Disegno industriale

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Progettazione di oggetti destinati a essere prodotti industrialmente, cioè tramite macchine e in serie. Tale significato di progettazione è meglio espresso dalla locuzione anglosassone industrial design, grazie alla distinzione terminologica, propria dell’inglese, tra design («progetto») e drawingdisegno»). Tuttavia l’espressione d. è traduzione italiana comunemente accettata e ufficialmente adottata dall’Associazione per il Disegno Industriale (ADI), fondata nel 1956.

Caratteri generali

Altri modi per designare questa disciplina, che si situa tra il dominio della produzione di merci e quello dell’estetica, sono il francese esthétique industrielle, il tedesco industrielle Formgebung, o anche Produktgestaltung, il russo techničeskaja estetika. Ognuna di queste espressioni sottolinea in vario modo il legame con il mondo della tecnica e della produzione meccanica che fa del d. qualcosa di radicalmente diverso dall’artigianato. L’artigiano, infatti, anche quando adopera macchinari complessi per la fabbricazione di modelli standardizzati, è in grado di intervenire in ogni fase del processo di lavorazione per modificare il prodotto secondo i gusti di un particolare committente o per altri motivi. L’attività del progettista industriale ( designer) si situa, invece, a monte del momento della produzione vera e propria, e si limita alla progettazione di un prototipo, che dovrà essere realizzato successivamente in un numero determinato di pezzi, assolutamente identici l’uno all’altro. La proposta finale risulta dalla valutazione dei diversi fattori della produzione, che implicano la collaborazione di esperti di diverse zone disciplinari contigue: si allude tanto ai fattori relativi all’uso, fruizione e consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali), quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi). Dall’ultimo ventennio del 20° sec., l’influenza della progettazione digitale computerizzata ha introdotto anche nel campo del d. in questione un’ulteriore possibilità evolutiva: quella di produrre oggetti in serie diversificati tra loro, capaci di soddisfare le eventuali esigenze individuali del possibile acquirente, senza alcuna variazione nei costi di produzione.

Le iniziali controversie teoriche sul ruolo del d. (sia sul versante estetico sia su quello politico-ideologico) hanno trovato una risolutiva sintesi in una efficace definizione di T. Maldonado: «Il d. è un’attività progettuale che consiste nel determinare le proprietà formali degli oggetti prodotti industrialmente, per proprietà formali dovendosi intendere non solo le caratteristiche esteriori, ma soprattutto le relazioni funzionali e strutturali che fanno di un oggetto un’unità coerente sia dal punto di vista del produttore sia dell’utente. Poiché, mentre la preoccupazione esclusiva per le caratteristiche esteriori di un oggetto spesso nasconde il desiderio di farlo apparire più attraente o anche di mascherarne le debolezze costitutive, le proprietà formali di un oggetto (...) sono sempre il risultato dell’integrazione di diversi fattori, siano essi di tipo funzionale, culturale, tecnologico o economico».

Cenni storici

In generale, la prima fase dell’industrializzazione (si pensi a certi rari esemplari di macchine del 18° e 19° sec., ma anche alle prime applicazioni del ferro e della ghisa in opere d’ingegneria e d’architettura) fu caratterizzata dall’uso di una ornamentazione eccessiva e di gusto tradizionale, tendente a camuffare la struttura, a nascondere i congegni, a nobilitare la superficie delle nuove invenzioni meccaniche. Lo stimolo a una più attenta considerazione dei problemi estetici posti dalla civiltà delle macchine venne dall’atteggiamento critico rivolto all’industrialismo da W. Morris, il quale tentò di risuscitare un artigianato di qualità, promuovendo il movimento delle Arts and Crafts, battendosi contro l’imitazione passiva degli stili storici, e insistendo in particolare sul principio della necessaria congruenza tra scelte formali e proprietà dei materiali. Furono queste idee che, liberate dal pregiudizio anti-industria;le, diedero impulso alla produzione della scuola di Glasgow (C.R. Mackintosh, M. e F. Macdonald e altri) e, passate nell’Europa continentale, furono riprese specialmente dal belga H. van de Velde, uno dei maestri dell’art nouveau, e dal tedesco H. Muthesius. Poco sensibile alle componenti utopiche del pensiero morrisiano ed esplicitamente favorevole all’avvento di uno ‘stile delle macchine’, quest’ultimo promosse la costituzione del Deutscher Werkbund (1907), associazione mirante a qualificare e proteggere la produzione tedesca di oggetti d’uso, all’interno di una economia in forte espansione, mediante la collaborazione tra arte, industria e artigianato. Analogo istituto, le Wiener Werkstätte, era già sorto a Vienna nel 1903 per iniziativa di J. Hoffmann e K. Moser, nel clima della Secessione. Ancora in Germania e in Austria agivano rispettivamente la grande fabbrica A.E.G. per la produzione di materiale elettrico, che per prima si valse di un architetto, P. Behrens, cui affidare il d. dell’intera linea della ditta, dallo stabilimento alle merci alla pubblicità, e la casa Thonet, che da tempo era all’avanguardia per i suoi modelli di sedie in legno curvato. Significativamente presente in Belgio (V. Horta), in Francia (gli ingressi della metropolitana di Parigi disegnati da H. Guimard, i vetri di E. Gallé), in Catalogna con il modernismo di A. Gaudí, in Italia con lo stile Liberty, e in tutti i paesi toccati dall’industrialismo, l’art nouveau rappresentò il tentativo della nuova borghesia degli affari, dinamica e cosmopolita e di quelle frange più attente alle dinamiche sociali e socialiste, di crearsi un corrispettivo stile e una corrispettiva estetica.

Il periodo tra le due guerre fu dominato dalle figure di Le Corbusier e degli operatori che si raccolsero intorno al Bauhaus di Weimar, la cui direzione, dapprima affidata da H. van de Velde a W. Gropius (1919-28), passò poi a H. Meyer (1928-30) e a L. Mies van der Rohe (1930-33). Importante fu anche la coeva sperimentazione che si svolse nel nuovo Stato sovietico, a opera di artisti che aderirono al movimento costruttivista. Comune a questi vari orientamenti fu il desiderio di abolire ogni decorazione o ornamentazione superflua, di far coincidere la forma con la funzione dell’oggetto, secondo una visione razionale che, tendendo a identificare l’utile con il bello, voleva soddisfare i bisogni dell’uomo ed eliminare, nel contempo, gli sprechi della società. Alla sinuosità naturalistica dell’art nouveau si sostituì così il linearismo geometrico del Bauhaus e l’ascetismo formale di De Stijl. Al design funzionalista appartengono alcuni modelli famosi, come la ‘Poltrona blu e rossa’ di G.T. Rietveld, la ‘Chaise longue’ di Le Corbusier, la ‘cabriolet Adler’ di W. Gropius, la ‘Lampada da tavolo’ di K.J. Jucker e W. Wagenfeld, le poltrone ‘Wassily’ di M. Breuer e ‘Barcellona’ di Mies van der Rohe e numerose altre proposte nel campo dell’arredamento, delle suppellettili, della grafica. L’avvento del nazismo provocò l’esodo dei maestri del Bauhaus soprattutto negli USA, dove molti continuarono a dedicarsi all’insegnamento (Gropius, Mies van der Rohe, L. Moholy-Nagy, G. Kepes, J. Albers), contribuendo a fare di questo paese il nuovo centro internazionale del d.: accanto alla linea razionale, che aveva negli USA una illustre tradizione (si pensi al fordismo e, in architettura, alla scuola di Chicago), e al gusto déco proveniente dalla Francia, si venne allora affermando la linea aerodinamica dei modelli di automobili, elettrodomestici, telefoni ecc., progettati da W.D. Teague, R. Loewy e H. Dreyfuss, che si possono considerare i maestri dello styling americano.

Dopo la Seconda guerra mondiale, la problematica promossa dal d. si è arricchita del contributo dell’estetica informazionale, soprattutto per merito della Hochschule für Gestaltung di Ulma (1955-68), fondata da M. Bill, e della semiologia (l’oggetto è considerato, oltre che per le sue qualità funzionali, per il suo contenuto comunicativo-informativo, o quoziente di novità, e per i suoi valori simbolici), nonché di una maggiore considerazione del fattore storico che impedisce che certe forme possano essere cambiate a capriccio (donde la legittimità del re-design, ovvero della ripetizione aggiornata di alcuni modelli considerati insuperabili). Il d. negli USA ha avuto una particolare declinazione attraverso la qualificata produzione di personalità come E. Saarinen e C. Eames, così come nei paesi scandinavi si è assistito a un d. che, pur nella estrema semplificazione formale, non ha mai rinunciato a un certo grado di calore, sia nella scelta dei materiali sia nell’aspetto quasi artigianale (tra i più famosi disegnatori: il danese A. Jacobsen, i finlandesi A. Aalto e T. Wirkkala, gli svedesi S. Bernadotte e A. Bjarn); in Germania si è diffusa la linea di apparecchi della ditta Braun, in gran parte progettati presso la scuola di Ulma, e si è affermato a livello internazionale il d. italiano, per le sue originali capacità creative.

In Italia, comunque, a causa del tardivo decollo industriale, i primi oggetti, frutto di una consapevole progettazione, comparvero sul finire degli anni 1920, insieme col formarsi delle correnti d’architettura razionale, con la pubblicazione delle riviste Domus e Casabella, con l’istituzione delle Esposizioni d’arte decorativa e industriale di Monza e poi di Milano. Di questo primo periodo vanno almeno ricordati il ‘mobile radio’ di L. Figini e G. Pollini (1933), la Lancia ‘Aprilia’ del 1937, l’‘apparecchio radio’ di L. Caccia Dominioni e dei fratelli P.G. e A. Castiglioni (1939) e non pochi allestimenti di F. Albini, M. Nizzoli e E. Persico. Ma è soprattutto nel secondo dopoguerra che il d. italiano ha acquistato rinomanza internazionale con il successo di alcuni modelli di motoscooter, divenuti paradigmatici, come la ‘Vespa’ della Piaggio e la ‘Lambretta’ della Innocenti, con le carrozzerie di Pininfarina e N. Bertone, i modelli di macchine per scrivere e per cucire che Nizzoli ha disegnato per la Olivetti e per la Necchi, i lumi dei fratelli Castiglioni e, ancora, con la molteplice attività di studi di progettazione, come il BBPR a cui ha fatto anche seguito quella di artisti e architetti versatili come G. Aulenti, C. Boeri, J. Colombo, E. Mari, B. Munari, E. Sottsass, G. Stoppino, M. Zanuso e numerosi altri. Successivamente si sono registrate varie tendenze, che vanno dal rifiuto del d. (anti-design o contro-design) a uno sperimentalismo ironico e trasgressivo (radical design), alla proposta di oggetti banali, in pericolosa concorrenza con il kitsch, e infine, più in generale, a una progettazione che, ponendo termine al regime di proibizioni formali inaugurato dall’utopia razionalista, tende alla riscoperta dell’effimero, e dei valori caldi e decorativi dell’oggetto (A. Branzi, R. Dalisi, U. La Pietra, A. Mendini, e altri), fino alla ricerca, propositiva e sperimentale, orientata alla individualizzazione e alla differenziazione dell’oggetto di d. (G. Lynn, Z. Hadid ecc.).

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