i due Guelfi, il duca di Baviera e suo figlio, lo sposo di Matilde, ambedue irritati contro di lei per il suo rifiuto di revocare a loro favore il testamento, che istituiva erede universale dei dominî matildini la Chiesa Romana. L'antipapa di E., abbandonato da tutti, si era ritirato in Argenta sua terra.

Nel 1097, l'imperatore lasciò l'Italia, dov'era rimasto sette anni senza onore, e rientrò in Germania a tentare nuove fortune. Sua prima cura fu di far decretare la decadenza del figlio ribelle Corrado dalla successione al trono e conferire questa al secondogenito Enrico. Ma invano si sforzò di far pace con signori e vescovi. Per riconciliarsi col papa, s'indusse, alla morte dell'antipapa, nel settembre del 1100, a convocare una dieta a Magonza e manifestò anche il proposito di recarsi a tal uopo a Roma. Ma poi mutò avviso; forse la morte di Corrado, il figlio ribelle, avvenuta a Firenze il 27 luglio 1102, gli risvegliò speranze di vittoria. A disilluderlo, sopravvenne poco dopo la defezione del secondogenito, che a Fritzlar, il 12 dicembre 1104, abbandonò improvvisamente il campo imperiale, adducendo il dolore che le condanne della Chiesa gli recavano: in realtà, ambizioso com'era, si schierava con i malcontenti contro il governo di suo padre. Tra i due si venne a guerra aperta; ma un giorno mentre pendevano trattative d'un accordo, il giovane ribelle sorprese suo padre, che era in viaggio con piccola scorta verso Magonza, lo catturò e con la violenza gli strappò la rinuncia alla dignità imperiale. L'umiliazione inflitta al vecchio sovrano suscitò una larga reazione in suo favore, così tra le masse popolari come tra i signori e i vassalli dell'Impero. Liberato, egli si recò a Liegi, presso quel vescovo a lui fedele, e là, per lettere, denunciò ai principi della cristianità le violenze patite, fece annullare la sua abdicazione e, appena poté, marciò contro il figlio. Un grande combattimento stava per impegnarsi presso Visé (circond. di Liegi), quando, per breve malattia, l'imperatore decedette (7 agosto 1106), dopo aver chiesto e ottenuto i sacramenti della Chiesa. Ma solo cinque anni dopo, quando la scomunica fu dal papa revocata, la sua salma poté avere cristiana sepoltura nella cattedrale di Spira.

E. rappresenta nella storia dell'Impero e della Chiesa tedesca una pagina ben distinta, non solo per gli avvenimenti clamorosi del suo regno e per la tenacia e vigoria di cui diè prova, ma anche e più per il carattere della lotta impegnata con la S. Sede. Nella condotta della chiesa romana, egli vide compromesse le prerogative e la dignità della corona regia, messa n pericolo la libertà della chiesa tedesca, minato lo spirito nazionale della Germania. Per rivendicare e sostenere tutto ciò E. passò sopra anche agli scrupoli della sua coscienza di credente: non s'avvide che assai più la libertà della Chiesa era minacciata dall'ingerenza della corona; che l'alto clero aveva bisogno d'una profonda e radicale correzione; che questa correzione veniva, in verità, solo da Roma. Fallì nei propositi di rivendicazione dei diritti e del prestigio dell'Impero in Germania e in Italia; ma capì il grande valore che aveva l'elevazione delle masse popolari e il grande appoggio che la monarchia poteva ritrarre da esse.

Fonti: Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, V-VI (Bertoldo di Reichenau, Chronicon; Ekkehardo de Aura, Chronicon; Brunone, De bello Saxonico), Hannover-Berlino 1825-32; ibidem, Libelli de lite pontificum et imperatorum saeculis XI et XII conscripti, tomo I-II; Anonimo, Vita Heinrici IV, edita da W. Wattenbach, Hannover 1876; Annales Ecclesiastici, XVII-XVIII (ediz. di Lucca 1747), ad annum.

Bibl.: G. Meyer von Knonau, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Heinrich IV, ecc., VII, Lipsia 1907, pp. 61-62; K. Lamprecht, Deutsche Geschichte, II, pp. 311-366, Berlino 1891 segg.; A. Dahlmann, Der Sieg Heinrichs IV in Canossa, Lipsia 1907; F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, Parigi 1907, 2 voll.; K. Hampe, Deutsche Kaisergeschichte im Zeitalter der Salier und Staufer, 6ª ed., Berlino 1929; A. Hauck, Kirchengesch. Deuschlands, III, n. ed., Lipsia 1920; A. Fliche, La réforme Grégorienne, II, Lovanio-Parigi 1925; A. Brachmann, Heinrich IV als Politiker beim Ausbruch des Investiturstreites, in Sitzungsber. d. Akad. der Wiss., Berlino 1927, vol. 32, p. 393-411; B. Schmeidler, Kaiser Heinrich IV und seine Helfer im Investiturstreit, Lipsia 1927; N. Grimaldi, La contessa Matilde e la sua stirpe feudale, Firenze 1928.

TAG

Monumenta germaniae historica

Appennino tosco-emiliano

Arcivescovo di colonia

Annales ecclesiastici

Roberto il guiscardo