Decorazione

Universo del Corpo (1999)

Decorazione

Marco Bussagli

Riferito al corpo, il termine decorazione designa in senso lato l'insieme degli elementi finalizzati al suo abbellimento, compresi l'abbigliamento, la moda e la cosmesi. In senso più specifico e sotto il profilo antropologico, per decorazione si intendono i segni, pittorici o di altra natura (cheloidi, tatuaggi, scarificazioni, deformazioni di alcuni distretti anatomici), impressi sulla superficie corporea in modo temporaneo o permanente, con valenze di tipo estetico, simbolico-religioso oppure sociale, come sottolineatura di ruoli particolari e di passaggi rituali dell'esistenza.

Definizione

In un'accezione ampia, la definizione di decorazione corporea rimanda a tutti quei fenomeni che implicano l'abbellimento del corpo, secondo modalità e visioni estetiche che variano di cultura in cultura e da epoca a epoca. In questo senso sotto l'espressione decorazione corporea dovrebbe confluire l'insieme delle manifestazioni che hanno come punto di riferimento il corpo quale oggetto da decorare, ossia l'abbigliamento (v.), la moda (v.) - che ne è la conseguenza codificata prima dalle leggi suntuarie e poi da quelle di mercato - e la cosmesi. Tuttavia, dal momento che questi aspetti si configurano come veri e propri universi culturali a sé stanti, appare preferibile intendere il concetto di decorazione corporea in termini assai più ristretti, circoscrivendone l'ambito alla sola superficie del corpo. In altri termini, la decorazione corporea stricto sensu incide direttamente sull'oggetto della propria attenzione modificandone l'estetica in maniera talora permanente. Il corpo diviene allora la 'cera molle' sulla quale la cultura di un dato luogo e di un dato tempo poteva e può scrivere l'appartenenza a un particolare gruppo umano; infatti, anche una civiltà avanzata come quella occidentale odierna non è aliena dall'utilizzare sistemi più meno codificati di decorazione corporea. Sebbene sia difficile individuare la causa fondamentale che induce gli uomini a decorare il proprio corpo in un modo o in un altro, appare evidente che, in prima istanza e assai più dell'abbigliamento, la decorazione corporea ha il duplice scopo di sottolineare da una parte l'individualità della singola persona e la sua irripetibilità, dall'altra, nello stesso tempo, la rassicurante relazione con quella cultura che ha scelto un insieme di elementi decorativi per affermare l'unicità di gruppo. Naturalmente la dinamica culturale del problema si complica perché la decorazione corporea scaturisce dalla commistione di pulsioni di carattere estetico e simbolico, oltre che dal desiderio di sottolineare ruoli particolari o passaggi rituali dell'esistenza. Per procedere a una disamina dei diversi risultati estetici che derivano dalla decorazione corporea, è opportuno distinguere l'argomento in tre filoni principali riguardanti, rispettivamente, le deformazioni dei vari distretti anatomici, la decorazione di tipo permanente ottenuta con tecniche grafiche e da ultimo la decorazione temporanea e amovibile.

Deformazioni di distretti anatomici

In questa categoria rientra sicuramente l'uso di deformare la volta cranica, uso comune a culture diverse in epoche differenti e dettato, verosimilmente, da motivazioni di natura puramente estetica. Nonostante le apparenze, non sembra appartenere a questo ambito (ma è bene precisarlo) il tipo di deformazione cranica che caratterizza la rappresentazione del faraone Amenofi IV (XIX dinastia) che mutò il proprio nome in Ekhnaton (letteralmente "colui che è utile ad Aton") in omaggio alla divinità solare oggetto della devozione della nuova religione di Stato. I ritratti del sovrano, ma anche quelli dei dignitari della sua corte, mostrano un'accentuata dolicocefalia. Gli studiosi hanno variamente interpretato il fatto come la presenza di una patologia cranica (idrocefalia) o come la possibilità che la volta cranica venisse modificata artificialmente (Cimmino 1987) o, ancora, come una variante dell'iconografia ufficiale del sovrano e della sua corte senza che questo debba necessariamente riflettere mutazioni anatomiche reali. Il problema è destinato a rimanere senza soluzione dal momento che non sono mai stati trovati i corpi del faraone e del suo seguito. Comunque sia, a partire dalla XVIII dinastia sono documentate deformazioni circolari del cranio secondo un uso più tardi ricordato da Ippocrate, Erodoto, Strabone, Pomponio Mela, Stefano Bizantino e Plinio e dagli studiosi moderni riferito alle popolazioni dell'area compresa fra il Mar Nero e il Mar Caspio intorno all'8° secolo a.C. (Broca 1873). Il costume di deformare la volta cranica artificialmente è documentato in Europa nel 5°-6° secolo d.C. in concomitanza con le invasioni barbariche, in particolar modo quelle unne (Werner 1956). A questo stesso periodo appartiene una serie di crani, che sono stati trovati in Italia presso la grotta di Tomitz (Trieste), a Padova, a Casalecchio (Bologna), a Isnello (Palermo) e a Fusco (Siracusa). Questi crani testimoniano pertanto la presenza, anche nella penisola, di genti portatrici di usanze unne (Bellasi 1962). Le indagini sui reperti in questione hanno permesso di formulare ipotesi sugli strumenti utilizzati per provocare un'accentuata dolicocefalia (deformazione circolare o cilindrica). Si è così pensato a "una fascia girata più volte intorno alla testa e trattenuta dallo scivolare verso il basso, da una o più passate trasversali [...] da un temporale all'altro, giusto in corrispondenza della regione postbregmatica [...]. La fasciatura aveva [...] lo scopo di mantenere sul frontale una o più tavolette, o una qualsiasi superficie dotata di una certa regolarità e rigidezza" (Bellasi 1962, p. 15). Si tratta di metodi che ritornano anche in altre culture come per es. quelle maya o dell'Africa centrale e che possono sostanzialmente ridursi a tre tipologie. Oltre a quello descritto, un metodo per la deformazione della volta cranica consiste nell'applicazione prolungata di due tavolette sulla fronte e alla base dell'occipite, strette insieme da legature; serrando le corde si esercita una pressione sul morbido cranio del lattante che provoca una crescita forzatamente brachicefala del neurocranio. Un terzo sistema consiste infine nella compressione della testa del neonato contro una superficie liscia costituita in genere da quella della culla, per produrre uno sviluppo verticale della volta cranica (deformazione tabulare eretta). Questo tipo di deformazioni è documentato nell'area della Melanesia, come pure nell'Africa centrale presso i (ba)poto o i mangbetu, le cui donne hanno teste deformate secondo un'accentuata dolicocefalia artificiale sfruttata per l'allestimento di complicate acconciature. La ricerca sul campo (Grottanelli 1965) non ha chiarito le motivazioni che inducono all'impiego di questo tipo di decorazione corporea. Le risposte raccolte indicano che la pratica veniva interpretata come un mezzo per il miglioramento dell'individuo che in questo modo sarebbe divenuto più robusto o più combattivo. Nell'America settentrionale, laddove era stato adottato, tale costume appariva limitato all'aristocrazia locale o, comunque, agli uomini liberi escludendo completamente gli schiavi (Grottanelli 1965). La giustificazione che le popolazioni maya davano alla medesima pratica dell'appiattimento del cranio, non era d'altra parte molto diversa. A riferirla è il vescovo spagnolo Diego de Landa nella sua Relación de las cosás de Yucatán, che può considerarsi la fonte d'informazione più diretta e completa sugli usi e costumi maya del 16° secolo. Considerato un trattamento derivato dall'insegnamento degli dei, l'uso di deformare il cranio ai lattanti, appiattendolo artificialmente fra due tavolette, avrebbe aiutato a conseguire un aspetto nobile, favorendo al tempo stesso la capacità di portare i pesi sulla testa. Le usanze dei maya prevedevano anche altri tipi di decorazione corporea, fra cui il più noto è lo strabismo artificiale. È ancora de Landa a raccontare che le madri maya lasciavano penzolare una pallina di resina davanti agli occhi dei figli in modo che gli occhi stessi si concentrassero su di essa e divenissero in tal modo strabici. Altre forme di decorazione corporea della testa, presso i maya, riguardano la foratura delle orecchie grazie alla quale venivano sospesi monili ornamentali, come mostrano le figure dei sovrani dipinti sulle pareti del sito di Bonampak. Anche il naso veniva forato per essere decorato generalmente a livello della narice sinistra (von Hagen 1962). La perforazione delle cartilagini di naso e orecchie appare comune anche ad altre culture, non esclusa quella occidentale moderna che nel piercing ha scoperto nuove forme di decorazione corporea dal sapore di tribalità metropolitana. È opportuno tuttavia precisare che, nell'ambito della cultura ebraica, la perforazione delle orecchie ha il significato di appartenenza e di riduzione in schiavitù. Di essa si ha traccia in un passo del Deuteronomio (15, 16-18) che ricorda come l'introduzione degli schiavi in una famiglia comportasse, per il nuovo arrivato, la foratura del lobo auricolare. In questo caso l'operazione aveva valore di marchio, mentre nella tradizione europea l'uso dei marinai di portare l'orecchino voleva significare il matrimonio simbolico con il mare. In alcune zone del mondo la perforazione dell'orecchio è portata a estreme conseguenze, come nel caso dei ge-tpuya brasiliani, che inseriscono nei lobi dischi o cilindri progressivamente sempre più grandi. Diversamente, presso certe tribù kenyote (kikuyu) o del Borneo (kayan e bukat) il lobo perforato dell'orecchio viene stirato verso il basso dal peso di anelli metallici o di altri materiali. A questo proposito vale la pena di ricordare le orecchie dai lobi allungati del Buddha la cui deformazione è entrata a far parte dell'iconografia codificata dello Svegliato: il loro valore simbolico, in questo caso, è quello che testimonia la rinuncia a tutte le ricchezze per scegliere una vita di meditazione sulla via della illuminazione. Nato dalla nobile famiglia dei Sakya, ramo collaterale dei Gautama, Siddharta (questo il nome principesco del Buddha prima che abbandonasse le strade del mondo) seguiva le usanze aristocratiche dell'India settentrionale che prevedevano orecchini assai pesanti da appendere ai lobi auricolari. Intrapresa la via dell'ascesi e della povertà, la deformazione dei lobi rimase in Siddharta l'unica traccia dell'agiatezza trascorsa (Bussagli 1984). La perforazione delle pinne nasali, invece, è frequente nelle popolazioni della Papuasia, mentre l'inserzione di un anello di metallo nella cartilagine che congiunge la spina anteriore del naso con il lobulo si riscontra in Africa e in Asia. Decorazioni corporee permanenti della faccia si trovano anche presso gli eschimesi della costa del Pacifico settentrionale che hanno l'usanza di infilare nelle due guance ciuffi di peli, così come gli indios brasiliani vi inseriscono piume di uccelli dai colori sgargianti. Un altro distretto anatomico modificato artificialmente per scopi ornamentali è quello dell'area buccale che può essere interessata da interventi permanenti sia all'esterno sia all'interno. I primi riguardano la lacerazione del labbro superiore (o di entrambe le labbra, come nel caso delle donne nigeriane che mostrano le caratteristiche deformazioni labiali 'a becco d'oca') a livello del muscolo orbicolare della bocca. I botocudo del Brasile, i cui usi sono documentati dai disegni ottocenteschi (1815-17) eseguiti dal principe Massimiliano di Wied-Neuwied, praticavano l'inserzione di dischi di legno o d'osso nel labbro inferiore. Tale pratica, ancora in uso, avviene gradualmente, partendo dalla semplice perforazione con un bastoncino di legno o un piccolo osso, che viene lasciato in loco e successivamente, con il passare degli anni, sostituito con cilindri o dischi sempre più larghi. In questo modo, per es., le donne dei tirma, nell'Etiopia meridionale, giungono a utilizzare come elementi ornamentali dischi in terracotta del diametro di circa 13 cm (Grottanelli 1965). Un'altra decorazione permanente della cavità buccale, invece, riguarda sostanzialmente la lavorazione dei denti che vengono sottoposti a limatura, intarsiati o addirittura avulsi per soddisfare esigenze ornamentali. La pratica di limare i denti è diffusa presso diverse popolazioni dall'India all'Indonesia, al Messico e all'Africa centrale e occidentale. Abrasi lateralmente, i denti assumono la forma triangolare e aguzza tipica della dentatura che gli studiosi chiamano a sega. È questa la forma più diffusa di decorazione permanente dell'arcata dentaria che conferisce all'individuo un aspetto decisamente ferino. Presso i maya, al contrario, l'uso era quello di limare i due incisivi mediani dando origine alla caratteristica forma a T della parte centrale della chiostra dentaria superiore, il cui valore simbolico veniva posto in relazione con l'immortalità. Tale forma rammenta infatti quella del pittogramma (glifo) del 'giorno' (kin) e compare anche nelle rappresentazioni dell'immagine del dio Sole; la ritroviamo quindi in alcune maschere mortuarie realizzate in giada (Baudez-Picasso l987). Altre forme di decorazione dei denti prevedono la coloritura artificiale degli stessi o il loro intarsio. Va precisato che i denti sono istoriati per motivi di carattere puramente ornamentale e che non si tratta della modificazione di tecniche finalizzate alla cura dentaria; in altri termini, i denti così lavorati non erano, nella stragrande maggioranza dei casi documentati, esenti da carie. Nell'area indonesiana, la tecnica utilizzata prevedeva la creazione di apposite cavità sulla faccia esterna della corona dentaria entro le quali sistemare sottili lamine metalliche inserite per martellamento. Nell'area centroamericana si preferiva invece collocare all'interno della cavità artificialmente creata pietre dure come giada, turchese, ossidiana, oppure pietre semipreziose come il quarzo che venivano trattenute in sede mediante sostanze cementizie. Assai meno dolorosa è la coloritura dei denti, usanza ancora diffusa nell'India meridionale, nell'Indocina, nell'arcipelago Bismarck (Melanesia) e nell'alta Amazzonia. La tecnica più comune è quella dell'anneritura ottenuta attraverso l'applicazione di sostanze coloranti, generalmente di origine vegetale o minerale (limatura di ferro), che sono lasciate per un tempo prestabilito nella cavità buccale e poi fissate con ulteriori tecniche. In Indonesia la pratica dell'annerimento dei denti coincide poi con l'avvento della pubertà per entrambi i sessi. D'altra parte, anche l'annerimento involontario della chiostra dentaria, provocato dall'uso di masticare il sirih, corrisponde all'ingresso dell'individuo nel mondo degli adulti (Grottanelli 1965); il composto, costituito dalle foglie di un arbusto rampicante (Piper betle) al quale vengono aggiunti un pizzico di tabacco, calce e un pezzetto di gheriglio di noce d'areca (Areca catechu), induce una crescente sensazione di euforia, oltre a causare la tumefazione delle labbra e della lingua e l'annerimento dei denti. Identico valore iniziatico a dimostrazione del coraggio personale assume l'avulsione dei denti, pratica diffusa in Australia e in Africa. Per tale suo accentuato carattere, essa ha come scopo non tanto l'abbellimento dell'individuo, quanto la patente dimostrazione del suo carattere virile; soltanto in seconda istanza, l'asportazione dei denti ricopre una funzione estetica. Oltre al distretto della testa, anche altre parti anatomiche vengono sottoposte a deformazione volontaria per migliorarne l'aspetto secondo criteri estetici particolari. È il caso della deformazione del collo nella popolazione dei padaung in Birmania, le cui donne hanno l'usanza di sistemare intorno al collo una serie di anelli in numero via via crescente con il passare degli anni. Iniziata fin dall'infanzia, questa pratica provoca la compressione del tratto superiore della gabbia toracica e l'allungamento artificiale del collo in maniera permanente, tanto che un'eventuale rimozione dei fili o degli anelli di ottone produrrebbe serie difficoltà al mantenimento della testa in posizione eretta. Per converso, il mantenimento, ormai inevitabile, della serie degli anelli limita profondamente la mobilità della testa. La compressione del torace viene praticata dalle donne delle società tribali dell'Africa centrale, centrorientale e occidentale. Lo stringersi fortemente il petto, attraverso cinture di stoffa appositamente utilizzate, produce l'allungamento artificiale delle mammelle. In alcune zone dell'Indocina, del Borneo e delle Filippine, invece, questa tecnica è praticata dal sesso maschile, mentre fra le popolazioni dell'India nordorientale la compressione avviene attraverso fascette rigide. Un'altra deformazione della struttura ossea a scopo decorativo o, comunque, con finalità estetiche, si aveva a carico delle donne cinesi e giapponesi cui, fin da bambine, veniva fasciato strettamente il piede per impedirne il corretto sviluppo scheletrico (Glyn 1982). La flessione forzata delle ultime quattro dita del piede provocava la lussazione del metatarso con lo sviluppo accentuatamente arcuato del dorso del piede e la conseguente inibizione della crescita dell'ultimo tratto dell'arto inferiore. I piedi così deformati misuravano, nella donna adulta, una lunghezza che si aggirava intorno ai 15 cm ed erano veri e propri oggetti di culto da parte degli uomini.

Decorazioni grafiche permanenti

Accanto alle pratiche di deformazione corporea con finalità decorative, troviamo forme di abbellimento estetico (o presunto tale) della superficie corporea che utilizzano tecniche di tipo grafico: la pelle viene considerata una sorta di pagina bianca da istoriare con modalità diverse che possono anche essere di tipo permanente. La più famosa di queste tecniche è il tatuaggio (v.), ampiamente diffuso a tutt'oggi pure in Europa. La più antica testimonianza di pelle tatuata proviene dal sito di Pazyryk negli Altai ed è costituita da un lembo di pelle appartenuto a un guerriero scita sul quale sono stati tatuati, con intento decorativo e simbolico, alci, cervi, cavalli e mufloni secondo la tipica iconografia dell'arte delle steppe, definita dagli studiosi 'dell'animale contorsionista' e che consiste nell'orientare le zampe posteriori dell'animale in senso opposto a quelle anteriori. Esposto all'Ermitage di San Pietroburgo e databile fra il 5° e il 4° secolo a.C., il lembo di pelle proviene da un corpo conservatosi pressoché intatto nel suo tumulo, grazie alle condizioni climatiche estremamente rigide (Charrière 1971). Tutti gli altri reperti, per es. le mummie peruviane, sono assai più tardi, mentre per l'epoca precedente a quella del tatuaggio di Pazyryk si hanno solo testimonianze indirette come le statuine predinastiche in argilla di Naqāda in alto Egitto, databili verso il 4000 a.C. Si tratta perciò di una pratica estremamente antica, comune a civiltà e a etnie diverse (si diffuse in Oceania, Asia sudorientale, Giappone, Asia Minore, Africa settentrionale e presso alcune tribù dell'America settentrionale come gli indiani mohawk), che fu vietata nella vecchia Europa soltanto nell'anno 787 da papa Adriano I (Rubin 1985). Tuttavia, a seguito dei viaggi del capitano Cook, nel 18° secolo, venne reintrodotta in Europa la pratica del tatuaggio, parola che deriva proprio dalla francesizzazione del tahitiano ta-tau (Oettermann 1985). Forme di decorazione della cute, non meno dolorose del tatuaggio a puntura, sono quelle che utilizzano la cicatrizzazione della pelle per creare motivi, trame e intrecci decorativi. "Tecnicamente, si parla di scarificazione quando la cicatrice risultante è avvallata rispetto alla superficie cutanea, di cheloide quando essa risulta in rilievo, spesso mediante l'inserzione nella ferita di sostanze estranee quali ceneri vegetali, argille e simili" (Grottanelli 1965, 2° vol., p. 50). Le popolazioni negre dell'Africa centrale sono quelle che hanno maggiormente sviluppato questa forma di decorazione cutanea, anche se tale pratica è documentata anche presso gli aborigeni australiani. Come per l'ablazione dei denti, l'usanza della cheloide, della scarificazione e del tatuaggio a puntura ha, all'interno delle società primitive, un valore fondamentalmente iniziatico e successivamente estetico. Queste metodiche, infatti, vengono poste in essere per sottolineare il passaggio alla società adulta e segnano la cessazione di dipendenza dalla madre; perciò sono sottoposti a simili trattamenti specificamente gli individui che entrano nell'età puberale (Thévoz 1985; v. cultura). È interessante notare che in ambito giudaico vengono vietati il tatuaggio e l'uso di tagliarsi il corpo in segno di lutto (Levitico, 19, 28). Un'usanza, quest'ultima, che inaspettatamente troviamo anche fra gli unni di Attila, presso i quali "l'uso di tagliarsi le guance era solo manifestazione di profondo dolore (per es. la morte di un capo) e non aveva nulla a che vedere con la moda e con l'eliminazione della barba" (Bussagli 1970, p. 118), come invece aveva erroneamente lasciato intendere lo storico del 4° secolo Ammiano Marcellino (Rerum gestarum libri, 31, 2, 2). Sostanzialmente, la proibizione di tatuarsi per gli ebrei dipende dal fatto che questa pratica veniva utilizzata per riconoscere gli schiavi, sicché l'unico tatuaggio ammesso è quello che indica l'appartenenza a Jahve, come raccomanda Isaia (44, 5) per il quale la fede deve spingersi a incidersi il tetragramma (JHWH) sul palmo della mano. In questi casi il tatuaggio e la scarificazione non possono essere considerati vere e proprie forme di decorazione corporea: sono comunque indicativi di ulteriori significati che tali pratiche possono acquisire.

Decorazioni temporanee

In apparenza per nulla diversa dal tatuaggio è, nelle società tribali, la pittura del corpo che si differenzia dal primo in quanto è possibile rimuoverla. Per sua natura, una pratica siffatta si presta a soddisfare moltissime esigenze: può indicare lo stato sociale dell'individuo o l'appartenenza a un particolare gruppo, o ancora essere connessa a situazioni transitorie come quella di comunicare la condizione di lutto e noviziato, oppure essere legata alle cerimonie relative al passaggio puberale. In altri termini, la pittura corporea risulta essere un veicolo di comunicazione verso l'esterno, quantunque non se ne debba escludere una funzione apotropaica e, talvolta, protettrice in senso stretto. L'usanza dei dinka e dei nuer dell'alto Nilo di ricoprirsi il corpo di cenere impastata con il burro o lo sterco bovino aveva infatti la funzione di protezione dalle punture degli insetti (Grottanelli 1965). L'opinione di alcuni studiosi circa le motivazioni che a tutt'oggi inducono la popolazione nuba (Sudan sudorientale) a fare uso di pittura del corpo, fino a raggiungere vertici di 'autentico virtuosismo', si è orientata, invece, a individuare nel puro abbellimento delle membra la vera spinta per l'impiego di questa pratica (Grottanelli 1987). Altrove la pittura del corpo assume particolari significati, come nel caso dei carajà in Brasile, i quali si cospargono il corpo e il capo di un colore rosso vivo per avere più vigore prima di una esibizione di lotta. D'altra parte già Giulio Cesare, nel De bello gallico (5, 14, 2), ricorda che i britanni usavano tingersi di colore azzurro per incutere ancor più terrore nella battaglia. Nell'ambito della civiltà occidentale contemporanea, l'uso della pittura corporea, a eccezione di quella connessa con la cosmesi (Paquet 1997), è in realtà riemersa soltanto con le riflessioni artistiche sul corpo legate allo sviluppo della Body art (v. vol. 1°, I, cap. 4) fra gli anni Sessanta e Settanta del 20° secolo. A titolo d'esempio si possono ricordare la celebre Antropometrie di Y. Klein (Parigi, Musée Nationale d'Art Moderne), dove l'artista utilizza il proprio corpo cosparso di colore come uno stampo che lascia traccia sul supporto; oppure le provocatorie decorazioni- vera e propria pittura su corpo - di A. Messager che, con La femme et... del 1974, trasforma il suo formoso tronco femminile di volta in volta nella faccia di un occhialuto signore, nel volto di una spiritosa fanciulla, oppure vi disegna sopra ragni e ragnatele o, ancora, le corrispondenti ossa dello scheletro (Dorfles 1975). Una particolare forma di decorazione corporea riguarda gli individui di credo buddhista, i quali usano porre un dischetto colorato (urna) alla confluenza delle due sopracciglia. L'apposizione dell'urna in questo punto dipende dalla presenza di un ciuffetto di peli fra le due sopracciglia sul volto di Buddha, segno della sapienza esoterica. Resa nell'iconografia tradizionale dello Svegliato come una pietra più o meno preziosa o con un dischetto o un cerchio, l'urna "sembra alludere a un'irradiazione luminosa che muove dal punto dove si immagina sia la sede del terzo occhio" (Bussagli 1984, p. 274). Nell'uso quotidiano, poi, essa diviene segno distintivo dell'appartenenza a un credo religioso. Anche i capelli, la barba e il sistema pilifero in generale hanno una funzione decorativa. Non è possibile qui ripercorrere la storia della barba e dei baffi, del loro ruolo nella civiltà occidentale come diretto riflesso della moda, del costume, ma anche della religione. A cominciare dal precetto biblico "non raderete i vostri capelli in tondo nelle vostre tempie, né taglierete il pizzo della barba" (Levitico, 19, 27) e continuando con la tonsura dei frati minori, per rimanere a esempi di ambito giudaico-cristiano, barba e capelli hanno sempre svolto un ruolo di primo piano nella dichiarazione estetica dell'appartenenza a un certo credo religioso. Ciò è vero anche nella caratterizzazione iconografica di talune figure particolarmente importanti per la religione, come nel caso della barba bifida del Cristo e dell'ushnisha (la protuberanza del cranio segno di sapienza) del Buddha, resa con una sorta di crocchia di capelli. Anzi la presenza di una pettinatura scarmigliata è stata, per alcune particolari immagini, un segno di negatività: il prete Gianni, responsabile del dilagare dell'iconoclastia nel mondo bizantino, viene rappresentato per l'appunto con una capigliatura irsuta nel Salterio di Chludov (add. gr. 129), databile intorno all'830 e conservato al Museo Storico di Mosca. Per converso, il Vento dipinto da Liberale da Verona nel celebre graduale della domenica (cod. 20. 5, f. 36v) ha una capigliatura irsuta che conferisce alla figura la dimensione mitica ed 'elementale'. In questo contesto, è pure significativo il messaggio di protesta affidato ai capelli lunghi dai giovani degli anni Sessanta e Settanta del 20° secolo. Gli esempi potrebbero continuare considerando come determinate acconciature siano caratteristiche di certe etnie. Studiosi come O. Maenchen Helfen (1944-45) hanno individuato nell'uso del codino e della barba uno dei presunti parametri di riferimento per distinguere le popolazioni di stirpe unna e gli hsiug-nu. Fra le comunità tribali dell'Africa centrale è poi invalso l'uso di tagliare la barba, o anche di rasare le sopracciglia e i capelli a livello delle tempie come presso i samburu del Kenya dove questa pratica è tipicamente femminile, mentre i maschi si lasciano crescere i capelli per sistemarli in elaborate acconciature. Altrove (Congo equatoriale) la massa dei capelli viene compattata grazie all'uso di burro, fango o altro grasso animale che permette di realizzare vere e proprie sculture con i capelli. Tuttavia, nella scelta di utilizzare il sistema pilifero in generale a scopo decorativo, possono intervenire anche opzioni soggettive indipendenti da codici sociali: un caso che vale la pena di rammentare, forse anche per gli aspetti iconografici e di incidenza sul costume, è quello di papa Clemente VII che, dopo aver subito il sacco di Roma del 1527, decise di farsi crescere la barba.

bibl.: c.f. baudez, s. picasso, Les cités perdues des Maya, Paris, Gallimard, 1987 (trad. it. Milano-Parigi, Electa-Gallimard, 1993); p. bellasi, La deformazione cranica medievale in Italia: contributo antropologico allo studio del problema delle invasioni barbariche, "Rivista di antropologia", 1962, 49, pp. 3-59; p. broca, Marches cimmériens macrocéphales, "Bulletin de la Société d'Anthropologie de Paris", 1873, 14, pp. 378-92; m. bussagli, Culture e civiltà dell'Asia centrale, Torino, ERI, 1970; id., L'arte del Gandhara, in Storia universale dell'arte, Torino, UTET, 1984; g. charrière, L'art barbare des Scythes, Paris, Éditions Cercle d'Art, 1971; f. cimmino, Akhenaton e Nefertiti, Milano, Rusconi, 1987; d. de landa, Relazione sullo Yucatán, Roma, Edizioni Paoline, 1983; g. dorfles, La body art, in L'arte moderna, diretta da F. Russoli, 14° vol., L'arte contemporanea III: la vita come modo di espressione artistica, Milano, Fabbri, 1975, pp. 225-56; p. glyn, Skin to skin, New York, Oxford University Press, 1982 (trad. it. Roma, Gremese, 1982); v. grottanelli, Ethnologica, 2° vol., Milano, Labor, 1965; id., Australia, Oceania, Africa Nera, Torino, UTET, 1987; o. maenchen helfen, Huns und Hsiug-nu, "Byzantion", 1944-45, 17, pp. 222-35; Modern primitives. An investigation of modern adornment and ritual, San Francisco, Re/Search Publications, 1989; s. oettermann, Il tatuaggio in Europa, in L'asino e la zebra. Origini e tendenze del tatuaggio contemporaneo, Catalogo della mostra, Roma, De Luca, 1985, pp. 21-26; d. paquet, Miroir, mon beau miroir. Une histoire de la beauté, Paris, Gallimard, 1997 (trad. it. Storia della bellezza, canoni, rituali, belletti, Milano-Parigi, Electa-Gallimard, 1997); a. rubin, I1 tatuaggio: panorama geografico-antropologico, in L'asino e la zebra. Origini e tendenze del tatuaggio contemporaneo, Catalogo della mostra, Roma, De Luca, 1985, pp. 13-16; m. thévoz, L'incisione del corpo nelle culture primitive, in L'asino e la zebra. Origini e tendenze del tatuaggio contemporaneo, Catalogo della mostra, Roma, De Luca, 1985, pp. 17-20; v.w. von hagen, The ancient Sun kingdoms of the Americas, London, Thames & Hudson, 1962 (trad. it. Milano, Mondadori, 1972); j. werner, Beiträge zur Archäologie des Attila-Reiches, München, Bayerische Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, 1956.

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