Democrazia

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Democrazia

Angelo Panebianco

sommario: 1. Introduzione. 2. Definizioni di democrazia. 3. Varianti poliarchiche. 4. Le ‛ondate' della democratizzazione. 5. Nuove democrazie e vecchi problemi. 6. Vecchie democrazie e nuove sfide. a) Le sfide endogene. b) Le sfide esogene. 7. Una pace democratica? □ Bibliografia.

1. Introduzione

Alla fine del XX secolo, la democrazia appare, sulla scena del mondo, come una vincitrice sofferente. È indubbiamente una vincitrice: ha sconfitto entrambe le principali sfide totalitarie del secolo e, ciò che conta di più, sia sul piano politico come sul piano della vita economica - il mercato - essa non ha apparentemente rivali. Non c'è al momento alcun ideale di società politica che possa vantare altrettanti proseliti, nessuna idea di città politica che possa competere con l'idea di democrazia.

Sul finire del nostro secolo abbiamo assistito a una nuova ondata di ‛democratizzazione': vecchi regimi autoritari o totalitari sono stati spazzati via e l'area della democrazia si è notevolmente ampliata. Sono ormai tanti i regimi politici democratici o che, almeno, pretendono di esserlo e ne hanno pertanto adottato istituzioni e sembianze. La democratizzazione è, alla fine del XX secolo, il processo più studiato dagli scienziati politici. E il punto importante è che l'unica democrazia di cui si parla, l'unica che viene definita come tale ed è imitata anche fuori dall'Occidente, è la democrazia liberale, la democrazia nella forma storicamente realizzata in Occidente.

Vincitrice sul piano morale, nella battaglia delle idee, e vincitrice sul piano politico-istituzionale (rispetto a concezioni rivali della democrazia medesima), la democrazia liberale è però anche una vincitrice sofferente. Sebbene non abbia più rivali, essa è tuttora rifiutata nel mondo islamico e in quasi tutta l'Asia (salvo Giappone, India e pochi altri paesi), e gli esperimenti democratici fin qui tentati in molte parti dell'Africa appaiono assai poco vitali. Là dove si sono formate nuove democrazie sulle ceneri del totalitarismo o dell'autoritarismo, come nell'Europa orientale e in America Latina, queste appaiono procedere con grandi difficoltà e fra molti rischi sulla strada del loro consolidamento, mentre permangono gli interrogativi sul futuro, anche a breve termine, della fragilissima democrazia russa. Ma anche le più vecchie e consolidate democrazie dell'area euroatlantica devono vedersela con gravi problemi: insorgenze populiste, tensioni fra democrazia e globalismo, sono soltanto alcune delle sfide che devono fronteggiare le democrazie liberali alle soglie del XXI secolo.

Per esaminare questi problemi procederemo attraverso cinque fasi. In primo luogo, definiremo la democrazia; nella definizione che adotteremo è insita l'idea che la democrazia liberale possa essere in qualunque momento corrosa dall'interno, perdendo o diluendo i suoi tratti liberali e degenerando quindi in una qualche forma di democrazia illiberale o totalitaria. In secondo luogo, esamineremo brevemente le diverse varianti in cui si incarnano le poliarchie, ossia quei regimi politici che si ispirano ai principî della democrazia liberale. In terzo luogo, considereremo i problemi che devono affrontare le democrazie nuove, sorte alla fine del secolo. Poi indicheremo le sfide che hanno di fronte le democrazie più antiche, più consolidate. Infine, considereremo la plausibilità o meno degli argomenti neowilsoniani o neoliberali: l'estendersi delle democrazie favorisce effettivamente la pace, restringendo lo spazio della violenza e della guerra?

2. Definizioni di democrazia

Come ha scritto Giovanni Sartori (v., 1993), esiste una sola democrazia politica ‟dei moderni", ed è la democrazia liberale. Essa associa una ‟tecnica dei limiti del potere dello Stato" (il liberalismo) con l'‟immissione del potere popolare nello Stato" (la democrazia). Protezione giuridica delle libertà individuali e Stato costituzionale sono ciò che il liberalismo porta in dote alla democrazia moderna. Ed è questa la prima, radicale differenza fra la democrazia dei moderni e la democrazia degli antichi. La seconda differenza attiene alla scala: la democrazia dei moderni è una democrazia in grande, su grande scala: pertanto, può esistere solo come democrazia rappresentativa, non come democrazia diretta. La liberaldemocrazia, come ci ha insegnato la teoria realistica della democrazia, non elimina le élites, anzi ne ha necessità (v. Sartori, 1987; v. Dahl, 1982): in concreto, essa si configura come un sistema a governo limitato (costituzionale), basato sulla competizione fra élites per il consenso popolare (v. Schumpeter, 1942). Essa è pertanto, propriamente, una ‛poliarchia' (v. Dahl, 1971), ossia, nei termini di Raymond Aron (v., 1965), un regime oligarchico, al pari di qualunque altro regime politico; e tuttavia se ne distingue per una specificità: le oligarchie competono pacificamente per il suffragio elettorale in un quadro di garanzie individuali costituzionalmente definite e di limitazione giuridica dell'esercizio del potere.

Si tratta di una costruzione complessa e fragile, le cui componenti fondamentali - l'istanza liberale, e l'istanza democratica - possono facilmente entrare in rotta di collisione. La democrazia può mettere a rischio il liberalismo, può distruggerlo: solo l'equilibrio fra le due istanze che la compongono può garantire la tenuta della democrazia dei moderni. Inoltre, la circostanza che il liberalismo è necessario alla democrazia, lascia aperti molti dubbi sulla vitalità di diversi esperimenti democratici in corso fuori dall'Occidente.

3. Varianti poliarchiche

Le poliarchie - al di là del minimo comun denominatore rappresentato dalla tutela giuridica dei diritti di cittadinanza, dalla divisione dei poteri e dal pluripartitismo (sugli indicatori della democrazia, v. Dahl, 1971) - sono, per molti altri aspetti, assai diverse fra loro. Le principali differenze riguardano la forma di governo, le caratteristiche del sistema dei partiti politici e il grado di accentramento-decentramento del potere statale (v. Fabbrini, 1994); oltre, naturalmente, il modo in cui queste diverse variabili si combinano nei diversi casi.

La tipologia che ha incontrato maggior successo si deve a Lijphart (v., 1984) ed è basata sull'idea che le differenze principali fra le poliarchie riguardino il grado di concentrazione-dispersione del potere. Lijphart distingue pertanto fra due tipi opposti di poliarchia - il modello ‛Westminster' (alta concentrazione del potere) e il modello ‛consensuale' (alta dispersione del potere) - e classifica le diverse poliarchie a seconda della loro maggiore vicinanza all'uno o all'altro dei due tipi.

Il modello Westminster si distingue per nove caratteristiche: 1) governi monopartitici a maggioranza risicata; 2) predominio dell'esecutivo sul legislativo; 3) bicameralismo asimmetrico; 4) sistema bipartitico; 5) conflitto politico unidimensionale (destra-sinistra); 6) sistema elettorale maggioritario (plurality system); 7) sistema di governo unitario e centralizzato; 8) costituzione non scritta; 9) democrazia esclusivamente rappresentativa. Oltre che in Gran Bretagna, molte caratteristiche (anche se non necessariamente tutte) del modello Westminster sono state o sono tuttora presenti negli ex dominions britannici, come la Nuova Zelanda e il Canada (dove vige però il sistema federale), oppure come l'Australia (dove però vige un diverso tipo di sistema elettorale maggioritario). Il modello Westminster fu anche un'eredità - andata in seguito quasi ovunque dispersa, con l'eccezione dell'India - che la madrepatria lasciò agli ex territori dell'Impero britannico africani e asiatici.

Il modello consensuale, per parte sua, è definito da otto caratteristiche: 1) condivisione del potere esecutivo (governi di grande coalizione); 2) separazione formale e informale dei poteri; 3) bicameralismo equilibrato; 4) sistema multipartitico; 5) conflitto politico multidimensionale; 6) sistema elettorale proporzionale; 7) federalismo o decentramento; 8) costituzione scritta e potere di veto della minoranza. Svizzera e Belgio appaiono come casi di poliarchie molto vicine al modello consensuale; molti tratti, anche se non tutti, di tale modello sono stati propri, ad esempio, di poliarchie come la Quarta Repubblica francese o l'Italia repubblicana fino a tempi recenti.

Secondo Lijphart sono soprattutto le società omogenee (non solcate da rilevanti divisioni etniche, linguistiche o religiose, o da un'estrema polarizzazione ideologica) che possono permettersi poliarchie relativamente spostate verso il polo del modello Westminster. Al contrario, le società ‛plurali', solcate da forti divisioni, tendono ad adottare soluzioni istituzionali più vicine al polo rappresentato dal modello consensuale.

Ancorché molto utile per distinguere fra loro, su molti aspetti, le poliarchie, questo schema non cattura però tutte le differenze. Soprattutto, se appare utile per differenziare le poliarchie che adottano il regime parlamentare, tuttavia esso non presenta la stessa utilità per il caso dei regimi presidenziali e semi-presidenziali. Quando il presidente è direttamente eletto, il funzionamento della poliarchia risulta assai diverso rispetto ai casi di elezione indiretta. E, a loro volta, regimi presidenziali e semi-presidenziali presentano fra loro grandi differenze (v. Shogurt e Carey, 1992; v. Ceccanti e altri, 1996). Quest'ultimo è un aspetto molto importante, soprattutto in relazione ai più recenti processi di democratizzazione. Difatti, il presidenzialismo, nelle sue diverse varianti, è oggetto di un curioso e alquanto paradossale destino. Si tratta di una forma di governo sconsigliata da molti scienziati politici (v. Linz e Valenzuela, 1992), perché ritenuta scarsamente affidabile, difficilmente capace di sopravvivere nel tempo, prona alle crisi e a trascinare nella propria crisi anche la poliarchia che abbia la sventura di adottarla. E, tuttavia, si tratta anche di una forma di governo largamente adottata dalle nuove democrazie.

4. Le ‛ondate' della democratizzazione

Secondo Samuel Huntington (v., 1991) possiamo individuare, nella storia della democrazia dei moderni, tre ‛ondate' di democratizzazione, intendendo per tali ‟una serie di passaggi da regimi autoritari a regimi democratici, concentrati in un periodo di tempo ben determinato, in cui il numero di fenomeni che si producono nella direzione opposta (passaggi da regimi democratici a regimi autoritari) è significativamente inferiore" (v. Huntington, 1991; tr. it., p. 36). Le prime due ondate di democratizzazione sono state seguite da altrettante ondate di riflusso; la terza è (o almeno era, nel momento in cui Huntington scriveva) ancora in corso.

Huntington (ibid., p. 38) ha schematizzato tali vicende nel modo seguente.

Prima ondata di democratizzazione (lunga) 1828-1926

Prima ondata di riflusso 1922-1942

Seconda ondata di democratizzazione (corta) 1943-1962

Seconda ondata di riflusso 1958-1975

Terza ondata di democratizzazione 1974-

La prima ondata coinvolge buona parte dei paesi europeo-occidentali, gli Stati Uniti e alcuni paesi latino-americani (come l'Argentina) ed è seguita dal riflusso degli anni venti-trenta. La seconda ondata riporta (o, in alcuni casi, porta per la prima volta) la democrazia in Italia, Germania Occidentale, Austria, Giappone, India, Israele, e in alcuni paesi dell'America Latina (come Uruguay, Brasile, Costarica). Essa è seguita, a partire dagli anni sessanta, dalla seconda ondata di riflusso che conduce alla moltiplicazione di regimi militari in America Latina, Asia, Africa, ma anche in Grecia e Turchia. La terza ondata di democratizzazione inizia, secondo Huntington, con gli eventi innescati dalla ‛rivoluzione dei garofani' in Portogallo (1974), seguiti dal ritorno alla democrazia in Spagna e Grecia. Alla fine degli anni settanta comincia lentamente la ridemocratizzazione dell'America Latina che continua, con alterne vicende, negli anni ottanta. Anche in alcuni paesi asiatici, come la Corea o il Pakistan, i militari cedono il potere a civili legittimati da elezioni democratiche. Alla fine degli anni ottanta, il crollo del sistema comunista sovietico apre la strada della democrazia ai paesi dell'Europa orientale, alla Russia e ad alcune delle ex repubbliche sovietiche. Sviluppi in direzione della liberalizzazione, se non proprio della democrazia, si verificano anche in Africa. Secondo i calcoli di Huntington (ibid., p. 48), in un settantennio il numero delle democrazie è raddoppiato: erano 64 nel 1922, sono 129 nel 1990. Come nelle fasi precedenti, naturalmente, alla democratizzazione segue il riflusso. Già nel 1993, in molti paesi dell'ex Unione Sovietica, dell'Africa e dell'Asia, i processi di democratizzazione appena iniziati apparivano in regresso: diverse neonate democrazie crollavano sotto i colpi della violenza interetnica lasciando di nuovo il passo a regimi autoritari (v. Karatnycky, 1994). Come nelle fasi precedenti, però, alcune delle neonate democrazie sono riuscite a sopravvivere e si trovano oggi ad affrontare i difficili problemi del ‟consolidamento democratico" (v. Morlino, 1980).

La democrazia resta, nella seconda metà degli anni novanta, una pianta che non appare ancora innestabile stabilmente in Africa (v. Chazan, 1992) né in Medio Oriente (v. Pool, 1994): anche quando, in queste due aree, si manifestano processi di liberalizzazione, essi non appaiono comunque forieri di democrazia. In Asia, resta legato alla democrazia - nonostante i suoi tanti paradossi ed enigmi - il subcontinente indiano (v. Weiner, 1992); inoltre, Giappone (v. Shillony, 1992) e Thailandia (v. Cohen, 1992) - ma quest'ultima con una storia democratica assai tormentata - rappresentano esempi affascinanti di innesti di democrazia occidentale su tradizioni culturali apparentemente poco compatibili con essa.

5. Nuove democrazie e vecchi problemi

Lasciando da parte gli assai problematici (dal punto di vista culturale) casi asiatici, gli esperimenti neo-democratici più interessanti sono indubbiamente quelli in corso nelle aree meno lontane rispetto al raggio di influenza della tradizione culturale occidentale: Europa ex comunista e America Latina. Da un lato, si tratta di aree nelle quali, per ragioni di affinità culturale con l'Occidente, la democrazia liberale ha maggiori probabilità di impiantarsi stabilmente. Dall'altro lato, si tratta anche di aree oberate da tremendi problemi, nelle quali le sfide che la democrazia deve fronteggiare per sopravvivere sono davvero grandi, e il ‛consolidamento democratico' appare di ardua realizzazione. Per quanto riguarda l'Europa ex comunista è necessario fare una distinzione: a parte il caso speciale della Germania Orientale, oggi inglobata nella RFT, i paesi nei quali gli esperimenti democratici hanno maggiori probabilità di riuscita sono la Repubblica Ceca (e, forse, ma con più incognite, la Slovacchia), l'Ungheria e la Polonia (v. Lijphart, 1994; v. Agh, 1996; v. Toka, 1996; v. Hill, 1994). Molto più problematici sono quasi tutti gli altri casi, sia nell'area balcanica (Romania, Bulgaria, ex Iugoslavia, con la possibile eccezione della Slovenia) sia nelle ex Repubbliche sovietiche. Tolti i casi citati, nessuno degli altri rispetta attualmente i criteri che definiscono la poliarchia: per buona parte di questi casi appare più appropriata la denominazione di ‟pseudo-democrazie" (v. Diamond e altri, 1988-1989), intendendo con tale termine i regimi misti che combinano una parziale liberalizzazione con la permanenza di istituzioni autoritarie (sul complesso caso russo, v. Frank, 1994).

Ma anche nei casi ove la poliarchia incontra condizioni più favorevoli, le sfide da fronteggiare rimangono davvero ardue. Paesi come la Repubblica Ceca, l'Ungheria e la Polonia hanno dovuto intraprendere la transizione all'economia di mercato (con tutti i sacrifici che ciò ha imposto e impone) nella stessa fase in cui tentavano di consolidare le loro neonate democrazie: così, élites che operavano in assenza di robuste tradizioni democratiche hanno dovuto imporre ai propri elettori scelte che minavano il consenso. Con il rischio, nei termini di Easton (v., 1965), di veder venir meno, in qualunque momento, non solo il consenso ‛specifico' alle élites di governo e alle loro politiche, ma anche il consenso ‛diffuso' alle istituzioni democratiche (v. Przeworski, 1995; v. Ionescu, 1994). Si può dire che l'atout più importante - pur fra mille difficoltà - a disposizione delle recenti democrazie dell'Est europeo è consistito nell'esistenza di condizioni internazionali favorevoli. Da un lato, il ripiegamento della Russia sui suoi gravi problemi interni ha momentaneamente allontanato dai loro confini una tradizionale minaccia imperialistica; dall'altro lato, esse hanno beneficiato dell'incoraggiamento e dell'appoggio dei paesi dell'Unione Europea, e in primo luogo della Germania. Un eventuale ingresso di questi paesi nella NATO potrebbe dare loro in futuro quelle condizioni di sicurezza che sono necessarie al consolidamento della democrazia. E l'adesione, una volta completati i processi di transizione all'economia di mercato, all'Unione Europea, ne faciliterebbe una definitiva stabilizzazione.

Anche in America Latina la nuova ondata di democratizzazione si è giovata di condizioni internazionali favorevoli. La fine del conflitto bipolare ha sicuramente spinto gli Stati Uniti verso posizioni di minore indulgenza nei confronti dei regimi militari. Anche in America Latina, come nell'Europa ex comunista, ci sono paesi che hanno più chances di vedere consolidata la democrazia e altri che ne hanno decisamente meno. I paesi del ‛Cono Sud', più sviluppati (insieme ad alcune delle rare democrazie già da tempo consolidate, come Costarica e Venezuela) si trovano in condizioni meno svantaggiate di quelle di paesi come la Bolivia o la maggioranza delle piccole repubbliche centro-americane. Resta incerto il futuro dell'esperimento di liberalizzazione in corso in Messico, così come assai ambigua e incerta appare la situazione della democrazia in Perù.

In generale, nonostante i comprensibili entusiasmi per le sorti della democrazia fuori dall'area euro-atlantica - entusiasmi che si diffusero all'indomani della fine della guerra fredda - molti degli esperimenti democratici tentati non appaiono destinati ad avere successo. Molte delle cosiddette democrazie della terza ondata di cui parla Huntington non hanno retto alle sfide che dovevano fronteggiare, lasciando ben presto il posto a regimi autoritari di vario tipo; altre (per esempio nell'area balcanica) sono definibili più propriamente ‛pseudo-democrazie', dal momento che non hanno sviluppato né piena tutela giuridica dei diritti di cittadinanza, né vera limitazione costituzionale dei poteri di governo, ma hanno mescolato, in proporzioni variabili, democrazia elettorale e autoritarismo.

Si può probabilmente dire che, quanto più ci si allontana dall'area di influenza culturale della Respublica Christiana (le più importanti eccezioni restano, fino a oggi, ciascuno con le sue specificità, Giappone e India), tanto più è improbabile che la democrazia liberale riesca ad attecchire, anche se possono attecchire, in taluni casi, alcuni suoi istituti (ma non tutti): in particolare, la selezione delle élites di governo per mezzo di elezioni più o meno regolari e più o meno libere. Senonché, la presenza di questa condizione, non accompagnata da altre altrettanto importanti, non basta a permettere di definire democrazie (nel significato qui accolto) questi regimi. Si pensi alle difficoltà che si incontrano nella valutazione di un classico caso di confine come quello turco (v. Heper, 1992), di un paese, cioè, in bilico fra Occidente e Oriente e nel quale una assai fragile e problematica democrazia è sottoposta a tutte le tensioni e le pressioni che derivano da un quotidiano clash of civilizations: lo scontro, cioè fra le due anime del paese, quella laica, filo-occidentale, e quella musulmana.

6. Vecchie democrazie e nuove sfide

Se il futuro di tante neo-democrazie resta incerto, gravi problemi, anche se di natura assai diversa, affliggono, sul finire del secolo, anche le più vecchie o meno nuove democrazie dell'area euro-atlantica. Naturalmente, in quest'area i successi sono stati tanti, poiché la democrazia (salvo alcune eccezioni, tra le quali l'India è la più importante) è in genere positivamente correlata allo sviluppo economico (v. Lipset, 1960; v. Huntington, 1991). L'innesco di processi di sviluppo e di accrescimento del benessere contribuisce a spiegare, ad esempio, il successo delle democrazie succedute in Europa a precedenti regimi autoritari, si tratti dei casi, nel linguaggio di Huntington, della ‟seconda ondata" - come Italia, Germania Federale, Austria - o della ‟terza ondata", cioè di Portogallo, Spagna e Grecia (v. Gunther e altri, 1995). Le democrazie dell'area euro-atlantica hanno inoltre sviluppato, nel corso dei decenni, imponenti ‛Stati sociali' finanziati dallo sviluppo, accrescendo, o mantenendo, in tal modo, il consenso intorno alle istituzioni della democrazia (v. Burdeau, 1977).

Ciò non toglie che alla fine del XX secolo anche le democrazie più consolidate debbano fronteggiare numerose sfide, le quali, se non affrontate vittoriosamente, potrebbero minacciare il consenso alla democrazia e provocare trasformazioni tali da alterarne la natura. Tali sfide possono essere suddivise - con una certa approssimazione, dal momento che spesso i fattori di cui ci occupiamo sono più propriamente ‛transnazionali' - in endogene ed esogene, ossia in sfide che dipendono (prevalentemente) da mutamenti interni ai paesi democratici occidentali e sfide che dipendono (prevalentemente) da mutamenti internazionali.

a) Le sfide endogene

Le sfide endogene sono di vario tipo e hanno a che fare con gli effetti di lungo periodo che la società di massa esercita sulla sfera politica.

Una prima sfida corrisponde a ciò che Raymond Aron (v., 1969) definì ‟dialettica della socializzazione": essa dipende dal funzionamento contraddittorio della società industriale. Nelle democrazie liberali dell'Occidente, la società industriale propone ai cittadini - secondo Aron - valori fra loro in contrasto, che ispirano atteggiamenti contraddittori: da un lato, infatti, chiede il rispetto delle gerarchie (aziendali, amministrative, ecc.) senza il quale non sono possibili né lo sviluppo economico né l'ordine sociale; dall'altro, però, incentiva le tendenze all'autorealizzazione individuale che entrano in conflitto con le esigenze della gerarchia. Le società aperte dell'Occidente, enfatizzando l'importanza dei cosiddetti valori post-materialistici, hanno finito per accrescere a dismisura le tensioni connesse a quella che viene definita ‛dialettica della socializzazione'. Ciò ha importanti implicazioni, dirette e indirette, oltre che per il costume e la più generale vita sociale, anche per il funzionamento della democrazia. Per esempio, fra gli effetti diretti c'è il rilassamento o l'indebolimento delle gerarchie all'interno delle pubbliche amministrazioni, con conseguenti perdite di funzionalità e di efficienza. Tra gli effetti indiretti, invece, c'è la crescita dell'importanza e del ruolo del potere giudiziario: l'accresciuto ricorso al magistrato come effetto della contrattualizzazione di molti rapporti della sfera privata (cresce, ad esempio, in Occidente la propensione a ricorrere ai magistrati nei conflitti famigliari) contribuisce a dare alle magistrature un peso che finisce per ripercuotersi sul funzionamento della democrazia, alterando l'equilibrio fra i poteri (su questo punto torneremo in seguito). E così via.

Un'altra sfida, collegata alla prima, è connessa al generale miglioramento degli standard qualitativi di vita e, in particolare, all'innalzamento dei livelli di istruzione. In questo caso l'effetto sulla vita della democrazia è diretto: l'accrescimento dei livelli di istruzione facilita infatti fenomeni di ‛ritiro della delega', riduce la disponibilità ad affidarsi in toto alle mani delle tradizionali organizzazioni politiche di massa (riduce il peso delle ‛appartenenze politiche'), accresce la volatilità elettorale. L'insoddisfazione per promesse elettorali non mantenute ha, oggi più che in passato, effetti negativi sugli atteggiamenti dei cittadini verso la politica e influenza negativamente, accrescendone la precarietà, sia la durata che le performances dei governi. Varie ricerche indicano, sul finire del XX secolo, che il disincanto e l'insoddisfazione nei confronti del ‛rendimento' della democrazia sono cresciuti, sia pure con variazioni da caso a caso, in tutte le democrazie occidentali.

L'accrescimento del benessere e dei livelli di istruzione ha poi fatto sinergia con la rivoluzione della comunicazione politica: la televisione ha contribuito a erodere le subculture tradizionali, che avevano per decenni assicurato il consenso ai partiti di massa (v. Rokkan, 1970); da un lato, questi ultimi hanno lasciato il campo a partiti ‛pigliatutto' (v. Kirchheimer, 1966), mentre, dall'altro, l'erosione delle subculture tradizionali ha accresciuto la volatilità e l'instabilità delle arene elettorali, con ripercussioni sulla stabilità dei governi. Ma il sistema delle comunicazioni incide oggi negativamente sulle performances dei governi anche in altri modi. Nella ‛democrazia elettronica', ad esempio, i sondaggi d'opinione occupano uno spazio crescente: essi diventano un deterrente che incide negativamente sull'azione dei governi, ne condiziona l'efficacia, restringendo l'orizzonte della politica, contraendone i tempi. Adeguarsi ai momentanei orientamenti dell'opinione pubblica prevale sulla necessità di governare processi la cui incidenza sugli orientamenti del pubblico è spostata nel tempo.

Probabilmente, la principale sfida di origine endogena che la democrazia deve fronteggiare alla fine del XX secolo riguarda le pressioni che investono l'assetto istituzionale, la divisione dei poteri. In primo luogo, volatilità elettorale, crisi dei tradizionali partiti di massa e complessità dei processi di governo, cumulandosi, rafforzano - anche là dove essa non ha attecchito in precedenza - quella che Max Weber chiamava la ‟democrazia plebiscitaria": legittimazione diretta e plebiscitaria dei capi di governo, prevalenza degli esecutivi sulle assemblee legislative. La tendenza è generale, come è dimostrato anche dal fatto che molte nuove democrazie hanno scelto varianti del presidenzialismo e del semi-presidenzialismo. Anche nelle poliarchie fin qui diversamente organizzate, la personalizzazione delle campagne elettorali indotta dai mass media è un potente stimolo all'introduzione di permanenti elementi plebiscitari nella vita politica.

In secondo luogo, si verifica ovunque in Occidente un accrescimento del peso e del ruolo del potere giudiziario che determina una significativa alterazione dell'equilibrio fra i tradizionali poteri poliarchici. La crescita del peso politico delle magistrature ha, alle spalle, molti e complessi fattori (v. Guarnieri e Pederzoli, 1996); sicuramente, però, riduce lo spazio e il ruolo dei poteri rappresentativi, con effetti ancora in larga misura da esplorare sul funzionamento delle poliarchie.

b) Le sfide esogene

Globalizzazione dei mercati, rivoluzione nelle comunicazioni e flussi migratori dalle aree povere del pianeta appaiono, alla fine del XX secolo, come sfide di natura esogena che possono mettere in gravi difficoltà le poliarchie occidentali.

La globalizzazione colpisce la poliarchia da due diversi punti di vista. In primo luogo, mette a repentaglio il Welfare State e, con esso, il consenso di cui le poliarchie occidentali hanno stabilmente goduto per decenni. Il Welfare (già sofferente a causa dei processi di invecchiamento della popolazione) viene messo sotto attacco dalla competizione dei paesi di nuova industrializzazione dell'Asia e dell'America Latina. La perdita di competitività per l'eccesso di oneri che grava sul costo del lavoro mette le poliarchie, soprattutto quelle europee - gli Stati Uniti, con livelli di protezione sociale nettamente inferiori, mantengono una più elevata competitività - di fronte a un drammatico dilemma: rischiare forti perdite di consenso per effetto di una drastica riduzione dei livelli di protezione sociale, oppure mantenere quei livelli, accettando però drastiche contrazioni della propria presenza nel commercio internazionale e forti aumenti di disoccupazione, con gli inevitabili contraccolpi politici.

In secondo luogo, la globalizzazione colpisce le poliarchie riducendo i margini di azione dei governi: essa comporta infatti una sfasatura permanente fra il livello delle decisioni politiche e quello delle decisioni economico-finanziarie. Pertanto, i governi poliarchici vedono ridotta drasticamente la propria capacità di dominare i processi macroeconomici. Da un lato, secondo le regole della retorica democratica, continuano a esibire di fronte agli elettori la loro pretesa capacità di guidare i destini del paese; dall'altro sono in balia di processi che sfuggono al loro controllo. C'è chi ritiene che in questo modo la democrazia sia, nel lungo periodo, condannata a morire dalla sua stessa impotenza, a meno che i suoi confini non vengano ridisegnati in modo da trascendere quelli dello Stato nazionale (v. Held, 1995). Il processo di integrazione europea potrebbe in futuro offrire, da questo punto di vista, un'ancora di salvezza alla democrazia, sia pure limitatamente ai paesi coinvolti, ma solo a condizione che, una volta conseguita l'unione monetaria e un ulteriore accrescimento dei livelli di interdipendenza fra i paesi europei coinvolti, sorgano pressioni tese a creare autentiche istituzioni democratiche a livello comunitario. Non è però quanto per ora sta accadendo, visto che, nonostante l'alto livello di integrazione raggiunto, il potere politico è ancora detenuto dai governi nazionali.

Da ultimo, le poliarchie devono fronteggiare la cosiddetta sfida del ‛multiculturalismo'. I fenomeni migratori, in particolare, rischiano di aprire nelle poliarchie conflitti esplosivi, qualora le rivendicazioni economiche degli ‛esclusi' si sommino a lotte fra culture e identità contrapposte. Questi conflitti potrebbero condizionare in modo rilevante il futuro delle poliarchie occidentali.

In generale, il problema cruciale è se l'insieme delle sfide che le democrazie occidentali devono fronteggiare determineranno o meno mutamenti significativi nella loro natura. In particolare, l'interrogativo principale riguarda il carattere ‛liberale' delle democrazie: verrà preservato? Oppure, sotto l'incalzare delle sfide, la dimensione liberale della democrazia appassirà e la democrazia del futuro acquisterà tratti autoritari? Verranno erose le garanzie individuali e le costituzioni cesseranno di rappresentare vincoli all'esercizio del potere? Avremo, insomma, democrazie liberali rinnovate oppure democrazie illiberali?

7. Una pace democratica?

Il notevole accrescimento del numero delle democrazie che si è verificato con la fine della guerra fredda ha ridato slancio alla visione che, all'epoca della prima guerra mondiale, era stata fatta propria dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. La diffusione della democrazia nel mondo consente di sperare che prima o poi venga definitivamente superata la logica della politica di potenza e, quindi, della guerra fra gli Stati. Potrà nascere una kantiana ‛unione pacifica' composta da repubbliche (poliarchie)? Il rilancio della visione wilsoniana è legato alla constatazione che le democrazie stabili non si fanno la guerra fra loro (v. Doyle, 1983; v. Ray, 1995). Le democrazie, pur praticando la politica di potenza nei loro rapporti con gli Stati autoritari, danno però vita, fra di loro, a qualcosa di simile a una ‛unione pacifica' ove anche i più aspri conflitti di interesse non sfociano mai nella guerra. Ne discende, logicamente, che un forte accrescimento del numero delle democrazie può contribuire a ridurre significativamente lo spazio per la guerra. Questa tesi, sostenuta da numerosi studiosi statunitensi, ha esercitato anche una notevole influenza sui policy makers degli Stati Uniti: tanto il presidente repubblicano Reagan quanto il presidente democratico Clinton hanno a più riprese evocato l'idea wilsoniana della ‛pace democratica'. Tuttavia, ancorché suggestive, le tesi neo-kantiana e neo-wilsoniana della pace democratica come via per sconfiggere la politica di potenza e la guerra sembrano soffrire di un eccesso di ottimismo. Un mondo pacificato dalla democrazia non appare affatto dietro l'angolo. È certamente vero che le democrazie dell'area euro-atlantica, dalla seconda guerra mondiale in poi, hanno dato vita a una ‛unione pacifica' o, nei termini in cui si espresse, alcuni decenni fa, lo scienziato politico Karl Deutsch (v., 1957) a una ‟comunità di sicurezza". È tuttavia dubbio che l'‛unione pacifica' o comunità di sicurezza euro-atlantica possa espandersi al punto di relegare la tradizionale politica di potenza e la guerra fra Stati a una componente residuale della politica internazionale. Per diverse ragioni. In primo luogo perché, come si è detto in precedenza, molti dei processi di democratizzazione della terza ondata sono intrinsecamente fragili: solo alcuni dei paesi latino-americani e dell'Europa orientale hanno buone possibilità di diventare democrazie stabili, mentre negli altri la democrazia fallisce o non attecchisce affatto. In secondo luogo, bisogna considerare il fatto che gli effetti pacificatori nei rapporti fra democrazie appaiono indotti, in larga misura, dall'instaurazione di una fiducia reciproca, alimentata, più che dalla dimensione ‛democratica', da quella ‛liberale' delle democrazie (v. Owen, 1994): la fiducia dipende cioè dal fatto che questi regimi si riconoscono reciprocamente come vincolati dalle leggi, rispettosi dei diritti individuali di libertà, ecc. È la dimensione liberale delle democrazie, secondo questa interpretazione, a favorire quel clima di fiducia reciproca che permette di instaurare la pace democratica. Ora, più ci si allontana dall'Occidente più è problematico l'innesto nella realtà politica dei valori che fanno capo all'individualismo liberale; al di fuori dell'Occidente sono insomma più probabili le pseudo-democrazie o le democrazie illiberali che le democrazie liberali. E ciò riduce la portata delle tesi neo-wilsoniane: come mostrano i casi della Croazia e della Serbia, infatti, le pseudo-democrazie possono benissimo farsi la guerra fra loro. Da ultimo, va considerato il fatto che la ‛pace democratica' prevalsa in Occidente dopo la seconda guerra mondiale potrebbe essere l'effetto non di una sola causa (la democrazia) ma di una pluralità di cause, di un insieme di fattori economici, culturali e politici, che hanno determinato, in una particolare area geopolitica e culturale e in una particolare fase storica, quel risultato (v. Cohen, 1994).

Per le democrazie liberali vale la regola secondo cui esse non si fanno la guerra fra loro. Ma alla fine del XX secolo lo spazio per regimi autoritari e pseudo-democrazie resta troppo ampio perché la guerra cessi di regolare i conflitti fra sistemi politici e perché, in tal modo, un antico sogno liberale si possa realizzare.

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