CAPRARA, Enea Silvio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 19 (1976)

CAPRARA, Enea Silvio

Gino Benzoni

Nacque a Bologna il 16 nov. 1631 dal nobile Niccolò (1580-1634), divenuto conte di Pantano nel 1598 e senatore nel 1616, e dalla contessa senese Vittoria Piccolomini.

I suoi fratelli, Francesco (1623-1697), Silvio e Lodovico Girolamo, militarono tutti, al pari di lui, sotto le insegne imperiali, Silvio cadendo, appena diciottenne, in battaglia; ben otto le sorelle e di queste solo una riuscì a sottrarsi al velo monacale.

Educato dalla madre che seppe sopperire con energia alla mancanza del padre, il C. fu addestrato sin dall'infanzia negli esercizi cavallereschi, i più atti a preparare al mestiere delle armi cui lo stimolava anche il suggestivo esempio dello zio materno Ottavio Piccolomini e di Raimondo Montecuccoli, pure imparentato coi Caprara. Inviato giovanissimo a Vienna presso il Piccolomini, il C. si distacca così dalla città natale, senza tuttavia troncare i rapporti col proprio ambiente se, come annota il Fantuzzi, suo biografo settecentesco, parteciperà, in occasione d'un carnevale, a gare "d'amore e di Marte", tenutesi nel "pubblico palazzo" e, nel 1652, al "torneo a piedi intitolato Amor vindicato" svoltosi con fasto nella sede dell'Accademia degli Infiammati a celebrazione delle nozze di Filippo Pepoli con Anna Maria Borromeo; e conservando anzi una certa influenza dal momento che, sempre a detta del Fantuzzi, sosterrà, nel 1669, "il magistrato degli anziani" durante il gonfalonierato del conte Girolamo Bentivoglio, mentre il contemporaneo Dolfi lo dice "stato degli antiani col march. Ferdinando Cospi". Compagno del Montecuccoli nel viaggio che lo porta a visitare, dopo la pace di Münster, le corti tedesche e l'Olanda, il C. è ancora al suo fianco alla fine del 1653, quando l'imperatore Ferdinando III incaricò il generale di recarsi presso Cristina di Svezia per sondare l'eventualità di un matrimonio tra questa e il re dei Romani Ferdinando IV.

Sorta di gentiluomo di compagnia del Montecuccoli, il C. lo seguì perciò a Dresda, a Berlino - qui ha l'onore di giocare a carte con l'elettore, l'elettrice, e pochi altri cortigiani -, ad Amburgo, a Copenaghen e quindi, nel febbraio-marzo del 1654, in Svezia, dove la regina lo insignì dell'ordine di Amaranta (dal nome di un personaggio da lei impersonato in una festa); sempre al seguito del Montecuccoli, parte da Stoccolma il 29 marzo 1654, e, ripassando per Amburgo e facendo sosta a Ratisbona, raggiunge Vienna il 24 maggio.Di ben altro impegno la partecipazione del C. alle campagne guidate dal Montecuccoli nel 1657 in Polonia, nel 1658 in Meclemburgo Holstein e Jutland, nel 1659 nello Jutland e Pomerania, nel 1660 nel Meclemburgo, nel 1661-64 in Ungheria, nel 1677-75 sul Reno. Si distinse in particolare, nel novembre del 1659, nella battaglia presso Nyborg contro gli Svedesi, quando, col grado di colonnello e a capo del reggimento di cavalleria del marchese Luigi Mattei allora assente, per primo investì lo schieramento nemico, senza tuttavia riuscire a scompaginarlo; retrocedendo poi gli Svedesi, è ancora il C. che ne incalza più volte la retroguardia. Ha quindi modo di segnalarsi ulteriormente nel 1664 combattendo in Ungheria Superiore alle dirette dipendenze del generale de Souches.

Prende parte alla conquista di Nyitra del 4 maggio; portatosi quindi il corpo del de Souches all'attacco di Levenz, ne protegge il ripiegamento tattico e decisiva è la carica del suo reggimento contro i giannizzeri nello scontro, del 16 maggio, presso Czarnowitz; coopera dal 7 giugno attivamente all'assedio di Levenz, costretta a capitolare il 13; nella grande battaglia, infine, del 19 luglio, nella quale i Turchi tentano di riprenderla, il C., a capo di 800 corazze circa e di 800 Ungheri, diede coraggio, colla sua fermezza, alla massa sbandata di fronte all'impeto ottomano, la "rimise", racconta il Gualdo Priorato, "al cimento", sino a che, sopraggiunto il de Souches, "tutti insieme fecero voltar faccia" al nemico, con gravissime perdite.

Avanzato di grado - il Dolfi, nel 1670, precisa che "hora è sargente generale di battaglia" -, il C. è impegnato in seguito contro i Francesi ad occidente: il 4 dic. 1672 il nunzio a Colonia Buonvisi informa che i "collegati", atiestati nei pressi di Magonza, lo avevano fatto "avanzare... con 2000 cavalli e 400 dragoni", e che però "era poi ritornato senza far niente"; il C. comanda la seconda linea delle forze imperiali nella battaglia di Sintzheim, nel Palatinato, del 16 giugno 1674, ed è costretto, assieme al duca di Lorena che guidava la prima, alla ritirata dal deciso attacco del Turenne, la cui abilità nello sconcertare il C., indotto ad arretrare in tutta fretta, sulla destra del Neckar, gli varrà l'ammirazione di Napoleone.

Vittoria comunque questa del Turenne non sfruttata, preferendo Luigi XIV alla penetrazione in profondità dal primo propugnata una salda difesa al di qua del Reno; il che facilitò l'avanzata imperiale, del settembre, nell'Alta Alsazia, nel corso della quale il C., giunto col suo distaccamento al ponte di Strasburgo il 24, passa il Reno il 25. Il 4 ott. 1674, nella battaglia di Ensheim, il C., al quale il duca di Bournonville assegna il comando dell'ala destra, tenta invano - mentre il Bournonville rinuncia all'attacco frontale per il rapido schieramento oppostogli dal luogotenente generale Foucault - di sfondare la seconda linea della fanteria francese; il 29 dicembre poi - quando il Turenne intercetta le truppe provenienti da Münster alla volta del quartier generale - il C. è fatto prigioniero. Ma è ben presto rilasciato se nel 1675 ha modo di operare qualche ricognizione offensiva; e fu proprio nell'impedire il suo congiungimento col Montecuccoli che il Turenne cadde, il 26 luglio, colpito da una palla di cannone.

Stava frattanto sviluppandosi in Ungheria, sotto la guida di Imre Thököly, una estesa rivolta, magnatizia, ma anche, laddove era strenua opposizione alla violenta snazionalizzazione asburgica, nazional-popolare. Come altri alti ufficiali italiani al servizio degli Asburgo, anche il C. è incaricato di reprimere quest'insubordinazione, minacciosa, oltre che per la sua estensione, per il suo sommarsi e combinarsi colla pressione turca. E se non dimostrò l'energia dell'amico Carafa, non gli fu inferiore in crudeltà, almeno in determinate occasioni: gli abitanti di Debrecen, vessati anche per sua responsabilità, si videro infatti costretti, "variis depopulationibus, pecudumque et pecorum abactionibus, victualium, denique et innumerabilium bonorum... extorsionibus exhausti", a rivolgere, il 28 apr. 1681, una supplica all'imperatore. Questo inferire sulla popolazione era, d'altronde, il risvolto dell'insuccesso delle operazioni condotte dal C. contro i ribelli nel corso dell'anno precedente: troppo scarse le truppe a sua disposizione, da suddividete inoltre e dislocare alla custodia di più luoghi, per impedire le veloci incursioni degli insorti; d'altra parte lo stesso Leopoldo, sensibile alle loro proposte di tregua, l'aveva indotto a frequenti temporanei armistizi. Sì che, nel 1680, il C. rimase per lo più inattivo e il Thököly poté conquistare Késmark e riscuotere contributi in gran parte del paese.

I raccoglitori d'"azioni egregie" riusciranno comunque a scovare nelle vicende di quell'anno un comportamento del C. da additare all'ammirazione dei posteri; un reggimento, in rivolta per la mancata corresponsione delle paghe, gli aveva inviato una delegazione di soldati e ufficiali per protestare; urtato dal tono poco riguardoso di questa, il C. "amazzò il più temerario" con una pistolettata, cacciò in malo modo il resto della rappresentanza e si portò al reggimento dove castigò "colla morte altri 30 insolenti", inducendo così la truppa "al dovere".

Rimasto nel 1682 per lo più accampato colla cavalleria imperiale tra il Danubio e la Vág non lungi da Pozsony (Presburgo), il C. precede, assieme al colonnello Filippo Leopoldo Montecuccoli, per ordine del duca di Lorena, la cavalleria cesarea, reduce, da un irruento attacco tartaro, nella sua ritirata di fronte al dilagare ottomano e raggiunge, il 7 luglio 1681 Vienna, latore di tristi notizie tali da indurre, tra lo sgomento della popolazione, la corte a traslocare rapidamente a Linz. Ed è il C. a convincere Leopoldo alla decisione e a scortarlo a Linz e quindi a Pozsony. Iniziava nel frattempo - già il 13 luglio Karà Muṣṭafà era sotto la città - il lungo assedio di Vienna. Assidua la partecipazione del C., che, sollecitamente tornato alla difesa della capitale - il suo reggimento figura nella lista di quelli sottoposti alla direzione del duca di Lorena -, acquista fama soprattutto colla brillante manovra d'avanzamento compiuta, a capo di due reggimenti di dragoni, nella vittoriosa giornata del 12 settembre. E, dopo aver alleggerito il Sobieski da un rabbioso attacco tartaro, è pure presente alla successiva vittoria di Parkány del 9 ottobre, seguita dalla capitolazione di Gran e dalla presa di Strigonia.

Approfittò quindi di un congedo per recarsi a Bologna e di lì a Loreto, a ringraziare la Vergine degli scampati pericoli; di nuovo a Bologna, lo raggiunse la rallegrante notizia della nomina a maresciallo di campo - riconoscimento, a dire il vero, da lui sollecitato con insistenza, assieme agli altri generali, gelosi fosse toccato solo al conte di Starhemberg - che lo collocava ai vertici della casta militare asburgica; col tempo i documenti ufficiali lo qualificheranno per esteso "campi mareschallum, aulae bellicum consiliarium, camerarium, unius regiminis cataphractorum colonellum, necnon partium Hungariae (oppure "supremi regni Hungariae") generalem".

Rientrato dall'Italia, il C. partecipò alla campagna del 1684, nella quale, dopo aver vigilato contro i ribelli nell'Ungheria Superiore, si congiunge col duca di Lorena il 1º luglio e con lui tenta l'accesso, duramente contrastato dai Turchi, alla piazza di Buda, assediandola sino al novembre, vanamente però pel mancato blocco dei rifornimenti. Ben più felici i risultati conseguiti dal C. l'anno seguente, che gli valgono un breve d'Innocenzo XI, del 22 dicembre, colla più affettuosa benedizione per le sue "praeclara gesta" celebrate con enfasi a Bologna con messe solenni, un rumoroso Te Deum e innumeri versi ammirativi per il "felsineo campion".

Fu soprattutto la presa di Neuhäusel (o Érsekújvár o Nové Zámky) a scatenare gli entusiasmi, non privi di punte sadiche, degli intellettuali sedentari e di qualche pacifico canonico formanti la loquace Accademia bolognese degli Inabili, i quali raccoltisi, il 24 dic. 1685, nella "sala" del marchese Guido Pepoli giubilarono festosi perché nel "Danubio... sen' corre un torrente di sangue" e si eccitarono tutti insieme all'esaltante immagine, propinata dal dott. Paolo Pasi, loro "principe", della "piazza... lastricata da' cadaveri... risonante di disperate strida di donne e fanciulli". L'assedio della città, iniziato il 16 luglio del 1685, era stato diretto da Carlo di Lorena sino al 6 agosto, quando il consiglio di guerra, destinando il grosso delle truppe a liberare Gran dalla incombente pressione ottomana, affidò al C. il compito di proseguirlo con un consistente numero di soldati. Il 19 ci fu l'assalto decisivo: abbattute le palizzate col cannone, aperta una breccia nei bastioni, seguì immediatamente l'ingresso furibondo degli assedianti che approfittano della polvere non ancora dileguatasi - nel rapidissimo succedersi dell'attacco all'arma bianca al fuoco, nutritissimo, dell'artiglieria, consistette, a detta dei cronisti dell'impresa, l'abilità dello "stratagemma" del C. - per avventarsi sui difensori sbigottiti. Invano questi alzano bandiera bianca; i soldati fanno a "pezzi" i giannizzeri, e imbestialiti, "senza perdonar a sesso né età", massacrano in gran numero anche "donne e fanciulli"; quanti nella disperazione, s'erano accalcati in "uno de' baloardi illesi", dopo aver tentata l'estrema difesa dovettero precipitare nel fossato e chi non annegò "nella profondità di quell'acque", fu "svenato dalle spade". Pochi scamparono alla strage, durata sino al 22: dei "teneri fanciulli" e delle "femmine lagrimevoli" che suscitarono nel C. una tardiva resipiscenza d'"humanità" e quei rari "cattolici che per tali si fecero, fra quegli orrori, distinguere".

Instancabile, il C. - che, il 25 agosto, ha coadiuvato all'assalto, peraltro infruttuoso, del generale Schultz a Eperjes, dove questi entrerà vittorioso solo il 12 settembre - occupa Tokaj, arresasi al suo apparire, di lì a poco imitata da Kalau e da altri, scriverà il suo biografo, "ricchi e forti castelli fra quali Ibrain, Pleincvarden, Kinsvard", Si porta quindi, l'8 ottobre, sotto Cassovia (Kassa), che stringe d'un rigoroso assedio, iniziando a cannoneggiarla il 12 e avvicinandosi ad essa con trincee sviluppate contro l'angolo nord-est della cinta.

Conquistata, ancora il 15 ag. 1682, dal Thököly, accolto con favore da una popolazione ostile all'Impero, Cassovia era il centro principale dei ribelli, con un presidio numeroso e combattivo, ben protetta da una doppia cinta muraria e animata da una certa volontà di resistenza da parte degli abitanti, tra i quali i calvinisti che preferivano senza altro l'alleanza coi Turchi al dominio cesareo. Ma la notizia, diffusa ad arte dal C., della caduta in disgrazia del Thököly arrestato dal pascià di Varadino (Nagyvarad) e la certezza che non sarebbero giunti soccorsi finirono presto per indurre allo scoramento i difensori e per atterrire la popolazione; di qui l'accettazione, il 25 ottobre, delle onorevoli condizioni di resa offerte dal C., il quale si limitò ad arrestare i "capi principali della ribellione". Abolite tutte le disposizioni prese a suo tempo dalThököly - aveva, fra l'altro, espulso i gesuiti e i francescani -, la restaurata amministrazione cesarea infierì sugli elementi riformati; e, a stare alle suppliche indirizzate al principe di Transilvania Michele Apafy e al suo ministro Michele Teleki, pare che la popolazione nel suo complesso ne abbia sperimentato rapidamente tutto il peso opprimente.

La resa di Kassa fu contagiosa, ché il C. può spedire "distaccamenti" per accogliere quelle di "Patachino, Ungvar e altri luoghi inferiori". Nel 1686 l'esperienza degli svantaggi di un'eccessiva frantumazione delle truppe per presidiare le numerose piazze dell'Ungheria Superiore induce il C. a disporre la demolizione di Szarvas, Régécz e Zadvár. Quindi tentò, nel marzo-aprile, con impegno caparbio un'impresa caldeggiata dalla diplomazia pontificia: l'espugnazione di Munkács, la munitissima piazzaforte dei ribelli che ancora resisteva sotto il comando di Elena Veronica Zrinyi, l'intrepida moglie del Thököly.

Più che ai difetti delle munizioni - palle, ad esempio, non corrispondenti al calibro dei cannoni - o alla loro carenza, la mancata riuscita va addebitata all'impostazione stessa dall'assedio basata su di un costante bombardamento: come non aveva dato grandi risultati lo stesso dispendioso diluvio di cannonate e bombe incendiarie colla quale la città era stata all'inizio investita, così, quando le cannonate aprirono finalmente un varco nella possente muraglia, il largo e profondo fossato impedì agli assalitori di approfittarne. Solo con un rigorosissimo blocco - così sosteneva il Carafa, l'amico del C., cui in seguito sarà dato d'attuarlo - Munkács sarebbe caduta.

Stabilita intanto la concentrazione delle forze cesaree per la conquista di Buda, il C. si unisce al duca di Lorena e sotto la sua direzione interviene attivamente in tutte le fasi del lungo assedio, durato dal 18 giugno al 2 settembre, sia in quelle preliminari volte a renderlo più serrato, sia in quella aggressiva finale.

Monsieur dell'Eremitage - un ammirato osservatore del "campo sotto Buda", a suo avviso "una gran scuola di guerra" pel mirabile "dissegno" e "condotta" con cui "sono ordinate tutte le milizie" -, in una sua lettera, ci attesta come il 20 agosto il C., "da quel gran capitano ch'egli è", abbia bloccato l'insidiosissimo sforzo del gran visir di sfondare lo sbarramento degli assedianti per far entrare nella piazza duemila giannizzeri e altrettanti spahi: "fatti ben disporre in ordinanza i nostri, comandò loro prima lo sbarro a piè fermo e poi, ordinato l'avanzarsi, diede un incontro così acerbo all'inimico ch'egli restò respinto con tutto quell'impeto col quale era corso"; e fu respinto un ulteriore slancio turco "con doppio sbarro"; ed analoghe prodezze il C. compì il 29 agosto. Buda, priva di rinforzi, è ormai destinata alla fine. Segue - come riferisce l'Amerighi - "il memorabil giorno del 2 settembre", quando "lì nostri leoni" ebbero modo "di satiar la lor giusta sete nel sangue arrabbiato di quei barbari": la "furia e la rabbia" dei soldati, irritati "non permettendo il fuoco... altro bottino", si sfogò nel "tagliare" ai difensori "ad una ad una le parti più sensitive", ma non al punto da farli "morir subito" sicché fosse poi possibile "scorticarli vivi... legandoli vicini al fuoco, cavarli gl'occhi e l'interiora, et altre cose simili, che", precisa il pudibondo testimone oculare, "devo tacere per ogni rispetto". Ma il 3 settembre già la città è più tranquilla: la si pulisce dai cadaveri, "si cantò il Te Deum", inizia un lucroso commercio di schiavi e si fissano le quote per il riscatto degli ebrei più ricchi.

Quanto al C., instancabile, a stare alle puntuali informazioni che si stampavano a Venezia sulle vicende d'Ungheria, già il 23 settembre passa, su un ponte di barche, il Danubio "per tentar di espugnar qualche luogo in quelle parti". Sempre dalla stessa fonte si apprende che, nel 1687, insignito nel maggio del "generalato di Varasdino" (nel "ducato di Stiria... il più primario e più riguardevole antemurale contro la prepotenza ottomana"), è uno dei principali protagonisti della vittoria ottenuta, il 12 agosto, sui Turchi non lontano da Siklós - castello che, una volta liberato, gli sarà donato dall'imperatore e che egli, dopo averlo demolito, inizierà a riedificare in forma più moderna - seguita dalla presa di Eszék (o Osijek o Esseg); e che, nel novembre, impone al riluttante comandante di Klausemburg (Kolozsvár), "città e fortezza considerabile in Transilvania", per un paio di giorni, la presenza dell'"armata vittoriosa", il cui ingresso non autorizzato avvenne, provocatoriamente, "a bandiere spiegate e tamburi battenti", Ancora nel luglio - questa volta l'informazione è di un viaggiatore, il Gemelli Careri - il C., col duca di Lorena, s'era opposto, in sede di "gran consiglio di guerra", all'azzardata proposta del duca di Baviera e del generale Carlo Sereni di indurre i Turchi a battaglia campale, "facendo conoscere quanto poca speranza vi fusse di vincere un nemico tanto numeroso e così ben fortificato".

Dopo un breve soggiorno a Vienna nel dicembre, il C., nel 1688, è a Graz, quindi a Varasdino, di cui prende ufficialmente possesso adattandolo inoltre, "con proprii et opportuni ordini,... alle congiunture della corrente guerra"; dopo aver sovrinteso all'"ammassamento" delle truppe croate, da Eszék, che raggiunge il 3 maggio, controlla l'afflusso di truppe e di rifornimenti, reso difficoltoso dalle piogge di giugno e dalle conseguenti piene dei fiumi, e i lavori di fortificazione. Occupate, nel luglio, Ilok, Pétervárad e Titel, abbandonate dalle guarnigioni turche, dirige, ai primi di agosto, la concentrazione di uomini e di mezzi - impegnativo soprattutto il passaggio dei fiumi, in particolare della Sava, su grandi ponti di barche - destinati all'assedio di Belgrado. Nel corso di questo, anche se il comando supremo spetta all'elettore di Baviera, il C. svolge compiti di effettiva direzione con indubbia abnegazione: costantemente in prima linea, è generale "che con l'occhio proprio vuol sempre dar calore et animo alla milizia", ed una volta per poco una moschettata, passata "per la perucca sotto l'ala del capello", non l'uccide. Caduta, il 6 settembre, la città, partito l'elettore di Baviera richiamato in patria dall'aggressione francese, il C., subentratogli nel comando, dirige i lavori di fortificazione a Belgrado - valendosi della competenza di Andrea Cornaro, sergente maggiore ed esperto ingegnere - e nei luoghi circonvicini; predispone "case e ridotti" nella zona sottratta al Turco perché le truppe possano svernare; incoraggia i "rasciani", di cui aveva saputo utilizzare i sentimenti antiturchi, "alla permanenza" vigilante. Rientra, infine, nel novembre, a Varasdino "a godere un poco di riposo", e, già nell'aprile del 1689, è a Vienna, ove partecipa, assieme ai più alti gradi dell'apparato militare asburgico, a "continue e replicate conferenze" dedicate alle "emergenze della guerra, tanto nell'imperio che nel regno d'Ungheria", donde scaturisce la decisione di formare due eserciti, uno affidato al comando del duca di Lorena, l'altro a quello del duca di Baviera. Assegnato a quest'ultimo, il C., fregiato dell'ambito grado di "effettivo consigliere di stato", parte, nel maggio, alla volta della Serbia, teatro delle operazioni nel settore orientale. Ma, quanto meno a partire da novembre, è attivo sul fronte occidentale, ché i fogli zeppi di notizie pubblicati settimanalmente a Venezia, segnalano la sua presenza a Wimpfen; ed informano pure come egli, nel 1690, segua gli spostamenti del campo cesareo, per cui nel maggio è "appresso Sinzheim", nel luglio "appresso Brussel".

Dopo la caduta della fortezza belga di Mons dell'aprile 1691, il C., preoccupato dell'accresciuta pressione francese e paventando le conseguenze negative di un indebolimento della difesa sul Reno per inviare a Vittorio Amedeo II di Savoia pericolante i richiesti aiuti, indusse - con un dettagliato rapporto a Ernesto Ruggiero von Starhemberg, vicepresidente del Consiglio di guerra - il Consiglio stesso a bloccare l'invio in Piemonte di 60 mila uomini comandati dal generale Giovanni Pálffy. Per poco però, ché l'imperatore ingiunse al Pálffy di partire egualmente, "non attenta ullius oblocutione".

Questa ostilità all'impiego di forze in Italia, se gli vale una perentoria sconfessione da parte di Leopoldo I, non provoca tuttavia la sua caduta in disgrazia. Tanto è vero che, morto, nell'aprile del 1692, il presidente del Consiglio di guerra Ermanno di Baden, subentratogli, dopo varie discussioni e contrasti, lo Starhemberg, il C. occupa la vicepresidenza lasciata da questo vacante.

Forse proprio la scarsa fiducia nutrita nell'utilità d'un massiccio impiego di forze nel settore piemontese non fu del tutto estranea al conferimento fattogli, il 17 maggio dello stesso anno, del comando in seconda - in sostituzione del Carafa, che tuttavia conserva "la - cesarea plenipotenza in Italia" - delle truppe tedesche che dovevano operare congiuntamente al duca di Savoia; è un'impressione corroborata dalla significativa ammissione, fatta in seguito dal C. nei confronti di precise contestazioni mosse al suo fiacco procedere, di non poter fare altrimenti "stanti gli ordini limitati e ristretti ricevuti da Vienna". E forse a questi più che al C. va addebitata la responsabilità d'un atteggiamento che, di fatto, fu ambiguo e persino ostruzionistico. Certo le sue imprese nel 1693-94 non furono gran che fortunate: efficace perciò la trasparente allusione d'una miniatura, del 1694, raffigurante, in un ovale, una capra costretta a perdere bioccoli di lana tra i rovi! Infatti nemmeno la pur ardimentosa avanzata iniziale dei collegati conseguì risultati apprezzabili.

Giunto in Italia all'inizio di luglio del 1692, il C., assieme agli altri principali comandanti, tra cui Eugenio di Savoia e il duca, entra, col grosso delle truppe austro-sabaude, nel Delfinato; il 30 luglio si arrende Guillestre; il 16 agosto capitola Embrun; varcata la Durance, Gab è occupata il 31. Colto da un'indisposizione, Vittorio Amedeo è costretto al rientro e il C. ne approfitta per frenare ogni slancio espansivo; devastato il territorio e terrorizzata la popolazione - mentre Eugenio di Savoia, che avrebbe voluto puntare su Grenoble, si sfoga con incursioni di cavalleria -, fa iniziare, il 12 settembre, la marcia di ritorno. Già l'8 aveva scritto a Vienna che era ormai opportuno chiudere la campagna. Una volta in Piemonte rifiuta la proposta insistente del marchese di Leganes di bombardare durante l'inverno Pinerolo e di precedere, anticipando l'inizio della campagna del 1693, l'arrivo di rinforzi al Catinat, il quale, quando disporrà di forze soverchianti, avrà buon gioco sui collegati nella battaglia di Marsaglia del 4 ottobre.

Il C., che in quest'occasione guidava l'ala destra, s'era, a dir il vero, adoperato per dissuadere il duca dallo scontro; ma questi l'aveva voluto a tutti i costi per vendicare le devastazioni perpetrate dai Francesi. Dure le perdite, di cui almeno 1.500 imperiali; altrettanto dure le conseguenze, ché il Catinat occupa Moncalieri, Villafranca, Carmagnola e Racconigi. Il C. comunque, trovando una certa udienza a Vienna, scarica le responsabilità della sconfitta oltre che sul duca, sul principe Commercy e su Eugenio di Savoia, colpevoli, a suo dire, di non aver prestato sufficiente ascolto ai suoi cauti suggerimenti.

Nel 1694 il C. è di nuovo inviato in Ungheria, che raggiunge però - immobilizza o per tutta l'estate da febbri moleste - solo nel settembre trattenendosi a Petervaradino, che provvede a dotare d'un ingegnoso trinceramento antistante la fortezza, ed evitando lo scontro aperto coi Turchi, malgrado l'imperatore insistesse per qualche mossa offensiva.

Piuttosto contraddittoria e oscillante, nel 1695, la condotta del C., comandante peraltro in seconda, ché il comando supremo era toccato, con suo vivo disappunto, al giovane elettore di Sassonia, Federico Augusto II, così ringraziato del consistente apporto di uomini da lui fornito. Troppo lenta l'armata, impacciata nei suoi movimenti dal terreno paludoso della zona del Tibisco, non aveva impedito la conquista turca di Lippa; e, coll'infelice decisione di far riconvergere il grosso delle forze su Petervaradino, aveva sguarnito la Transilvania, facilitata la caduta di Titel e lasciato isolato, malgrado le invocazioni di soccorso, il generale Federico Ambrogio Veterani a fronteggiare con appena settemila uomini l'esercito di Mustafà, dal quale veniva attaccato e battuto, il 21 settembre, presso Lugos, morendo poi per le ferite riportate. Tardiva dunque la presenza in Transilvania, a partire dall'autunno, delle forze cesaree e suscettibile di complicazioni: l'ambasciatore veneto a Vienna riferisce, in un dispaccio del 10 dicembre, delle proteste della popolazione per gli "eccessi" compiuti dai soldati e d'una "conferenza", cui partecipò il C., più interlocutoria che impegnativa, in fatto di risarcimenti.

Quanto al C., malgrado Vienna gli avesse ingiunto che "si fermasse" in quei luoghi "nell'inverno", trovò "modo", utilizzando tutte le sue aderenze, "di scansar il travaglio e l'impegno" e di tornare a corte per rintuzzare le pesanti critiche all'impostazione della passata campagna. A scarico d'ogni sua responsabilità vi additò, con veemenza, quali colpevoli delle disavventure imperiali e perciò meritevoli d'un'esemplare punizione, il von Slick e il Marsili, addebitando soprattutto a quest'ultimo di non aver curato la praticabilità delle strade e di non aver predisposto ponti sufficienti, attardando così i movimenti delle truppe.

Scagionati però tanto il Marsili che lo Slick, il C., per dispetto, s'intestardì ad esigere, quale condizione della sua partecipazione alla prossima campagna, un segno esplicito di pentimento e d'omaggio da parte - racconta il Marsili - "d'ambi noi due, istando che sua maestà cesarea ci obbligasse a darli le dovutoli soddisfazioni", grazie alla mediazione, svolta da alcuni generali e soprattutto da un autorevole gesuita, Federico Ladislao Wolf von Ludinghausen, che era stato espressamente incaricato da Leopoldo I, divenne possibile il "componimento": i due augurarono buon viaggio al C. e l'assicurarono "del desiderio vivo di avere la di lui grazia"; ed egli rispose che li "aveva conosciuti ambi sempre per soldati che aveano fatto il loro dovere in tutte le occasioni". Parziale soddisfazione dunque, tuttavia valida a permettere la sua decorosa partenza per Petervaradino.

Nemmeno il 1696 fu comunque un anno positivo: il carattere spigoloso del C. lo mise in urto coll'elettore di Sassonia, ancora una volta titolare del comando supremo, e col Wettiner che guidava i 12 mila Sassoni; né allo scontro coi Turchi - tutto sommato incruento, caratterizzato come fu da abili mosse ed eleganti evoluzioni, nelle quali il C. eccelse - seguì l'agognata presa di Temesvár. La battaglia rappresentò pel C. una sorta di canto del cigno: l'anno dopo il comando è affidato ad Eugenio di Savoia - la cui condotta sarà tacciata d'avventatezza dal C., geloso del successo di Zenta -, mentre al C. è affidato il compito più modesto di reprimere l'insubordinazione in "Bosnia e Schiavonia" contro la "licenza militare" delle truppe ivi stanziate.

Logorato dalla stanchezza e dagli acciacchi della vecchiaia, inasprita la suscettibilità del suo carattere, il ruolo del C. è ormai marginale: secondo la relazione (Fontes rerum Austriacarum, s. 2, XXVII), del 19 dic. 1699, dell'ambasciatore veneto a Vienna Carlo Ruzzini era "pregiudicato da una grand'età" e "mostrandosi anco più del solito tardo e cauto nell'operare, pareva che non ben accompagnasse le sorte de' tempi presenti". "Il a montré en plusieurs occasions - osserva a sua volta l'ambasciatore francese duca de Villars - qu'il avait du courage, mais dans les conseils de guerre il a toujours été d'avis de ne rien hasarder" (in Braubach); di qui l'ostilità ad Eugenio di Savoia; di qui ancora, iniziata la crisi della guerra di successione spagnola, l'opposizione all'invio di truppe in Italia che suscita uno scoppio d'ira in Leopoldo I. Temperavano l'amarezza degli ultimi anni il prestigio del suo passato, premiato di recente anche col conferimento del Toson d'oro, un'accentuata compunzione religiosa e le ingentissime ricchezze - accumulate, si diceva, anche grazie ai saccheggi - evidenziate dal superbo palazzo che l'architetto bolognese Domenico Egidio Rossi stava erigendo per lui nel centro di Vienna. In questo moriva, il 3 febbr. 1701, "a 70 anni - avvisa l'ambasciatore veneto Francesco Loredan -, di cui ben 45 trascorsi gloriosamente sui campi di battaglia". Le esequie, officiate dal nunzio Giovanni Antonio Davia, furono solenni.

Scapolo, il C. aveva nominato erede universale il nipote Nicolò; spiccava, inoltre, nel testamento, tra i vari legati, quello di 30 mila ducati a favore delle monache del convento bolognese fondato dalla beata (e, dal 1712, santa) Caterina Vigri, di cui era devotissimo. Nel 1725 le sue spoglie saranno trasportate a Bologna, nella chiesa di S. Francesco.

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