Diana

Enciclopedia Dantesca (1970)

Diana

Giorgio Padoan

Divinità della mitologia classica. Figlia di Giove e di Latona, nata a un parto con Febo-Apollo nell'isola di Delo (allora ancora vagante alla mercé delle onde e dei venti), e perciò appellata anche Febe e Delia; era detta altresì Trivia perché era venerata dai viandanti come loro protettrice e aveva perciò immagini nei trivi: benché vari mitografi (non solo medievali) adducano invece per questa denominazione la triplice identità della dea (Diana in terra, Luna in cielo, Proserpina-Ecate negl'Inferi), sulla scorta di Aen. IV 511 (" tergeminamque Hecaten, tria virginis ora Dianae "; cfr. in particolare i Myth. Vat. lat. I 112, II 25, III 7); donde la Luna è detta Diana notturna (Met. XV 196-198; ecc.), o come Ecate è invocata nei riti magici (Met. VII 74-261; ecc.). Diana era raffigurata come una giovane bellissima, armata di arco e di faretra, ed era venerata come dea dell'arte venatoria; considerata abitatrice delle selve, i poeti la descrivevano attorniata da una corte di ninfe cacciatrici (Aen. I 498-502; ecc.) che serbavano, come la dea, la verginità. In alcune leggende popolari medievali Diana è un demonio: cfr. A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo (Torino 1893, I 86-87), e C. Ginzburg, I benandanti (ibid. 1966, 47-57).

Dei numerosi miti di cui Diana è protagonista D. poté certamente conoscere la trasformazione in cervo di Atteone (Met. III 155-252), l'aiuto prestato dalla dea a Ippolito (XV 497-551; e anche Aen. VII 761-780), il sacrificio di Ifigenia e l'intervento della dea (cfr. Met. XII 35-38, XIII 185), l'uccisione a opera di Meleagro del cinghiale da lei inviato a infestare la campagna di Calidone (vili 270-424; e anche Aen. VII 306). Inoltre nelle Metamorfosi trovano ampio posto le storie di ninfe di Diana: tra queste sono Dafne, amata da Apollo (I 472-487), Elice (o Callisto), amata da Giove (II 409-507), Aretusa, amata da Alfeo (V 577-641); mentre sacra a Diana, che ne vendica la morte, è anche la virgiliana vergine Camilla (Aen. XI 532-584, 836-867). È curioso come, mentre il mito della nascita in Delo di Diana e di Apollo, li due occhi del cielo (Pg XX 131-132; cfr. Met. VI 185-192), è tenuto ben presente dal poeta, abbiano invece scarsamente agito sulla sua fantasia la figurazione della dea cacciatrice e il motivo delle punizioni da lei inflitte alle ninfe che avessero ceduto all'amore: tema che pure ha goduto di vasta fortuna sia nella letteratura antica che nella umanistica. Infatti una sola volta D. rammenta come al bosco / si tenne Diana: è uno degli esempi di castità recitati dai lussuriosi dell'ultima cornice purgatoriale, dove si ricorda altresì che la dea scacciò dalla propria presenza la ninfa Elice, resa gravida da Giove (Pg XXV 130-132; e cfr. Pd XXXI 32-33).

Diana è invece più volte nominata da D. (figlia di Latona, Delia, Trivia), soprattutto nel Purgatorio e nel Paradiso, per indicare il pianeta lunare (cfr. particolarmente Pd XXIX 1-6, sulla posizione astronomica dei figli di Latona), in qualche caso (Ep VI 8) anche nell'accezione metaforica di potere imperiale (lo spirituale essendo rappresentato dal Sole), cara alla trattatistica guelfa (ma respinta dal poeta). D. si avvale del nome della dea per introdurre un'aura di leggiadria femminile nell'immagine dell'alone lunare, poeticamente indicato come ‛ il cinto di Delia ' (cfr. Pg XXIX 78, Pd X 67-69, e anche XXVIII 23-24), o per significare la bellezza della luna piena (Pd XXII 139-141), risolvendo compiutamente l'accenno mitologico in espressione fantastica e poetica - come nel magnifico paragone di Pd XXIII 25-27 Quale ne' plenilunïi sereni / Trivïa ride tra le ninfe etterne / che dipingon lo ciel per tutti i seni - senza alcun sottinteso strutturale o ideologico (per intender bene il senso di questa osservazione si pensi per contro alle implicazioni risultanti dal riferimento di Farinata alla donna che qui regge, cioè Luna-Proserpina, e quindi Diana, in If X 80). Una bella immagine del cielo stellato con ‛ Phoebe ' (per cui cfr. Met. I 476, ecc.) è anche in Mn I XI 5.

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