Economia

Enciclopedia del Novecento (1977)

Economia

Sergio Ricossa

di Sergio Ricossa

Economia

sommario: 1. Tra scienza e politica: contenuti e metodi. 2. Dalla contabilità aziendale alla contabilità nazionale. 3. Lo sviluppo economico. 4. Le forze produttive. 5. La remunerazione delle forze produttive. 6. L'evoluzione delle domande. 7. L'evoluzione delle offerte. 8. L'equilibrio delle domande e delle offerte. a) Posizione del problema. b) Grandezza della teoria dell'equilibrio. c) Decadenza della teoria dell'equilibrio. 9. Dopo la ‛rivoluzione keynesiana'. 10. La scelta del sistema economico-politico. □ Bibliografia.

1. Tra scienza e politica: contenuti e metodi

Οἰκονομία in greco e œconomia in latino significarono ‛norme per la buona amministrazione della casa'. E già l'etimologia rivela il primo vizio della scienza economica: di preferenza non occuparsi del reale, di quel che è, ma dell'ideale, di quel che dovrebbe essere; tendere verso una scienza normativa e rischiare di non essere una scienza affatto; a quel che è vero o falso anteporre quel che è bene o male, buono ò cattivo, giusto o ingiusto.

Per estensione, l'economia domestica divenne naturalmente economia civile, sociale, nazionale, politica, poiché, come scrisse Antonio Genovesi, cui nel 1754 un mecenate in Napoli diede la prima cattedra di questa disciplina, ‟in effetto ogni comunità è come una famiglia benché un poco più ampia".

L'espressione più fortunata fu ‛economia politica' - apparsa nel Traicté de l'øconomie politique dédié au Roi et à la Reine Mère par Antoine de Montchrestien sieur de Vateville, pubblicato a Rouen nel 1615 - che però non eliminava la confusione tra legge empirica e legge morale o giuridica, tra scienza e applicazione della scienza, tra economia politica e politica economica. Né il nuovo vocabolo inglese economics, usato da Alfred Marshall nella grande sintesi che furono i suoi Principles of economics (London 1890), e reso in italiano con ‛economica', magari come abbreviazione di ‛scienza economica', concluse l'equivoco terminologico e metodologico.

A nessuno in astronomia passò mai per la testa di modificare l'orbita di Marte, impresa folle fino a ieri e ancor oggi fantascientifica, pur dopo che di quell'orbita si sa tutto, ma molti in economia vollero urgentemente cambiare la distribuzione della ricchezza nella completa ignoranza della sua forma, delle cause su cui agire, e degli effetti ottenibili: tanto forti furono la passione politica, la fede dei rivoluzionari e dei riformatori, e l'illusione che le scienze sociali concedessero assai più delle scienze fisiche e naturali. Sicché spesso fu rovesciato e infranto l'ordine metodologico: l'economia applicata a questo o quel fine precedette e non comunicò con l'economia teorica, e l'economia teorica precedette e non comunicò con l'economia osservata. ‟La nostra conoscenza dei fatti rilevanti dell'economia è incomparabilmente minore di quella goduta dalla fisica quando se ne compila traduzione in termini matematici. Invero, la svolta decisiva della fisica nel XVII secolo, specificatamente nel campo della meccanica, fu possibile solo grazie a precedenti sviluppi dell'astronomia: fu basata su molti millenni di sistematiche e scientifiche osservazioni astronomiche, che un osservatore insuperabile come Tycho Brahe portò al culmine. Niente del genere è accaduto nella scienza economica. Sarebbe stato assurdo in fisica attendersi Keplero e Newton senza Tycho, e non v'è speranza ragionevole che in economia si possa progredire più facilmente" (cit. in Phelps Brown, 1972, p. 10).

Il ritardo delle osservazioni economiche ebbe l'aggravio del molto tempo perso dagli economisti nel vano tentativo di trovare un metro che misurasse il ‛valore' o la ‛futilità' delle cose e non cambiasse da uomo a uomo, da tempo a tempo, da luogo a luogo. Adam Smith aveva definito opportunamente l'economia nel titolo del suo celebre trattato: Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, London 1776), ma fra le varie sue benemerenze non gli spettò quella di ravvivare l'interesse per ciò che allora si chiamava aritmetica politica, dall'opera di W. Petty, Discourse on political arithmetic (London 1691), e che oggi diciamo statistica economica e in particolare contabilità economica nazionale. Egli invece riaccese, senza volerlo, dispute che ricordano quelle della scolastica medievale sul ‛giusto prezzo'; e invece di indurre gli economisti a più soddisfacenti stime numeriche della ricchezza delle nazioni, li impegolò per più di un secolo in diatribe accademiche sul ‛valore' o sulla ‛utilità' di quella ricchezza.

Si riesumarono l'antitesi tra ‛valore d'uso' e ‛valore di scambio', e un antico paradosso: ‟Nulla è più utile dell'acqua, ma difficilmente essa serve ad acquistare qualche cosa, poiché nulla o quasi si può ottenere in cambio del- l'acqua. Un diamante, al contrario, non ha quasi alcun valore d'uso, ma spesso si potrà ottenere in cambio di esso una grandissima quantità di altri beni" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 28). Il paradosso, all'apparenza innocente, nascondeva una trappola etica: ‟L'affermazione di Smith per cui il valore d'uso poteva essere inferiore al valore di scambio era sicuramente un giudizio morale, non condiviso dai possessori dei diamanti" (v. Stigler, 1965, p. 68). Occorse quasi un secolo affinché diventasse evidente a tutti che il valore d'uso era un fantasma, e il valore di scambio un medium per evocarlo: nella seconda metà dell'Ottocento W. S. Jevons e C. Menger chiarirono definitivamente come, per quanto grande fosse la ‛utilità totale' dell'acqua indispensabile per vivere, la ‛utilità marginale' dell'ultimo bicchiere, per chi avesse già bevuto una bottiglia intera, fosse poca o nulla, e come per quell'ultimo bicchiere il bevitore poco o nulla sarebbe stato disposto a pagare. I beni indispensabili per vivere dovevano essere abbondanti, e quindi avere una bassa utilità marginale, altrimenti il nostro pianeta non sarebbe stato formicolante di vita: i beni cari andavano cercati fra i beni rari, non importa se superflui.

L'avvento del concetto di utilità marginale innescò la ‛rivoluzione marginalistica' o ‛neoclassica', in contrasto con l'opinione ‛classica' che il valore di scambio di una cosa fosse regolato dalla quantità di lavoro impiegato per produrla; opinione di buon senso, mezza verità, soprattutto se per valore si intendeva costo di produzione. Ma Ricardo e Marx credettero di poter edificare su una mezza verità una teoria generale, e con la solita fretta furono sollevati quesiti metafisici del genere: ‟Se il lavoro è la misura del valore, ne è anche la causa? Se ne è la causa, è giusto che una parte del valore non vada ai lavoratori, ma ai capitalisti?" I neoclassici irrisero questi interrogativi, ma ne posero altri egualmente intempestivi: ‟È misurabile l'utilità? In quali condizioni si rende massima l'utilità di un individuo o di una nazione?" E intanto si trascurava di studiare i dati di fatto sui redditi dei lavoratori, dei capitalisti e delle nazioni, proprio mentre l'industrializzazione dell'Europa occidentale e dell'America Settentrionale provocava fenomeni senza precedenti nella storia economica.

In Das Kapital (il primo volume è datato Amburgo 1867), il materiale empirico di cui Marx si servì per dipingere un portrait en laid della società capitalistica apparve meno carente che nella maggior parte dei testi di economia, ma l'autore avrebbe dovuto ammettere, e talvolta ammise, che i suoi dati erano stati scelti con il preciso scopo di illustrare una tesi, non di costituirne il fondamento (v. Blaug, 1968; tr. it., p. 86). D'altronde la tesi pessimistica e impressionistica sulla condizione del proletariato industriale non fu esclusivamente marxiana, e si attese parecchio prima che la storiografia ne approfondisse la critica (v. Romeo, 1967, pp. 8 ss.); ma anche se la storiografia avesse colto presto e bene la nuova realtà economica, sarebbe rimasto l'ostacolo che storici ed economisti parlavano per così dire due lingue diverse, pur quando concordavano nel condannare il capitalismo, o al contrario nell'assolverlo o addirittura nell'incensarlo. È curioso ma significativo e un po' deprecabile che la scuola storica dell'economia, associata al nome di G. Schmoller, non abbia entusiasmato gli storici e abbia indispettito parecchi economisti, fra i quali Menger, con la complicità del fatto, bisogna ammetterlo, che ‟l'economista schmolleriano fu in realtà un sociologo dalla mentalità storicistica nel più ampio significato del termine" (v. Schumpeter, 1954; tr. it., p. 998).

Analogamente l'istituzionalismo, cioè lo studio di una economia reale attraverso le istituzioni che la fan funzionare, fu accusato, da quella grande maggioranza di economisti che non l'accettarono, di sconfinare nella politica, nella sociologia, e inoltre nel diritto e nella ‛statistica senza teoria', cioè nella descrizione e nella quantificazione di fatti senza capo né coda. Ciò nonostante, fu indubbio che un certo interesse interdisciplinare, una certa sensibilità per la storia e il diritto, o almeno per la cronaca e la legislazione, come si vide in Marx e in Marshall, il meno neoclassico dei neoclassici, migliorò gli economisti; più ancora avrebbe contribuito alla loro qualità un ardore statistico, che invece, con poche e contrastate eccezioni, fra cui l'istituzionalista W. C. Mitchell, discepolo del bizzarro T. Veblen, continuò a difettare fino alla fine dell'era neoclassica (v. Robinson, 1962; tr. it., p. 116). Solo dopo la prima guerra mondiale si sarebbero mostrate, soprattutto con la ‛rivoluzione keynesiana', giuste svolte metodologiche e vocazioni scientifiche più rigorose fra gli economisti: in testa a tutti J. M. Keynes, l'allievo di Marshall che superò il maestro; e solo nel 1971 una celebrità come G. Myrdal avrebbe trovato il coraggio di confessare la sua conversione da antistituzionalista a neoistituzionalista: ‟Diedi persino una mano a fondare l'Econometric Society, che intendeva essere una organizzazione di difesa contro gli istituzionalisti [...]. Ma fui poi indotto a interessarmi di altri problemi per cui il mio bagaglio di teorie serviva meno bene [...]. In realtà non vi sono problemi economici, sociologici, psicologici, ecc., ma solo problemi, e tutti problemi complessi [...]. Credo che stiamo per vedere un rapido sviluppo della scienza economica nella direzione istituzionale, e che molto di quanto ora passa per raffinatissima teoria sembrerà all'indietro una temporanea aberrazione nel superficiale e nell'irrilevante" (v. Myrdal, 1972, pp. 457-459).

2. Dalla contabilità aziendale alla contabilità nazionale

Alla fine del XIII e nel XIV secolo la contabilità aziendale aveva cominciato una evoluzione, che la portò presto vicina alle forme moderne, come attestò il De computis et scripturis, pubblicato a Venezia nel 1494 da Luca Pacioli. Che questo trattato appartenesse a un'opera più ampia, intitolata Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità, fu segno del razionalismo col quale l'argomento contabile venne affrontato; ma tale razionalismo tardò alquanto a estendersi dall'azione privata all'azione pubblica: ‟Per la storia e la sociologia dello Stato, è un fatto decisivo che la contabilità razionale non sia penetrata nell'amministrazione dei fondi pubblici prima del secolo XVIII e, anche allora, in modo molto imperfetto e nella forma primitiva della contabilità ‛erariale'" (v. Schumpeter, 1942; tr. it., p. 116).

Per la storia dell'economia, più decisivo ancora fu che la contabilità nazionale (relativa alla collettività e da non confondere con quella dell'ente statale: stato e nazione non si identificano nemmeno nei paesi socialistici) dovesse attendere il XX secolo per affermarsi. Se economisti e politici non avessero preteso di influire sulla ‛ricchezza delle nazioni', la mancanza di una buona contabilità nazionale sarebbe stata meno imperdonabile; ma essi lo pretesero sempre, senza troppo preoccuparsi di governare alla cieca, rischiando il fallimento e la bancarotta: cosa che un qualunque ragioniere sa che accade alle imprese che non tengono in conto il dare e l'avere. Le epoche di laissez faire non fecero eccezione, attenuarono ma non spensero l'intervento statale, talché nell'opera del liberista per eccellenza, Adam Smith, un capitolo si intitolò: Delle opere pubbliche e delle pubbliche istituzioni intese a facilitare il commercio della società (v. Smith, 1776; tr. it., p. 661).

Quasi mai si seppe e si volle dirigere ‛a ragion veduta', da bravi ragionieri amanti di cifre iscritte con cura in bilanci preventivi e consuntivi; e questa duratura alleanza tra una economia e una politica senza occhi per vedere, ma con bocche per raccontare ‟frottole di cui solo la penna di un Luciano o di un Voltaire potrebbe degnamente far conoscere la sciocca assurdità" (v. Pareto, 1902; tr. it., p. 69), giustificò l'ira di Keynes: ‟Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro" (v. Keynes, 1936; tr. it., p. 340). Il nome di Keynes si legò strettamente alla contabilità nazionale nel 1941, quando, per sua iniziativa e sotto la pressione della guerra, la Gran Bretagna pubblicò un White paper con il primo calcolo della produzione e della spesa degli Inglesi, in forma ufficiale, moderna e funzionale per l'intera politica economica. Nel 1943 seguirono gli Stati Uniti con il Nation's economic budget, e dal 1947 entrambi i paesi offrirono regolarmente ogni anno documenti del genere, via via imitati un po' ovunque nel resto del mondo, col beneplacito di accordi internazionali sulle definizioni e sui metodi di misura delle principali grandezze economiche (v. Studenski, 1958, pp. 151 ss.).

Petty e Keynes, al primo dei quali Marx riservò giustamente il titolo di ‛padre dell'economia', erano separati da oltre due secoli, durante i quali i tentativi degli ‛aritmetici politici' erano proseguiti in modo sporadico e di solito non per merito di economisti di fama, che, se intervennero, lo fecero più per criticare che per approvare e promuovere (ibid., pp. 11 ss.). I neoclassici contribuirono con un'ulteriore confusione terminologica, professandosi non ‛aritmetici politici' ma ‛economisti matematici' poiché trovarono elegante ricorrere alla matematica come linguaggio per raccontare la vita immaginaria, e noiosa, di un ipotetico e razionalissimo homo œconomicus, che voleva massimizzare la sua utilità o qualche surrogato dell'utilità, per esempio il profitto aziendale, in presenza di dati ostacoli: il che si ritenne fosse un caso particolare del problema di Lagrange di cercare il massimo di una funzione in più variabili vincolata da un sistema di equazioni.

L'ipotesi del massimo di utilità o di piacere (di ‛ofelimità', come preferì dire Pareto) non concesse verifiche perché tautologica: ‟Tutti gli uomini vogliono massimizzare il piacere; il piacere è ciò che gli uomini vogliono massimizzare" (v. Stark, 1958; tr. it., p. 236); né si volle indagare con che frequenza un imprenditore vero e non fittizio potesse scegliere, perché più piacevole, di andare a pesca la domenica, anziché in ufficio a massimizzare il profitto. Ma soprattutto va chiarito che questa Mathematical psychics, secondo il titolo espressivo di un'opera di F. Y. Edgeworth, edita a Londra nel 1881, fu una matematica senza numeri, uno strano ‛calcolo qualitativo': infatti sebbene si discutesse se l'utilità fosse misurabile, di fatto non fu mai misurata. Non restava che cercare di prevedere lo stesso, con ‛teoremi significativi', cioè suscettibili di verifica empirica, la direzione dei movimenti dell'homo œconomicus, pur senza dati quantitativi sull'utilità e sull'intensità delle cause che la modificavano; scopo spesso perso di vista, finché P. A. Samuelson non eliminò ogni incertezza metodologica nelle Foundations of economic analysis (Cambridge, Mass., 1947). Ma come scrisse un recensore, quelle Foundations furono in realtà la pietra tombale del ‛calcolo qualitativo'.

Il desiderio di una matematica con numeri si diffuse lentamente fra gli economisti. Nel 1912 I. Fisher non riuscì a formare un gruppo di economisti matematici quantitativi, ma gli riuscì nel 1930 quando, insieme a R. Frisch e a C. F. Roos, fondò l'Econometric Society, definita dallo statuto come ‟una società internazionale per il progresso della teoria economica nei suoi rapporti con la statistica e la matematica" (in particolare: col calcolo probabilistico). Frisch coniò il termine ‛econometria' in contrasto polemico sia con l'economia matematica ‛qualitativa', sia con l'economia quantitativa ‛senza teoria', che a torto o a ragione si ritenne fosse l'abominevole lavoro antiscientifico di economisti statistici come Mitchell.

La disputa metodologica se la teoria dovesse precedere o seguire la raccolta dei dati empirici assunse toni antipatici da disputa teologica, e per questo durò più del necessario. Oggi, a distanza di decenni, e non solo ai fini della contabilità nazionale, l'imponente serie di volumi, editi dal National Bureau of Economic Research (una creatura di Mitchell) dal 1920 in poi, sembra a molti di gran lunga più nutriente della collezione di ‟Econometrica", la rivista zeppa di formule per pochi iniziati che dal 1933 è l'organo ufficiale della Econometric Society. ‟In una scienza sperimentale, le assunzioni scelte a priori possono essere verificate rispetto ai fatti osservati, ma in economia è poco lo spazio per l'esperimento, e si hanno motivi per credere che sia egualmente limitata la possibilità di rimediare a questa deficienza con l'econometria. Per noi, conoscere la condotta degli agenti economici significa contare soprattutto sulla paziente accumulazione di osservazioni dirette" (v. Phelps Brown, 1972, p. 7) piuttosto che su inferenze statistiche indirette. È rassicurante che a conclusioni non molto diverse siano ormai giunti alcuni fra gli stessi econometristi più quotati (v. Leontief, 1971), confermando una intuizione di Keynes piuttosto scettica verso l'econometria, seppure non tanto scettica da impedirgli di accettare la presidenza della Econometric Society per un turno; un onore che toccò anche a Mitchell, forse per dimostrare al mondo che la confraternita degli economisti consisteva di persone bene educate.

Ben inteso, l'economia matematica non fu completamente sterile di contributi teorici importanti e di apporti alla contabilità nazionale: lo provò l'esempio dei ‛numeri indici'. La contabilità si doveva tenere in moneta (era senza senso sommare insieme tonnellate di acciaio e litri di latte, chilowattore di elettricità e paia di scarpe, oppure l'utilità di Tizio e di Caio), ma l'unità di misura monetaria, la lira, il dollaro, ecc., era un fastidioso metro di gomma che si allungava e si accorciava: la moneta valeva per quel che riusciva a comperare, e questo cambiava a ogni variazione di prezzo. Bisognava eliminare il disturbo, tenendo conto che i prezzi non si muovevano tutti allo stesso modo e che, nel fare la media dei loro movimenti, il grano era più importante dei bottoni e doveva avere un ‛peso' superiore. A queste esigenze risposero, più o meno bene, i numeri indici del livello generale dei prezzi.

Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, contribuirono alla loro messa a punto teorica economisti già citati, come Edgeworth, Mitchell e Fisher, e altri che Schumpeter celebrò scrivendo: ‟I vigorosi sviluppi nel campo dei numeri indici dei prezzi durante quel periodo costituirono [...] uno dei fatti più significativi in tutta la storia dell'economia e uno dei passi più importanti verso una teoria economica che sia non soltanto quantitativa ma anche numerica. I numeri indici della produzione seguirono con considerevole ritardo i numeri indici dei prezzi, ma anche le fondamenta dei loro sviluppi postbellici furono gettate allora" (v. Schumpeter, 1954; tr. it., pp. 1337 ss.). Una volta imparato come eliminare dai conti economici l'effetto delle variazioni dei prezzi, si fu in grado di passare da conti in valore monetario ‛nominale', cioè a prezzi correnti, a conti in valore ‛reale', cioè a prezzi costanti, in lire, dollari, ecc. con potere d'acquisto fisso.

Grazie agli sforzi di singoli studiosi e di enti come l'International Association for Research in Income and Wealth, fondata nel 1947 da S. Kuznets, serie storiche di molti decenni e talvolta di alcuni secoli diventarono disponibili, in valore sia nominale sia reale, per le principali grandezze economiche di vari paesi (v. Studenski, 1958; v. Kuznets, 1966; per l'Italia v. ISTAT, 1957, e Fuà, 1969). Generalmente il passato remoto fu ricostruito basandosi su frammenti di statistiche, quasi come in paleontologia si disegnava lo scheletro di un animale estinto partendo da qualche resto fossile; e nemmeno per il passato prossimo si fu molto precisi: ancor oggi errori dell'ordine di grandezza del 10% sono giudicati frequenti nelle stime della contabilità nazionale (v. Studenski, 1958, pp. 261 ss.), quando invece, per confronto, la tecnologia dei metalli permette di ottenere una qualità dei materiali in cui le impurezze non superano le 10 parti per milione. L'economia lavorava e lavora con materiali difettosi: l'auspicabile miglioramento di questi materiali avrebbe voluto mezzi statistici più ingenti per la raccolta e l'elaborazione dei dati da parte di istituti privati e pubblici, e soprattutto che gli economisti attribuissero loro tutta l'importanza che meritavano.

Comunque, il rischio di errori grossolani e inavvertiti si ridusse sfruttando sempre, più i legami che, per definizione, dovevano collegare fra loro le grandezze economiche. Se, dopo aver effettuato stime indipendenti, le misure non soddisfacevano quei legami, cioè non ‛quadravano' le discrepanze più o meno grandi segnalavano gli errori. Un esempio istruttivo lo fornì il bilancio economico nazionale, il documento principale di tutta la contabilità di un paese. Come ogni altro bilancio, il conto venne diviso in due parti, tali che le cifre iscrittevi dovevano fornire due totali eguali o bilancianti, per la semplice ragione che essi misuravano, sia pure in due modi diversi, la stessa identica cosa. E, precisamente, la cosa misurata era il flusso dei nuovi beni prodotti, di cui un paese poteva disporre in un certo periodo di tempo, di solito un anno; flusso che nella prima parte del bilancio si convenne di classificare badando all'origine e, nella seconda, badando alla destinazione.

L'origine poteva essere nazionale, opera del lavoro, del capitale e degli altri fattori produttivi nazionali: in tal caso il valore monetario dei beni doveva esser pari alla remunerazione di tutti quei fattori e costituire il ‛reddito nazionale' (il ‛prodotto nazionale' si concordò fosse invece quel che si ottiene in un dato paese, a prescindere dalla nazionalità dei fattori, che talvolta sono stranieri); o altrimenti l'origine poteva trovarsi all'estero, nel caso di beni di importazione. Circa la destinazione, si volle similmente distinguere tra i beni che restavano nel paese, e andavano o alle famiglie (consumi) o alle imprese (investimenti), e i beni inviati all'estero (esportazioni). La somma del reddito nazionale e delle importazioni coincideva così con la somma dei consumi, degli investimenti e delle esportazioni di beni e servizi dei fattori produttivi.

W. Leontief cercò ‛quadrature' più analitiche con un bilancio economico allargato, sviluppo di un'idea abbozzata nel settecentesco Tableau économique di François Quesnay e cara a Marx, ma inutilmente riproposta da alcuni economisti sovietici ai primi pianificatori dell'URSS (v. Spulber, 1964; tr. it., pp. 29 ss.). Leontief, dopo aver lasciato l'URSS per gli Stati Uniti, lanciò con successo questo bilancio allargato in modo da ottenere l'identità del valore dei beni classificati secondo l'origine e secondo la destinazione per ciascuno dei settori acquirenti e venditori (famiglie, pubblica amministrazione, agricoltura, settori industriali, settori dei servizi, ecc.) in cui l'economia nazionale poteva essere suddivisa. Ne risultò una grande tavola o ‛matrice' degli scambi intersettoriali e delle interdipendenze produttive, in cui ogni riga elencava gli outputs o le uscite di un settore, secondo la destinazione; e ogni colonna, gli inputs o le entrate, secondo l'origine. Con ciò fu reso possibile, per esempio, lo studio delle ripercussioni, dirette e indirette, nel settore dell'elettricità, o del carbone, o del petrolio, ecc., di una variazione di domanda e di produzione nel settore degli autoveicoli, e quindi nel settore siderurgico, in quello della gomma, e così via.

Ai compilatori dei bilanci economici apparve subito il pericolo di dimenticare qualche produzione o il pericolo opposto di contare la stessa produzione più di una volta. Il primo pericolo fu aumentato da iniziali disaccordi terminologici, che risalivano ad Adam Smith, il quale aveva definito ‛lavoro produttivo' solo quello che si concretava in una merce materiale, e non in un servizio immateriale; distinzione incomprensibile se non si accettava la premessa smithiana che la ricchezza delle nazioni si fondava sul capitale, cioè sui beni capaci di produrre altri beni, e che il capitale era fatto di cose materiali e durevoli: fabbriche, macchine, utensili, ecc. Fu facile obiettare, e d'altronde Smith non lo negò, che l'istruzione professionale era, per esempio, un servizio capace di contribuire alla ricchezza delle nazioni tanto quanto il capitale; ma Marx adottò il concetto ristretto di produzione, e ancor oggi i paesi comunistici non considerano reddito prodotto i servizi il cui valore o costo non si incorpori in una merce: con la conseguenza paradossale che, per loro, trasportare bestiame è produrre, e non lo è trasportare persone.

La contabilità economica nei paesi non comunistici trovò modo anch'essa di fregiarsi di bizzarrie, come quelle discendenti dal postulato che le imprese soltanto producevano, non le famiglie: per cui chi si radeva in casa non ingrossava il prodotto nazionale, mentre lo ingrossava chi andava dal barbiere. La più grave, ma voluta, omissione fu il lavoro delle casalinghe, che già prive di remunerazione, e appunto per ciò, si videro negare anche il conforto di contribuire al reddito nazionale. Il postulato ebbe tuttavia una importante eccezione: le costruzioni residenziali furono dichiarate beni di investimento o beni capitali pur quando possedute da famiglie proprietarie della casa che abitavano. La contabilità nazionale, non meno di quella aziendale, inevitabilmente si dimostrò insidiosa per il lettore sprovveduto e ignaro delle sottigliezze terminologiche via via concordate dagli esperti.

Il secondo pericolo consisteva nel duplicare senza accorgersene una posta contabile: era quel che accadeva se si sommava al costo del pane, prodotto dal fornaio, il costo del grano, prodotto dal contadino e impiegato dal fornaio. O si consideravano solo i beni ‛finali', dell'ultimo produttore, come il pane; o di ogni produttore si considerava solo il ‛valore aggiunto' a quanto egli acquistava dai fornitori (v. Lenti, 1965, pp. 246 ss.): cioè al prodotto del contadino si sommava il valore aggiunto dal mugnaio e dal fornaio, e il reddito nazionale si configurava come il totale dei ‛valori aggiunti' di tutte le imprese. Entrambe le soluzioni furono applicate, in alternativa o simultaneamente, per reciproco controllo.

Un'altra duplicazione poteva nascere dall'ammortamento. L'anno in cui una macchina era prodotta, essa compariva nel reddito nazionale, ma il suo valore monetario veniva ripreso dalla contabilità degli anni successivi nel costo di ciò che si fabbricava con quella macchina, poiché in tal modo chi l'aveva acquistata recuperava (‛ammortizzava') la spesa iniziale. Per evitare il doppione, si definì il reddito nazionale ‛netto' come reddito lordo di tutti i costi dei fattori produttivi meno gli ammortamenti. Le imposte indirette sulla produzione e sugli scambi furono un'altra voce di costo che suscitò discussioni: inclusa, determinò il cosiddetto ‛reddito ai prezzi di mercato'; esclusa, determinò il ‛reddito al costo dei fattori' di produzione. Più radicale, ma non accolta nelle convenzioni internazionali, fu la proposta di omettere dal reddito anche i consumi dei lavoratori nella misura, alquanto opinabile, in cui servivano meramente a ‟conservare o migliorare la salute, la forza e le capacità lavorative, o per allevare altri lavoratori produttivi" (v. Mill, 1848; tr. it., p. 54). E a mano a mano che nei paesi economicamente più sviluppati calò il numero degli ingenui credenti nell'identità tra maggior reddito e maggior felicità, aumentò il numero dei sostenitori della tesi di discriminare le produzioni secondo il modo in cui contribuivano al ‛benessere'; la qual cosa, encomiabile in astratto, minacciò di introdurre nella contabilità nazionale criteri etici che era preferibile tenere da parte, per non riaccendere le diatribe metafisiche dei classici e dei neoclassici.

Finora è prevalsa la saggia opinione che non bisogna far dire alla contabilità nazionale ciò che non può dire. Certi aspetti dell'economia, e non fra i meno importanti, non sono suscettibili di essere contabilizzati; tuttavia, molto resta da fare per disporre di dati migliori, non solo sui flussi di beni, ma anche sugli stocks e sui collegamenti fra gli uni e gli altri: per esempio fra il flusso degli investimenti, al netto degli ammortamenti, e le risultanti variazioni di valore dello stock di capitale. E alla contabilità delle merci e dei servizi, in termini reali, bisognerà affiancare sempre più strettamente quella finanziaria, che registra per gruppi di operatori economici i debiti, i crediti, e le loro variazioni, ricordando come la moneta sia essa stessa un particolare titolo di credito per il portatore e titolo di debito per l'ente emittente. Infine si dovrà badare a una più frequente pubblicazione dei conti, che in pochi paesi sono mensili o trimestrali, e negli altri sono per lo più annuali, salvo le matrici di Leontief, la cui complessità ha impedito finora di aggiornarle più spesso di una volta ogni tre o quattro anni.

3. Lo sviluppo economico

Grazie alla contabilità nazionale e alle altre statistiche di contorno, si riuscì ad avere una idea meno confusa di quali fossero i paesi ricchi e quali i paesi poveri, di quanto ampio fosse il distacco, e di come le varie grandezze economiche evolvessero con lo sviluppo, cioè con l'aumento reale del reddito per abitante. Nella seconda metà del Seicento si discuteva, anche con le armi, se la padronanza dei mari sarebbe toccata all'Inghilterra o alla Francia o all'Olanda: gli ‛aritmetici politici' furono tra i non molti che puntarono giustamente sull'Inghilterra, e lo fecero basandosi su qualcosa di più solido del semplice patriottismo. Ma Adam Smith, un secolo dopo, mostrò che si era di nuovo a corto di informazioni: la Ricchezza delle nazioni fu piuttosto reticente nello stabilire confronti internazionali, e se li tentò (‟la Spagna e il Portogallo [...] sono forse, dopo la Polonia, i due paesi più poveri d'Europa"; v. Smith, 1776; tr. it., p. 223) non fornì che prove indirette, poco più delle impressioni di viaggio di Marco Polo in Cina. E invero, chi avesse cercato paragoni tra l'economia inglese e l'economia francese alla fine del Settecento avrebbe fatto bene a leggere gli appunti di viaggio di Arthur Young, che nessuno considerava un economista, e a lasciar stare la Ricchezza delle nazioni.

Quando, nel XIX e soprattutto nel XX secolo, le statistiche divennero finalmente meno carenti, sconvolsero il modo di pensare alla politica economica. Ci si accorse che in Gran Bretagna era avvenuta una rivoluzione, la rivoluzione industriale, e che essa era la porta obbligata per passare dall'arretratezza sociale e dal sottosviluppo economico a una nuova forma di civiltà. Ancora verso il 1850 il reddito medio per abitante di un paese ricco era sì e no il doppio di quello di un paese povero, ma cent'anni dopo, per effetto dell'industrializzazione, era all'incirca dieci volte tanto (v. Patel, 1964, p. 124), e oggi negli Stati Uniti è addirittura quaranta volte quello dell'India. La rivoluzione industriale aveva dimostrato la possibilità, senza precedenti nella storia, di raddoppiare il tenore di vita ogni mezzo secolo, e non per pochi privilegiati, ma per vasti settori di popolazioni, che crescevano anch'esse come non mai. Il tasso medio di mortalità si era ridotto a un terzo o un quarto di quello antico, e la vita media era salita da meno di quarant'anni a più di settant'anni.

‟Gli storici hanno sovente usato e abusato del termine rivoluzione per significare un mutamento radicale, ma nessuna rivoluzione è stata così drammaticamente rivoluzionaria come la rivoluzione industriale, salvo forse la rivoluzione neolitica" (v. Cipolla, 1971, p. 60). Questo giudizio trova ormai tutti concordi: lo stesso Marx, d'altronde, fu fra i primi a riconoscere che il vapore e le macchine avevano d'un tratto rivoluzionato la produzione industriale, e che così la borghesia era stata la prima a dimostrare di che fosse davvero capace l'attività umana. ‟Essa ha compiuto ben altre meraviglie che non le piramidi d'Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; ha fatto ben altre spedizioni che non le migrazioni di popoli e le crociate [...]. Nel suo dominio appena secolare di classe, la borghesia ha creato forze di produzione più gigantesche e imponenti che non lo abbiano fatto tutte insieme le passate generazioni" (v. Marx e Engels, 1848; tr. it., pp. 59, 61). La contabilità economica nazionale permise in seguito di controllare che la retorica di Marx era approssimativamente corretta: ‟Se i 6.000 anni di esistenza ‛civilizzata' dell'uomo prima del 1850 si fan pari a un giorno, gli ultimi 110 anni sono meno di mezz'ora, ma in questa ‛mezz'ora' di intensa attività la produzione reale ha superato quella del periodo precedente. Più di un terzo dell'intero reddito reale e circa due terzi della produzione industriale ottenuti dall'umanità durante la sua storia ‛civilizzata' furono generati nei paesi industriali da un secolo a questa parte" (v. Patel, 1964, p. 124).

L'industrializzazione della Gran Bretagna fu un esempio che tutto il mondo volle imitare, ingegnandosi di raggiungere lo stesso risultato in condizioni sociali, politiche, storiche e geografiche inevitabilmente diverse. Classificare le nazioni secondo il reddito medio per abitante divenne un'abitudine: gli Stati Uniti sorpassarono la Gran Bretagna verso la fine dell'Ottocento, e da allora sono al primo posto; la Gran Bretagna fu poi superata da un gruppetto di altri paesi, comprendente la Germania, la Francia, il Canada, la Svezia e la Svizzera; ‛decollata' in ritardo, l'economia del Giappone prese celermente quota, avvicinandosi a quella dei paesi occidentali più ricchi dopo la seconda guerra mondiale. I paesi comunistici tradussero la loro sfida al capitalismo in termini di contabilità economica nazionale: nel 1925 l'Unione Sovietica proclamò ufficialmente che il primo obiettivo economico era di raggiungere e superare i più alti traguardi produttivi del capitalismo; alla fine degli anni venti la previsione era di eguagliare entro dieci anni il livello americano dei consumi; e nel 1959 Chruščëv dichiarò che alla fine del piano settennale in alcune fondamentali produzioni industriali si sarebbe toccato il livello degli Stati Uniti, ma che per il primato mondiale della produzione pro capite bisognava attendere altri cinque anni. La stessa contabilità economica nazionale denunciò con le cifre quanto eccessivo restasse l'ottimismo di Chruščëv (v. Spulber, 1964; tr. it., p. 67).

Lo sviluppo economico per mezzo dell'industrializzazione si rivelò ovunque, conti alla mano, un'ardua impresa, tanto che almeno il 50% della popolazione mondiale continuò e continua a vivere, suo malgrado, in paesi sottosviluppati, capaci di produrre appena il 10% del reddito mondiale. Ma come si approfondì lo studio di questa tragedia politica della nostra epoca, la contabilità economica, che l'aveva crudamente esposta in cifre, si mostrò in parte menzognera, tendente ad esagerare i dislivelli del tenore di vita. Con lo sviluppo, cresceva infatti la complessità dell'economia, e ciò entrava nei costi di produzione e gonfiava subdolamente il volume apparente del reddito: bastava pensare al maggior lavoro che doveva sopportare chi viveva in città per procurarsi la stessa mela o la stessa pesca che il contadino poteva mangiare semplicemente allungando il braccio e staccandola dall'albero. Se inoltre, per errore frequente, la contabilità nei paesi poveri dimenticava le molte mele e le molte pesche che non andavano sul mercato, perché più l'agricoltura era primitiva e più il contadino produceva appena il necessario per sé e per la sua famiglia, si aveva un secondo, sia pur modesto, motivo di consolazione.

Un terzo motivo richiamò la questione dei numeri indici. Le prime automobili erano care, poi la loro produzione si automatizzò, avvenne in grandi serie, con ritmo accelerato, e gradualmente nei paesi sviluppati quasi tutti si permisero il lusso di diventare automobilisti: e tale fu l'evoluzione di numerosi altri nuovi prodotti creati dalla tecnica. Orbene, lo sviluppo di una economia sembrava più intenso del vero se gli statistici valutavano questi prodotti in rapida espansione sempre ai vecchi, alti prezzi (‛effetto Gerschenkron': per una esposizione critica v. Wiles, 1962; tr. it., pp. 286 ss.); per contro, se cambiavano i criteri di valutazione a mano a mano che i prezzi si correggevano, si rischiava di non distinguere più bene i mutamenti reali del reddito dai mutamenti nominali. E infine si prese coscienza degli ormai notissimi guai dell'inquinamento dell'ambiente, che le fabbriche, le automobili, ecc. provocavano nei paesi ricchi, e che la contabilità nazionale non metteva al passivo dei suoi molto parziali bilanci.

In conclusione, lo sviluppo economico si rivelò creatore di una ricchezza sui generis, un'abbondanza che, fondata sulle macchine, non riguardava in modo uniforme tutti i beni desiderabili dagli uomini. Si capì che i beni non producibili in massa dalle macchine sarebbero sempre stati insufficienti, per quanto fosse aumentato il reddito da spendere: così, in un certo senso, per lo spazio e il tempo; così, spesso, per le bellezze naturali e le opere d'arte, nonché per i servizi personali diretti. Il nostro reddito sarebbe potuto salire indefinitamente, ma non saremmo mai riusciti a vivere come il Re Sole, e nemmeno come il più modesto signorotto del Rinascimento, per quei motivi e per un altro ancora, il più ‛politico', e cioè per la minor diseguaglianza sociale a cui, in fondo saggiamente, lo sviluppo sembrava di solito accompagnarsi. Al limite, se tutti avessero guadagnato la stessa cifra, per quanto alto fosse stato il tenore di vita nessuno avrebbe potuto permettersi il lusso di tenere al suo servizio più di una persona, alla quale sarebbe andato l'intero reddito del ‛padrone'; e infatti la rarefazione del personale domestico fu un segno curioso, ma probante, di sviluppo economico.

Per ultimo, tale sviluppo tornò a sottolineare che il pianeta Terra era ‛finito' e poneva limiti ormai prossimi all'espansione dei prodotti e dei popoli: secondo il più recente e più nero pessimismo, versione moderna di quello che Thomas R. Malthus già aveva espresso nel Saggio sul principio di popolazione (An essay on the principle of population as it affects the future improvement of society, prima edizione a Londra, 1793, successive edizioni accresciute dal 1806 al 1826), non potremmo essere molto più di quanti siamo, non potremmo vivere molto più di settant'anni, non potremmo assicurare a ogni terrestre molto più della metà di quel che al presente produce e consuma un nordamericano medio. Le preoccupazioni di Malthus si rivelarono, a dir poco, premature, e almeno per tre motivi: con lo sviluppo economico cadde anche il tasso di natalità, e non solo quello di mortalità; nuovi beni naturali entrarono a far parte del patrimonio umano, mentre si trovò il modo di rendere più produttivi quelli precedenti; e coi beni artificiali e sintetici la chimica surrogò addirittura i beni del creato. Che ci riserverà il XXI secolo?

Certo è che, sebbene i tassi di natalità nel mondo d'oggi siano generalmente inferiori non solo al massimo fisiologico (oltre 5 nati all'anno per cento abitanti), ma pure ai tassi ‛antichi' (oltre il 3%), essi determinano, insieme a tassi di mortalità tendenti all'1%, un aumento annuo della popolazione pari all'1 o 2%; ritmo all'apparenza innocuo, ma che significa il raddoppio dei terrestri ogni mezzo secolo circa, e una persona ogni metro quadrato di terra entro poche centinaia di anni. Mai prima della rivoluzione industriale si ebbe una esplosione demografica del genere, né essa potrà continuare a lungo in futuro (v. Cipolla, 1962); perciò è venuto di moda rileggere questa frase scritta nel 1848: ‟Se la bellezza che la Terra deve alle cose venisse distrutta dall'aumento illimitato della ricchezza e della popolazione più numerosa, benché non migliore, allora io spero sinceramente, per amore della posterità, che questa sarà contenta di rimanere stazionaria, molto tempo prima di esservi obbligata dalla necessità" (v. Mill, 1848; tr. it., p. 712). (V. demografia; popolazione).

4. Le forze produttive

Se nei paesi che si industrializzarono il reddito per abitante raddoppiò all'incirca ogni cinquant'anni, in termini reali, la velocità dello sviluppo fu grosso modo dell'1,5% all'anno (come media a lungo termine, valida approssimativamente per l'insieme di quei paesi), ma con forti scarti in periodi e in paesi particolari: dalle velocità ‛negative' durante la ‛grande crisi' iniziata nel 1929, alle velocità del 5 o 10% dopo la seconda guerra mondiale per l'URSS, il Giappone, la Germania Federale e l'Italia del ‛miracolo economico'. Se il reddito per abitante aumentò dell'1,5% all'anno, e la popolazione dell'1%, il reddito nazionale a sua volta dovette aumentare globalmente di circa il 2,5%, cioè più che triplicare ogni mezzo secolo. Come fu possibile?

Una ipotesi, subito scartata non appena si ricostruirono le serie storiche, fu che si produsse di più solo perché si lavorò di più: di regola, il numero dei lavoratori occupati aumentò meno del 2,5% all'anno, e ancor meno aumentò il totale delle ore lavorate. L'occupazione dipese ovvia- mente da quanta popolazione si trovò in età lavorativa, quanta volle lavorare, e quanta effettivamente ottenne un impiego. Nei paesi industrializzati, la diminuzione della natalità e della mortalità (soprattutto della mortalità infantile; col che si ridusse la perdita rappresentata dall'‛allevamento' di bambini destinati a non raggiungere l'età adulta) portò a un ‛invecchiamento' della popolazione, nel senso che diminuì la quota dei fanciulli e degli adolescenti a vantaggio di coloro che erano in età lavorativa e degli anziani; ma non crebbe in modo duraturo la quota di coloro che intesero lavorare. Infatti, la quasi completa scomparsa del lavoro infantile e il prolungamento della vita scolastica, da un lato, e, dall'altro, l'età della pensione anticipata per gli operai e gli impiegati, e il declino dei lavoratori indipendenti stabilizzarono e in definitiva restrinsero le ‛forze di lavoro' o la ‛popolazione attiva', in rapporto al totale degli abitanti.

Il nuovo lavoro femminile, facilitato dalla ‛emancipazione' della donna, ecc., parve condurre dapprima a una diversa conclusione, ma non compensò il fatto che nelle economie preindustriali l'intera famiglia era occupata nei lavori agricoli quasi senza badare al sesso e all'età. Né le politiche di ‛piena occupazione', cercate dai governi memori della ‛grande crisi', poterono durevolmente accrescere il numero dei lavoratori occupati oltre il limite fissato dalla demografia. Comunque, se qualche dubbio fosse rimasto, lo avrebbero cancellato i dati sugli orari di lavoro: 10 o 12 ore al giorno, 60 o più ore alla settimana, più di 3.000 ore all'anno, fino alla prima guerra mondiale; poi, una diffusione graduale della giornata di 8 ore o meno, della settimana di 40 ore, e dell'anno di circa 2.000 ore lavorative; e domani, forse, la settimana di 30 ore e l'anno di 40 settimane, ovvero 1.200 ore. L'opinione contraria che ‟si lavora più di una volta" (v. Sauvy, 1965, p. 100) sembra potersi mantenere solo se gli scolari e gli studenti son definiti lavoratori, e se il confronto avviene con una società contadina primitiva, sulla quale le statistiche sono mute o inattendibili; e l'altra opinione che si lavora più ‛faticosamente' di una volta dipende dal credito che si vuol dare alla tesi marxistica sull'‛alienazione'.

Dunque, in epoca industriale, la produzione aumentò del 2,5% all'anno, l'occupazione solo dell'1%, come la popolazione, e ancor meno il totale delle ore di lavoro, sicché la produzione media per occupato e particolarmente la produzione per ora lavorata, o in breve la produttività del lavoro, dovettero aumentare necessariamente in misura non inferiore all'1,5% all'anno. L'interrogativo degli economisti divenne allora: come si ottenne questo rivoluzionario progresso della produttività? La risposta classica, espressa agli albori della rivoluzione industriale (la macchina a vapore di Watt fu coeva al trattato di Smith), era nell'esordio della Ricchezza delle nazioni: ‟Il massimo miglioramento delle capacità produttive del lavoro, e la maggior parte dell'abilità, della destrezza e del giudizio coi quali esso viene ovunque applicato, sembrano essere stati gli effetti della divisione del lavoro" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 9). Ad essa o alla ‛specializzazione', come si preferì poi dire, venne attribuito un significato amplissimo, che la trasformò in una sorta di grande bazar, nel quale era dato trovare tutto quanto valorizzava l'abitudine e faceva di chiunque un esperto in un campo specifico; consentiva di sfruttare al meglio le doti naturali o acquisite di una persona o di una nazione; non obbligava a studiare cose inutili; smontava ciò che era complesso in parti semplici ed elementari; solleticava l'invenzione e l'uso di macchine ad hoc; non disperdeva il lavoro, ma lo concentrava in sedi opportune, e così riduceva i costi, grazie alle ‛economie di scala', cioè ai vantaggi della grande dimensione; obbligava a collaborare per il bene collettivo, e creava il mirabile spettacolo di una società umana prospera e concorde, fervorosa di scambi economici.

Ad onor del vero, l'entusiasmo di Smith non fu tale da impedirgli di ricordare come ‟l'uomo che passa tutta la vita nel compiere poche semplici operazioni, i cui effetti, inoltre, sono forse gli stessi o quasi, non ha alcuna occasione di esercitare la sua intelligenza e la sua inventiva", e come quindi ‟in generale diventa stupido e ignorante" (ibid.; tr. it., p. 712). Da buon illuminista, Smith vide pure l'opportunità di una istruzione non meramente professionale, bensì capace di rendere le masse ‟meno soggette alle delusioni dell'entusiasmo e della superstizione, che nelle nazioni ignoranti provocano spesso i più terribili disordini" (ibid.; tr. it., p. 717); così chiarendo, meglio di certi economisti moderni, come molti fossero i modi di migliorare la ‛qualità' del lavoro: un concetto che un secolo dopo Carlo Cattaneo esaltò con l'indispensabile distinzione tra la ‛fisica della ricchezza' e la ‛psicologia della ricchezza', cioè tra i fattori materiali della produzione e i fattori immateriali, quali la volontà e la libertà, poiché ‟nulla accade nella sfera delle ricchezze che non riverberi in essa dalla sfera delle idee" (v. Cattaneo, 1861; nuova ed., pp. 137 ss.).

Sfortunatamente, lo Smith illuminista fu meno ascoltato dello Smith imprudente che definì ‛lavoro produttivo' solo quello che ‟si fissa e si realizza in qualche particolare oggetto o merce vendibile, la quale dura almeno per qualche tempo dopo che il lavoro è finito", cioè quello che è ‟immagazzinato per essere impiegato, se è necessario, in qualche altra occasione" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 299). Nel grande bazar della divisione del lavoro qualcosa cominciò a brillare in modo particolare, e quel qualcosa affascinò gli studiosi successivi, che meglio di Smith vedevano i portenti delle nuove macchine. Il ‛lavoro immagazzinato', il ‛lavoro cristallizzato' in strumenti di produzione, il lavoro che aiuta il lavoro, i beni che producono altri beni, il capitale, insomma, divennero una ossessione. Al capitale Marx intitolò la sua opera economica fondamentale; e così pure colui che venne definito ‛il decano degli economisti borghesi', l'autore di Kapital und Kapilalzins (Innsbruck 1884-1889): Eugen von Böhm-Bawerk. Si poteva essere marxisti o antimarxisti, ma non respingere il detto di Marx: ‟Il capitale è la potenza economica della società borghese che domina tutto. Esso deve costituire il punto di partenza così come il punto d'arrivo" (v. Horowitz, 1968; tr. it., p. 51). Quanti giunsero a credere che la natura dell'uomo sarebbe migliorata semplicemente trasferendo il capitale in mani pubbliche! Quando nell'Unione Sovietica l'edificazione del comunismo passò dal sogno alla realtà, si constatò che essa forse non cambiava subito la natura umana, ma certo corrispondeva a un modo particolarmente rapido di accumulare il capitale, giusta il motto di Lenin: ‟Il comunismo è il potere sovietico più l'elettricità" (cit. in Spulber, 1964; tr. it., p. 52); l'elettricità, che sostituiva nella nuova tecnologia il vapore per azionare le macchine, cioè il capitale per antonomasia. Lo sviluppo economico fu inteso come industrializzazione, l'industrializzazione come meccanizzazione, la meccanizzazione come accumulazione di capitale. A poco a poco si confuse il mezzo col fine, l'accumulazione di capitale con il progresso della società, e l'invettiva di Marx contro i capitalisti ‟Accumulate, accumulate! Questa è la legge e questo dicono i profeti" (v. Marx, 1867; tr. it., vol. I, p. 134), divenne estensibile ai pianificatori marxistici, quando con Stalin trionfò definitivamente il principio del massimo investimento di capitali nell'industria (v. Spulber, 1964; tr. it., pp. 41 ss.).

In non pochi testi elementari di economia, lo sviluppo venne presentato come un semplice problema di aritmetica dell'accumulazione. Si apprese per esperienza che il rapporto tra il valore monetario del capitale disponibile e il valore monetario (‛valore aggiunto') della produzione annua ottenuta con quel capitale si aggirava intorno a 3, una specie di numero magico chiamato ‛coefliciente di capitale', null'altro che il reciproco della produttività del capitale stesso. Quindi, se il reddito nazionale annuo era 100, lo stock di capitale era 300, e con una vita media dei beni capitali di 30 anni circa si ammortizzava annualmente un trentesimo di 300, cioè 10; quindi, ancora, se il paese riusciva a investire il 15 o 20% del reddito nazionale al lordo degli ammortamenti, cioè il 5 o 10% al netto, il capitale passava da 300 a 305 o 310, ovvero aumentava grosso modo del 2 o 3% all'anno, tanto quanto aumentava il reddito nazionale, nell'ipotesi abbastanza realistica di un coefficiente di capitale costante o quasi. Ma se il tasso d'aumento del capitale e del reddito era il 2 o 3% e quello dei lavoratori occupati era l'1%, il capitale per lavoratore annualmente cresceva dell'1 o 2% circa; giusto quanto cresceva anche la produttività del lavoro.

Queste cifre, pur nel loro semplicismo, si prestarono a vari usi. Intanto, indussero a ritenere esagerati i timori, risalenti a Ricardo e a Marx, che le macchine non fossero le alleate, ma le antagoniste dei lavoratori. Il numero degli operai e degli impiegati disponibili indubbiamente cresceva, nei paesi industrializzati, più lentamente del capitale, se non altro perché la crescita del capitale non incontrava vincoli demografici, e la tecnica pareva ingegnarsi a inventare sempre nuove macchine non per far dispetto ai lavoratori, ma spesso per sopperire alla relativa scarsità di braccia. Certo, nei paesi occidentali restavano dei disoccupati pari all'1 o 2% della manodopera disponibile negli anni di buona congiuntura, e al 5 o 6% negli anni di cattiva congiuntura (il 20 o 30% durante la fase peggiore della ‛grande crisi'), e la ‛disoccupazione tecnologica' a tratti faceva soffrire questa o quella categoria di lavoratori; ma ovunque si videro imponenti migrazioni di popolazione attiva dalle campagne alle città, dai campi alle fabbriche, dai paesi poveri ai paesi industrializzati, migrazioni verso le macchine, calamite e non calamità del lavoro (v. Sauvy, 1965, pp. 98 ss.).

Nei paesi ricchi, lo sviluppo economico sembrò accelerabile a piacere grazie al capitale, e frenato solo dalla scarsità di lavoro, al contrario di quel che accadeva nei paesi poveri, incapaci di risparmiare e investire abbastanza per occupare una popolazione eccessiva. Si disse che il tasso d'aumento del reddito nazionale era la percentuale di reddito netto risparmiato e investito divisa per il coefficiente di capitale: un investimento netto del 5 o 10% diviso 3 dava appunto un ritmo d'aumento del reddito vicino al 2 o 3% all'anno; ma se un paese portava l'investimento al 15%, dividendo per 3 si otteneva una velocità d'aumento del reddito del 5%; se lo portava al 18%, la velocità saliva al 6%; se lo portava al 21%, la velocità saliva ulteriormente al 7%. Ecco, in nuce, il meccanismo reso celebre da R. Harrod, nell'articolo An essay in dynamic theory del marzo 1939, sull'‟Economic journal", e da E. D. Domar in Capital expansion, rate of growth and employment, saggio pubblicato su ‟Econometrica" nell'aprile 1946, sebbene fin dal 1928 il sovietico G. A. Fel′dman avesse ragionato a questo modo (v. Spulber, 1964; tr. it., pp. 23 ss.). La formula di Harrod-Domar e gli altri consimili ‛modelli' di una economia, fabbricati a decine con la facilità dei giocattoli, a qualcosa servirono: per esempio, fecero meditare sulla possibilità che il tasso di crescita del reddito adeguato a un buon impiego del capitale (warranted rate of growth, disse Harrod) non coincidesse con quello adeguato a un buon impiego del lavoro disponibile (natural rate of growth); ma in definitiva diedero un gran contributo negativo al progresso della scienza economica (v. Robinson, 1962; tr. it., p. 160), almeno quando caddero da mani esperte in mani ciarlatanesche. La loro folgorante mania illuminò la ‛fisica della ricchezza', proiettò un'ombra sulla ‛psicologia della ricchezza', e assecondò una concezione ridicola dello sviluppo economico, bollata da C. Clark (v., 1961; tr. it., p. 12) con la parola growthmanship, per indicare la follia di nazioni impegnate in una gara a chi investiva di più.

Era più che evidente un certo parallelismo tra le serie storiche del reddito e degli investimenti; e gli econometristi costruirono modelli su modelli in cui il reddito veniva ‛spiegato' dagli investimenti, e la spiegazione risultava altamente probabile secondo le più moderne metodologie econometriche. Ma ‟dove, come spesso accade, le fluttuazioni delle differenti serie rispondono in comune al polso dell'economia, è fatale che si trovino facilmente buone correlazioni statistiche, anche per un gran numero di differenti equazioni" (v. Phelps Brown, 1972, p. 6). Inoltre, come distinguere i nessi causali da quelli meramente contingenti? È applicabile il calcolo delle probabilità nel giudicare se il legame tra certi eventi storici è significativo o solo occasionale? In fondo, da una relazione statistica non si poteva conoscere sulla causalità più di quanto gli economisti stessi ponevano nelle equazioni di comportamento usate per ‛spiegare' una variabile considerata dipendente dalle altre (ibid.). E i modelli che ‛spiegavano' il reddito nazionale per mezzo degli investimenti di solito valevano né più né meno dei modelli che ‛spiegavano' gli investimenti per mezzo del reddito nazionale. Bisognava prender atto che lo sviluppo era descritto storicamente da numerosissime variabili interdipendenti, le quali non potevano essere trattate come facevano gli scienziati nei laboratori: gli economisti dovevano attendere con pazienza che la storia creasse circostanze favorevoli alle ricerche, e nel frattempo non indulgere alla moda condannata da Clark.

Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale, grazie appunto a ‛circostanze favorevoli alle ricerche', dimostrarono la frivolezza di quella moda proprio quando essa era al culmine, e riconfermarono la bontà di una osservazione di Stuart Mill, il quale si era domandato: ‟Come si spiega il fatto che tanti paesi dopo guerre disastrose hanno potuto riprendere così rapidamente le condizioni normali di vita? Come mai le distruzioni materiali anche più terribili si sono potute cancellare in brevissimo tempo?" La risposta più plausibile, ma ignorata dai ‛modelli', era che ‟le generazioni si tramandano dei beni materiali, ma soprattutto si tramandano delle istituzioni sociali e morali. Gli sforzi e i sacrifici massimi dell'umanità, i costi maggiori, corrispondono alla formazione delle istituzioni sociali, alla formazione delle idee morali. Se le guerre non toccano queste, e le guerre anche peggiori non riescono talora a modificarle, il problema della ricostruzione è un problema che non deve spaventare, appunto perché quello che c'è di più importante si può salvare dalle rovine di qualunque battaglia" (v. Del Vecchio, 1968, pp. 319-320). Il neoistituzionalismo trovava un terreno fertile su cui crescere.

Pur restando entro i confini della ‛fisica della ricchezza', non si doveva inoltre dimenticare che ‛capitale' e ‛progresso tecnico' volevano dire molte cose diverse. Circa un terzo del valore del capitale esistente era fatto di costruzioni residenziali, che contribuivano poco o nulla a migliorare la produttività del lavoro e all'incremento del reddito prodotto; un altro terzo era fatto di costruzioni non residenziali, che vi contribuivano indirettamente; e solo nell'ultimo terzo si trovava, insienie al capitale ‛circolante' (cioè le scorte di magazzino), quel particolare tipo di capitale ‛fisso' costituito dagli impianti e dai macchinari, in cui si vedeva la molla dello sviluppo. L'ossessione del capitale bloccò a lungo l'attenzione degli economisti su un unico genere di progresso tecnico, quello incorporato in nuovi impianti e nuove macchine, e nel XIX secolo li indusse a prevedere, senza alcun fondamento, che lo sviluppo si sarebbe manifestato, oltre che con quote crescenti di capitale per lavoratore, addirittura con quote inevitabilmente crescenti di capitale per unità di produzione, cioè con un coefficiente di capitale via via maggiore: passò quasi un secolo prima che ci si accorgesse che l'inevitabile non accadeva.

Marx se ne rese conto nel libro III del Capitale, pubblicato postumo nel 1894, ma l'intero suo ragionamento riposava ormai sull'ipotesi che aumentasse la ‛composizione organica' del capitale, cioè grosso modo il costo del capitale rapportato al costo del lavoro, il che suggeriva l'incremento del coefficiente di capitale (v. Blaug, 1968; tr. it., pp. 296 e 323). L'avversario di Marx, Böhm-Bawerk, cadde nella stessa trappola: ‟L'esperienza industriale confermerà la fondatezza di due proposizioni [...]: in primo luogo, con una maggior dotazione di capitale aumenta il prodotto per unità di lavoro; secondariamente, tale aumento del prodotto non va di pari passo con l'incremento della dotazione di capitale" (cit. in Blaug, 1968). E invece ‛l'esperienza industriale', o meglio la contabilità nazionale, mostrò piuttosto che capitale e prodotto andavano di pari passo, e il coefficiente di capitale mediamente variava poco o nulla; ma nemmeno questa conclusione meritava di recitare la parte che recitò dopo la ‛scoperta' delle statistiche economiche, perché in realtà nessuno mai seppe dire con sicurezza se la costanza del coefficiente di capitale, che d'altronde valeva solo per l'insieme delle industrie, o meglio per l'intera economia, e non per singoli rami produttivi, dove erano avvenuti scarti sia verso l'alto sia verso il basso, fosse puro effetto del caso o avesse spiegazioni più razionali (v. Ricossa, 1967, pp. 115 ss., 121 ss.). Tanto meno si poteva garantire che la costanza osservata nel passato si sarebbe mantenuta in futuro.

Quando finalmente gli economisti presero atto delle metamorfosi del progresso tecnico, si ingegnarono di classificarle: ne sortirono ovvie distinzioni tra ciò che faceva risparmiare lavoro e si incorporava in nuovo capitale, ciò che faceva risparmiare capitale e ne diminuiva la necessità, e ciò che era ‛neutrale' verso l'uno e l'altro fattore (v. Kennedy e Thirlwall, 1972, pp. 20 ss.). Gli economisti si ingegnarono pure di misurare l'importanza separata di ciascuna causa dello sviluppo, ricordando che se il progresso tecnico non sempre dava luogo a un aumento del capitale, non sempre tale aumento era un segno di progresso tecnico, perché, per esempio, un rincaro dei salari poteva indurre un imprenditore a risparmiare operai sostituendoli con ‛vecchie' macchine, senza attendere nuove invenzioni, ecc. A tal fine, rispolverarono il concetto neoclassico di funzione di produzione, collegamento matematico tra il prodotto (o output) e le combinazioni di fattori produttivi (o inputs) consentite dalla tecnica, e cercarono di usarlo in modo non più soltanto qualitativo, ma quantitativo, e non al livello microeconomico della singola impresa, ma al livello macroeconomico dell'economia nazionale.

La capostipite fu la funzione di produzione uscita dalla fantasia di C. W. Cobb e P. H. Douglas, autori del citatissimo articolo A theory of production, sul supplemento datato marzo 1928 dell'‟American economic review". Essa fu fertile di discendenti sempre più complicati, nel tentativo di diventare sempre meno imperfetti, ma non fu altrettanto fertile di risultati significativi. Molto scalpore suscitarono tra il 1954 e il 1957 le pubblicazioni di M. Abramovitz, S. Fabricant e R. M. Solow, secondo cui dall'80 al 90% della crescita della produttività del lavoro nell'economia americana non si poteva ‛spiegare' col mero aumento del capitale per lavoratore, ma richiedeva l'intervento di un'altra causa, cioè qualche forma di progresso tecnico (v. Kennedy e Thirwall, 1972, pp. 17 ss.). Nelle serie storiche, tutta la produzione statisticamente non ‛spiegata' coi fattori tradizionali, come il lavoro, il capitale, ecc. veniva attribuita a un fantomatico fattore residuale, e a questo ‛residuo', che in effetti era la misura dell'ignoranza degli economisti, si era soliti assegnare vari nomi più dignitosi, fra cui di preferenza quello di ‛progresso tecnico': ma nei risultati di Abramovitz, Fabricant e Solow i fattori tradizionali, e soprattutto il prestigioso capitale, quasi uscivano di scena, e il progresso tecnico diventava a sua volta il gran bazar che prima era la divisione del lavoro di Adam Smith.

Per reazione allo ‛scandalo', si moltiplicarono i tentativi di dimostrare che si spacciavano per progresso tecnico disparati fenomeni di tutt'altro genere; tentativi senza vinti né vincitori, poiché si trattava di definizioni le quali, come sempre, erano arbitrarie. Per esempio, fu facile ridare importanza al capitale, semplicemente cambiando il modo di misurarlo, ossia tenendo conto non solo della maggior quantità, ma pure della miglior qualità delle macchine; fu però difficile convincere chi non voleva essere convinto che il perfezionamento delle macchine non fosse effetto del progresso tecnico. Il dibattito servì comunque a far emergere la convenienza di badare di più agli aspetti qualitativi sia del capitale sia degli uomini che lo creavano e lo usavano, e agli aspetti non strettamente tecnici dell'efficienza, come l'organizzazione delle imprese e dei settori produttivi. Si appurò che a volte tra un paese e l'altro non esisteva un gap tecnologico, ma un gap manageriale, cioè che, in linguaggio meno barbaro, le macchine erano le stesse, ma non tutti gli imprenditori sapevano sfruttarle egualmente bene.

Risultò pure che lo sviluppo si accompagnava a uno spostamento di risorse dai settori meno produttivi ai settori più produttivi: poiché in molte nazioni un occupato in agricoltura produceva appena la metà, grosso modo, di un occupato nell'industria o nel settore terziario dei servizi, bastava il passaggio di lavoratori dal primo al secondo e al terzo settore per far aumentare la produttività media nazionale del lavoro, senza bisogno di progresso tecnico. Con lo sviluppo, generalmente, non solo diminuiva dal 40 o 50% al 10 o 15% circa la quota degli occupati in agricoltura, e aumentava dal 30 al 40 o 45% quella degli occupati nell'industria, e dal 20 o 30% al 45% quella degli occupati nei servizi (‛legge dei tre settori' o ‛legge di Colin Clark'), ma presumibilmente, purché vi fossero incentivi e libertà di movimento, le risorse affluivano verso le imprese più efficienti. Forse proprio per questo, i paesi di più antica industrializzazione, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, dove l'agricoltura aveva cessato da un pezzo di essere un serbatoio di manodopera, dopo la seconda guerra mondiale si sviluppavano più adagio di tanti altri.

‟Lo sviluppo economico è il risultato di un insieme di mutamenti sociali, culturali, politici ed economici, che provocano a loro volta ulteriori mutamenti. Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Unione Sovietica, Giappone, Sudafrica, Nigeria lo hanno realizzato in circostanze dissimili. Gli economisti non hanno alcuno speciale dono di intelligenza, che gli permetta di ridurre queste diverse esperienze storiche a relazioni causali dirette fra semplici quantità economiche. Al massimo si può dire che lo sviluppo economico è stato accompagnato, inter alia, da uno spirito d'intrapresa acuito dalla formazione di capitale, dal miglioramento delle tecniche produttive e dal progresso della qualità e della capacità produttiva del lavoro. Ma appare impossibile isolare uno qualsiasi di tali elementi come il primo motore inevitabile del processo di crescita e di evoluzione" (v. Bauer e Yamey, 1957, p. 128). E se anche fosse possibile, resterebbe da dimostrare che quel che ha funzionato in passato funzionerà ancora in futuro; e fatta pure questa dimostrazione, ai fini politici sorgerebbe l'ulteriore esigenza di saper costruire un ‛motore' che non c'è. L'insistenza degli economisti sulla formazione di capitale, ovvero sulla politica meno difficile, è forse nient'altro che un modo di mascherare la loro quasi totale ignoranza su come si suscitano lo ‛spirito d'intrapresa', il progresso tecnico e il miglioramento delle capacità produttive del lavoro. (V. capitalismo).

5. La remunerazione delle forze produttive

Prima della rivoluzione industriale, secondo il poco che si sa, le paghe dei lavoratori variarono lentamente in valore nominale, mentre in valore reale ebbero tendenza a muovere in senso opposto ai prezzi e alla popolazione: se carestie, epidemie e guerre decimavano la popolazione, i lavoratori sopravvissuti e divenuti scarsi rispetto alle risorse disponibili godevano temporaneamente di un più alto tenore di vita, finché il fattore demografico non riprendeva il sopravvento (v. Pollard e Crossley, 1968, pp. 53 ss., p. 275). Dalla rivoluzione industriale in poi, o almeno dalla fine del XIX secolo, nei principali paesi la cui economia si sviluppò, l'andamento di lungo periodo delle paghe reali fu all'incirca parallelo a quello della produttività del lavoro, e quindi registrò un aumento storicamente senza precedenti, per giunta accompagnato da una vera e propria esplosione demografica (v. Phelps Brown e Browne, 1968; v. Fabricant, 1959).

In apparenza, due regimi diversi regolarono le paghe prima e dopo l'industrializzazione, ma in sostanza il regime fu il medesimo: la differenza fu solo che in epoca preindustriale la produttività del lavoro dipese massimamente dalla fertilità della terra, e che talvolta l'aumento della popolazione obbligò a coltivare là dove, poniamo, occorrevano 300 ore di lavoro per quintale di grano, mentre in un buon campo ne bastavano 100 (e oggi 10 o 15, dopo i progressi della tecnica agricola: v. Fourastié, 1969, pp. 121 ss.). Fino alla metà dell'Ottocento l'opinione prevalente fu quella pessimistica di Malthus, anticipata dall'osservazione di Cantillon che ‟gli uomini si moltiplicano come topi in un granaio", per quanto consentito dai mezzi di sussistenza, i quali erano concepiti, con mentalità preindustriale, soprattutto come generi alimentari prodotti da una agricoltura a ‛rendimenti decrescenti' (v. Robbins, 1968; tr. it., pp. 25 ss.). Il breve cammino da qui alla profezia che il destino delle paghe reali era infausto fu percorso tutto da Ferdinand Lassalle, l'autore dell'ehernes Lohngesetz o ‛legge ferrea' o ‛legge di bronzo dei salari' e almeno in parte dai più illustri Malthus, Ricardo e Marx.

Si delineò un sistema di tre fattori produttivi: il lavoro, il capitale e la natura, remunerati con redditi chiamati, rispettivamente, salario, profitto e rendita, con un futuro determinabile, e suscettibili di giudizi morali. L'obiezione che i tre fattori spesso erano indistinguibili e che, per esempio, il problema della terra, simbolo delle risorse naturali, ‟si presenta inestricabilmente avvinto a tutto quanto nella terra è stato incorporato nel tempo [..] per renderla quello che è", ossia, più che un dono del cielo, ‟un grande deposito di fatiche umane" (v. Lenti, 1965, p. 53), solitamente non fermò i profeti né i moralisti. Non li fermò nemmeno l'obiezione che talvolta i redditi erano misti, come nel caso dei lavoratori indipendenti, e che, per esempio, il coltivatore diretto lavorava una terra sua con un capitale suo. Per ironia della sorte, il futuro migliore sembrò toccare al reddito più ‛ingiusto': la rendita, goduta dai proprietari privati di quei beni naturali che avrebbero invece dovuto essere patrimonio comune e gratuito dell'umanità, appunto un ‛dono del cielo', sempre più prezioso e caro a mano a mano che la popolazione cresceva. Se nella ripartizione dei redditi la quota della rendita si allargava sempre più, si restringevano per forza le quote del salario e del profitto, ma quella del salario non poteva ridursi sotto il minimo di sostentamento dei lavoratori, e quindi il peggio toccava al profitto; sorte non preoccupante per chi lo riteneva un furto dei capitalisti.

Le leggi morali avrebbero dovuto essere, per la scienza economica come per qualunque altra scienza, meno importanti delle leggi empiriche, ma gli economisti discussero le prime infaticabilmente, e sacrificarono la verifica delle seconde. A Ricardo, a Marx e agli altri profeti della caduta tendenziale del saggio di profitto non capitò mai di chiedersi se essa accadeva veramente: ‟L'avevano considerata data, e così facendo avevano rivelato un grado quasi incredibile di trascuratezza scientifica" (v. Schumpeter, 1954; tr. it., p. 796). Quanto al salario, i profeti più accorti formularono oracoli molto clamorosi e poco compromettenti, perché quasi impossibili da verificare. Cominciò Malthus, precisando che l'eccesso di popolazione si poteva evitare, almeno per qualche tempo, per mezzo di ‛freni' come la continenza o il vizio, e svuotando così la sua teoria di gran parte del contenuto, poiché qualunque andamento demografico diventò compatibile con le premesse. Analogamente, Ricardo definì la sussistenza non soltanto un minimo biologico, ma qualcosa di variabile e dipendente da ‟abitudini e costumi", su cui lasciò il lettore voglioso di sapere di più; e Marx, ancor più malizioso e consapevole delle possibilità della rivoluzione industriale, scrisse: ‟Il volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di soddisfarli, è anch'esso un prodotto della storia, e dipende quindi in gran parte dal grado di incivilimento di un paese, e fra l'altro anche, ed essenzialmente, dalle condizioni, e quindi anche dalle abitudini e dalle esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei liberi lavoratori" (v. Marx, 1867; tr. it., vol. I, p. 188); venendo a significare che il salario reale poteva salire indefinitamente e tuttavia soddisfare sempre questa versione scaltrita della ‛legge ferrea'.

La quale, per un altro verso, fu da Marx ulteriormente raffinata: ciò che impediva ai lavoratori di stare meglio non doveva essere la loro stolta propensione a moltiplicarsi ‟come topi in un granaio", ma una colpa dei veri e unici colpevoli nel suo ‛romanzo giallo', cioè i capitalisti, che sostituivano le macchine agli operai ogni volta che questi alzavano la testa per protestare. La disoccupazione tecnologica avrebbe dovuto fornire ai capitalisti un ‟esercito industriale di riserva", seppure al costo di un aumento della composizione organica del capitale; il quale capitale alla lunga sarebbe diventato troppo preponderante rispetto al lavoro per poter essere remunerato adeguatamente: attraverso questa ‟contraddizione del capitalismo" i colpevoli avrebbero infine ricevuto la giusta pena, proprio come nei romanzi gialli (ibid., cap. 23; v. Steindl, 1968; tr. it., pp. 273 ss.).

La legge di Marx sulla caduta tendenziale del saggio di profitto ‟non è sostenibile, sebbene [...] molti degli elementi da lui messi in luce nella discussione di questo problema possano certo essere utilizzati per una teoria delle tendenze di fondo dell'economia capitalistica" (v. Napoleoni, 19633, p. 115); né è sostenibile la ‛legge di Ricardo' sull'andamento della rendita. Il coefficiente di capitale non salì, e anzi, aggiungendo al capitale il valore monetario della terra e degli altri beni produttivi naturali, si otteneva un altro rapporto col reddito nazionale annuo la cui tendenza temporale era nettamente quella di calare da 6 a 4 circa (v. Ricossa, 1967, pp. 146 ss.); di conseguenza, remunerare il capitale, la terra, ecc. non richiese alcun aggravio insostenibile di sacrificio per gli altri fattori; la rendita perse continuamente di importanza col passaggio da un'economia agricola a un'economia industriale; la quota di reddito nazionale destinata al lavoro, per quanto mal misurata dalle statistiche nel caso dei lavoratori indipendenti, non scemò e forse si accrebbe; e il tasso di profitto, pur con gli alti e bassi congiunturali, si dimostrò sufficiente a mantenere in corsa il capitalismo (v. Kuznets, 1966, pp. 160 ss.).

Il capitalismo o il neocapitalismo? Nei capitoli 8 e 9 del libro I del Capitale, Marx accennò ai Factory acts inglesi, che frenarono l'istinto dei capitalisti ‟a smungere smodatamente la forza-lavoro", e a un movimento operaio di tipo sindacale che cresceva ‟sempre più minaccioso di giorno in giorno"; nel capitolo 14 del libro III menzionò varie ‟cause antagonistiche" alla caduta dei profitti, fra cui un modo di espandere il commercio con l'estero che Lenin doveva poi perfezionare con la sua ‛teona dell'imperialismo': egli fu dunque cosciente di studiare un sistema economico capace di trasformazioni correttive, ma non concesse altro finale che il crollo. Non ammise fino in fondo che più un sistema era libero di sperimentare nuove istituzioni (il ‟laissez faire istituzionale" di Wiles, v., 1962; tr. it., pp. 15 ss.) e più probabilità aveva di sopravvivere; salvo cambiar natura al punto di diventare un altro: tesi sostenuta da Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia, dove preannunciò l'estinzione per inutilità della razza degli imprenditori-capitalisti, in un mondo pianificato dai tecnocrati privati o pubblici.

Queste predizioni e altre simili, come l'‟eutanasia del redditiero", cioè del percettore di redditi non connessi ad alcun lavoro dipendente o indipendente (v. Keynes, 1936; tr. it., p. 334), o il ‟ristagno finale" fantasticato da Alvin H. Hansen in Full recovery or stagnation? (un libro edito a New York nel 1938 e che estrapolò indebitamente la ‛grande crisi'), abbondarono sempre nella letteratura economica (v. Colletti e Napoleoni, 1970) dandole un tono suggestivo ma ascientifico, nella misura in cui erano enunciate in modo non verificabile, o la loro validità dipendeva da definizioni arbitrarie e vaghe, o da orizzonti temporali illimitati. È chiaro che, di fronte a una previsione che non sia confutabile entro un periodo di tempo prestabilito, non saremo mai in grado d'invalidare la teoria, perché in qualsiasi momento futuro ci si chiederà di aspettare e osservare gli eventi" (il ‟sofisma apocalittico"; v. Blaug, 1968; tr. it., p. 109).

La contabilità nazionale mostrò che in un paese industrializzato ‛occidentale', dove il reddito nazionale lordo annuo ai prezzi di mercato fosse 100, grosso modo i redditi da lavoro dipendente e indipendente, compresi i contributi della ‛sicurezza sociale', erano 60 o 65, e gli altri redditi 15 o 20, pari al 4 o 5% (media di cifre molto oscillanti) di un valore monetario del capitale, della terra, ecc., eguale a 400, cifra tonda. Sommando ai redditi da lavoro gli altri redditi si otteneva circa 80, che era il reddito nazionale netto al costo dei fattori: la differenza di 20 rispetto al reddito nazionale lordo ai prezzi di mercato era costituita da ammortamenti e imposte indirette (v. Kuznets, 1966, pp. 160 ss.; v. Ricossa, 1967, pp. 146 ss.). Anche se ai lavoratori fosse andata la totalità del reddito nazionale netto, essi avrebbero migliorato una tantum i loro guadagni di un terzo o un quarto, non di più: per questo, fra gli stessi socialisti si ingrossarono le schiere dei fautori di una politica preoccupata non tanto di come si affettava la torta, quanto di come cresceva e del suo gusto (v. Sauvy, 1970, pp. 135 ss.; contro, v. Robinson, 1972, pp. 6 ss.).

Restava comunque l'interrogativo sulla moralità dei redditi non da lavoro, bollati da Marx (v., 1867, vol. I, capp. 4 e 5) come Mehrwert o ‛plusvalore', di cui i capitalisti si appropriavano sfruttando i lavoratori; ma la trovata di Marx era soltanto un portare alle estreme conseguenze un basilare ragionamento classico, che è tuttora vitale, grazie al recente impulso ricevuto da P. Sraffa (v. Napoleoni, 19633, pp. 194 ss.). ‟Secondo i classici (da Smith a Ricardo e a Marx) il processo economico consiste essenzialmente nell'impiego del lavoro (sia nell'aspetto di lavoro corrente sia nell'aspetto di lavoro incorporato nei mezzi di produzione) al fine di ottenere un ‛sovrappiù', cioè un'eccedenza del valore del prodotto rispetto al valore dei costi sopportati nella produzione, costi che riguardano la ricostituzione sia della forza-lavoro impiegata sia dei mezzi di produzione adoperati nel processo. Tale sovrappiù viene quindi a configurarsi come quella parte del valore del prodotto alla quale non corrisponde alcuna contribuzione produttiva ‛specifica': esso deriva dal fatto che il lavoro speso nel processo produttivo è ‛più che' sufficiente ad aggiungere al valore dei mezzi di produzione il valore dei mezzi di sussistenza del lavoratore, e contiene perciò un ‛plusvalore'. [...] Il sovrappiù è realizzato, nel sistema economico esaminato dai classici, non in natura (come generalmente avveniva nelle antiche società signorili), ma ‛come valore su un mercato': nell'economia capitalistica il sovrappiù è un ‛plusvalore'", (v. Napoleoni, 19633, pp. 190-192). Veniva quasi spontanea la conclusione che tutti i redditi diversi dal salario fossero immeritati, sebbene N. W. Senior e Stuart Mill avessero tentato di giustificare il profitto come compenso a chi differiva un consumo godibile subito, cioè come un premio per l'attesa o l'astinenza (v. Blaug, 1968; tr. it., pp. 253 ss.).

Più radicale nella critica del plusvalore fu la ‛rivoluzione marginalistica': per i neoclassici, non solo il lavoro, ma qualunque fattore dava un contributo produttivo specifico, addirittura misurabile ricorrendo all'artificio della ‛produttività marginale', equivalente al sovrappiù di prodotto ottenibile mediante l'addizione di una unità di un determinato fattore, quando tutti gli altri fattori fossero rimasti immutati. ‟Nessun fattore di produzione o gruppo di fattori di produzione richiederà il concorso di un nuovo fattore di produzione, per esempio di un ulteriore operaio, in aggiunta a quelli che vi sono già, o di un ulteriore motore, in aggiunta a quelli che già vi sono, se il prodotto totale del concorso di tutti i fattori di produzione mediante il nuovo cooperatore non si accresce almeno di tanto quanto è la parte nel reddito che occorre fargli per indurlo a concorrere con l'opera sua all'opera degli altri; ché, se non fosse così, si starebbe meglio senza di lui" (v. Pantaleoni, 1925, vol. I, p. 135).

Ma perché premiare un ricco solo in quanto non dissipava ‟in orge e festini" (v. Robinson, 1972, p. 8) le sue sostanze, di cui era diventato proprietario chissà come, e non premiare un lavoratore solo in quanto non poteva permettersi il lusso di accantonare del risparmio e possedere del capitale? Perché ritener giusto pagare i fattori secondo la loro produttività marginale, quando ‟una macchina da cucire o una linotype renderà di più o di meno a seconda della abilità di chi la adopera, e viceversa un abilissimo operatore renderà poco con una macchina scadente e molto con una macchina buona?" (v. Pantaleoni, 1925, vol. I, p. 134). Si definiva produttività marginale di un fattore il suo contributo specifico, ma quella definizione, come tutte le definizioni, era arbitraria, anche nelle implicazioni morali (v. Lerner, 1972, p. 261). Peggio ancora: poteva essere un nonsenso tecnico far variare un solo fattore e non gli altri, e se era irrilevante l'antipatia dei moralisti per le orge e i festini, non era irrilevante il parere dei tecnici su come si produce (v. Blaug, 1968; tr. it., pp. 538 ss.; per ulteriori critiche, riguardanti la stima del tasso di profitto partendo dalla produttività del capitale, v. Robinson, 1971).

Senior e Stuart Mill non avevano giustificato il capitalismo. Ammesso che il consumo differito del reddito costituisse realmente un sacrificio per qualcuno, di ciò bisognava tener conto nei calcoli economici sia in un sistema capitalistico sia in un sistema socialistico, e la vera alternativa non era giustificare o no il profitto, ma giustificare o no la proprietà privata degli strumenti di produzione. A tal fine occorreva dimostrare ‟che il processo decisionale decentrato e affidato agli imprenditori privati è più efficiente della pianificazione centrale. D'altra parte, gli argomenti a favore del socialismo devono essere tali da dimostrare che la proprietà pubblica e l'accentramento dei poteri decisionali sono più efficienti, o migliori in un senso ben definito, del processo decisionale decentrato" (v. Blaug, 1968; tr. it., p. 313). Questo era il problema; anzi il problema era un po' più complicato, perché associare il capitalismo alle scelte periferiche fatte per mezzo del mercato, e il socialismo alle scelte centralizzate fatte per mezzo del piano, significava trascurare infiniti sistemi misti già sperimentati o da sperimentare: per esempio, dopo la seconda guerra mondiale il socialismo iugoslavo sembrò ad alcuni più vicino al mercato libero del capitalismo pianificato francese (v. Wiles, 1962; tr. it., p. 22). Analogamente, basare le retribuzioni sulla produttività marginale, ammesso di riuscire a calcolarla, poteva essere un criterio non di giustizia, ma di efficienza, per spingere le forze produttive a collaborare, nell'intento di una massima soddisfazione della domanda di beni; ma come tale era da prendere in esame sia nel capitalismo, sia nel socialismo (e difatti così accadde, almeno in teoria). Nemmeno i neoclassici avevano giustificato, dunque, la proprietà privata del capitale.

Per ultimo andava capito, e si capì, che l'attività imprenditoriale era un tipo particolare di lavoro, il più delle volte, ma non sempre, indipendente e rischioso, il quale richiedeva, come ogni altro lavoro, una remunerazione, che aveva la natura di un salario o di uno stipendio anche quando aveva la forma di un profitto; sicché il profitto avrebbe potuto scomparire, qualora astenersi dal consumo non fosse più stato un sacrificio genuino e il capitale non fosse più stato scarso, senza annullare il reddito degli imprenditori. Di nuovo, però, il problema vero era quale sistema economico assicurasse molta efficienza imprenditoriale a poco costo, cioè fosse ‟tale da permettere che l'intelligenza e la determinazione e l'abilità del finanziere, dell'imprenditore et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con una ricompensa a condizioni ragionevoli" (v. Keynes, 1936; tr. it., p. 335).

La completa eguaglianza dei redditi non fu attuata nemmeno nei paesi socialistici. Nelle economie ‛occidentali' prevalentemente di mercato l'avvento dell'industria moderna sembrò favorire una distribuzione dei guadagni meno diseguale di prima: la quota del reddito nazionale netto che andava al 5% più ricco delle famiglie parve tendere a calare dal 30 al 20% circa, a vantaggio dei ceti medi, prima ancora che la pubblica amministrazione intervenisse con trasferimenti forzosi di risorse intesi a soccorrere i meno abbienti. Il fenomeno fu spiegato col minor peso di alcune cause di diseguaglianza, come le rendite, l'agricoltura povera, le differenze intersettoriali di produttività del lavoro, la carenza di istruzione professionale, l'esercito dei manovali via via sostituiti da operai qualificati addetti alle macchine, ecc. Anche la politica sindacale contribuì positivamente, soprattutto nei paesi sviluppati, dove il fattore lavoro divenne scarso relativamente al fattore capitale, e le politiche di piena occupazione a ogni costo resero il mercato del lavoro un ‛mercato del venditore'.

Per contro, pur nelle economie ‛opulente', il 20% più povero delle famiglie continuò a ricevere meno del 10% del reddito nazionale, e non parve essere in grado di ridurre il distacco di cui soffriva; anzi, forse l'accentuò per un complesso di cause avverse. Il peggioramento relativo dipese in parte dal fatto meramente aritmetico che in un'economia sottosviluppata una quota rilevante dello scarso reddito nazionale era richiesta per assicurare il minimo vitale, mentre in un'economia più ricca bastava una quota minore; ma indubbiamente ci fu chi restò tagliato fuori dal progresso sociale, e costituì una ostinata e dolorosa eccezione alla regola; e, paradossalmente, l'‛economia della miseria' fu una nuova branca di studi di cui proprio le nazioni ‛opulente' sentirono la necessità (v. Kuznets, 1966, pp. 195 ss.).

Ben inteso, le statistiche, molto imperfette, sulla distribuzione dei redditi per famiglie o per individui non dissero tutto: la distribuzione dei patrimoni o stocks di ricchezza era probabilmente più diseguale; si ignoravano il tempo e gli sforzi richiesti alle famiglie o agli individui per passare da un livello all'altro di reddito o di ricchezza (mobilità sociale); l'azione pubblica redistributrice avveniva quasi alla cieca e le sue conseguenze restavano dubbie; e mancava una buona conoscenza empirica e teorica delle cause e degli effetti di una data struttura dei guadagni e delle proprietà. La scienza economica soffriva, e ancora oggi soffre, la secolare lacuna delle ricerche tra l'epoca degli ‛aritmetici politici' e il 1896-1897, anni in cui Pareto pubblicò a Losanna il Cours d'économie politique, contenente le famose curve del numero dei redditieri in funzione del reddito guadagnato. Sulla scorta di quei dati, purtroppo insufficienti, Pareto credette di poter concludere che le curve restavano sorprendentemente simili per ‟il regime precapitalistico semifeudale e militaristico della Prussia di Federico il Grande, quello capitalistico e liberale dell'Inghilterra dell'apogeo vittoriano [...], e quello comunistico instaurato dai gesuiti in Perù ai tempi del dominio spagnolo (1556-1821)" (v. Palomba, 1971, p. 49). La ‛legge di Pareto' sulla distribuzione dei redditi era nata, seppure fuori dal nucleo tradizionale della sapienza accademica: risvegliò l'interesse degli statistici e degli economisti per la ricerca empirica in quel campo ed ebbe molti e vittoriosi critici, ma forse non abbastanza, se è vero, come è vero, che le nostre conoscenze in materia sono poco oltre lo stato imperfetto in cui le lasciò la scuola paretiana.

6. L'evoluzione delle domande

Fu sempre evidente che i beni domandati da una popolazione potevano variare nel tempo e nello spazio, sia perché le esigenze avvertite erano diverse, sia perché nuovi prodotti venivano offerti di tanto in tanto; ma egualmente vistosa era la connessione tra il tipo di domanda e la ricchezza delle nazioni. Gli economisti correttamente distinsero i ‛bisogni' dalle ‛domande' poiché, purtroppo, si poteva essere affamati e mancare del denaro per domandare il cibo sul mercato; eppure bisognò che arrivasse il 1857 per poter disporre di una prima, importante legge empirica sui rapporti tra reddito spendibile e carattere delle domande, cioè bisognò che si pubblicasse Die Productions- und Consumtionsverhältnisse des Königreichs Sachsen (in ‟Zeitschrift des statistichen Bureaus des Königlich Sächsischen Ministeriums des Innern", nn. 8 e 9), autore l'ingegnere E. Engel. La ‛legge di Engel', che gli economisti presero in seria considerazione solo anni dopo (v. Stigler, 1965, pp. 198 ss.), affermò che ‟più una famiglia è povera, più è elevata la parte della sua spesa complessiva destinata all'alimentazione", e si basò su dati statistici raccolti, fra gli altri, da F. Le Play, anch'egli ingegnere. Nei trattati di economia, tuttavia, Le Play non figurò quasi mai, sebbene L. Einaudi lo definisse ‟un grande indagatore delle cause per cui le società umane crescono, si fortificano, grandeggiano e decadono", attribuendogli ‟il solo torto di irridere alla scienza economica" (v. Einaudi, 1950, p. 36): come se essa non l'avesse spesso meritato...

La ‛legge di Engel', approssimativamente valida per famiglie dello stesso paese e nello stesso periodo di tempo, mantenne nei confronti internazionali e nelle serie storiche una parte di questa validità, che le derivava dai limiti risaputi imposti al desiderio di cibo dalla capacità dello stomaco. Nel gergo degli economisti, la domanda di cibo era rigida o poco elastica rispetto al reddito, e più precisamente, se questa elasticità si definiva come il rapporto tra l'incremento percentuale della domanda e l'incremento percentuale del reddito, essa era inferiore all'unità. Spendere per l'alimentazione circa il 75% del reddito netto sembrò corrispondere, nella contabilità nazionale, al caso di consumi al livello minimo di sussistenza, mentre nelle economie ricche la quota scese verso il 10%, ancorché si passasse da diete poco costose, basate sui cereali, a diete più costose, basate sulla carne (v. Ricossa, 1967, pp. 23-24).

Meno sicuro fu l'andamento di altre domande familiari, quali quelle per l'abbigliamento, i servizi dell'abitazione (il cui costo corrispondeva all'affitto, ecc.), il funzionamento della casa, e così via; ma notoriamente i servizi personali domestici declinarono di importanza relativa con lo sviluppo economico, e la contropartita si ebbe nella meccanizzazione del lavoro casalingo. Avvenne nelle famiglie un fenomeno analogo alla crescente meccanizzazione delle fabbriche, anche se gli apparecchi elettrodomestici, ecc., furono considerati beni di consumo durevoli e non beni di investimento. La domanda di tali beni di consumo durevoli si ampliò ulteriormente col crescere del reddito spendibile grazie alla possibilità, da essi offerta, di soddisfare bisogni voluttuari o semivoluttuari, come fu il caso della radio, della televisione, dell'automobile, e di vari altri nuovi prodotti. E ben inteso, la quota di spesa dedicata alla ricreazione e all'istruzione, due attività spesso felicemente indistinguibili, aumentò anche a prescindere dai beni di consumo durevoli.

La spesa familiare per l'istruzione, al pari di quella per l'igiene e la sanità, avrebbe mostrato un'elasticità ancor più alta rispetto al reddito, se una parte del costo non fosse stata sopportata dalla pubblica amministrazione. In generale, caratteristica delle economie moderne fu l'aumento percentuale del reddito destinato ai consumi pubblici, cioè ai servizi prodotti dalla pubblica amministrazione e resi in modo ‛gratuito' alle famiglie (in realtà chiamate a contribuire indirettamente con imposte e tasse): istruzione, sanità, ordine pubblico, giustizia, ecc.

Passando ai beni di investimento, ci si poteva attendere che la costruzione di abitazioni seguisse grosso modo l'andamento della popolazione e, poiché la popolazione aumentava meno del reddito nelle economie che si sviluppa- vano, avesse una domanda rigida; ma così non avvenne, di solito, poiché il più alto tenore di vita, l'urbanizzazione e la minor dimensione media delle famiglie sostennero la domanda di case e la spesa d'acquisto relativa. Quanto alle altre costruzioni, non residenziali, si mostrarono investimenti impegnativi in una prima fase dello sviluppo, la fase in cui si creavano le ‛infrastrutture', cioè opere basilari a vita assai lunga: reti di trasporto comprendenti strade, ferrovie, canali, porti, aeroporti; reti di comunicazione; reti di distribuzione di acqua, gas, elettricità; fognature, ecc. In una fase successiva assorbirono spesso una quota ridotta di reddito nazionale, per lasciar posto agli impianti e ai macchinari, che si rivelarono essere gli investimenti maggiormente sollecitati dall'accelerazione del progresso tecnico, il quale non solo implicava un lavoro più meccanizzato, ma pure un rinnovo più rapido della meccanizzazione. Tuttavia il fenomeno fu perturbato dal diverso aumento settoriale della produttività, che fece rincarare le costruzioni rispetto alle macchine.

Insomma, secondo la contabilità nazionale, i paesi poveri consumavano la quasi totalità del reddito lordo (ovvero il 90%, poco più o poco meno), e lo consumavano soprattutto in cose necessarie alla sopravvivenza, come i generi alimentari; di conseguenza, il reddito non consumato, ma risparmiato e disponibile per gli investimenti lordi, si aggirava attorno al 10% soltanto. A mano a mano che la povertà si attenuava, l'80% del reddito maggiorato diventava sufficiente per soddisfare i consumi di prima necessità, e poi quelli voluttuari; il risparmio e l'investimento crescevano dal 10 verso il 20% del reddito lordo. In un'economia ricca, il risparmio era facile perché non sacrificava più alcun consumo vitale; i consumi privati scendevano al 70 o 60% del reddito, e solo l'ascesa dei consumi pubblici dal 10 al 15% circa garantiva che i consumi totali si stabilizzassero in generale tra l'80 e il 75%, e non continuassero a calare. Ciò significava che gli investimenti lordi totali si stabilizzavano anch'essi tra il 20 e il 25% del reddito, salvo eccezioni, con una composizione in cui gli impianti e i macchinari acquistavano un peso crescente (v. Kuznets, 1966, pp. 220 ss., pp. 236 ss.).

Nei paesi poveri o all'inizio dell'industrializzazione, la domanda di beni di investimento poteva però rinforzarsi col risparmio straniero, donato o prestato da paesi più ricchi; oppure con un risparmio nazionale forzoso, qualora il potere politico fosse riuscito a comprimere i consumi ben sotto il livello che la popolazione avrebbe scelto volontariamente; oppure con una straordinaria e spontanea frugalità degli uomini. L'Unione Sovietica e il Giappone ottennero investimenti del 30%, se non più, del loro reddito lordo: ma si trattò di eventi atipici, che lasciarono perplessi quando, alle inevitabili sofferenze sociali causate da ogni rivoluzione, compresa la rivoluzione industriale, ne aggiunsero altre evitabili. Ci fu chi si chiese fino a che punto la penitenza inflitta ad alcune generazioni era compensata dall'eventuale beneficio che ne avrebbero tratto le generazioni successive; o più polemicamente, ci fu chi si chiese se uno Stalin era necessario per lo sviluppo economico.

Tornarono cosi gli interrogativi etici o quanto meno politici, che nei paesi ricchi apparvero curiosamente rovesciati: fino a che punto la corsa sfrenata ai consumi privati voluttuari delle generazioni presenti comprometteva la qualità della vita delle generazioni future? La critica alla ‛società opulenta' dilagò con la pubblicazione di The affluent society (Boston 1958), il cui autore, J. K. Galbraith, non poteva non essere americano, cittadino del paese col più alto reddito medio pro capite, dove i consumi pubblici e gli investimenti sociali avrebbero potuto crescere di più e senza sforzo, se la pubblicità commerciale non fosse stata mobilitata per stuzzicare nei consumatori privati bisogni ‛irrazionali' e domande di novità o pseudonovità, concepite da una tecnologia per insaziabili sperperatori.

Si accettasse o no la tesi galbraithiana, era comunque palese che le domande private espresse dal mercato si generavano in modo diverso da quelle pubbliche espresse politicamente; in entrambi i casi vi era però un problema di ‛democrazia economica', complicato dall'influsso che la pubblicità e la propaganda esercitavano su chi doveva scegliere. Le economie erano dunque classificabili anche secondo il predominio dell'uno o dell'altro tipo di domande: secondo che il consumatore fosse sovrano, cioè in grado di orientare la produzione, o succubo dei produttori privati o dei pianificatori pubblici; senza dimenticare che nemmeno il consumatore sovrano era necessariamente ‛razionale' e ‛soddisfatto', non potendosi escludere il caso di chi voleva cose contraddittorie o non sapeva bene quel che voleva, per mancanza di coerenza o di conoscenze (v. Wiles, 1962; tr. it., pp. 117 ss.). Fin troppo evidente era infine l'insoddisfazione del consumatore sovrano, coerente e cosciente, ma privo di denaro; il che ricordava ancora una volta come le domande dipendessero dal reddito nazionale, e inoltre dal modo di distribuirlo fra gli individui e le famiglie, fra i privati e gli enti pubblici.

Lo studio empirico della propensione al consumo per mezzo dei ‛bilanci di famiglia' è tuttora una branca dell'economia aperta e promettente. Basti dire che proposizioni abbastanza ordinarie, come quella per cui il consumo familiare dipende dal flusso attuale di reddito e altresì dallo stock di ricchezza accumulato in passato, o se si vuole da una media del reddito durante vari periodi di tempo trascorsi (il ‛reddito permanente', nella terminologia di M. Friedman), sono alla base di recenti teorie innovatrici. È presumibile che il comportamento economico familiare non possa esser bene descritto e teorizzato senza esaminano come un ciclo collegato alla intera vita di ciascuna generazione, e costellato di quei fondamentali eventi umani su cui gli economisti finora han saputo dire cose assai meno interessanti di quelle narrate dai grandi romanzieri: la nascita, gli studi, la carriera professionale, il matrimonio, le occorrenze felici, le occorrenze infelici, i lutti, le malattie, la vecchiaia, la morte.

7. L'evoluzione delle offerte

Poiché lo sviluppo economico cambiò la composizione delle domande, dovette cambiare insieme la composizione di ciò che si produceva per soddisfarle, cioè delle offerte: alcuni settori produttivi diventarono più importanti, altri meno importanti; ma, misurandone l'importanza secondo il loro ‛valore aggiunto' in percentuale del reddito nazionale, risultò che agiva un'altra causa oltre quella detta. Diversi settori produttivi, alleati eppur rivali, concorrevano solitamente a soddisfare una certa domanda finale, e l'esito delle alleanze e delle rivalità, rimescolate di continuo da novità tecnico-economiche, contribuiva a determinare l'importanza di ognuno di essi. L'agricoltura, per esempio, declinò più di quanto non fosse giustificato dalla ‛legge di Engel', cioè dalla minor quota di reddito dedicata al cibo: le industrie alimentari, i trasporti e il commercio, settori clienti dell'agricoltura, le ‛rubarono' del valore aggiunto, proprio come fecero i settori fornitori, ovvero la chimica per i fertilizzanti, gli antiparassitari, i carburanti, ecc., le stesse industrie alimentari per la preparazione dei mangimi zootecnici, ecc. La vecchia agricoltura era isolata e faceva tutto da sé: la quasi totalità delle vendite le apparteneva come suo valore aggiunto; la nuova agricoltura, invece, era sempre più tributaria dei settori che la circondavano. E non migliore destino ebbero i prodotti agricoli diversi dai generi alimentari: la lana, il cotone e la seta subirono la concorrenza delle fibre tessili artificiali e sintetiche; il legno, le pelli e la gomma naturale, quella delle materie plastiche; ecc.

Quanto alle industrie alimentari e alle industrie tessili, prolungamenti del settore agricolo e in prevalenza produttrici di beni di prima necessità, furono importanti più nei paesi all'inizio dello sviluppo che in quelli a sviluppo avanzato: non declinarono come l'agricoltura, ma in campo manifatturiero dovettero spesso cedere il primato alle industrie metalmeccaniche, le quali beneficiarono sia dell'espansione del mercato dei beni di investimento sotto forma di impianti e macchinari, sia della comparsa e del diffondersi dei nuovi beni di consumo durevoli. All'interno del settore metalmeccanico, il ramo della meccanica ebbe tendenza a crescere più rapidamente del ramo della metallurgia: benché con varie eccezioni, si delineò una regola per cui, col progresso tecnico-economico, il lavoro di trasformazione guadagnava rispetto al valore delle materie prime, che si imparava ad usare con meno sprechi e più efficacia. Un martello pneumatico era più efficace e più elaborato di un semplice piccone; sicché i produttori di acciaio e prima ancora i produttori di minerali di ferro dovettero accontentarsi degli avanzi, sia pure abbondanti, del banchetto della meccanizzazione, e buon per loro che non fossero costretti a poche briciole, come quegli altri produttori di materie prime che erano gli agricoltori.

Una riprova venne dall'industria chimica, compresa la raffinazione del petrolio, il cui valore aggiunto crebbe di norma più velocemente del reddito nazionale, per soddisfare molte domande elastiche di beni di consumo per l'igiene e la sanità, il funzionamento della casa, i trasporti e così via, nonché di beni intermedi per mille usi agricoli e industriali; il suo ordine di grandezza, però, restò relativamente basso, appunto perché il settore continuò a produrre soprattutto materie prime, e sia pure materie prime avvantaggiate dal sostituire beni naturali. Per costituire un grosso settore si sarebbe dovuto conglobare nella chimica tutte le industrie trasformatrici delle sue materie prime, dalla farmaceutica alla lavorazione delle materie plastiche, dalla tessitura di fibre artificiali e sintetiche alla preparazione di colori e vernici. Ai fini della contabilità economica si adottarono classificazioni concordate in sede internazionale, le quali tracciarono fra i settori confini tanto opinabili quanto quelli che per i geografi distinguono gli oceani, pur sapendo che le acque si confondono perpetuamente.

Se a valle della chimica stavano gli accennati settori di trasformazione, a monte era l'industria estrattiva, un'attività ‛iniziale' che, come l'agricoltura, attingeva diretta- mente dalla natura, e ancor più dell'agricoltura era legata al destino delle materie prime. Essa registrò profondi cambiamenti, quali il declino del carbone e l'ascesa del petrolio, ma nel complesso non aumentò di importanza relativa, e forse diminuì, sebbene le vicende variassero molto da paese a paese, in dipendenza della dotazione di risorse naturali. Fra i clienti dell'industria estrattiva, il settore metalmeccanico, il settore chimico e il settore dell'energia la sostennero, risparmiandole il crollo subito dall'agricoltura, mentre il settore delle costruzioni, un settore ‛vecchio', poco contribuì con le sue domande di calcare, argilla, sabbia e ghiaia, marmi, ecc. Il caso dell'energia fu emblematico.

L'uomo primitivo disponeva come energia del poco cibo che mangiava, e basta (duemila chilocalorie al giorno, o poco più); l'uomo agricoltore disponeva dell'energia degli animali da tiro o da soma, del fuoco, dell'acqua in movimento e del vento (forse ventimila, forse trentamila chilocalorie); l'uomo industriale disponeva dell'energia del vapore e delle sue trasformazioni, come l'elettricità, e dei motori a scoppio e a reazione (duecentomila chilocalorie, grosso modo, quasi che al suo servizio avesse un centinaio di ‛schiavi' meccanici). Eppure, la produzione complessiva di energia, dopo i grandi balzi compiuti in coincidenza con la rivoluzione industriale soprattutto per merito del carbone, ‛il pane dell'industria', si adattò al ritmo di crescita del reddito nazionale, e non lo superò. Il fabbisogno di energia aumentò più che la produzione di energia, ma senza scompensi e senza misteri: semplicemente si imparò a trasformare, trasportare e impiegare con più efficienza l'energia prodotta (v. ONU, 1956). La macchina a vapore di Watt aveva sospinto la rivoluzione industriale, sebbene sciupasse il 99% dell'energia contenuta nel carbone: da allora, l'1% utilizzato migliorò e salì al 5%, e poi al 10% nelle locomotive moderne; all'inizio del nostro secolo, una centrale termoelettrica riusciva a trasformare in elettricità solo il 5% dell'energia potenziale del combustibile impiegato: oggi ne trasforma il 40% se non più (v. energia).

Riunendo tutte le industrie in un unico settore, per mezzo della contabilità nazionale si appurò che ad esso spettava una quota della produzione totale crescente con lo sviluppo dal 20 o 30% al 40 o 50%, in termini di valore aggiunto; ciò che colmava, almeno in parte, lo spazio lasciato vuoto dall'agricoltura, la cui quota calava progressivamente dal 40 o 50% al 20, poi al 10 e perfino al 5% in alcuni paesi eccezionalmente industrializzati. Se rimaneva dello spazio vuoto, lo occupava il settore dei servizi, aumentando la sua quota dal 30 o 35% circa al 45 o al 50%. In generale, la quota dell'agricoltura, misurata col valore aggiunto, risultò inferiore a quella misurata con l'occupazione del lavoro, data la bassa produttività media dei lavoratori in questo settore; mentre il contrario si verificò nel settore dei servizi, quello a più alta produttività del lavoro (v. Kuznets, 1966, pp. 86 ss.). (V. agricoltura; v. industria).

I servizi in più rapida espansione furono quelli pubblici, quelli di trasporto e di comunicazione, quelli ricreativi, ecc.; altri ebbero un'espansione non molto diversa dall'andamento medio del reddito nazionale, e questo fu spesso il caso del commercio e del credito; altri ancora ebbero eccezionalmente uno sviluppo lento, come i servizi personali domestici e talvolta i servizi dell'abitazione. Questi ultimi, valutati in base ai fitti effettivi o virtuali, subirono talvolta il ‛blocco' imposto per motivi sociali da alcuni Stati, specialmente nei periodi bellici e postbellici. Tutto il settore dei servizi presentò sempre particolari problemi di valutazione statistica: per esempio, i servizi pubblici, i quali spesso non avevano un prezzo di mercato e forse nemmeno un ‛prezzo politico', vennero generalmente stimati secondo il loro costo di produzione, costituito in gran parte dai salari e stipendi pagati dalla pubblica amministrazione; il passaggio dai valori nominali ai valori reali, in mancanza di un indice dei prezzi, dovette compiersi solitamente con un indice delle paghe; per cui i valori reali e l'occupazione si mossero in parallelo, come se l'aumento della produttività del lavoro fosse nullo.

Qualora si fosse provato che l'importanza effettiva del settore dei servizi era anche superiore a quella apparente, avrebbe pure acquistato peso la tesi di coloro che preannunciavano una rivoluzione terziaria, destinata a soppiantare l'industria così come la rivoluzione industriale aveva soppiantato l'agricoltura. Da una società di contadini si sarebbe passati a una società di operai e infine a una società di impiegati, di ‛colletti bianchi'; da un'economia dominata dai beni materiali, le merci, si sarebbe passati a un'economia dominata dai beni immateriali, i servizi. La contabilità nazionale dei paesi evoluti mostrava che la produzione di servizi da parte del settore terziario ormai era eguale, o quasi, alla produzione di merci da parte dei settori primario (agricoltura) e secondario (industria) riuniti. Ma i maggiori cambiamenti già avvenuti si eran visti all'interno della produzione di merci: mentre in passato forse l'80% di esse traeva origine dal regno vegetale o animale, e solo il 20% dal cosiddetto regno minerale, le proporzioni, quasi invertendosi, eran poi diventate rispettivamente il 30% e il 70% circa. Per il futuro, molto sarebbe dipeso dalle classificazioni, e molti vecchi vocaboli avrebbero perso di significato: pareva indubbio che, soddisfatti i bisogni primordiali del cibo, dei vestiti, ecc., restassero in prima fila bisogni di ordine superiore, fra cui bisogni intellettuali, da appagare con servizi, più che con merci; ma altrettanto indubbio sembrava che quei servizi dovessero ottenersi con l'ausilio crescente di macchine, prodotte dall'industria e azionate da tecnici diversi sia dagli operai tradizionali, sia dagli impiegati tradizionali.

Infine, in un mondo reso sempre più piccolo dal progresso dei trasporti e delle comunicazioni, era presumibile che il commercio con l'estero acquistasse via via più peso, e influisse maggiormente sulla struttura produttiva dei paesi, soprattutto di quei paesi i quali, per le modeste dimensioni del territorio e della popolazione, non potevano farsi in casa l'intero assortimento della produzione. Ma a dire il vero, il passato serviva abbastanza poco per tentare estrapolazioni in questo campo: il passato era un'alternanza di protezionismo e di liberismo, dai secoli ‛mercantilistici', il Cinquecento e il Seicento, al laissez faire smithiano (nella Ricchezza delle nazioni si trovava addirittura l'elogio del contrabbandiere) e postsmithiano, all'autarchia portata dai disastri della prima guerra mondiale e della ‛grande crisi', agli accordi internazionali moderatamente liberistici successivi alla seconda guerra mondiale. E forse proprio perché la storia del commercio internazionale era piena di contrasti, l'economia teorica, con molte voci favorevoli al libero scambio e poche voci dissenzienti (v. Robinson, 1962; tr. it., pp. 106 ss., pp. 137 ss.), non riuscì mai in verità a trattare tale argomento adeguatamente e senza incertezze.

Ricardo fu abbastanza convincente da indurre la Gran Bretagna a ripudiare nel 1846 le Corn laws, cioè il protezionismo agricolo, a vantaggio dell'industrializzazione, ma non abbastanza da trasformare la sua ‛teoria dei costi comparati' in una ricetta universalmente accettata. Secondo questa teoria, anche un paese che per ipotesi avesse saputo produrre tutto meglio degli altri paesi, trovava convenienza a lasciare agli altri ciò che potevan fare meno peggio, mentre esso si specializzava in ciò che poteva fare ottimamente, e su ciò concentrava l'intera sua disponibilità di lavoro e di capitale.

Una versione più moderna, la ‛teoria di Heckscher-Ohlin', precisò che si esportavano i beni che richiedevano le più forti dosi di quei particolari fattori produttivi i quali, essendo i più abbondanti nel paese esportatore, si presumeva fossero pure i più a buon mercato. Senonché il concetto di abbondanza o di rarità di un fattore si rivelò equivoco: il lavoro, per esempio, poteva essere scarso se si adottavano tecniche manuali, non scarso se si adottavano tecniche meccanizzate; scarso se si pretendeva del lavoro qualificato, non scarso se ci si accontentava del lavoro comune; scarso se l'immigrazione era proibita, non scarso se era consentita. Bisognava poi considerare il fabbisogno indiretto di fattori produttivi, e non solo quello diretto, rispettando le interdipendenze settoriali: ‟Nell'analisi dinamica può non essere possibile affermare che un paese ha un vantaggio comparato nel produrre acciaio senza che si specifichino anche i livelli di produzione nel tempo del minerale di ferro, del carbone e delle lavorazioni metallurgiche. In breve, siamo tenuti a confrontare sistemi alternativi di sviluppo, anziché settori separati" (v. Chenery, 1968-1969, p. 183).

Un ulteriore difetto delle teorie del genere fu di badare alle offerte non solo in modo statico, ma disgiunto dalle domande. Ovviamente, una nuova produzione non era buona per un paese finché non si imparava a farla bene (per cui perfino i liberisti accettarono spesso di proteggere le industrie nel periodo dell'‛infanzia'); ma non era buona nemmeno se, pur fatta eccellentemente, riguardava beni a domanda rigida rispetto al reddito, cioè beni con un futuro di poche promesse. L'esperienza dimostrò che gli scambi più intensi avvenivano coi paesi più ricchi, se non altro perché questi avevano più soldi per pagare, e che un'economia industrializzata era migliore di un'economia povera anche come mercato per esportarvi dei prodotti industriali. Le industrie nei vari paesi, a prima vista e microeconomicamente, ramo per ramo, erano antagonistiche; senonché riguardate macroeconomicamente, erano complementari e alleate.

La perdita delle colonie, già possedute da alcuni paesi industrializzati, si rivelò per essi, dopo la seconda guerra mondiale, così poco significativa sul piano degli affari da indurre a qualche revisione della teoria marxista dell'imperialismo (v. Emmanuel, 1969; tr. it., p. 227); continuò tuttavia il predominio di sempre della politica internazionale sull'economia internazionale, sebbene i tre ‛blocchi' in cui si divisero le nazioni (il Mondo Occidentale, il Mondo Socialistico e il Terzo Mondo) si mostrassero ben poco omogenei al loro interno. E il nazionalismo, con tutte le sue conseguenze economiche, in particolare quelle sulla struttura della produzione e delle offerte, rimase l'ideologia più forte, nonostante alcuni tentativi di superamento, che andarono da iniziative private, come le imprese multinazionali, ad accordi statali in materia monetaria, doganale, ecc., di cui begli esempi furono e sono istituzioni internazionali quali la Comunità Economica Europea e il Fondo Monetario Internazionale.

8. L'equilibrio delle domande e delle offerte

a) Posizione del problema

La divisione del lavoro richiese a ogni economia una specie di ‛miracolo quotidiano': ogni giorno, molte migliaia o milioni di domande e di offerte di beni e di fattori produttivi dovevano essere in accordo, trovarsi in equilibrio. A cose fatte, ex post, poiché non ci poteva essere acquisto senza vendita, domande e offerte si eguagliavano senza eccezioni; ma ex ante, come congiungere i desideri degli acquirenti a quelli dei venditori, assicurando le condizioni perché gli scambi si realizzassero con piena soddisfazione di tutti?

La Ricchezza delle nazioni fornì una descrizione affascinante del problema e un primo tentativo di soluzione. ‟L'abito di lana, per esempio, che veste il bracciante [...] è il prodotto del lavoro comune di una grande moltitudine di operai. Il pastore, l'assortitore, il cardatore, il tintore, il filatore, il tessitore, il follone, lo spianatore e molti altri, debbono tutti riunire le loro diverse arti [...]. Quanti mercanti e vettori, inoltre, devono esser stati impiegati nel trasportare i materiali da alcuni di quegli operai ad altri, i quali spesso risiedono in una parte assai distante del paese? Quanti costruttori, marinai, fabbricanti di vele, funaioli, devono esser stati impiegati, e in particolare quanto commercio e navigazione, affinché fossero portate e riunite le diverse droghe usate dal tintore, e provenienti spesso dai più remoti angoli del mondo? [...] Senza parlare di macchine complicate, come la nave del marinaio, il molino del follone, o anche il telaio del tessitore, consideriamo soltanto quanta varietà di lavoro è richiesta per formare la semplicissima macchina delle forbici, con cui il pastore tosa la lana. Il minatore, il costruttore della fornace per fondere il minerale, il tagliatore del legname, il bruciatore del carbone di legna da usare nella fonderia, il mattoniere, il muratore, gli operai che attendono alla fornace, il fabbricante del maglio, il forgiatore e il fabbro debbono tutti riunire le loro diverse arti allo scopo di produrre quelle forbici" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 15; si poteva aggiungere che gran parte dell'attività da coordinare avveniva ‛prima' che il bracciante ordinasse il suo abito).

Ma non era dalla benevolenza di costoro che infine il bracciante aveva quel che voleva: ‟Nessuno, salvo un mendicante, sceglie di dipendere principalmente dalla benevolenza dei suoi concittadini" (ibid.; tr. it., p. 17); il movente di tutto ciò era il proprio interesse: ‟È soltanto per la ricerca del profitto che chiunque impiega un capitale in sostegno dell'industria; ed egli quindi cercherà sempre di impiegarlo in sostegno di quella industria, il cui prodotto avrà probabilmente il massimo valore, ossia verrà scambiato con la massima quantità di moneta o di altre merci. Ma il reddito annuo di ogni società è sempre precisamente uguale al valore di scambio dell'intera produzione annuale della sua attività, o meglio è precisamente la stessa cosa di questo valore di scambio". Per cui ‟ogni individuo opera necessariamente a rendere il reddito annuo della società quanto più grande è possibile [...]; ed in questo, come in molti altri casi, egli è guidato da una mano invisibile a promuovere un fine, che non rappresentava alcuna parte delle sue intenzioni" (ibid.; tr. it., p. 409).

b) Grandezza della teoria dell'equilibrio

Le forze degli economisti postsmithiani si bipartirono: un primo gruppo, a lungo maggioritario, accettò il ragionamento della Ricchezza delle nazioni e tentò di perfezionarlo sostituendo alla ‛mano invisibile' qualcosa di meno fantomatico; un secondo gruppo, dapprima esiguo, poi sempre più vigoroso, cercò di accumulare contro il ragionamento critiche d'ogni sorta. La ‛legge degli sbocchi' o loi des débouchés, che J. B. Say aveva esposto in quattro paginette della prima edizione (Paris 1803) del suo Traité d'économie politique, e ampliato a ogni successiva edizione, con l'intento di chiarire e con l'effetto di moltiplicare le interpretazioni possibili, si occupò dell'equilibrio della domanda globale e dell'offerta globale di prodotti. Qualunque fosse la capacità produttiva di un'economia, l'offerta globale suscitava la propria domanda globale, poiché, parafrasando Smith, si domandava coi redditi guadagnati producendo i beni offerti. A tutti conveniva quel che niente ostacolava: spendere il denaro guadagnato, o prestarlo, lucrando un interesse, a chi ne aveva bisogno per spenderlo, e portare l'offerta al livello di piena occupazione dei fattori produttivi, sicuri che l'intera produzione avrebbe trovato uno sbocco.

Qui si innestò la vecchia ‛teoria quantitativa della moneta': dato un certo volume di scambi e di produzioni da finanziare, la minore o maggiore quantità di moneta circolante stabiliva, insieme alla ‛velocità di circolazione', la minore o maggiore altezza del livello generale dei prezzi. Il ragionamento ebbe poi, quando si prese dimestichezza coi numeri indici, il supporto della ‛equazione degli scambi' o ‛equazione di Fisher': in un certo periodo di tempo, il numero delle transazioni commerciali, moltiplicato per il prezzo medio al quale erano avvenute, eguagliava la quantità di moneta esistente, moltiplicata per la sua velocità, cioè il numero di volte che cambiava di mano (v. Lipsey, 1963; tr. it., pp. 582 ss.). In un'epoca in cui l'oro disponibile limitava la quantità di moneta, lo sviluppo dell'economia poteva attuarsi egualmente, magari con una tendenziale diminuzione dei prezzi (fenomeno abbastanza ben visibile nell'Ottocento) se non con un aumento della ‛velocità' della moneta, grandezza per lo più giudicata quasi costante.

Nella versione più rigida (‛identità di Say': v. Blaug, 1968; tr. it., pp. 195 ss.), la ‛legge degli sbocchi' era sufficiente per garantire che l'offerta globale di prodotti creasse sempre e spontaneamente la sua esatta domanda: la moneta e le variazioni del livello generale dei prezzi erano neutrali' ai fini dell'equilibrio. Nella versione più flessibile e più realistica (‛uguaglianza di Say': ibid.; tr. it., pp. 200 ss.), l'offerta globale ‛tendeva' a creare la sua domanda, ma non sempre vi riusciva senza appropriate variazioni del livello dei prezzi, descritte dalla ‛legge del mercato' o ‛legge della domanda e dell'offerta'. L'offerta globale di vendita dei prodotti poteva, per esempio, eccedere temporaneamente la domanda di acquisto dei prodotti (beni di consumo e beni di investimento): in tal caso, si voleva risparmiare troppo e consumare o investire troppo poco; ma ciò non fu mai considerato un grave problema prima di Keynes. Sarebbero diminuiti i prezzi dei beni invenduti, e di conseguenza sarebbe aumentato il potere d'acquisto dello stock di moneta, il che avrebbe invogliato la gente a comperare (anche dopo Keynes si continuò a invocare, col nome di ‛effetto di Pigou', questo meccanismo equilibratore); naturalmente, lo stesso risultato era ottenibile, a prezzi costanti, con un aumento dello stock di moneta, cosa facile quando la cartamoneta sostituì l'oro. Per buona misura, talvolta si aggiunse che tra i prezzi che calavano era quello particolare chiamato ‛tasso di interesse', con la conseguenza di scoraggiare il risparmio e incoraggiare i consumi e soprattutto gli investimenti. Qualche equivoco terminologico favorì questa conclusione: nel linguaggio ordinario un risparmiatore ‛investiva' anche semplicemente acquistando delle attività finanziarie, per esempio delle obbligazioni o delle azioni, a prescindere dal fatto che ciò portasse o non portasse a un ‛vero' investimento, cioè a un più ricco stock di fabbriche, impianti, macchine, ecc., che sono i componenti del ‛vero' capitale. Di conseguenza, ogni discrepanza tra il desiderio di risparmiare e il desiderio di investire sembrò improbabile, così come il tesoreggiamento della moneta inattiva, con ‛velocità' nulla, nei nascondigli. Perfino Malthus, che fra i molti mali che si compiacque di denunciare incluse il sottoconsumo, mancò di meritare appieno l'elogio tributatogli da Keynes, scorgendo i colpevoli in chi investiva troppo, e non, come sarebbe stato più logico, in chi tesoreggiava troppo (v. Robbins, 1968; tr. it., pp. 66-67).

La ‛legge della domanda e dell'offerta' si fece essenziale quando si trattò di spiegare l'equilibrio nel mercato di un singolo bene, per esempio il pane o la carne, la cui domanda era ovviamente staccata dall'offerta, cioè non dipendeva dai soli redditi guadagnati producendo pane o carne: occorreva che opportuni movimenti dei prezzi del pane o della carne accordassero compratori e venditori. I prezzi presero il posto della ‛mano invisibile', di cui l'homo œconomicus, egoista e quindi calcolatore, si serviva per misurare i suoi vantaggi e svantaggi: i prezzi rincarati segnalavano i particolari beni più domandati che offerti, e più adatti alla nuova produzione, mentre i prezzi ribassati segnalavano l'opposto. A lungo termine era mantenibile l'assunzione ‛classica' che i prezzi alti o bassi distinguessero i beni con molto o poco ‛valore', molto o poco lavoro incorporato (per i nessi tra prezzi e produttività del lavoro, v. Fourastié, 1969); ma a breve termine, distinguevano i beni molto o poco rari, molto o poco domandati rispetto all'offerta. Nonostante le singolarità biologiche della ‛merce lavoro', fu abbastanza comune considerarla una merce come tutte le altre, il cui prezzo, il salario, poteva fissarsi al livello di piena occupazione, tale che ogni lavoratore trovava un posto, se si accontentava di quel livello di paga.

La ‛legge della domanda e dell'offerta' suppose che esistesse sempre un prezzo di equilibrio, in corrispondenza del quale quel che il compratore desiderava domandare era esattamente eguale a quel che il venditore desiderava offrire. A. Cournot, nelle Recherches sur les principes mathémathiques de la théorie des richesses (Paris 1838), fornì l'occorrente per ciò che sarebbe diventato lo schema più ripetuto nei trattati di economia: la domanda e l'offerta come funzioni matematiche del prezzo, due curve la cui intersezione determinava il prezzo di equilibrio e la quantità scambiata del bene in questione. L. Walras fu il grande generalizzatore di queste idee negli Éléments d'économie politique pure ou théorie de la richesse sociale (Paris 1874- 1877), un'opera che gli valse l'iperbolico elogio di ‛Newton dell'economia', prima che qualcuno fosse in grado di identificare un ‛Tycho Brahe dell'economia'. Ciascun mercato venne inteso come un meccanismo capace di trovare par tâtonnement la soluzione di un sistema di due equazioni (versione algebrica della geometria delle due curve di domanda e di offerta) con due incognite, il prezzo di equilibrio e la connessa quantità scambiata. Che accadeva se si consideravano simultaneamente tutti i mercati di tutti i beni, e se la domanda e l'offerta di ciascun bene erano funzioni dei prezzi di tutti i beni, in modo da tener conto del fatto che, per esempio, ‟un aumento del prezzo delle automobili può ridurre la domanda di pneumatici e aumentare la domanda di trasporti per autobus?" (v. Baumol, 1961; tr. it., p. 390). Ne risultò un sistema gigantesco, in cui però, senza sorprese, il numero delle equazioni rimaneva sempre eguale al numero delle incognite, condizione di cui Walras si accontentò per concludere che il sistema era risolvibile e l'‛equilibrio generale' era possibile. L'unico ostacolo concettuale sembrò consistere nella peculiarità di quel bene arbitrario, per esempio l'oro, che fungeva da ‛numerario' o misuratore dei prezzi, e il cui prezzo non poteva essere incognito, perché doveva essere eguale all'unità: il prezzo di un marengo d'oro espresso in marenghi d'oro era l'unità per definizione. Spariva una incognita, ma sparì anche un'equazione, grazie a una semplice congruenza contabile, detta ‛legge di Walras': dove si domandavano 100 lire di pane si offrivano 100 lire di numerario, e dove si offrivano 100 lire di pane si domandavano 100 lire di numerario; quindi, dove si realizzava l'equilibrio per il pane si realizzava pure quello per il numerario; un qualunque equilibrio era dipendente da tutti gli altri, e una qualunque equazione di equilibrio era ridondante e cancellabile (v. Napoleoni, 19633, p. 22).

La ‛legge degli sbocchi' armonizzava solo la domanda globale e l'offerta globale: l'equilibrio generale, per chi era di facile contentatura, armonizzò tutto e non rinnegò nulla, nemmeno l'‛identità di Say', nemmeno la ‛moneta neutrale'. L'‛identità di Say' apparve come una versione appena un po' più severa della ‛legge di Walras': dove si domandavano 100 lire di pane si offrivano 100 lire non soltanto di numerario, ma di carne o di un altro prodotto, come se si fosse trattato di un baratto, appena avvolto da un velo monetario. Si fu poi attratti dall'idea che il livello generale dei prezzi, ovvero i prezzi ‛assoluti', non influisse sulle soluzioni del sistema di equazioni: se fosse rincarato il prezzo del pane rispetto al prezzo della carne, si sarebbe domandato meno pane e più carne (forse: secondo il ‛paradosso di Giffen', una famiglia povera avrebbe potuto reagire domandando più pane); ma se i due prezzi variavano in parallelo, e restava costante il loro rapporto, cioè se i prezzi ‛relativi' erano immutati, perché mai avrebbero dovuto mutare le domande e le offerte di equilibrio? (ibid., pp. 22 ss.).

I neoclassici sottolinearono che, al prezzo di equilibrio, il produttore-venditore massimizzava il suo profitto, e il consumatore-compratore massimizzava la sua utilità, subordinatamente al rispetto di vincoli, come un certo stato della tecnica, un dato reddito spendibile, ecc.; risultato ovvio, se si postulava che il desiderio del consumatore fosse appunto il massimo di utilità e quello del produttore il massimo di profitto. Ma il tocco finale alla costruzione di Walras fu di Pareto, col Manuale di economia politica (Milano 1906), nel quale, con argomenti ben più raffinati di quelli di Smith, dimostrò che l'equilibrio generale era ‛ottimo', nel senso che, una volta raggiunto, non si poteva più aumentare la produzione di un bene senza diminuire la produzione di qualche altro bene, e non si poteva più aumentare l'utilità di un consumatore senza diminuire l'utilità di qualche altro consumatore (v. Napoleoni, 19633, pp. 41 ss.). Il concetto di ‛ottimo paretiano' piacque tanto da indurre a chiedersi se solo il mercato fosse in grado di portare a quel beato reame dell'equilibrio generale; e la risposta di E. Barone, nel celebre articolo: Il ministro della produzione nello Stato collettivista, sul ‟Giornale degli economisti" del settembre-ottobre 1908, fu ovviamente negativa. Perché mai un ministro della produzione non sarebbe dovuto riuscire, almeno in linea di principio, a calcolare o a farsi calcolare la soluzione di un sistema di equazioni? Perché la matematica avrebbe dovuto valere per una ideologia e non per un'altra? Ecco come Pareto e Barone, i quali non nutrivano la minima simpatia per il socialismo, ‟crearono ciò che è a tutti gli effetti e gli scopi la teoria pura del sistema socialista, e resero così alla dottrina socialista un servizio che gli stessi socialisti non erano mai stati in grado di rendere" (v. Schumpeter, 1954; tr. it., p. 1210).

c) Decadenza della teoria dell'equilibrio

Si creò la convinzione (o l'illusione?) che la pura logica, indipendente dalla morale e dalle ideologie, e senza ricorsi a ‛inammissibili' confronti interpersonali delle utilità, fornisse un criterio per giudicare il bene e il male. Questa convinzione ispirò una nuova branca di studi chiamata ‛economia del benessere', in cui si cimentarono molte intelligenze (v. Mishan, 1968-1969, pp. 221 ss.); ma in effetti non sopì la disputa tra liberali e socialisti, anzi la rinfocolò. Economisti liberali, come F. A. von Hayek e L. Robbins, sostennero che il sistema di equazioni dell'equilibrio generale era troppo babilonico per calcolarne a tavolino la soluzione, e che erano indispensabili i metodi decentrati e indiretti del mercato: una tesi che l'avvento dei calcolatori elettronici non indebolì irrimediabilmente. La teoria dell'equilibrio generale era ‛matematica qualitativa', e prescindeva dai problemi di calcolo, al punto da presumere l'esistenza di una soluzione purché le incognite e le equazioni fossero eguali di numero, mentre ciò non era sufficiente né necessario (come ammise lo stesso Walras), soprattutto se si pretendeva che la soluzione fosse unica ed economicamente significativa (una soluzione con una quantità negativa da produrre non avrebbe avuto senso, per esempio). Inoltre, la moltitudine di curve di domanda e di offerta disegnate nei testi di economia era bellamente una invenzione dei disegnatori: i pochi, fra cui il pioniere H. L. Moore e il suo discepolo H. Schultz (v. Stigler, 1965, pp. 343 ss.), che cercarono quelle curve empiricamente, e non nella fantasia, incapparono in difficoltà spesso insormontabili. Quando infine, dopo la seconda guerra mondiale, la programmazione matematica dell'economia mostrò di avere dalla sua parte, oltre ai calcolatori elettronici, nuovi algoritmi per dominare grandi insiemi di dati, ci si accorse che gli economisti tradizionali avevano poco o nulla da dire: la parola era ai cultori di nuove discipline, con nuovi gerghi esoterici, nuove e incerte mappe costellate di diciture come ‛cibernetica', ‛ricerca operativa', ‛programmazione lineare', ‛teoria dell'informazione', ‛analisi dei sistemi', ‛teoria dei giochi', ‛scienza del comportamento' ... e hic sunt leones (v. Simon, 1968-1969, pp. 19 ss.; v. Dorfman, 1968-1969, pp. 56 ss.; v. Hicks 1968-1969, pp. 114 ss.; v. Napoleoni, 19633, pp. 124 ss.).

Le applicazioni microeconomiche di tali novità furono impressionanti, ma molto meno quelle macroeconomiche: calcolare matematicamente qualcosa come quantità e prezzi ‛ottimi' di 15 milioni di specie diverse di merci, che si dice siano prodotte nell'URSS (v. Wiles, 1962; tr. it., p. 234), rimase e rimane tuttora un'utopia, oltre mezzo secolo dopo Barone, il cui immaginario ministro della produzione dovrebbe ancor sempre ricorrere, se non al mercato, a un succedaneo socialistico del mercato. Lo ammise, fra gli altri, l'economista marxista O. Lange, salvo rivendicare il primato del succedaneo rispetto all'originale (v. Napoleoni, 19633, pp. 152 ss.); e l'URSS dedicò ai nuovi algoritmi così scarsa importanza, da consentire talvolta agli Stati Uniti di sfruttarli per primi perfino quando erano stati concepiti da cervelli sovietici (v. Wiles, 1962; tr. it., pp. 238, 243). Da parte loro, gli economisti neoclassici borghesi avevano sempre ammesso che non un qualunque mercato capitalistico, ma solo il raro mercato di ‛concorrenza perfetta' permetteva le delizie dell'equilibrio paretiano: un monopolista o un gruppetto di monopolisti rivali (oligopolisti) faceva crollare la costruzione di Walras-Pareto, se non altro perché crollavano le curve di offerta, le quali presupponevano dei produttori incapaci, uno per uno, di controllare i prezzi, e quindi disposti a subirli. Li subivano, per esempio, i contadini che portavano in piazza i loro prodotti, rassegnati a venderli ai prezzi che trovavano e, magari, ogni giorno diversi, appunto secondo la ‛legge della domanda e dell'offerta'; ma non li subivano, per esempio, le case automobilistiche, che fissavano i prezzi a un livello scelto da loro, e non li cambiavano finché non ne vedevano la ragione. I contadini erano concorrenti perché piccoli produttori isolati di merci, la cui qualità, stabilita dalla natura, non si differenziava facilmente; le case automobilistiche godevano di una posizione di oligopolio perché grandi produttrici di merci differenziate a piacere, per cui la vettura di una casa era volutamente diversa dalla vettura di un'altra casa rivale, e la pubblicità commerciale si sforzava di metterlo in risalto, magari mentendo.

Dall'alto delle loro astrazioni, i neoclassici videro i concorrenti tutti angeli, e i monopolisti od oligopolisti tutti diavoli. I mali economici derivavano dall'imperfezione della concorrenza (come se a questo mondo ci potesse essere qualcosa di perfetto...): se i consumatori non riuscivano ad acquistare ulteriori unità di un bene ad un dato prezzo, pur eccedente il costo di produzione, era colpa di un monopolista che restringeva l'offerta sapendo di poter così tener alto quel prezzo e guadagnare di più (v. Lipsey, 1963; tr. it., p. 344); se vi era della disoccupazione involontaria, la responsabilità andava ai sindacati, che impedivano alle paghe di scendere quanto bastava perché la domanda di lavoro eguagliasse l'offerta; se l'economia aveva degli alti e bassi, delle fluttuazioni cicliche, delle fasi alternate di buona e cattiva congiuntura, una causa doveva ricercarsi negli ostacoli al laissez faire, al libero, rapido e intenso operare della ‛legge della domanda e dell'offerta'. Purtroppo, ‟nonostante una economia matematica alla Walras ci dica tutto su tutti i mercati in astratto, non ci dice nulla su nessun mercato concreto" (v. Stark, 1958; tr. it., p. 237): ci volle del tempo per capire che talvolta la ‛legge' era inefficace non per la malignità dei monopoli o per l'ingerenza pubblica, ma per fatali motivi ‛tecnici'. ‟Due principali ragioni spiegano perché le libere forze non operano in modo soddisfacente in alcuni mercati: o sono ritardate o sono troppo deboli. Nel mercato del caffè i ritardi erano troppo lunghi. Un prezzo elevato del caffè stimolava l'offerta, ma soltanto dopo un periodo di sette anni, necessario alla crescita delle nuove piantagioni. Nel mercato del grano, si rileva un esempio di forze troppo deboli: l'aumento dei prezzi riduce la domanda, ma di poco, perché il grano è un alimento fondamentale" (v. Tinbergen, 1963; tr. it., p. 63); cioè, l'elasticità della domanda di grano rispetto al prezzo è scarsa. Si potrebbero pure indicare gli inconvenienti connessi ai beni molto durevoli, come le case e, se si accetta il concetto di ‛merce lavoro', i lavoratori, il cui stock, accumulatosi negli anni, rende quasi insignificante la nuova ‛produzione' dell'ultimo anno.

Paradossalmente, dopo tanto inneggiare alla concorrenza, dove essa era più spontanea, cioè nei mercati agricoli, la si vide piena di inconvenienti, mentre i mercati industriali oligopolistici risultarono spesso fra i meno inquietanti. Quando si formarono le grandi case automobilistiche e sparì la pleiade dei piccoli produttori, che erano stati i pionieri dell'automobile all'inizio del secolo, l'aumento del grado di monopolio avrebbe dovuto, in teoria, rincarare il prodotto; invece accadde il contrario, grazie al progresso tecnico e alla produzione in serie, relativamente meno costosa di una produzione di tipo artigianale (v. Fourastié, 1969, pp. 171 ss.). La teoria abusava della clausola del ceteris paribus, contemplava un mondo statico, senza tempo, nel quale gli imprenditori erano concorrenti o monopolisti, ma non inventori, non innovatori: tra gli imprenditori dei libri di testo e quelli in carne e ossa non c'era parentela. Né ci si avvicinò alla realtà con l'Economics of imperfect competition (London 1933) di J. Robinson, o l'analoga e coeva Theory of monopolistic competition (Cambridge, Mass., 1933) di E. H. Chamberlin. ‟Si pretende giustamente che la teoria della concorrenza imperfetta rappresenti la reazione degli economisti ai caratteri dell'industria moderna [...]. Ma i fatti non furono studiati seriamente, e le generalizzazioni si basarono su ricerche empiriche di singolare modestia" (v. Wiles, 1956, pp. 1-2). Solo dopo la seconda guerra mondiale, riconosciuto l'oligopolio come la forma di mercato più frequente, si ebbe una teorizzazione più realistica, conscia di tante piccole verità che più o meno si erano sempre sapute e mai scientificamente sistemate: cioè che ciascuna impresa rinunciava al massimo profitto nel breve periodo, se ciò pregiudicava il massimo profitto nel lungo periodo; che in presenza di poche, grosse rivali, ogni impresa teneva d'occhio le reazioni delle altre; che ignorando la forma della curva di domanda e mancando la curva di offerta, il modo più comodo di fare il prezzo era per un oligopolista basarsi sul ‛costo pieno', cioè sulle spese di produzione più un margine di profitto ‛ragionevole' secondo le circostanze, la forza dei rivali, ecc. (v. Sylos Labini, 1964, pp. 32, 39 ss., 112-113).

Qualunque teoria statica dell'impresa, e in particolare quella della concorrenza, perfetta o imperfetta, era ‟come Amleto senza il principe danese" (v. Schumpeter, 1942; tr. it., p. 79). Appunto Schumpeter rilanciò l'idea di un processo concorrenziale, in cui il protagonista non era il prezzo, ma il cambiamento, la ‛distruzione creativa' operata dal capitalismo, suscitata ‟dalla nuova merce, dalla nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo organizzativo". ‟Questo genere di concorrenza è molto più efficace dell'altro, come un bombardamento è molto più efficace di uno scasso, e, data la sua molto maggiore importanza, diviene relativamente indifferente la questione se la concorrenza nel senso comune funzioni con prontezza maggiore o minore" (ibid.; tr. it., p. 78). Non si trattò di un'incondizionata apologia del capitalismo, perché la rivalità e l'impeto degli oligopolisti potevano talvolta ricordare le bande di gangsters, ma fu un grave colpo inferto alla teoria neoclassica della concorrenza e alla aureola dell'‛ottimo paretiano' che la sovrastava. Non si era in equilibrio finché l'utilità di un consumatore poteva aumentare senza che diminuisse l'utilità di qualche altro consumatore; ma ciò significava semplicemente che ‟se tu hai una bottiglia di whisky (che non ti piace) e io un quarto di gin (che detesto) ebbene: scambiamoceli!" (v. Baumol, 1961; tr. it., p. 413). Non si era in equilibrio se la produzione di un bene poteva ancora aumentare senza che diminuisse la produzione di qualche altro bene; ma poco importava un equilibrio che non rispondesse alla domanda: quale marmellata produrre, ‟se ad Elena piace la marmellata di arance e a Daniele la marmellata di ciliege; né era pacifico decidere che ‟una ripartizione ottimale delle risorse impone di produrre più marmellata di arance per Elena anziché più marmellata di ciliege per Daniele, se Elena può permettersi di pagarla e Daniele no" (ibid.; tr. it., pp. 417, 420).

A dispetto dell'‛economia del benessere', parve inevitabile che qualche autorità politica esprimesse giudizi di valore su Elena e su Daniele, sui ricchi e sui poveri, sulle qualità di marmellata o ancor più sull'alcool e sul latte, come in fondo era sempre avvenuto in pratica. Gli stessi liberisti avevano ammesso il caso che il calcolo privato dei vantaggi e degli svantaggi non coincidesse con quello pubblico o sociale, nemmeno in regime di concorrenza perfetta. La paternità dei concetti di ‛diseconomie' ed ‛economie esterne' risaliva almeno a Marshall, e tutti ne conoscevano gli esempi ripetuti nei libri di testo: ‟Da un lato, il fumo di una fabbrica, i cui danni, quando mancano gli opportuni accorgimenti, sono sopportati da persone diverse dal proprietario della fabbrica, e dall'altro, la bonifica di un podere che può andare a beneficio dell'azienda di un vicino del proprietario del podere stesso, e che in realtà diventa redditizia solo se viene contabilizzato tale beneficio goduto dal vicino, che per altro non può essere costretto a pagare la sua parte" (v. Wiles, 1962; tr. it., p. 96). Ma la visione dinamica dell'economia sembrò chiedere ben altro ai pubblici poteri che multare l'industriale la cui fabbrica affumicava l'ambiente, o sussidiare la bonifica di un podere. La ‛distruzione creativa' sottoponeva l'economia capitalistica a violente scosse, non interpretabili come difetti da trascurare della ‛legge della domanda e dell'offerta': occorreva una spiegazione più convincente dei soprassalti congiunturali, nonché una nuova politica per attenuarli.

Una teoria del ciclo più realistica, e che non poteva lasciare indifferenti i politici, era stata avanzata da Schumpeter fin dal 1912, anno in cui pubblicò a Lipsia la Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung. Con Business cycles (New York 1939) la perfezionò, fornendo un quadro impressionante delle ondate di innovazioni. Dal 1787 al 1842 si era compiuta l'epopea dei filatoi di Arkwright e della macchina a vapore di Watt; dal 1842 al 1897, quella dell'acciaio e delle ferrovie; dal 1897 alla seconda guerra mondiale, quella dell'elettricità, dell'automobile e della chimica dei prodotti artificiali e sintetici. A tali cicli lunghi o ‛cicli Kondrat′ev', le cui date indicavano approssimativamente la crisi fra una fase di prosperità e l'altra, si intrecciavano cicli brevi, i ‛cicli Juglar', di alcuni anni, e i ‛cicli Kitchin', di alcuni mesi, provocando alti e bassi negli investimenti, che erano fra le domande più sensibili ai cambiamenti di umore degli operatori economici. Ma la ‛grande crisi' mondiale, scoppiata nel 1929, non fu soltanto il brusco inizio della discesa nel terzo ciclo Kondrat′ev: fu una catastrofe senza precedenti provocata da un panico senza precedenti, e fu inoltre la prova che i paesi più ricchi erano i più vulnerabili, se non altro perché avevano più da perdere, e che lo sviluppo economico rischiava di diventare un trampolino per far precipitare da un'altezza maggiore chi vi si avventurasse con gli occhi chiusi dall'ignoranza.

Pochi economisti fecero una bella figura; il celebre I. Fisher, pochi giorni prima del tracollo della Borsa di New York, che avrebbe ridotto a un sesto le quotazioni dei titoli, ebbe la sfortuna di dichiarare: ‟Mi aspetto di vedere fra qualche mese il mercato azionario a un livello assai più elevato di oggi" (cit. in Galbraith, 1955; tr. it., p. 118). Le Cassandra inascoltata e solitaria fu Keynes: vide subito giusto, eppure ancora nel 1936, quando a Londra usci la sua General theory of employment, interest and money, e la ‛grande crisi' trovò una teorizzazione adeguata, benché non definitiva, ebbe avversa una parte notevole dell'economia accademica. Occorse altro tempo affinché la ‛rivoluzione keynesiana' vincesse (e infine stravincesse): allora essa parve un insieme di verità quasi ordinarie, formulate con rabbia contro la ‛stupidità' di una ‛scuola classica', che nella accezione della General theory comprese gli economisti neoclassici, ma che per convenienza polemica venne spesso identificata con le sole versioni più semplicistiche della ‛legge degli sbocchi' e della ‛moneta neutrale'. Say era vulnerabile perché anch'egli, come tanti altri, aveva ceduto al ‛vizio ricardiano' (v. Schumpeter, 1954; tr. it., pp. 575, 749 ss.) di correre a conclusioni politiche sforzando la teorizzazione dei fatti: ‟I suoi lettori furono posti di fronte a un quadro del processo capitalistico che mostrava unicamente la marcia trionfale dell'industria, in cui nulla disturbava la costante avanzata verso il livello della piena occupazione, salvo le perturbazioni locali e le politiche restrittive dello Stato. Tutti gli altri mali che opprimevano la gente svanivano al grido di battaglia ‛l'offerta crea la propria domanda'" (ibid.; tr. it., p. 753).

Il punto di partenza della critica keynesiana fu, come ci si poteva attendere, che in ogni momento, con date risorse di lavoro e di capitale, l'economia possedeva una capacità produttiva, una parte della quale era ‛risparmiata', cioè non trovava impiego nella produzione di beni di consumo, ma restava libera per produrre beni di investimento: se questi non erano prodotti in misura sufficiente, la capacità ‛risparmiata' diventava capacità sprecata. Il risparmio cessava di essere una ‛virtù' da premiare, e diventava un ‛vizio' da punire; il tesoreggiamento della moneta non spesa in consumi, né in investimenti, era la fine della piena occupazione. ‟Qualsiasi fluttuazione dell'investimento, non compensata da una corrispondente variazione della propensione a consumare, provocherà, naturalmente, una fluttuazione dell'occupazione" (v. Keynes, 1936; tr. it., p. 280). E spesso, purtroppo, l'investimento sembrava avere una grande voglia di fluttuare, secondo i ghiribizzi delle imprese, mentre la propensione al consumo restava ferma, ancorata alle abitudini delle famiglie. Trattandosi di beni durevoli, gli investimenti eran decisi secondo aspettative circa il futuro, la cui base era molto precaria. ‟Parlando francamente, dobbiamo ammettere che il fondo delle nostre conoscenze per stimare il rendimento che una ferrovia,una miniera di rame, uno stabilimento di tessitura, una specialità medicinale, un transatlantico, o un edificio nella City di Londra daranno fra dieci anni, o anche fra cinque anni soltanto, è piccolo e talvolta nullo". L'intraprendenza economica ‟non è basata su un calcolo preciso di vantaggi futuri, molto più di quanto lo sia una spedizione al polo sud. Se quindi le tendenze dell'animo si offuscano, e se l'ottimismo spontaneo svanisce [...], l'intraprendenza illanguidisce e muore; benché il timore di perdita possa non avere una base più ragionevole di quella che la speranza di profitto avesse innanzi" (ibid.; tr. it., pp. 131, 141): usciva cosi di scena il disumano homo œconomicus tutto cervello e niente sentimenti.

Per contro, i consumi familiari parevano restare, in prima approssimazione, una quota quasi costante, nel breve periodo, dei redditi guadagnati: per esempio, l'80%. Ma i redditi guadagnati dipendevano dalla produzione di beni di consumo e di beni di investimento: quindi, in un'economia chiusa (senza commercio con l'estero, come immaginata per semplicità nei testi elementari), poiché la quota dei beni di consumo era l'80% (i quattro quinti), il reddito si determinava a un livello tale che la restante quota del 20% (un quinto) corrispondesse agli investimenti decisi dalle imprese. In altre parole, il reddito o la domanda globale era 5 volte la domanda di beni di investimento, e variava in proporzione (‛teoria del moltiplicatore'). Se il reddito di piena occupazione dei fattori produttivi fosse stato 100, esso si sarebbe realizzato solo se le imprese si fossero decise a investire 20 (consumi conseguenti: 80); se invece limitavano gli investimenti a 10, la domanda globale non scendeva a 90, ma a 50, con forte disoccupazione, perché il 20% di 50 era appunto 10 (consumi conseguenti: 40). La ‛legge degli sbocchi' veniva sovvertita così: la domanda di investimenti determina il reddito, che crea la sua domanda di consumi.

Con dissacrante immaginazione, Keynes e i suoi discepoli cercarono di smontare tutti i meccanismi equilibratori di mercato, e riuscirono perfino a trovare meccanismi disequilibratori. Il tasso di interesse armonizzava tutt'altra cosa di quel che pensavano i ‛classici': esso ‟non è il ‛prezzo' che porta all'equilibrio la domanda di mezzi da investire con la disposizione ad astenersi dal consumo presente. È il ‛prezzo' che equilibra il desiderio di tenere la ricchezza in forma di denaro con la quantità di denaro disponibile [...]. Se questa spiegazione è corretta, la quantità di moneta è l'altro fattore che, insieme con la preferenza di liquidità, determina il saggio effettivo di interesse in date circostanze" (ibid.; tr. it., p. 147). Non che la quantità di moneta fosse ‛neutrale': influendo sul tasso di interesse, indirettamente toccava gli investimenti e i risparmi, ma non abbastanza da rimediare alla poca voglia di investire e di consumare, cioè alla troppa voglia di risparmiare. ‟Se la riduzione del saggio di interesse fosse atta a dimostrarsi di per sé solo un rimedio efficace, potrebbe essere possibile ottenere una ripresa senza il decorso di un intervallo considerevole di tempo e con mezzi sotto il controllo più o meno diretto dell'autorità monetaria. Ma comunemente ciò di fatto non si verifica" (ibid.; tr. it., p. 282). Anzi non era nemmeno immaginabile che il saggio di interesse scendesse sotto certi minimi, se tutti preferivano tesoreggiare anziché spendere (‛trappola della liquidità'): come si usò dire, con una politica di denaro facile si portava tanta acqua al cavallo, ma non si poteva obbligarlo a bere. ‟Per esprimerci col linguaggio ordinario, è il ritorno della fiducia che è tanto poco suscettibile di controllo in un'economia capitalistica individualista. Questo è l'aspetto della crisi che i banchieri e gli uomini d'affari hanno avuto ragione di mettere in luce, e che gli economisti i quali hanno posto la loro fede in un rimedio ‛puramente monetario' hanno sottovalutato" (ibid.; tr. it., p. 282).

Né la riduzione dei salari e del livello generale dei prezzi sembrava una cura consigliabile: intanto, i prezzi oligopolistici e soprattutto i salari sorretti dai sindacati opponevano resistenza a flettersi; ma quand'anche gli uni o gli altri si fossero flessi, appunto perciò avrebbero tolto potere d'acquisto e speranze o agli imprenditori o ai lavoratori, mentre, se prezzi e salari calavano egualmente, i compratori, in attesa di ulteriori ribassi, si sarebbero astenuti dal domandare ciò che non occorreva con immediatezza. Qualche vantaggio era concepibile per il commercio con l'estero, se negli altri paesi i costi restavano alti, o anche per la domanda interna, se la rivalutazione dello stock di cassa concorreva ad abbassare il tasso di interesse: ancora una volta, per i keynesiani, il collegamento tra l'economia reale e l'economia monetaria era sì realizzato, ma per via traversa, per mezzo del tasso di interesse, stimolatore debolissimo di consumi e di investimenti, il quale ricevette ‟l'omaggio dovuto a un sovrano di mera rappresentanza, senza avere in realtà importanza maggiore di un sovrano del genere nelle vicende concrete delle nazioni occidentali" (v. Shackle, 1968-1969, p. 219). Quanto alla via diretta ‛classica', ‟perfino Pigou ammise che l'effetto di Pigou è di scarsa rilevanza pratica" (v. Blaug, 1968; tr. it., p. 795). ‟il problema può infine essere deciso soltanto mediante ricerche statistiche dettagliate, ma nel 1930 la dura prova dell'esperienza sembrò essere dalla parte di Keynes" (v. Robinson, 1949; tr. it., p. 83).

In conclusione: ‛'Se, sotto l'influenza della preferenza per la liquidità, il saggio di interesse è tale che, esistendo la piena occupazione, l'ammontare che si desidera risparmiare supera l'ammontare che imprenditori di questo o quel genere desiderano per le loro spese di capitale, scorte sovrabbondanti appariranno e i profitti saranno inadeguati; la conseguente riduzione degli ordini abbasserà il livello dell'occupazione finché non sia raggiunto un livello di povertà relativa al quale la totalità di ciò che i singoli individui desiderano risparmiare non superi più l'ammontare per cui gli imprenditori trovano incentivo a spendere. È questa la dottrina centrale dell'occupazione" (v. Harrod, 1951; tr. it., p. 536). Tornando al precedente esempio numerico: se al reddito 100 si desiderava consumare 80, risparmiare 20 e investire 10, e se non si esportava il risparmio eccessivo, l'economia si sarebbe impoverita fino al reddito 50, ai consumi 40, ai risparmi 10 e agli investimenti 10. La caduta sarebbe stata minore se avesse spinto a consumare più dell'80% di un reddito impoverito; ma sarebbe stata maggiore, e la crisi avrebbe mostrato tendenza ad accelerare indefinitamente (‛teoria dell'acceleratore'), se lo spettacolo delle fabbriche inattive avesse indotto a investire meno di 10.

Gli imprenditori avevano in mano la chiave della prosperità: investire 20; ma tutto congiurava perché investissero 10 o meno di 10; i segnali del mercato erano sbagliati, e la morale di Keynes fu che ‟il compito di determinare il volume corrente di investimento non può, senza pericolo, lasciarsi in mani private" (v. Keynes, 1936; tr. it., p. 285). Una qualunque politica di investimenti pubblici, finanziati con deficit di bilancio (deficit spending), perché le imposte non togliessero potere d'acquisto alla popolazione, fu giudicata un buon rimedio: ‟La costruzione di piramidi, i terremoti, perfino le guerre possono servire ad accrescere la ricchezza, se l'educazione dei nostri governanti secondo i principi dell'economia classica impedisce che si compia qualcosa di meglio" (ibid.; tr. it., p. 114). Per fortuna, questi erano eccessi polemici, e molto meno sarebbe bastato per rimettere in moto il mercato e farlo sopravvivere: una piccola spinta pubblica, che il ‛moltiplicatore' e l'‛acceleratore', questa volta operando nella giusta direzione, avrebbero trasformato in una forza potente di sollevamento della congiuntura e di ritorno all'equilibrio di piena occupazione.

Sul piano politico, la ‛rivoluzione keynesiana' fu assai poco rivoluzionaria: i lavori pubblici erano nel bagaglio ‛classico' della politica economica, o addirittura erano nel bagaglio di ogni politica economica di buon senso; per esempio la Germania durante la ‛grande crisi' non attese il verbo di Keynes per far quel che occorreva fare, purtroppo in sintonia con gli istinti bellicosi di Hitler. Paladino dell'intervento statale, l'inglese rimase, ciò nonostante, un liberale, se non un liberista: ‟I controlli centrali necessari ad assicurare l'occupazione piena richiederanno naturalmente una vasta estensione delle funzioni tradizionali di governo [...]. Ma rimarrà ancora gran campo all'esercizio dell'iniziativa e della responsabilità individuale. Entro questo campo, i vantaggi tradizionali dell'individualismo varranno ancora" (ibid.; tr. it., p. 337). E nella General theory a queste righe l'autore fece seguire uno dei più fervorosi elogi della società liberale, alienandosi le simpatie dei collettivisti, che cercarono e trovarono versioni più marxiane del nuovo modo di ragionare; esigenza soddisfatta principalmente dai saggi del polacco M. Kalecki, iniziati nel 1933 e quindi perfino precedenti alla General theory del 1936, ma ignorati a lungo in Occidente, se non altro perché scritti in lingua polacca (v. Kalecki, 1965; tr. it., pp. 17 ss.).

Sul piano puramente teorico, almeno un altro illustre predecessore di Keynes non ebbe tutto il risalto che meritava, perché scrisse in lingua svedese; K. Wicksell, il più illustre esponente della ‛scuola svedese', dopo aver coniato l'espressione ‛moneta neutrale', si era proposto negli ultimi anni del XIX secolo e nei primi del XX di definire esattamente le condizioni per la ‛neutralità', ‟e questo alla fine condusse alla scoperta che tali condizioni non si possono formulare [...], un caso interessante di un concetto che rende servizi preziosi col dimostrarsi impraticabile [...]. Wicksell è perciò il santo patrono di tutti quegli economisti che presentemente ripudiano la legge di Say" (v. Schumpeter, 1954; tr. it., pp. 1334, 1370. Meglio: ‟ripudiano l'identità di Say"). Dunque l'inglese, come egli stesso concesse, fu varie volte precorso, e oggi che la sua ‛rivoluzione' è stata assimilata, ‟il contrasto fra nouveau e ancien régime sembra molto minore di quanto Keynes avesse mai previsto" (v. Blaug, 1968; tr. it., p. 809). Ma nessuno gli toglierà il merito di avere molto avvicinato la teorizzazione ai fatti, e di avere trasformato coi fatti la politica. Il contributo essenziale della General theory fu ‟d'aver formulato una teoria in termini di un modello le cui variabili sono definite in modo da essere soggette a misura e a controllo empirico" (ibid.; tr. it., p. 810), contro le astrazioni dell'equilibrio generale (v. Kaldor, 1972); una teoria che non avrebbe potuto fare a meno della contabilità nazionale: dopo Keynes la politica non sarebbe più stata come prima, perfino per i politici non keynesiani.

9. Dopo la 'rivoluzione keynesiana'

Un giornalista, forse con qualche esagerazione, scrisse nel 1970: ‟Si calcola che la metà delle ricerche economiche compiute in tutta la storia sia stata realizzata negli ultimi dieci anni [...]; i giovani economisti sono tanti, forse dieci volte di più della generazione che li ha preceduti" (v. Levi, 1970, p. 19). Tale boom dell'economia, che rende ogni tentativo di esplorarla un viaggio attraverso il caos, avvenne perché questa scienza si presentò, dopo la ‛rivoluzione keynesiana', come l'economia del boom, capace di insegnare a un governo il modo di avere cento mesi e magari cento anni di prosperità, rendendo il 1929 una follia irripetibile. Ma la maggior gloria della confraternita degli economisti fu di far sentire, pur nei clamori del successo, la voce dell'autocritica: ‟Sarebbe troppo crudo dire che la scienza economica è avanzata più in fretta dove è più lontana dalla realtà, ma vi è, in questa diagnosi, abbastanza da imbarazzare. Troppo di quel che capita nella teoria economica ed econometrica è di rilevanza scarsa o nulla per una scienza seria" (v. Worswick, 1972, p. 83).

Dopo la seconda guerra mondiale, i problemi più gravi di politica economica furono parecchio dissimili da quelli risolti dalla scuola di Keynes, e di fronte alle nuove difficoltà poste dalla storia rinacque, negli economisti meno fortificati dal vero spirito di quella scuola, anche se talvolta suoi discepoli dichiarati, la nostalgia di rifugiarsi nella pura astrazione. I problemi politici, più che dissimili, parvero opposti: la ‛grande crisi' era stata la ‛grande deflazione', il collasso della produzione, dell'occupazione e dei prezzi, mentre con l'ultimo dopoguerra iniziò l'era della ‛grande inflazione' e della ‛nuova inflazione' (v. Bronfenbrenner e Holzman, 1968-1969, pp. 81, 105; v. Rueff, 1963).

L'aumento patologico dei prezzi non era una malattia sconosciuta: al contrario, almeno dall'editto di Diocleziano in poi i governi avevano combattuto più l'inflazione che la deflazione, e questo tanto nelle forme lente, secolari, come quelle successive alla ‛peste nera' e alla scoperta dell'oro e dell'argento americani, quanto nelle forme a fiammata, che incenerivano di colpo una moneta, come il marco tedesco nel 1918-1923; e la disillusione degli economisti nasceva appunto dal non saper fare molto meglio, dopo i trionfi della moderna scienza economica, di un imperatore romano del sec. III.

Il dilemma era adesso se la piena occupazione, appena riconquistata, andasse o no perseguita a danno della stabilità dei prezzi, visto che, quasi per vendetta del mercato offeso dai keynesiani, i due obiettivi, entrambi auspicabili, sembravano contraddirsi. La piena occupazione a ogni costo era garantita da un eccesso, permanente e inflazionistico, di domanda globale sull'offerta globale, sotto gli auspici di governi che, in nome di Keynes, potevano finalmente concedersi il piacere di spendere a volontà e senza rimorsi. Senonché l'alibi fondato su Keynes non reggeva a una verifica rigorosa; nella General theory il pericolo dell'inflazione, come effetto collaterale del deficit spending, era segnalato a tutte lettere: ‟Quando un aumento ulteriore della quantità della domanda effettiva non produce alcun ulteriore aumento della produzione e si riversa tutto in un aumento dell'unità di costo esattamente proporzionale all'aumento della domanda effettiva, siamo giunti a una situazione che si potrebbe a ragione dire di vera inflazione" (v. Keynes, 1936; tr. it., p. 270), con l'ammissione che da quel punto in poi tornava a valere una sorta di teoria quantitativa della moneta. Ma prima ancora era possibile che la spinta della domanda in parte si traducesse in salari e prezzi più alti, se non altro perché ‟con l'aumentare della produzione, si avrà una serie di ‛strozzature' successive, ove l'offerta di particolari merci diviene anelastica e i prezzi di queste devono salire fino a qualunque livello sia necessario per deviare la domanda in altre direzioni" (ibid.; tr. it., p. 267).

Negli anni cinquanta uno degli esercizi statistici preferiti consisteva nel disegnare delle ‛curve di Phillips', cioè nel mettere in relazione il tasso di aumento salariale con la percentuale di popolazione lavorativa disoccupata, e se ne ricavò la lezione che spesso si manifestavano già tendenze inflazionistiche pur quando il numero dei senza lavoro era ancora elevato (v. Bronfenbrenner e Holzman, 1968-1969, pp. 127 ss.). Si discusse se diagnosticare il male come ‛inflazione da domanda' oppure, tenuto conto del rincaro del lavoro, come ‛inflazione da costi', e una delle più sagge osservazioni fu di D. Robertson: ‟La stalattite economica della domanda eccessiva è venuta in contatto con una stalagmite sociologica di rivendicazioni crescenti; e quando stalattite e stalagmite si incontrano e si fondono in un bacio di ghiaccio [...], nessuno sulla terra può conoscere con certezza dove finisca l'una e cominci l'altra" (cit. in Bronfenbrenner e Holzman, 1968-1969). Si accusarono i sindacati di aggressività, e le autorità monetarie di arrendevolezza, ovvero, come disse J. R. Hicks, di sostituire un labour standard al gold standard (v. Hicks, 1955, pp. 389 ss.).

Il gold standard o ‛tallone aureo', imponendo un legame quasi sacro, agli occhi dei politici, tra oro nelle casse pubbliche e cartamoneta nelle tasche private, aveva limitato il denaro in circolazione a tutti i fini, compreso quello dell'equilibrio nel mercato del lavoro: se i salari aumentavano ‛troppo', era alquanto pacifico che potesse seguirne disoccupazione, poiché semplicemente venivano a mancare i mezzi per pagare di più gli stessi lavoratori di prima. Ma il gold standard era morto con la ‛grande crisi', e pareva sostituito da un labour standard, cioè dal principio di adattare la moneta circolante ai bisogni, o piuttosto alle richieste, dei sindacati; un ‟indubbio beneficio", secondo Hicks, ma con l'inflazione come rovescio della medaglia. Hicks si aspettava che il labour standard, a differenza del gold standard, fosse un ‛tallone' nazionale, non internazionale, e scrisse: ‟Se il valore della sterlina è fissato in termini del lavoro britannico, e quello del marco in termini del lavoro tedesco, il cambio sterlina-marco non resterà fisso, se fisso non sarà pure il rapporto tra il valore del lavoro britannico e quello del lavoro tedesco" (ibid.; tr. it., p. 391). In realtà, per periodi di tempo abbastanza lunghi, i paesi industrializzati ebbero rincari delle paghe tali che, sottratto l'effetto del progresso della produttività del lavoro, il tasso di aumento del livello generale dei prezzi, o tasso di inflazione, fu ovunque quasi eguale, come se esistesse una tacita intesa; e i cambi tra le diverse monete, fissati con accordi internazionali (un'altra deroga alla ‛legge del mercato'), non risultarono eccessivamente artificiosi, benché di tanto in tanto, per le ragioni accennate da Hicks, un governo fosse costretto a svalutare o a rivalutare la propria moneta rispetto alle altre.

I neoistituzionalisti additarono ulteriori mutamenti politico-sociali che spiegavano la ‛nuova inflazione': essa era presa alla leggera dai sindacati non solo perché accompagnava la ‛prosperità keynesiana', ma anche perché, in genere, l'aumento delle paghe precedeva l'aumento dei prezzi e, quando invece l'aumento dei prezzi precedeva l'aumento delle paghe, interveniva la ‛scala mobile' o qualche simile collegamento automatico tra salari e costo della vita. Quanto agli imprenditori, essi erano sempre più dei managers distinti dai proprietari del capitale e lautamente retribuiti (il raddoppio degli stipendi dei dirigenti in una grande società per azioni ridurrebbe il saggio di rendimento del capitale di non più di un trascurabile ventesimo: v. Marris, 1964; tr. it., p. 123), i quali, col metodo del ‛costo pieno', scaricavano sui prezzi gli oneri pretesi dai sindacati, senza danno eccessivo per i profitti oligopolistici, poiché i loro rivali operavano nello stesso sistema di cause e di effetti. I creditori, a loro volta, si potevano cautelare chiedendo tassi nominali di interesse più elevati, e peggio per loro se, sottovalutando l'inflazione futura, non chiedevano abbastanza. La ‛nuova inflazione' agiva come il grande ‛emolliente sociale' per ridurre gli attriti fra le classi e accontentare tutti, o illudere di accontentare tutti o quasi tutti. I più danneggiati, i percettori di redditi relativamente fissi, come pensionati, beneficiari di assicurazioni e di rendite, e così via (un autore incluse i professori universitari, ma forse pro domo sua), di solito avevano la colpa di essere sparsi qua e là nell'economia, e di non costituire ‛gruppi di pressione' politicamente temibili (v. Bronfenbrenner e Holzman, 1968-1969, pp. 121, 150-151).

S'intende che tutto ciò spiegava, ma non giustificava; tanto più che erano evidenti talvolta errori di dosaggio della medicina keynesiana: errori voluti, se la spesa pubblica eccessiva soddisfaceva il gusto dei governanti per lo spreco (fenomeno non raro, con buona pace di Galbraith, censore partigiano dello spreco privato); o errori non voluti, se la spesa pubblica a contrattempo testimoniava l'incapacità dei governanti di agire con sufficiente prontezza secondo i cambiamenti della congiuntura. Di conseguenza, da un lato si cercò di raffinare la teoria e la pratica keynesiane, e dall'altro si assistette a una rinascita sia dell'antagonistica teoria quantitativa della moneta, anch'essa però con dei perfezionamenti rispetto agli anni venti, sia delle politiche connesse. La scuola neoquantitativa, o Scuola di Chicago, ebbe in M. Friedman il suo alfiere, che raccolse una documentazione empirica senza precedenti per riaffermare il credo ‛classico': ‟Forse nessun'altra relazione empirica in economia si è vista ricorrere così uniformemente, in una così ampia varietà di circostanze, come la relazione tra cambiamenti sostanziali dello stock di moneta nel breve periodo e cambiamenti dei prezzi; gli uni e gli altri sono immancabilmente legati e vanno nella stessa direzione: direi che questa uniformità sia dello stesso ordine di quelle che formano la base delle scienze fisiche" (v. Friedman, 1956, pp. 20-21).

Tuttavia, la velocità di circolazione della moneta non poteva più considerarsi una ‛costante naturale', come a lungo si era creduto, per le solite deficienze statistiche (le prime stime attendibili furono forse quelle del quasi sconosciuto Pierre des Essars, nell'articolo La vitesse de circulation, sul ‟Journal de la Société de Statistique de Paris" dell'aprile 1895): l'esperienza aveva dimostrato che, a parte una tendenza secolare verso la riduzione, la velocità rallentava molto nelle fasi discendenti del ciclo, cioè nelle fasi di recessione, mentre restava sostenuta o addirittura aumentava nelle fasi ascendenti (v. Friedman e Schwartz, 1963, p. 43). La riduzione secolare era collegabile al fatto che le economie diventavano di più in più ‛liquide', col passaggio dall'oro ai biglietti di banca, agli assegni e ad altri surrogati della moneta vera e propria; quanto al comportamento ciclico della velocità, le cause potevano esser varie, e alcune ricordavano quel volubile ‛stato della fiducia' di cui Keynes si era servito per descrivere le pericolose bizzarrie degli investimenti.

L'attesa di minori guadagni e la minaccia di disoccupazione inducevano la gente a tesoreggiare, cioè a costituirsi riserve di moneta per i brutti tempi. Se questa moneta fosse rimasta nei depositi bancari, forse il male sarebbe stato minore, ma la paura dei fallimenti delle aziende di credito (ve ne furono a catena, durante la ‛grande crisi') talvolta consigliava di ritirarla. Prima, ogni biglietto da 100 lire o da 100 dollari concedeva un potere d'acquisto sia a chi l'aveva depositato a vista in banca, sia a chi l'aveva ricevuto in prestito dalla banca stessa, con possibilità che fosse ridepositato e riprestato, sicché la ‛liquidità' era sentita pari a un totale di almeno 200 lire o 200 dollari (‛moltiplicatore del credito'); dopo, ritirati i depositi, la ‛liquidità' si riduceva alle 100 lire o ai 100 dollari originari e messi da parte, inattivi, per fronteggiare i pericoli del futuro. La previsione di un ribasso dei prezzi, anche delle azioni e delle obbligazioni, fermava analogamente la moneta, perché rendeva conveniente spenderla più in là nel tempo. Se il panico si diffondeva, le aspettative pessimistiche si realizzavano, per la curiosa proprietà di molte variabili economiche di assumere proprio quei valori in cui un numero sufficientemente grande di persone crede con fede sufficientemente grande.

‟Ben inteso, nella maggior parte o in tutte le crisi, l'incentivo a investire e l'effettiva spesa per investimenti declinarono. Il problema, però, è di sapere se il declino fu [...] innescato, per così dire, da cambiamenti monetari, o se esistevano elementi autonomi di debolezza nella domanda di beni capitali bastevoli per innescare le crisi" (ibid., p. 54). Secondo i neoquantitativi, un semplice calo del tasso di incremento dello stock di moneta era necessario e sufficiente per provocare, con effetti cumulativi che coinvolgevano in modo regolare la ‛velocità' della moneta, un calo ancor più notevole del tasso di incremento del reddito, secondo un ‛moltiplicatore monetario'; per contro, dato un certo stock di moneta, una variazione autonoma della spesa per investimenti sembrava non avere alcuna relazione regolare col reddito e coi consumi, smentendo il ‛moltiplicatore keynesiano' (o meglio, il 'moltiplicatore di Kahn', dal nome di chi fornì l'idea a Keynes).

All'attacco dei neoquantitativi rispose il contrattacco dei neokeynesiani, con evidenti vantaggi per la scienza economica, quando si seppero evitare i pettegolezzi e le fumisterie. Per la teoria della moneta si pose l'obiettivo, non ancora raggiunto, ma lodevole, di una sintesi delle idee delle due schiere contrapposte di economisti, e di applicare una teoria dell'equilibrio generale riformata, o meglio una teoria delle scelte nell'incertezza, alla gestione dei patrimoni familiari e aziendali, con particolare riferimento alle attività finanziarie e ai modi in cui i flussi modificavano gli stocks di ricchezza (v. Johnson, 1968-1969, pp. 23 ss.). Si affidò poi alla verifica empirica, a tutto beneficio della metodologia economica e della disponibilità di materiale statistico, il verdetto sul primato dell'uno o dell'altro tipo di ‛moltiplicatore', col risultato provvisorio, ma distensivo, che ‟entrambi recitano una parte" (v. Ando e Modigliani, 1965, p. 716), e che pur quando ‟uno dei due semplici modelli risultasse un po' superiore all'altro, un breve margine di superiorità non autorizzerebbe a dire quale preferire tra due modelli più complessi e quindi più rilevanti" (v. De Prano e Mayer, 1965, p. 746). La mezza vittoria imbaldanzì i neoquantitativi (v. Friedman e Meiselman, 1965, pp. 753 ss.), ma non tanto da non ammettere che il dosaggio della politica monetaria era delicato come quello dei farmaci velenosi, e non meno di quello della politica keynesiana (v. moneta).

Ammesso che la quantità di moneta influisse sul reddito nominale, restava aperta la questione di come dividere l'influsso in variazioni di reddito reale e variazioni di prezzo, e di come fermare un'inflazione senza provocare una recessione, o una recessione senza provocare un'inflazione; nonché di come impedire la mostruosità di un'economia stagnante eppure inflazionistica, un brutto male dell'era postkeynesiana, per il quale si coniò il brutto neologismo ‛stagflazione'. I politici, e gli economisti loro consiglieri, facevano spesso - se non sempre, per fortuna - l'opposto di quel che occorreva (nel 1929-1933 le autorità monetarie avevano ridotto la liquidità invece di aumentarla!), continuavano a oscillare da un eccesso all'altro, ora pigiando troppo il freno, ora l'acceleratore, e imprimendo all'economia una marcia a scossoni, a stop-and-go. ‟Noi economisti negli ultimi anni abbiamo recato gran danno, a tutta la società e alla nostra professione in specie, promettendo più di quel che possiamo dare. Abbiamo quindi incoraggiato i politici a fornire assicurazioni stravaganti, a inculcare speranze infondate, a promuovere lo scontento, giacché i risultati, pur ragionevolmente buoni, restano lontani dalla terra promessa degli economisti" (v. Friedman, 1972, pp. 17-18).

Quando tutti desideravano le stesse cose, e cioè la piena occupazione, la stabilità dei prezzi, il pareggio della bilancia dei pagamenti con l'estero, un buon tasso di sviluppo del reddito pro capite, ecc., sembrava che questi fini fossero incompatibili fra di loro, anche se l'incompatibilità non era assoluta, ma relativa ai mezzi che si sapevano manéggiare (v. Tinbergen, 1956, pp 53 ss.). Ma peggio era quando non tutti desideravano le stesse cose, e peggio ancora quando il conflitto era extra-economico, come pareva diventasse sempre più. Si dovevan cercare equilibri politici ancor più problematici di quelli economici: Kalecki ‟aveva predetto nel 1943 che dopo la guerra, domato il ciclo economico, saremmo vissuti sotto il regime di un ciclo politico" (v. Robinson, 1972, p. 5), causato dallo scontro di tre poteri, quello imprenditoriale, quello sindacale e quello statale, per ripartire una torta che nessuna ‛politica dei redditi' in nessun paese occidentale, pur dove meno si parlava di ‛lotta di classe', riusciva per il momento ad affettare pacificamente e ‛razionalmente'.

L'ultima economia del benessere si era avvicinata alla scienza politica, col solo esito di raccogliere qualche delusione in più, come nel caso della ‛funzione del benessere sociale' o ‛funzione di Bergson-Arrow', che avrebbe dovuto fornire una ‛sociale' di scelte democraticamente rispettose delle ‛individuali': si accertò invece che per assicurare la coerenza era necessaria una funzione del benessere imposta o dittatoriale. ‟Mentre lo schema formale dell'argomentazione di Arrow era imponente, non sarebbe ingeneroso ammettere che la conclusione era ben poco sorprendente. Non ci si deve spingere oltre la considerazione di due uomini ostinati, su un'isola, che abbiano idee diametralmente opposte circa la corretta divisione del lavoro, e dei suoi frutti, per trovarsi di fronte a una impasse di questo genere" (v. Mishan, 1968-1969, pp. 273-274).

Il prodigioso aumento del tenore di vita nei paesi economicamente sviluppati non si era rivelato un ‛emolliente sociale' più efficace delle illusioni inflazionistiche. Per l'umanità, le cose conquistate contavano meno delle cose da conquistare, e poi, almeno dove la massa della popolazione aveva di molto superato il livello di sussistenza, risaltava l'inadeguatezza di uno studio del benessere limitato al produrre e distribuire merci e servizi. ‟Infatti, le cose dalle quali la felicità in definitiva dipende, l'amicizia, la fede, la percezione del bello e cosi via, sono al di fuori del suo ambito" (ibid., p. 300); e pure al di fuori sono il gusto del potere per il potere, e tutto ciò che similmente appaga una umanità in cui i santi non sono mai abbondati. Pertanto, mentre i due terzi degli abitanti del pianeta Terra cercano, e spesso non trovano, almeno nei libri di economia, la chiave dello sviluppo economico, gli altri capiscono che ‟le trionfanti realizzazioni della tecnologia moderna, i viaggi sempre più veloci, i divertimenti artificiali e incessanti, l'annuale cornucopia di attraenti e lucidi congegni, che si basano necessariamente sul culto dell'efficienza, la ricerca unilaterale del progresso, la brama del successo materiale, possono richiedere un prezzo molto alto in termini di felicità umana. Ma l'eleganza formale dell'economia del benessere non lo rivelerà mai" (ibid., p. 300).

Evidentemente, la scienza economica non ha un preminente bisogno di eleganza formale, né di virtuosismi logico-matematici senza correlativi, adeguati contributi alla conoscenza della realtà, ma di maggiori e migliori osservazioni empiriche e di più estesi studi interdisciplinari, con alleanze che vadano dalla storia alla scienza politica, dalla tecnologia alla psicologia, per evitare che gli economisti non ‟abbiano nulla da dire proprio sulle questioni che, per tutti tranne che per loro, appaiono più in attesa di risposta" (v. Robinson, 1972, p. 10). E sempre si ricordi che ‟non vi è alcun principio di verità, ma vi è qualcosa di simile a un principio dell'errore: cioè il contrasto all'interno delle nostre conoscenze, o tra le nostre conoscenze e i fatti. Così cresce il sapere, per mezzo dell'eliminazione critica dell'errore. È in questo modo che ci avviciniamo alla verità" (v. Popper, 1969, p. 193).

10. La scelta del sistema economico-politico

Gli economisti non furono mai del tutto d'accordo nemmeno nell'intendere il loro compito di consiglieri dei politici, e curiosamente due tesi opposte sortirono dall'unica ispirazione liberale di L. Robbins e di L. Einaudi. Per il primo, ‟l'economica è neutrale di fronte agli scopi, e non si può pronunciare sulla validità dei giudizi di valore finale" (v. Robbins, 1935; tr. it., p. 180); per il secondo, ‟la separazione dei mezzi dai fini è irreale e deve essere nettamente respinta. Lo studio dei mezzi, di cui dovrebbe oggettivamente ed esclusivamente occuparsi l'economista, è inseparabile dallo studio dei fini" (v. Einaudi, 1962, pp. 239 ss.). In realtà, le due tesi erano meno distanti di quel che pareva, poiché tutti convenivano che in pratica la distinzione tra fini e mezzi era relativa, ogni fine essendo un mezzo verso altri fini superiori, e ogni mezzo interessando l'intera gerarchia dei fini economici (e non economici). Inoltre, toccava all'economista collaborare col politico perché i fini fossero definiti ‛operativamente', senza contraddizioni, in modo non equivoco e tale da illuminare quel che il politico voleva davvero, essendo ottimistica l'ipotesi che questi sapesse sempre quel che davvero voleva; e infine toccava all'economista presentare la più vasta rosa di possibilità politiche, e tutte le conseguenze esplicite ed implicite di una scelta, tra cui l'opportunity cost, il costo della rinuncia a qualcosa, implicito in ogni alternativa.

Anche così, si finiva col dare un credo all'economista, il credo che ‟la razionalità e la capacità di scegliere con consapevolezza siano desiderabili" (v. Robbins, 1935; tr. it., p. 191). Nessuno lo contestò, ma Einaudi, che amava ricordare il detto di F. Ferrara: ‟Il despota perdona al demagogo, non perdona all'economista", andò un passo oltre, chiedendo un impegno di libertà, e non tutti i colleghi, nemmeno quelli liberali, lo seguirono. Vi furono però alcuni tentativi di considerare la libertà, più che un fine autonomo, un mezzo indispensabile proprio per ‟scegliere con consapevolezza". ‟Se esistessero uomini onniscienti, se potessimo sapere non solo tutto quanto tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i bisogni e le aspirazioni future, resterebbe poco da dire in favore della libertà [...]. La libertà è essenziale per far posto all'imprevedibile e all'impredicibile; ne abbiamo bisogno perché, come abbiamo imparato, da essa nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi. Siccome ogni individuo sa poco e, in particolare, raramente sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti, per propiziare la nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo" (v. von Hayek, 1960; tr. it., p. 48).

Prima di Hayek, Pareto si era già collocato su queste posizioni: ‟Non sarà dunque mai ripetuto abbastanza che, per giudicare una organizzazione, è indispensabile fare una sorta di bilancio: mettere da una parte il bene, dall'altra il male, e vedere da quale parte pende la bilancia [...]. Solo in modo molto grossolano possiamo stabilire questo bilancio: ciò tuttavia è meglio che niente, e soprattutto è meglio di un giudizio angusto, parziale, che non vede se non un aspetto delle cose. Ma l'esistenza di questa difficoltà deve renderci molto circospetti, e dobbiamo confessare sinceramente che, allo stato attuale della scienza, è ben difficile prevedere sicuramente gli effetti di qualunque nuova organizzazione [...]. Riassumendo, solo l'esperienza può decidere; noi non potremmo anticipare col ragionamento la conoscenza dei risultati cui essa ci condurrà [...]. La necessità di ricorrere all'esperienza per giudicare un sistema è un argomento di gran peso in favore dei mutamenti graduali, compiuti solo quando la necessità si fa sentire e non semplicemente in vista di una sistemazione teorica. Inoltre, è uno dei più forti argomenti che si possano portare in favore della libertà, quando si fa il bilancio dei vantaggi e degli inconvenienti di questa. Solo degli esseri infallibili potrebbero affermare che le misure coercitive da loro proposte, per obbligare la società a seguire una certa via, non impediranno di raggiungere uno stato migliore, cui si possa pervenire per altra via" (v. Pareto, 1902; tr. it., pp. 69-70).

Stuart Mill fu tra i primi economisti classici, tendenzialmente liberali e liberisti, a mostrarsi sensibile agli argomenti del socialismo, ma sospese il giudizio in attesa di maggiore esperienza storica. Nella terza edizione (1852) dei Principî, il capitolo sulla proprietà fu quasi completamente riscritto, e nella prefazione si poté leggere: ‟Era ben lungi dalle mie intenzioni che l'esposizione che esso comprende delle obiezioni ai migliori sistemi socialisti noti dovesse essere intesa come una condanna del socialismo [...]. L'unica obiezione alla quale è attribuita grande importanza nella presente edizione è lo stato impreparato dell'umanità". Al tempo e all'istruzione popolare egli lasciò di decidere in futuro tra ‟la proprietà individuale in qualche sua forma (anche se molto lontana dalla forma attuale) oppure la proprietà comune degli strumenti di produzione e una divisione regolata del prodotto" (v. Mill, 18523; tr. it., p. IX). Da allora, l'evoluzione del pensiero economico, nutrito di avvenimenti capitali come la Rivoluzione russa e la ‛grande crisi', avvenne di preferenza nel senso di una fiducia decrescente nel mercato, ‟il pilota automatico dell'Occidente" (v. Tinbergen, 1963; tr. it., p. 56), e quindi di un sempre più frequente appello alla pubblica amministrazione; ciò che si sposò con le attese naturali di molti intellettuali anche non economisti (v. Di Fenizio, 1965, pp. 50 ss.). Tuttavia, l'esperimento cruciale dell'Unione Sovietica ebbe, sulla politica economica occidentale, influssi ben inferiori al prevedibile.

Privo di precedenti, realizzato in circostanze difficili e, talvolta, anacronistiche per gli altri paesi, l'esperimento cominciò col copiare i metodi tedeschi in fatto di economia di guerra, e successivamente, pur con vari cambiamenti di rotta, mantenne un piglio militaresco, che diede un sapore amaro alle formule del socialismo: ‟Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro", e del sempre promesso e sempre rinviato comunismo integrale: ‟Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni" (v. Wiles, 1962; tr. it., pp. 462 ss.). Il socialismo dell'URSS non servì da esatto modello per quello della Iugoslavia, né, durevolmente, per quello della Cina o di Cuba, e tanto meno per il socialismo ‛occidentale'. ‟Nessuno dovrebbe seguire la via tracciata da Stalin, con i suoi terribili sacrifici, a meno che una serie di circostanze imprevedibili non escluda qualunque altra via. Si dice che nessuno può fare la frittata senza rompere le uova. In questo caso non si dovrebbe fare la frittata, se il menu offre qualche altra scelta" (v. Nove, 1969; tr. it., p. 455).

È concepibile, in futuro, un menu più ricco dell'attuale? Qualcuno fa balenare le meraviglie dei calcolatori elettronici e della pianificazione matematica, e invita a contemplare l'ironia della storia: ‟Le strutture economiche che determinano o - per non essere troppo marxisti - che almeno influenzano e giustificano le strutture politiche e sociali, dipendono da banali dettagli come i sistemi di archiviazione, la tecnologia delle comunicazioni, l'algebra matriciale ecc." (v. Wiles, 1962; tr. it., p. 235). Qualcun altro, temendo che le invenzioni non riescano a vincere le ideologie, auspica l'emergere di sistemi misti, ‟che eliminino quelle che i comunisti ritengono le peggiori caratteristiche del capitalismo, conservando ciò che gli Occidentali ritengono sia valido" (v. Tinbergen, 1963; tr. it., p. 193); coesistenza ideologica spinosa, se si postula che possa esistere una sola economia politica obiettiva, imparziale, e cioè solo l'economia politica marxistica o della classe operaia, ‟della classe non interessata a dissimulare le contraddizioni e le piaghe del capitalismo, a conservare l'ordinamento capitalista, della classe i cui interessi si identificano con quelli della società a riscattarsi dal servaggio capitalista, con gli interessi del progresso umano" (v. Lange, 1963; tr. it., vol. I, p. 317; v. anche Baran, 1968; tr. it., pp. 377 ss.). Senza negare un certo ‟conservatorismo professionale" degli economisti non marxisti (v. Stigler, 1965, pp. 51 ss.), bisognerà pur ammettere la loro buona fede, e l'assenza di intenti truffaldini, almeno quando deprecano gli ‟effetti perniciosi" degli alti profitti dei mercanti e degli industriali (v. Smith, 1776; tr. it., p. 91), proprio come fanno gli economisti marxisti.

Ma a conferma della tenacia con cui si mantengono gli ostacoli alle unificazioni ideologiche, va detto che, perfino all'interno dell'area non marxistica, il combattimento delle idee è tutt'altro che terminato. Ammesso all'unanimità il principio dell'azione pubblica in economia, è pur certo che ‟si devono ancora determinare le forme, le condizioni e i limiti" dell'azione stessa, e che essi si determinano variamente, come variamente si crede che la fallibilità umana possa ridursi quando ci si siede dietro uno scrittoio ministeriale o si entra nell'ufficio del piano; e poi ancora si deve ‟esprimere il modo in cui le varie classi, i vari interessi, le varie tendenze, urtandosi e combinandosi nella lotta politica, determinano la concreta estensione e la forma concreta di tale azione" (v. Del Vecchio, 1968, p. 15). V'è un problema di convivenza tra l'uomo liberale e l'uomo socialista ancorché non marxista: ‟I due uomini, pur avversandosi, non sono nemici; perché ambedue rispettano l'opinione altrui; e sanno che vi è un limite all'attuazione del proprio principio. Ambe le specie di uomini sanno di collaborare a un'opera comune, esaltando al massimo a volta a volta il principio della libertà umana o quello della necessaria collaborazione degli uomini viventi in società; e sanno di essere capaci di vivere ed operare se e finché sono decisi di tollerarsi a vicenda" (v. Einaudi, 1959, p. 239). Sfortunatamente il libro da cui è tratta la citazione si intitola Prediche inutili.

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