DI CAPUA, Pietro Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

DI CAPUA, Pietro Antonio

Andrea Gardi

Nacque nel 1513 da una grande famiglia feudale napoletana, secondo figlio di Annibale e Lucrezia Arcamone; il fratello maggiore Vincenzo ottenne per matrimonio il ducato di Termoli e s'imparentò col conte di Guastalla Ferrante Gonzaga; il fratello minore Giovanni Tommaso fu marchese della Torre di Francolise; le due sorelle Isabella e Vittoria entrarono nel monastero benedettino napoletano di S. Gaudioso, di cui la prima divenne poi badessa. La famiglia, grazie ai buoni rapporti con gli Aragonesi (con cui era unita da vincoli familiari) e, poi, con i Gonzaga, che garantirono il favore di Carlo V, era una delle principali del Regno, possedendo feudi in Abruzzo, Molise, Puglia e Campania.

Si hanno poche notizie sui primi anni di vita del D.: pare fosse ottimo allievo dell'umanista napoletano Baldassarre Aquila e che divenisse poi egli stesso umanista, dotto e amico di letterati, esperto di teologia e di diritto canonico. Sicuramente conosceva le Sacre Scritture i concili, la patristica, teologi contemporanei come Erasmo, Eck e Johannes Gropper, autori della Chiesa greco-ortodossa (Fozio, Teofilatto, Teofane) e gli scrittori riformati: Lutero, M. Butzer, Johann Brenz e Calvino. Decisiva per la sua vita fu però la conoscenza dei fratelli Valdés, Alfonso e, soprattutto, Juan, di cui lesse gli scritti e il cui circolo egli frequentò a Napoli tra il 1534 e il 1541, aderendo alle sue idee ed entrando in contatto con le personalità che l'attorniavano: si legò in particolar modo a Pietro Carnesecchi, a Donato Rullo, ai fratelli, Giovanni Tommaso e Germano Minadois, soprattutto a Giulia Gonzaga; ivi conobbe ancora Giovanni Tommaso Sanfelice, Marcantonio Villamarina, Giovanni Francesco Alois, tutti personaggi in seguito sospettati di eresia; forse al 1536 è invece da far risalire l'amicizia con Giovanni Morone, che lo mise in contatto con Vittore Soranzo e con l'evangelismo dell'Alta Italia. Il D. si trovò dunque al centro dei circoli "spirituali" napoletani: condivise le opinioni di Valdés sulla giustificazione e s'infervorò dei problemi religiosi che in quell'epoca si venivano trattando.

Nel frattempo, grazie al favore di Paolo III e dietro presentazione di Carlo V, il 22 marzo 1536 fu nominato arcivescovo di Otranto, ottenendo una dispensa dall'età canonica per l'ordinazione (che ricevette solo nel 1537), mantenendo benefici nel Napoletano e succedendo a quelli pugliesi di suo zio Fabrizio, che sino a dodici anni prima aveva ricoperto la stessa cattedra archiepiscopale. Inizialmente il D. curò l'amministrazione della diocesi da Napoli, senza risiedervi: devolvette un'abbazia al proprio capitolo cattedrale, difese a Roma la sua autorità metropolitica contro il rifiuto del vescovo suffraganeo di Lecce di riconoscerlo, nel 1538-1540 fece compiere all'ausiliare vescovo di Scutari una visita pastorale, nel corso della quale ordinò una ricognizione sul corpo di uno degli arcivescovi suoi predecessori (sepolto nella cattedrale) ed iniziò la procedura di canonizzazione degli ottocento martiri otrantini del 1480. Si sa tuttavia che in questo periodo agirono a Otranto personaggi poi processati o accusati di eresia: l'auditore stesso dell'arcivescovo, alcuni dipendenti di quest'ultimo e altri preti e laici pugliesi, mentre il D. stesso ebbe, pare, contatti epistolari con Butzer. L'arcivescovo, che non mancava intanto di coltivare i rapporti con Ferrante Gonzaga, divenne uno dei personaggi più influenti degli ambienti "spirituali" napoletani; nel luglio 1541, con Giovanni Tommaso Minadois, fu presente alla morte di Juan de Valdés e frequentò poi il circolo di Giulia Gonzaga, che di quello valdesiano fu la continuazione; probabilmente presso di lei conobbe Girolamo Seripando (alla cui consacrazione cardinalizia assistette poi nel 1554), Placido di Sangro e forse la duchessa di Amalfi.

Con la morte di Valdés, il D. si stabilì a Roma per iniziare la propria carriera alla corte pontificia. Anche qui continuò a frequentare i gruppi evangelici: fu ammiratore del cardinale R. Pole, di cui lesse gli scritti, e conobbe, tra i frequentatori del prelato inglese, Marcantonio Flaminio, Alvise Priuli, Ottaviano Lotti, partecipando forse al circolo di Vittoria Colonna. È plausibile che sin dal 1540 avesse accentuato in senso eterodosso le proprie idee religiose: tra 1541 e 1545 fu suo segretario il luterano e agente inglese Guido Giannetti da Fano, che con ogni probabilità gli procurò libri luterani che il D. (ottenutane licenza) lesse; in casa sua egli riunì inoltre un circolo filoprotestante in cui, oltre a Giannetti, intervenivano Soranzo, Sanfelice e i luterani Girolamo Donzellino e Diego de Enzinas per ascoltare letture delle Lettere di s. Paolo tenute dall'averroista Girolamo Borro; forse a quest'epoca è da ascrivere anche il suo rapporto col grecista e astrologo eretico Matteo da Soleto; nel 1542, infine, Antonio Brucioli gli dedicò, da Venezia, un volume del proprio commento al NuovoTestamento, largamente ispirato a quello del Butzer.

Nello stesso periodo il D. ricevette nuove, concrete attestazioni di stima da Paolo III, che nell'ottobre 1542 gli concesse facoltà di testare e nel febbraio 1543 lo inviò a Trento assieme con altri prelati papali per partecipare al tentativo di apertura del concilio. Il D. da Roma si recò a Mantova (ov'era reggente il cardinale Ercole Gonzaga, suo parente e legato ai gruppi "spirituali" del Norditalia) e da lì a Venezia, ove fu ospitato insieme con Giannetti in casa di Donato Rullo; qui incontrò Germano Minadois e Carnesecchi per la prima volta dopo la morte di Valdés e, dietro raccomandazione loro e di Rullo, inviò ad Otranto come insegnante e predicatore l'ex frate siciliano Angelo Manna, poi rimosso perché scandaloso. Giunse infine a Trento, dove ritrovò personaggi con sensibilità religiosa affine alla sua: oltre a Morone, Pole, Sanfelice, il principe-vescovo cardinale C. Madruzzo, di cui divenne amico, e l'agostiniano Andrea Ghetti, in seguito accusato di eresia come pure il domenicano Bernardo de Bartoli, che il D. iniziò alle idee degli "evangelici".

Un esempio dei colloqui che avvenivano in quest'atmosfera relativamente ai problemi di fede è la conversazione conviviale in cui Morone, il D. e Bartoli, partendo da un passo di s. Paolo, arrivarono a concludere che si poteva a tal punto venire pervasi dallo Spirito da non essere sottoposti alle leggi umane della Chiesa.

Il D. soggiornò a Trento almeno dall'aprile all'agosto del 1543. Quando, in giugno, Paolo III chiese ai prelati presenti consigli su come ovviare al mancato afflusso dei vescovi al concilio, contrariamente alla maggior parte degl'interpellati il D. si associò ai rappresentanti imperiali nel chiedere che si mantenesse aperta la convocazione, in attesa d'una pace fra Asburgo e Valois, per evitare il pericolo di un concilio nazionale germanico. Tale proposta fu fatta propria da Morone e, anche se Paolo III non l'accolse, servì ad aumentare la già alta considerazione di cui il D. godeva a Roma. Quando, infatti, egli tornò nella capitale a fine 1543 (dopo essersi trattenuto in settembre col Ghetti in una villa trevisana di Alvise Priuli), ricoprì la carica di referendario delle due Segnature; nell'estate 1544 fu candidato per la nunziatura di Portogallo, cui però dovette rinunciare, perché poco esperto dei problemi finanziari che dovevano esservi trattati; divenne comunque prelato domestico di Paolo III e ricevette varie pensioni e benefici (nel Napoletano e nel Sorrentino) cumulabili e senz'obbligo di residenza. Nel marzo 1545 i legati al concilio di Trento richiesero la sua presenza al cardinal A. Farnese, come esperto canonista della Curia: egli però partecipò al concilio solo per procura perché, tra marzo e novembre, parve dovesse venire incaricato di una missione diplomatica presso Carlo V, se non della stessa nunziatura alla corte imperiale.

Il D. era all'apice del favore di Paolo III e del Sacro Collegio quando, nel dicembre 1545, la scoperta del circolo luterano di Roma lo coinvolse nei sospetti di eresia, perché il suo segretario Giannetti fu ricercato dal S. Uffizio (ed egli lo nascose sino al marzo successivo), e perché anche il D. fin dal febbraio 1546 fu denunciato al cardinal Farnese per il suo imprudente comportamento di tre anni prima a Trento. La sua posizione peggiorò nel 1547, quando Ferrante Gonzaga occupò Piacenza dopo l'assassinio di Pierluigi Farnese: il D., come congiunto del Gonzaga, venne esortato a partire da Roma e recarsi a Trento al concilio, senza che peraltro obbedisse; nel 1548 esisteva un fascicolo dell'Inquisizione a suo carico.

Sperò pertanto che il conclave del 1549 eleggesse il cardinale Pole; la scelta cadde invece su Giovanni Maria Ciocchi Del Monte (Giulio III), suscitando preoccupazioni nel D., che tentò perciò di sfruttare la propria posizione di grande feudatario napoletano filoasburgico per venire promosso al cardinalato. Segnalato in tal senso a Carlo V sin dal 1551, egli compì tre tentativi (settembre-ottobre 1551, maggio-luglio 1552, aprile 1553-marzo 1555), nel corso dei quali venne appoggiato dalla corte imperiale e tentò di superare le resistenze romane provenienti dal cardinal Farnese e, soprattutto, dai cardinali R. Pio di Carpi e M. Cervini in seno al S. Uffizio, che indagava sul suo conto. Giulio III, che inizialmente non avrebbe voluto rivelare all'imperatore i motivi che sconsigliavano l'elezione del D., dovette poi informarlo del procedimento in corso contro il prelato, che nel 1553 ammise a purgazione canonica (pur ritenendolo colpevole di eresia) per non urtarsi con gli Asburgo; verso la fine dello stesso anno, il papa si fece inoltre consegnare i dossiers inquisitoriali relativi al D., a Morone, a Soranzo e a Grimani, e li custodì personalmente. Il D. ottenne tuttavia un breve (31 maggio 1554) che attestava l'avvenuta emendazione e se ne servì per controbattere a Bruxelles le accuse che il cardinale Pio spargeva contro di lui, presentandole come una persecuzione dettata da motivi personali; Giulio III fu perciò forzato, nel gennaio 1555, a far riferire a Carlo V che il D. era uno dei principali eretici italiani, accusato da tutti gli arrestati del S. Uffizio, e che gli era stato usato un trattamento mite solo per riguardo all'imperatore e perché la sua eresia, valdesiana, procedeva soprattutto da eccessivo orgoglio intellettuale. La posizione del D. precipitò: a Giulio III, che morì poco dopo, succedettero i cardinali Cervini (Marcello II) e Carafa (Paolo IV), provenienti dal S. Uffizio e ostili al prelato napoletano, mentre le denunce contro di lui continuavano nel periodo 1554-1559, centrandosi intorno al processo a Morone, in cui si tentava di identificare l'evangelismo italiano come mera eresia e di colpirne i principali esponenti.

Il D. dall'inizio del 1556 si rifugiò nei feudi abruzzesi della famiglia e fino al 1560 si spostò tra Napoli, Otranto, l'Abruzzo e i propri benefici, mentre si adoperava per ottenere la protezione della corte asburgica contro papa Carafa. In questo periodo ebbe inoltre altre disgrazie: morì la moglie del fratello Vincenzo, per cui venne incaricato della tutela dei nipoti; abdicò Carlo V e Filippo II si mostrò diffidente nei confronti del D. e di Ferrante Gonzaga, che a sua volta morì a Bruxelles senza aver potuto trattare col cardinale Carlo Carafa l'impunità del D.; nel 1557 fu arrestato a Napoli per futili motivi, il fratello Giovanni Tommaso, e finì la guerra ispano-pontificia; nell'autunno 1558 il D. fu citato a Roma (probabilmente nel tentativo di compromettere la posizione processuale di Giovanni Morone), ma egli evitò di recarvisi, con l'appoggio di Filippo II, cui era riuscito a presentarsi come un ispanofilo soggetto a persecuzioni politiche.

Dopo la morte di Paolo IV (1559), il D. tentò di recuperare influenza in Curia, per garantirsi dall'ostilità dell'Inquisizione. Fu a Roma nell'aprile-giugno 1560 e, sostenuto dai Gonzaga, cercò di scagionarsi presso il S.Uffizio (senza tuttavia evitare d'incontrarsi con Carnesecchi e di continuare a scrivere a Giulia Gonzaga) e di ingraziarsi il cardinale nipote C. Borromeo, dei cui interessi nel Regno si prese poi cura; a Roma si recò nuovamente nell'estate 1561 quando, probabilmente tramite l'appoggio gonzaghesco, ottenne da Pio IV la riabilitazione anche se non poté avere né il cardinalato, né la nunziatura di Spagna, come avrebbe desiderato, ma dovette limitarsi a riprendere il suo posto di referendario agl'inizi del 1562.

Il D. aveva ricevuto sin dal marzo 1561 la convocazione per recarsi alla riapertura del concilio, ma le sue vicende personali gli avevano impedito di obbedire; nell'estate del 1562 egli vi fu inviato, insieme con altri prelati legati alla Curia, come segno della fiducia accordata da Pio IV ad Ercole Gonzaga, allora presidente dell'assemblea. Lasciati ausiliari ad Otranto, egli si recò dunque a Trento, dove soggiornò dal 3 luglio 1562 ai primi di dicembre 1563, acquistando subito una posizione di rilievo nei lavori in quanto ricco (era il prelato italiano col seguito più numeroso), autorevole, dotto e vicino sia alla Curia, sia ai riformisti italiani e spagnoli, sia al presidente Gonzaga.

A Trento il D. cercò di rendere definitivamente solida la propria posizione nella stima della corte pontificia. A tal fine egli, fino alla morte dei legati Gonzaga e Seripando (marzo 1563), fece da traitd'union tra Gonzaga, il cardinale nipote Borromeo e gli ambasciatori imperiali, divenendo elemento di raccordo tra i curialisti e i riformisti. In questo senso operò coi suoi interventi nei dibattiti sull'eucarestia e la concessione della comunione sotto le due specie ai laici, sulla residenza dei vescovi e la riforma disciplinare del clero, sulla riduzione delle pensioni ecclesiastiche, sul sacramento dell'Ordine, cercando di conciliare la riforma degli abusi ecclesiastici con la difesa dell'autorità papale e con l'attenzione per le istanze dell'imperatore. Tale posizione, che gli fruttò molti elogi da parte della S. Sede (dovette tra l'altro celebrare la messa solenne di apertura della XXII sessione), iniziò a mutare con l'arrivo a Trento (novembre 1562) dei prelati francesi. Il D. era infatti un canonista desideroso di operare le riforme necessarie senza mettere in discussione la struttura giuridico-gerarchica della Chiesa: le posizioni gallicane dei francesi (da cui lo dividevano anche contrasti politici) suscitavano dunque in lui tanto allarme da spingerlo a radunare un gruppo di prelati conservatori italiani che offersero il proprio sostegno al legato L. Simonetta, uomo di fiducia di Pio IV. Egli perciò andò trasformando in senso sempre più filocurialista la sua posizione mediatrice, divenendo un capopartito degli "zelanti" (lo seguiva una quarantina di voti conciliari) e ricevendo sempre maggior fiducia da Roma: grazie alle sue prese di posizione riguardo all'Ordine e alla residenza dei vescovi, i legati l'inserirono nelle commissioni incaricate di redigere i relativi decreti, ed egli si gettò a tal punto nel campo curialista da giungere all'inimicizia personale col cardinale di Lorena Ch. de Guise e P. Guerrero, arcivescovo di Granata, capi dei riformisti francesi e spagnoli.

Dopo il marzo 1562 il D. si trovò privo del cardinal Gonzaga, suo miglior protettore, depresso (erano morti i suoi fratelli ed egli invano chiese di essere trasferito all'archidiocesi di Salerno per poter curare gli interessi dei nipoti) e non pienamente reintegrato nel favore di Filippo II. Accentuò quindi, nelle ultime sessioni, il suo legame con Roma (da cui spesso ricevette istruzioni riservate, pur senza appartenere al gruppo dei prelati sovvenzionati dalla Curia): sia nei grandi dibattiti sulla nomina dei vescovi, sul matrimonio, sulla residenza, sulla riforma generale della Chiesa (che esaminò a capo di un gruppo di vescovi italiani) e su quella dei regolari, sia nei lavori delle diverse commissioni di cui fece parte, egli difese posizioni ultracurialiste (arrivando a sostenere i diritti di designazione dei sovrani alle diocesi, i privilegi dei capitoli, la vendita e il cumulo dei benefici), scontrandosi tanto coi riformisti francesi e spagnoli, quanto con l'ambasciatore di Filippo II, che avrebbe voluto guidare il lavoro dei prelati dei domini del proprio sovrano, ma ricevendo le lodi dei legati e di Roma.

Il D. riuscì in tal modo a riabilitarsi totalmente agli occhi di Pio IV, come desiderava: tornato forse a Otranto, non fu molestato quando nel 1564 Alois, giustiziato come eretico a Napoli, lo accusò di essere stato luterano; lo stesso anno, anzi, il D. si laureò in utroque iure a Roma e ottenne da Pio IV indulgenze per la propria cattedrale. Nel marzo 1565 tentò per l'ultima volta di divenire cardinale, sempre senza esito per i trascorsi valdesiani; fu però nominato, nell'ottobre successivo, nunzio a Venezia, dove si trattenne dal 17 nov. 1565 al 21 maggio 1566.

A Venezia il D., oltre al disbrigo dell'attività ordinaria, seppe procurarsi importanti amicizie nel Senato e, soprattutto, rivide Carnesecchi, che gli procurò un incontro clandestino col Giannetti, ricercato dal S. Uffizio e rifugiatosi presso la Serenissima. Ciò favorì da parte di Pio V (succeduto in gennaio a Pio IV) il richiamo del D. dalla nunziatura (metà marzo 1566), subito seguito dalla richiesta di estradizione per Giannetti, ritenuto in grado di svelare tutti i legami tra i gruppi eretici italiani; ad aggravare la posizione del D. (il cui processo, come pure quello a Morone, Pio V intendeva riaprire) vennero la morte di Giulia Gonzaga, con cui l'arcivescovo aveva sempre carteggiato, e l'intercettazione delle sue lettere da parte dell'Inquisizione, il nuovo processo a Carnesecchi e quelli a Mario Galeota e Niccolò Franco, i quali tutti videro coinvolto il Di Capua. Questi approfittò della resistenza che i suoi amici veneziani opposero alla consegna di Giannetti per rifugiarsi nei suoi feudi abruzzesi e poi per recarsi a Otranto.

Mentre a Roma i cardinali Santoro, Gambara e Bellarmino punivano con la morte Carnesecchi per non aver voluto compromettere gli accusati di Paolo IV e particolarmente il D., quest'ultimo convocò nella propria diocesi il primo sinodo provinciale (settembre 1567), di cui fece una tribuna della sua ortodossia. I decreti sinodali accoglievano infatti nella maniera più esplicita le norme tridentine e le successive precauzioni controriformistiche: furono poste le premesse per l'abolizione del rito greco nel Salento, si vietò la discussione, specie pubblica, sulle materie di fede, fu messa sotto controllo la vita culturale e l'istruzione, venne bandita la caccia ad eretici e streghe. In tal modo il D. poté scagionarsi: incontrò Pio V nel giugno 1568 e nel gennaio 1569, restando poi tutta l'estate a Roma, ove fece stampare il testo dei decreti del suo sinodo provinciale (e nel 1570 anche la loro traduzione italiana), che tentò poi di diffondere nelle diocesi salentine. Sebbene la diffidenza di Pio V gli precludesse anche per il futuro ogni speranza di carriera curiale, risiedette ad Otranto il meno possibile, sia per mancanza di volontà, sia perché desideroso di curare a Napoli gl'interessi dei nipoti, sia, infine, per la cattiva salute: nel 1574, nonostante gli fosse ordinato di procedere contro un prete eretico e sodomita della sua diocesi, si trattenne sempre a Napoli per cure termali; nel 1575 si recò a Roma per il giubileo e probabilmente in tale occasione riuscì a ottenere da Gregorio XIII che il nipote Annibale ereditasse i suoi benefici e l'archidiocesi; dopo aver soggiornato nelle sue abbazie napoletane, dal 1576 si ritirò ad Otranto, governando mitemente la diocesi e difendendo, con altri arcivescovi del Regno, i propri diritti agli spogli del clero locale.

Morì a Otranto (Lecce) negli ultimi giorni del 1578 o nei primi del 1579, e fu sepolto nella cattedrale otrantina.

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