Diritti degli animali

Enciclopedia delle scienze sociali (1993)

Diritti degli animali

Silvana Castignone

Il dibattito etico-filosofico

La tematica dei diritti degli animali rientra in quella più vasta dei cosiddetti nuovi diritti e dei nuovi soggetti di diritto che si va affermando nella cultura contemporanea. Da un lato, infatti, vengono presi in considerazione diritti nuovi: si parla ad esempio di 'diritto all'ambiente', vale a dire del diritto che le persone hanno di vivere in un ambiente salubre e il più possibile tutelato, o ancora di 'diritto al patrimonio genetico', rivendicazione assolutamente impensabile fino a qualche decennio fa. Dall'altro lato si afferma l'esistenza di nuovi soggetti di diritto, in quanto si attribuiscono diritti morali e giuridici a esseri, umani o anche non umani come nel caso appunto degli animali, ai quali in precedenza veniva data una rilevanza soltanto marginale e indiretta.

Dal punto di vista etico-filosofico la 'questione animale' in chiave moderna è stata sollevata dal libro di Peter Singer Animal liberation; la discussione è poi continuata, e continua tuttora, attraverso centinaia di articoli e libri nonché numerosi convegni sull'argomento. Vi sono due impostazioni principali del problema della tutela morale e giuridica degli animali. L'una, di stampo utilitaristico e consequenzialista, è basata sulla considerazione delle conseguenze delle azioni in termini di piacere e di pena, e quindi è rivolta soprattutto a dimostrare che esiste il dovere di non infliggere sofferenze, non solo all'uomo ma a qualsiasi altra creatura sensibile. L'altra è incentrata invece sull'affermazione dell'esistenza di veri e propri diritti naturali di tutti gli esseri viventi.

Il grosso scoglio da superare per permettere agli animali di entrare a pieno titolo nel regno dell'etica è rappresentato tradizionalmente dalla concezione cartesiana dell'animale-macchina. Contro Cartesio è ormai facile osservare, sulla base delle innumerevoli prove fornite dagli etologi, che gli animali, o quantomeno gli animali superiori, possiedono consapevolezza e, ben lungi dall'essere degli automi, arrivano in taluni casi anche all'uso di strumenti e alla trasmissione di conoscenze. Il fatto che essi non sappiano servirsi del linguaggio non è sufficiente per relegarli allo status di semplici meccanismi, di orologi "composti solo di ruote e di molle" e quindi di reazioni puramente meccaniche, come scriveva Cartesio. Gli animali sono in grado di sperimentare il piacere e la sofferenza: sono inoltre dotati di memoria, e quindi della capacità di ricordare le esperienze passate. In quale conto allora deve essere tenuta, dal punto di vista etico, la sofferenza animale? Secondo Kant, e prima di lui già secondo Tommaso d'Aquino, la sofferenza animale assume sì un certo rilievo, ma soltanto in maniera indiretta: il dovere di non far soffrire gli animali esiste, ma dipende dal dovere primario e diretto che ciascuno di noi ha verso gli altri uomini di non offendere la loro sensibilità con spettacoli crudeli, i quali oltre tutto possono indurire gli animi e spingere le persone a diventare crudeli anche nei confronti dei loro simili. Saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines. In questa prospettiva gli interessi degli animali in se stessi in realtà non vengono presi in considerazione, sulla base dell'assunto che la morale è propria dell'uomo e dell'uomo soltanto, unico titolare e destinatario di diritti e doveri in quanto essere dotato di ragione oltre che di sensibilità. Tale concezione è stata chiamata "tesi della crudeltà", ed è tuttora molto diffusa. È pur vero che essa concede un qualche rilievo morale agli animali: tuttavia viene considerata poco 'garantista' nei loro confronti. Infatti non è detto che sempre, necessariamente, essere crudeli verso gli animali comporti il diventarlo anche con gli esseri umani. Nella maggior parte dei casi si riesce facilmente a stabilire a livello psicologico una distinzione tra ciò che si compie nell'esercizio di una certa attività e nei confronti di una categoria di esseri da ciò che si compie invece all'interno di altri rapporti. Anche l'appello al dovere di non far soffrire le anime sensibili non porta molto lontano: per eliminare tale rischio è sufficiente infatti evitare di compiere le sevizie e i maltrattamenti nei luoghi pubblici, aperti alla vista di tutti.

Contro la tesi kantiana dei doveri indiretti Singer riprende l'ormai famosa frase di Jeremy Bentham, il grande utilitarista classico: "L'importante non è chiedersi 'sanno essi [gli animali] ragionare?', e neppure 'sanno essi parlare?', bensì 'sanno essi soffrire?". La linea che divide gli esseri che sono degni direttamente, per loro stessi, di considerazione morale da quelli che non lo sono non passa attraverso la ragione o la capacità di parlare. Se così fosse, allora anche numerosi esseri umani dovrebbero venire esclusi: i neonati, i cerebrolesi, i deficienti. Si tratta dell'argomento cosiddetto 'dei casi marginali', molto usato nel dibattito animalista contemporaneo. Sarebbe d'altronde tautologico affermare che gli umani marginali sono comunque soggetti morali in quanto esseri umani: ciò che si deve individuare è appunto la caratteristica che rende gli uomini soggetti morali. Bisogna stare attenti a non cadere nello specismo, ovvero nella discriminazione in base alla specie di appartenenza (così come il razzismo è la discriminazione in base alla razza di appartenenza e il sessismo quella in base al sesso). Affermare che solo gli esseri umani sono degni di considerazione morale in quanto esseri umani, è la stessa cosa che affermare che i bianchi sono superiori ai neri in quanto bianchi, o gli uomini superiori alle donne in quanto uomini. È evidente che non si tratta di vere e proprie argomentazioni, bensì di assunzioni indimostrate. Per limitare la morale agli esseri umani occorrerebbe trovare una qualità che appartenesse a tutti gli esseri umani e solo a essi. Ma, come si è visto, tale ruolo non può essere svolto né dalla ragione, né dal linguaggio, né dalla capacità di autodeterminarsi; a parte il fatto che anche molti animali possiedono in qualche misura tali doti, il punto da sottolineare è che gli umani marginali ne sono privi, in tutto o in parte. La capacità di soffrire è invece una caratteristica che accomuna tutti gli esseri umani, normali o marginali che siano. Ma essa è condivisa anche dagli animali. I precetti morali fondamentali della nostra civiltà sono tutti basati sul dovere primario di non far soffrire il prossimo. Orbene, nella nozione di prossimo appare ineludibile far rientrare anche tutti i non umani in grado di sperimentare la sofferenza e di esserne consapevoli: e quindi la stragrande maggioranza degli animali.

Possiamo dunque ritenere che gli animali siano destinatari di doveri diretti da parte dell'uomo, e non soltanto beneficiari indiretti di rapporti morali tra uomo e uomo. Si apre così la strada verso una giustizia interspecifica, che coinvolga cioè i rapporti tra le diverse specie e sostituisca la giustizia infraspecifica, vale a dire quella esclusivamente interna alla specie umana. È da notare però che gli animali sono da ritenersi soggetti morali passivi e non attivi, nel senso che sarebbe assurdo attribuir loro dei doveri nei confronti degli altri animali o degli uomini. Questa incapacità non toglie loro la qualità di soggetti morali passivi (soggetti cioè, ripetiamo, verso cui l'uomo ha dei doveri diretti): chi volesse argomentare in tal senso ricadrebbe subito nel dilemma posto dai casi marginali. Anche ai neonati e ai pazzi non si possono infatti richiedere comportamenti moralmente responsabili, ma non per questo si ritiene che le persone adulte e normali non abbiano dei doveri diretti nei loro confronti.

Fin qui si è parlato soltanto di doveri: un problema ulteriore consiste nel chiedersi se gli animali possiedano anche dei veri e propri diritti. Secondo la prospettiva che abbiamo per brevità chiamata utilitaristica o per meglio dire consequenzialista, i diritti non sono se non l'altra faccia dei doveri. Se esiste il dovere di non far soffrire gli esseri sensibili, si può dire che essi hanno il diritto di non patire sofferenze causate da altri. In altri termini, con la parola 'diritti' non ci si riferisce a realtà o qualità oggettive, preesistenti ai doveri, bensì vengono indicati quei trattamenti che determinati soggetti, uomini e animali o più in generale tutti gli esseri forniti di sensibilità, dovrebbero ricevere sulla base del principio etico fondamentale che impone di non causare sofferenza.

Esiste però anche una prospettiva di stampo giusnaturalistico, il cui massimo rappresentante è l'americano Tom Regan. Secondo questo autore tutti gli esseri viventi e sensibili hanno un valore intrinseco, che come tale va rispettato in maniera assoluta e da cui deriva una serie di diritti fondamentali, naturali e inalienabili: alla vita, al rispetto, alla non sofferenza, alla libertà. Possedere valore intrinseco significa essere in grado di condurre una vita che può essere migliore o peggiore per il soggetto che la vive, in modo del tutto indipendente dalle valutazioni altrui: significa essere, per usare le parole di Regan, dei "soggetti di una vita". L'autore distingue tra "agenti morali" e "pazienti morali". Gli agenti morali sono i soggetti in grado di dirigere le proprie azioni sulla base di principî morali, e tali possono configurarsi solo gli esseri umani adulti e razionali che quindi sono i "soggetti di una vita" per eccellenza. I pazienti morali invece sono privi della capacità di formulare regole morali e di attenervisi, ma sono tuttavia dotati di credenze, ricordi, percezioni, emozioni, e quindi sono in grado di condurre una vita migliore o peggiore per loro stessi e, in una certa misura, di rendersene conto. Di conseguenza sono anch'essi soggetti di una vita, sia pure in qualità soltanto di pazienti morali, e come soggetti di una vita possiedono dei diritti naturali fondamentali. Orbene, a questa categoria dei pazienti morali soggetti di una vita appartengono oltre agli umani marginali anche gli animali, o quantomeno buona parte di essi.

I sostenitori della teoria del valore intrinseco affermano che solo così si riesce a difendere a fondo gli animali, senza le inevitabili limitazioni della prospettiva consequenzialista, la quale è basata su calcoli e su valutazioni spesso soggettivi e comunque variabili. Il valore intrinseco invece è inteso come un elemento oggettivo peculiare di ogni singolo vivente, e come tale costituisce una vera e propria barriera di fronte alle pretese altrui. È una specie di guscio protettivo attorno a ciascun essere, che non si può infrangere se non in casi assolutamente eccezionali e ampiamente motivati.

Di grande interesse appare anche la posizione dell'inglese Mary Midgley, la quale cerca di mediare tra l'impostazione tradizionale, fortemente antropocentrica, e la tesi sostenuta con principî e argomentazioni diversi da Singer e Regan circa l'eguaglianza di tutti gli animali, ivi compreso l'uomo. Secondo la Midgley è naturale e giustificabile che gli uomini diano la preferenza ai loro conspecifici: esistono dei legami di affinità all'interno delle varie specie che non possono essere sottovalutati. È tuttavia necessario gettare un ponte tra le diverse specie, soprattutto in considerazione del fatto, di cui troppo spesso ci si scorda, che tra l'uomo e gli altri animali oltre ai rapporti di conflitto sono sempre esistiti anche quelli di cooperazione. La salvezza dell'uomo è legata a quella delle altre specie e va vista come inserita nella biosfera, nell'ecosistema globale. "Nessuna specie è un'isola".

Non bisogna dimenticare infatti che stiamo assistendo nel mondo contemporaneo e all'interno della nostra civiltà al fenomeno della sensibilità in espansione: si sta verificando un progressivo allargarsi della coscienza morale che ci spinge a uscire non solo dai confini della nostra etnia o razza, ma anche da quelli della nostra specie, fino ad abbracciare tutti gli esseri viventi, animali, piante e la natura in genere. Sempre più pressanti diventano inoltre le preoccupazioni per lo stato di salute del nostro pianeta, e l'incubo della catastrofe ecologica sembra incombere ogni giorno di più. Di conseguenza il problema della tutela degli animali risulta strettamente intrecciato con quello ecologico generale, anche se vi sono differenze che è bene mettere in luce: infatti, mentre gli animalisti in genere si preoccupano per le sofferenze degli animali come singoli e non solo come specie, e rivolgono la loro attenzione in primo luogo agli animali da allevamento e a quelli destinati alla sperimentazione, gli ecologisti tendono piuttosto alla conservazione degli ecosistemi naturali nella loro complessità. Naturalmente in molti punti vi è sovrapposizione tra i due movimenti e un grosso problema comune è rappresentato dalla protezione delle specie in via di estinzione.

Quali diritti?

Quali sono i diritti, comunque vengano intesi, che possiamo attribuire agli animali? È ovvio infatti che a essi non competono gran parte dei diritti che di solito vengono ascritti agli esseri umani. Non avrebbe senso, ad esempio, sostenere che bisogna dare agli animali il diritto di voto, o quello all'istruzione. Si deve trattare per forza di una piattaforma minimale di diritti: e cioè del diritto a non subire sofferenze inutili (inutili per l'animale stesso, e non certo inutili per l'uomo), del diritto alla vita, che è quello che pone difficoltà maggiori, e del diritto alla libertà.

Il diritto alla non sofferenza appare senza dubbio come il più importante, e gli altri a ben vedere possono venirvi ricompresi. La morte è sicuramente causa di sofferenza, e lo stesso dicasi della privazione della libertà, sia pure con gradazioni diverse a seconda che si tratti di animali domestici o di animali selvatici. Il diritto alla vita coinvolge la grossa questione del vegetarismo. Si può giustificare l'uccisione di un animale per scopi alimentari qualora essa venga data in maniera eutanasica? Bentham diceva di sì, sostenendo che gli animali non hanno, come l'uomo, la capacità di prefigurarsi la morte, e inoltre quella che ricevono dagli uomini è quasi sempre più rapida e pietosa, o quantomeno potrebbe essere resa tale, della morte cui andrebbero incontro naturalmente. Tuttavia è stato rilevato che la 'morte dolce' per gli animali da allevamento è possibile soltanto in via teorica, soprattutto se si considera il numero sterminato di capi che viene macellato ogni giorno. Di conseguenza la pressione degli animalisti è rivolta verso soluzioni di tipo vegetarista o quantomeno verso un minor consumo di carne e di proteine animali, anche perché il diritto alla non sofferenza non comporta soltanto l'esigenza di uccidere il minor numero possibile di animali, ma anche quello, altrettanto importante, di modificare le condizioni di vita negli allevamenti intensivi. È necessario garantire agli animali se non una vita simile a quella naturale (cosa che appare oggi difficile e forse impossibile), almeno delle condizioni minime di libertà di movimento. Emblematico è il caso dei polli di batteria che dovrebbero, come è stato recentemente disposto in Svizzera e in Svezia, potersi muovere e becchettare per terra, anziché venire tenuti in gabbie e rastrelliere, con uno spazio a disposizione per ciascun pollo di circa 450 cm², vale a dire delle dimensioni di poco superiori a quelle di un foglio di carta da lettere. A ben vedere, a causa delle gravi sofferenze che comportano gli allevamenti intensivi, non sarebbe sufficiente essere vegetariani: non bisognerebbe neppure cibarsi di alimenti di origine animale quali il latte, i formaggi e le uova. Occorrerebbe cioè diventare vegani (dal vocabolo inglese vegan) o vegetalisti (dal francese végétaliste) e mangiare solo proteine vegetali. Poiché tali pratiche, ancorché in aumento, sono difficili da perseguire su larga scala e talora vanno incontro a difficoltà oggettive, la richiesta minimale è appunto quella di una sempre maggiore limitazione dei consumi di proteine animali, che tra l'altro aiuterebbe i paesi in via di sviluppo affetti da gravi carenze alimentari. Si è calcolato infatti che, ad esempio per quel che riguarda la carne, per ottenere 20-30 g di proteine animali è necessario consumarne ben 100 di vegetali, con una perdita secca di 70-80 g di proteine, le quali potrebbero invece sopperire almeno in parte alle necessità alimentari del Terzo Mondo qualora il fabbisogno di proteine fosse assunto direttamente nella forma vegetale.

In quanto alla caccia, dato che non viene più esercitata, tranne che in limitatissime parti del globo, per necessità alimentari bensì soltanto per sport e divertimento, essa non può trovare giustificazione alcuna. Non è accettabile in nessun modo la liceità di togliere la vita e procurare sofferenza a un essere vivente solo per ottenere qualche ora di svago. Lo stesso dicasi ovviamente per tutti gli spettacoli e i giochi in cui siano coinvolti animali in modo tale da procurare loro morte e/o sofferenza, e per l'uso delle pellicce, tanto più che la loro funzione può essere facilmente svolta da altri materiali.

L'altro punto dolente è rappresentato dalla sperimentazione scientifica: essa viene considerata moralmente illecita dalla totalità degli autori animalisti, il cui obiettivo finale è la sua completa eliminazione. Occorre procedere a un sempre maggiore sviluppo dei cosiddetti metodi alternativi o sostitutivi, vale a dire simulazioni al computer e uso di colture cellulari. Nel frattempo si richiede una migliore stabulazione, l'uso costante di anestetici e soprattutto una drastica riduzione del numero degli esperimenti, che dovrebbero essere limitati a pochi casi di dimostrata necessità dopo aver passato il vaglio di una commissione appositamente costituita, di cui dovrebbero far parte anche dei rappresentanti degli antivivisezionisti, opportunamente qualificati.

Il diritto alla libertà infine riguarda l'esistenza di zoo e circhi. La privazione della libertà costituisce indubbiamente sofferenza grave per tutti gli animali selvaggi, a cui si aggiungono, nel caso dei circhi, le ulteriori costrizioni dovute al processo di addestramento. Si può ammettere l'esistenza dei giardini zoologici solo quando abbiano lo scopo di proteggere gli ultimi esemplari di specie in via di estinzione. In quanto agli animali da compagnia, oltre al diritto di non essere maltrattati hanno anche quello di essere accuditi e soprattutto quello di non essere abbandonati.

La situazione normativa in Italia

Passando dal piano della speculazione filosofica a quello della realizzazione concreta dei principî morali, possiamo constatare che le idee nuove esposte finora incontrano non pochi ostacoli e difficoltà sul loro cammino. C'è stata, è vero, all'UNESCO nel 1978 la proclamazione solenne della 'Dichiarazione universale dei diritti dell'animale', fatta dai rappresentanti delle varie leghe protezionistiche europee, la quale però è rimasta allo stadio di una mera dichiarazione ideologico-programmatica, cui non è stato dato alcun seguito. I punti caratterizzanti di questo manifesto dei diritti degli animali sono i seguenti: 1) l'affermazione che tutti gli animali nascono uguali di fronte alla vita e hanno eguale diritto all'esistenza; 2) la decisa negazione che gli uomini abbiano alcun diritto di sterminarli o di maltrattarli. L'uccisione senza necessità di un animale è qualificata come biocidio, cioè come delitto contro la vita, mentre ogni atto che porti all'eliminazione di un gran numero di animali selvaggi è ritenuto un vero e proprio genocidio; 3) la proibizione della vivisezione; 4) l'elencazione dei vari diritti che abbiamo sopra illustrato.

Nell'ordinamento giuridico italiano troviamo due soli articoli del Codice penale che trattano dei maltrattamenti agli animali. L'art. 638 prende in considerazione gli animali in quanto oggetto del diritto di proprietà e punisce i maltrattamenti in quanto danni procurati alla proprietà altrui. L'art. 727, più importante, così recita: "(Maltrattamento di animali). Chiunque incrudelisce verso animali o senza necessità li sottopone a eccessive fatiche e torture, ovvero li adopera in lavori ai quali non siano adatti per malattia o per età, è punito con l'ammenda [...]. Alla stessa pena soggiace chi, anche per solo fine scientifico o didattico, in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, sottopone animali vivi a esperimenti tali da destare ribrezzo. La pena è aumentata [...] se gli animali sono adoperati in giochi o spettacoli pubblici, i quali comportino strazio o sevizie". A proposito di questo articolo si possono fare numerose osservazioni. In primo luogo si può facilmente constatare come l'ideologia a cui si ispira sia quella kantiana: l'animale è tutelato solo in quanto si vuole evitare di offendere la sensibilità della gente con spettacoli crudeli. Vi è infatti l'insistenza sul fatto che le sevizie, per essere punibili, devono avvenire in pubblico o in luogo aperto al pubblico, e devono essere tali da "destare ribrezzo". Anche scorrendo la dottrina e la giurisprudenza meno recenti appare chiaro come il bene giuridico tutelato non sia il benessere psicofisico dell'animale bensì 'il comune senso di pietà'. Inoltre l'espressione "senza necessità" indebolisce molto la forza del primo capoverso che configura il reato di maltrattamento. Se poi si esamina la storia dell'art. 727, si riscontra che la sua formulazione attuale non solo è rimasta immutata rispetto a quella del Codice Rocco del 1930; ma si discosta pochissimo da quanto stabilito dall'art. 491 del Codice Zanardelli del 1889; andando ancora più indietro nel tempo si ritrovano disposizioni del tutto analoghe nel Codice penale del Granducato di Toscana del 1856 e in quello per gli Stati di Sua Maestà il re di Sardegna del 1859. Il che significa che la normativa italiana in merito al maltrattamento degli animali è vecchia di più di un secolo, nonostante gli enormi mutamenti che si sono verificati nel frattempo: l'aumento costante della popolazione, l'incremento degli allevamenti intensivi con metodi e strutture del tutto diversi da quelli tradizionali, nonché lo sviluppo vertiginoso delle ricerche scientifiche in campo medico, chirurgico e farmacologico, con conseguente dilatazione degli esperimenti su animali. Una terza caratteristica da osservare è che per i trasgressori sono previste solo delle pene pecuniarie.

Si impone dunque una profonda revisione, che è stata tentata, ma molto parzialmente, con la recente legge sul randagismo. La legge quadro in materia di animali da affezione e prevenzione del randagismo porta il n. 281 ed è del 14/8/91. In essa si promuove la tutela degli animali da affezione, segnatamente i cani e i gatti, condannando le crudeltà, i maltrattamenti e l'abbandono "al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale". Si prevede il controllo della popolazione canina e felina nonché la limitazione delle nascite affidata alle unità sanitarie locali; si vieta la soppressione dei randagi e di conseguenza si dovrà provvedere alla costruzione di appositi rifugi per i cani; i gatti verranno sterilizzati e riammessi a vivere in libertà, possibilmente nelle colonie che potranno essere gestite dagli enti e dalle associazioni protezionistiche. Viene istituita l'anagrafe canina. Le sanzioni per l'abbandono, la mancata iscrizione all'anagrafe canina, il mancato tatuaggio e il commercio di cani e gatti al fine di sperimentazione sono esclusivamente di carattere amministrativo (da notare però che nell'ultimo dei casi menzionati la somma da pagare va da 5.000.000 a 10.000.000, ed è quindi molto elevata). Per i maltrattamenti sono previste invece delle pene e non solo delle sanzioni amministrative: ma anch'esse sono solamente pecuniarie, con l'esclusione di quelle detentive: più precisamente si fa esplicito riferimento all'art. 727 del Codice penale sopra illustrato, e l'unica novità è costituita dall'innalzamento dell'ammenda, che adesso va da un minimo di 500.000 lire ad un massimo di 3.000.000.

Per trovare una nuova definizione dell'animale e delle innovazioni a livello di principî occorre volgere lo sguardo ad alcune proposte di legge e ad alcune sentenze.In particolare segnaliamo la proposta di legge Zanone-De Lorenzo, recante il titolo Tutela della fauna e diritti degli animali, presentata nel 1987 e mai esaminata. In tale proposta venivano enunciati alcuni principî fondamentali per adeguare la legislazione alla sensibilità e alle esigenze attuali. Innanzitutto si stabiliva che "nessun animale può essere sottoposto a maltrattamenti o atti crudeli che comportino la violazione delle leggi naturali a livello fisiologico, psichico, genetico e ambientale". Il che significa rivendicare il diritto dell'animale a uno stato normale di salute e di vita, in accordo con la sua costituzione psicofisica così come è riscontrabile in natura. Inoltre la nozione di maltrattamento e di atto crudele veniva definita con riferimento "al superamento momentaneo o protratto nel tempo, causato da qualsiasi mezzo fisiologico o psichico, della soglia della reattività dell'animale al dolore in assenza di una reale e legale necessità". In maniera chiarissima era qui introdotto il principio della non sofferenza (già peraltro sottinteso nel richiamo al rispetto delle leggi biologiche naturali di cui si parlava prima). Certamente si imporrebbe un'ulteriore elaborazione di alcuni concetti fondamentali, ad esempio quello di "soglia della reattività animale al dolore" e l'altro di "reale e legale necessità", che potrebbero diventare una comoda finestra per far rientrare ciò che si era cacciato dalla porta: tuttavia si tratta di innovazioni che, se riproposte e incorporate in una legge, costituirebbero un grosso passo in avanti. Passo in avanti che è già stato compiuto in alcuni casi ad opera degli organi giurisdizionali in sede di interpretazione dell'art. 727 e delle leggi a esso correlate. Citiamo per tutte la recente sentenza della Corte di cassazione (sez. III penale, udienza del 14 marzo 1990, estensore Postiglione), dove si afferma che l'articolo in questione "tutela gli animali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilità psicofisica e capaci di reagire agli stimoli del dolore, ove essi superino una soglia di normale tollerabilità. La tutela penale è dunque rivolta agli animali in considerazione della loro natura". Si sottolinea inoltre che configurano il reato di maltrattamento non solo quei comportamenti crudeli che offendono il comune senso di pietà e di mitezza verso gli animali o che possono avere degli effetti diseducativi, ma qualsiasi comportamento che "incida sulla sensibilità dell'animale" producendo sofferenza. Siamo di fronte a un chiaro esempio di interpretazione evolutiva di un enunciato normativo, al fine di renderlo rispondente al mutamento sopravvenuto nella coscienza comune e alle nuove istanze morali e sociali.

Cenni di diritto comparato

Nella vicina Francia i maltrattamenti verso gli animali sono contemplati direttamente da due articoli del Codice penale: l'R 38-12° e il 453. Il primo, contenuto in un decreto del 1959, punisce non solo con un'ammenda ma anche con alcuni giorni di prigione chiunque compia senza necessità atti di maltrattamento nei confronti di animali, sia in privato che in pubblico. Per maltrattamento si intende, sulla base della giurisprudenza in merito, qualsiasi atto commesso con violenza e brutalità e che abbia procurato inutile sofferenza all'animale; alcuni tribunali usano la sofferenza come unico criterio per configurare il reato (prescindendo quindi dalla violenza e dalla brutalità). L'art. 453 (che è stato introdotto nel 1963) è rivolto a punire i maltrattamenti e le brutalità di tipo più grave, a cui corrispondono pene severe che arrivano, per quanto riguarda quelle detentive, fino a sei mesi di reclusione e a un anno in caso di recidiva. Vi è dunque un doppio regime a seconda della gravità dei maltrattamenti. Da notare che è scomparso il requisito del 'luogo pubblico' in cui dovrebbero avvenire i maltrattamenti, requisito che era invece richiesto nella prima legislazione del 1850. Le categorie degli animali tutelati comprendono soltanto quelli domestici, o addomesticati o comunque tenuti in cattività. Una svolta significativa riguardo al modo di considerare gli animali (che peraltro continuano a essere definiti come "beni mobili", e quindi oggetti di diritto, dall'art. 528 del Code civil) è stata impressa dalla legge del 1976 relativa alla tutela dell'ambiente e della natura: in essa infatti gli animali vengono riconosciuti come "esseri sensibili". Di grande interesse nella giurisprudenza francese appare il cosiddetto droit à l'affection (diritto all'affetto), il quale si può esplicare in due serie di circostanze. Da un lato infatti chi subisce ad opera di terzi la perdita o il danneggiamento di un animale da compagnia può chiedere, oltre ai danni materiali, anche il risarcimento dei danni morali. Dall'altro lato lo stesso genere di valutazione di tipo affettivo vale nei casi in cui due persone (ad esempio in caso di divorzio) si disputano il possesso di un cane, di un gatto o di un altro animale da compagnia.

Di carattere molto avanzato appare la legislazione tedesca, anche perché più recente: l'ultimo Tierschutzgesetz risale infatti al 1986. In esso l'animale è definito 'concreatura' dell'uomo, il quale è responsabile della sua vita e del suo benessere; si fa richiamo esplicito ai bisogni degli animali che vengono in qualche modo allevati o tenuti dall'uomo, e soprattutto all'obbligo di garantire all'animale sufficiente libertà di movimento. È proibito l'abbandono, e così pure è proibito introdurre forzosamente del cibo nel corpo di un animale a meno che ciò non sia richiesto da motivi medici: qui evidentemente si fa riferimento alla barbara prassi di ingozzare le oche per ottenere il foie gras. Del pari è vietato il doping degli animali in caso di gare: e questo non a fini di correttezza sportiva, ma proprio con l'intento di non danneggiare l'animale. Un altro importante divieto concerne la sperimentazione scientifica su animali vivi, per scopi bellici o per testare detersivi e cosmetici, benché in quest'ultimo caso siano previste alcune eccezioni. Si tratta dunque di una normativa che contiene alcuni principî di carattere fortemente innovativo.

L'Inghilterra è stata il primo paese ad avere una Società per la protezione degli animali (la Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals), fondata nel 1824, così come è stata il primo paese ad avere una legge organica per la tutela degli animali, sia pure relativa al solo trattamento del bestiame: il cosiddetto Martin's act, o più propriamente lo Ill treatment of cattle act del 1822. Nel 1911 fu emanato il Protection of animals act, che è tuttora in vigore, anche se nel corso del tempo ha subito alcuni emendamenti. Esso tende a tutelare l'animale da sofferenze inutili, ma tale concetto è tutt'altro che chiaro e definito e si presta alle più svariate interpretazioni. Il Protection of animals act infatti prevede una lunga lista di fattispecie che potrebbero configurare il reato di maltrattamento - ad esempio picchiare, spaventare, far lavorare eccessivamente un animale, somministrargli droghe, farlo combattere, trasportarlo costringendolo in posizioni innaturali, o addirittura fargli subire delle mutilazioni - ma in tutti questi casi è sempre necessario provare l'unnecessary abuse, cioè la sofferenza non giustificata. Probatio se non proprio diabolica certamente quasi diabolica, e lasciata alla discrezionalità dei giudici: anche se occorre aggiungere che, esaminando la casistica, si può constatare un'evoluzione costante nell'interpretazione, volta verso una sempre maggiore sensibilità nei confronti degli animali. Si tratta comunque di una normativa complessa e dettagliata nella quale si ritrovano delle disposizioni a volte sorprendentemente vicine all'idea del tutto recente, come si è visto, di definire agli effetti legali l'animale come creatura sensibile. Ad esempio il divieto di macellare un animale in presenza e sotto gli occhi di un altro animale che stia per subire la stessa sorte: questo divieto non vale però per gli animali da carne, ma solo per quelli uccisi perché vecchi, feriti, malati o simili, e inoltre è applicabile esclusivamente a determinate categorie, quali cavalli, asini, muli, tori, pecore, capre e maiali.

Tra gli emendamenti più importanti (ancorché molto discussi e accusati di non aver introdotto mutamenti sostanziali) ricordiamo The agriculture (miscellaneous provisions) act del 1968, riguardante le condizioni degli animali da allevamento, e l'Animals (scientific procedures) act del 1986, sulla vivisezione e sulla sperimentazione scientifica con animali vivi.In questi ultimi anni si è molto ampliata la normativa internazionale in materia di tutela degli animali. In particolare meritano rilievo: 1) la Convenzione sul commercio internazionale di specie in pericolo della fauna e della flora selvatica, firmata a Washington nel 1973 da 21 Stati e ratificata in Italia nel 1975 (nel 1980 è stata istituita la Commissione scientifica per la sua esecuzione e nel gennaio 1992 si è provveduto a stabilire le sanzioni); 2) le Convenzioni europee sulla protezione degli animali da allevamento e sulla protezione degli animali da macello, adottate a Strasburgo rispettivamente il 10 marzo 1976 e il 10 maggio 1979, e ratificate in Italia nel 1985.

La Convenzione di Washington impone il divieto di commercio di animali e piante compresi in una apposita Appendice I, in quanto in pericolo di estinzione. Le specie protette sono circa 650 raggruppate in generi; tra gli animali troviamo tutte le scimmie antropomorfe, quali gli orango, gli scimpanzé e i gorilla, poi i grandi felini, le grandi balene, i rinoceronti, l'elefante asiatico, tanto per citare i più importanti. Vi è una Appendice II in cui sono elencate le specie, animali e vegetali, che sono invece commerciabili ma solo sulla base di controlli rivolti ad impedire un eccessivo sfruttamento. Le importazioni ed esportazioni delle specie protette di cui all'Appendice I possono essere autorizzate di volta in volta da una speciale Commissione per scopi esclusivamente scientifici. Tutti gli animali compresi nell'Appendice I ma nati in cattività sono considerati commerciabili. Nel complesso si tratta di uno strumento legislativo che permette di operare con successo per la protezione delle specie.

Nella Convenzione europea sugli animali da allevamento vengono fissate alcune direttive circa le condizioni ambientali (spazio, illuminazione, temperatura, aerazione) in cui detti animali devono essere tenuti, nonché sulle cure e ispezioni cui devono essere sottoposti. In Italia mancano ancora peraltro le norme applicative della Convenzione stessa. Per quanto riguarda l'allevamento dei vitelli 'in batteria' va ricordata la circolare, non internazionale ma interna, n. 100 del 1966 della Direzione generale dei servizi veterinari concernente le dimensioni e le strutture dei cassoni e delle gabbie in cui vengono tenuti i vitelli.Nella Convenzione europea sugli animali da macello si tende a regolamentare l'abbattimento degli animali, indicando i vari metodi di stordimento da effettuarsi obbligatoriamente prima della macellazione: fanno eccezione i casi di macellazione d'urgenza e di macellazione da parte dell'agricoltore per il consumo familiare. Una ulteriore deroga, su cui molto e giustamente si discute, è rappresentata dalle macellazioni rituali. La legge italiana di ratifica fissa per i trasgressori delle sanzioni amministrative abbastanza consistenti (in taluni casi fino a 5.000.000 di lire), e prevede il ricorso all'opera di associazioni di volontariato per assicurare il rispetto delle varie disposizioni. Segnaliamo infine una direttiva della CEE del 1986 con cui si stabiliscono alcune norme per la protezione delle galline ovaiole in batteria.

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