Corti internazionali

Enciclopedia delle Scienze Sociali I Supplemento (2001)

Corti internazionali

Marco Pedrazzi

Introduzione

Non esiste una definizione universalmente accettata di corte internazionale. In questa sede, si intenderà per corte un'istituzione dotata di una certa stabilità (nel senso che operi in relazione non a un caso singolo, ma a una serie indefinita di casi), composta di uno o più individui indipendenti, i giudici, e chiamata a decidere, sulla base del diritto, nel rispetto di procedure predeterminate e con sentenza vincolante per le parti in causa, sia in merito a controversie di vario genere e tra soggetti di varia natura, sia con riguardo ad accuse penali nei confronti di individui. Si riterrà internazionale un'istituzione di questo tipo che sia costituita tramite accordo tra Stati, o tramite procedimenti normativi che si fondino sull'accordo (quali le decisioni assunte in seno a organizzazioni internazionali intergovernative).

La stabilità consente di distinguere le corti internazionali dai tribunali arbitrali internazionali, i quali sono istituiti tramite accordo tra le parti in causa per la soluzione di una controversia determinata. La terminologia corrente non è univoca, poiché talune corti sono denominate 'tribunali', mentre il termine 'corte' è a volte usato in modo improprio (v. cap. 2).

Così intese, le corti internazionali operano per lo più nell'ambito dell'ordinamento internazionale o di ordinamenti da questo derivati, quali quelli delle organizzazioni internazionali; non è peraltro escluso che le funzioni di una corte si esplichino in tutto o in parte nella sfera degli ordinamenti interni degli Stati che l'hanno istituita o degli Stati membri dell'organizzazione internazionale che le ha dato origine (v. cap. 5). Parimenti, se le corti internazionali sono generalmente tenute a decidere le questioni a esse sottoposte sulla base del diritto internazionale o di norme giuridiche da questo derivate, può ben essere che lo strumento istitutivo conferisca loro il potere di riferirsi a norme appartenenti al diritto interno di uno o più Stati o a sistemi giuridici distinti tanto dagli ordinamenti interni quanto da quello internazionale.Pare opportuno, peraltro, dedicare alcune osservazioni all'esercizio della funzione giurisdizionale nell'ordinamento internazionale, in relazione al quale le corti di cui si discute rivestono un ruolo fondamentale. Ciò servirà anche a chiarire come le corti internazionali si distinguano dalle corti interne sotto rilevanti profili.

La funzione giurisdizionale nell'ordinamento internazionale si esplica in modo frammentario, secondo una molteplicità di forme e di metodi non correlati né coordinati tra loro. L'assenza di un apparato centrale paragonabile a quello dello Stato fa sì che manchi del tutto un sistema organizzato e gerarchicamente strutturato di corti di giustizia del tipo di quelli conosciuti negli ordinamenti interni. Lo ius dicere, l'enunciazione autoritativa e finale delle norme giuridiche applicabili a una determinata controversia o situazione è affidata di volta in volta ad arbitri ad hoc o a giudici internazionali operanti in ambiti affatto separati e autonomi.

La funzione giurisdizionale si esercita per di più in modo sporadico, poiché solo l'accordo tra Stati può conferire ai tribunali arbitrali o alle corti di giustizia la giurisdizione su controversie o situazioni, in corso o future. Non c'è giurisdizione propriamente obbligatoria e non c'è dunque giudice precostituito per legge, quantomeno nei confronti degli Stati, cioè dei soggetti primi dell'ordinamento internazionale: soltanto soggetti subordinati quali gli individui possono ritrovarsi sottoposti alla giurisdizione di una corte internazionale a prescindere dalla loro volontà.Ciò significa anche che, almeno per quanto attiene alla soluzione di controversie tra Stati, la funzione giurisdizionale internazionale ha natura sostanzialmente arbitrale: come un qualunque tribunale arbitrale, anche una corte internazionale può occuparsi del caso e decidere soltanto ove questa potestà le sia stata attribuita dalle parti in lite, preventivamente o successivamente al sorgere della controversia, limitatamente al caso di specie o in relazione a una serie indefinita di casi.

La distinzione, evidenziata sopra, tra le corti di giustizia e i tribunali arbitrali internazionali è dunque sottile. E se, da un lato, si riscontrano tendenze all'accentuazione delle differenze, con la previsione, per talune corti internazionali, di forme sempre più estese di giurisdizione 'obbligatoria' (l'obbligo derivando pur sempre da un impegno preventivamente accettato dagli Stati per categorie più o meno ampie di controversie future); dall'altro si fanno anche più frequenti le ipotesi di 'contaminazione arbitrale' delle corti internazionali, attraverso meccanismi che consentono alle parti di scegliere alcuni o tutti i giudici secondo il loro gradimento (v. cap. 3).

Infine, la sostanziale anarchia dell'ordinamento internazionale si ripercuote anche sulla esecuzione delle sentenze, che, non potendo sorreggersi su misure coercitive centralizzate, deve affidarsi alla volontà di cooperazione degli Stati, al grado di adeguamento degli ordinamenti interni ai precetti internazionali, alle eventuali reazioni unilaterali dello Stato le cui pretese siano accolte dalla pronuncia giurisdizionale.

Rimane da fare un'ultima premessa. Proprio l'impossibilità di attuare coercitivamente i precetti contenuti nelle sentenze internazionali finisce per avvicinare alla funzione delle corti internazionali quella di una molteplicità di organi di controllo, istituiti da accordi internazionali o nell'ambito di organizzazioni internazionali al fine di verificare che gli Stati parte o membri rispettino talune disposizioni dell'accordo in questione o dello statuto della organizzazione. Tali organi, attivi soprattutto, ma non solo, nel settore dei diritti dell'uomo (si pensi al Comitato dei diritti dell'uomo operante nell'ambito del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966), vengono a volte definiti quasi giudiziari, per il fatto che sono composti di individui indipendenti, che possono ricevere comunicazioni individuali in cui si allega una violazione commessa da uno Stato, procedere a un esame della questione nel rispetto del principio del contraddittorio ed emettere conclusioni pubbliche, motivate e fondate sul diritto.

L'unico elemento sostanziale, di indubbia rilevanza, che contraddistingue l'opera di questi organi da quella delle corti è dato dall'assenza di effetti vincolanti delle loro conclusioni. Ma anche queste ultime, così come le sentenze internazionali, determinano una pressione sugli Stati perché adeguino i loro comportamenti a quanto richiesto dal diritto. La giurisprudenza di questi organi si colloca del resto accanto a quella delle corti e dei tribunali arbitrali nel fornire un contributo importante, con effetti che travalicano i casi concreti, alla rilevazione e allo sviluppo del diritto internazionale.In questa sede, gli organi quasi giudiziari non saranno oggetto di esame, né lo saranno i tribunali arbitrali internazionali. In quanto organismo sostanzialmente arbitrale, non verrà considerato neppure il Tribunale per i reclami Iran-Stati Uniti, istituito con la Dichiarazione di Algeri del 19 gennaio 1981, competente a conoscere di una moltitudine di reclami dei cittadini di ciascuno dei due Stati nei confronti dell'altro (e però sostanzialmente riconducibili nell'ambito di una controversia tra i due paesi), per quanto esso possieda talune caratteristiche che lo avvicinano a una corte di giustizia. Si tenterà piuttosto di dare un quadro delle principali corti internazionali esistenti o di prossima costituzione e delle varie tipologie cui esse appartengono, senza alcuna pretesa di completezza.Va comunque tenuto conto che le corti internazionali, se per un verso e sotto molti profili non sono omogenee tra loro, per altro verso si inseriscono in un quadro più ampio, comprendente vari organismi, sistemi, meccanismi attraverso i quali l'ordinamento internazionale organizza, in modo pur sempre diffuso, lo svolgimento di funzioni giurisdizionali o quasi giurisdizionali, tutte volte all'accertamento imparziale del diritto e alla promozione della rule of law.

Lineamenti storici

L'arbitrato tra Stati, prescindendo da esempi più antichi, appartenenti a società internazionali strutturalmente diverse da quella attuale, suole farsi risalire al cosiddetto Jay Treaty del 1794 tra Gran Bretagna e Stati Uniti, con cui i due paesi istituivano tre commissioni miste per regolare una serie di questioni rimaste in sospeso tra di loro, in particolare a seguito della guerra di indipendenza americana. Esso poi raggiunse la sua piena maturità nella seconda metà dell'Ottocento.

La storia delle corti internazionali è molto più recente. Idealmente essa affonda le proprie radici nelle correnti filosofico-politiche che da diversi secoli, in Europa, propugnano varie forme di organizzazione internazionale e di regolamento giurisdizionale delle controversie quali strumenti per il raggiungimento di una pace universale e perpetua. Soltanto nel corso del XIX secolo, peraltro, l'ideologia pacifista diede luogo alla costituzione di varie associazioni private, di sociétés de la paix, che, dopo i primi slanci utopistici, gradualmente addivennero all'elaborazione di programmi più concreti tesi alla stipulazione di trattati internazionali di neutralità e all'istituzione di tribunali che dovevano fornire un deterrente al ricorso alla guerra.

Sul piano politico-diplomatico, e per quanto riguarda la soluzione giurisdizionale delle controversie tra Stati, i primi frutti di una certa evidenza si ebbero sul finire del secolo, favoriti dagli equilibri, per quanto precari, tra le potenze dell'epoca, nonché dalle esigenze delle sempre più complesse relazioni internazionali: nel 1899, la prima Conferenza internazionale della pace dell'Aja portò all'istituzione della Corte Permanente di Arbitrato (CPA). Nonostante il nome, non si trattava di una corte internazionale: di permanente vi era solo il Bureau, cioè un piccolo nucleo di funzionari, con compiti di segretariato e cancelleria, con sede all'Aja. La Corte era in realtà costituita da una lista di arbitri, designati in pari numero da ciascuno degli Stati contraenti, dalla quale le parti di ogni singola controversia potevano selezionare gli individui che avrebbero composto il tribunale arbitrale competente. La Convenzione dell'Aja del 1899 sulla soluzione pacifica delle controversie internazionali, emendata dalla Convenzione del 1907 adottata in occasione della seconda Conferenza della pace, forniva anche un insieme di regole di procedura cui gli arbitri avrebbero dovuto attenersi, in mancanza di diverso accordo. Si trattava dunque di un tentativo, importante ma ancora limitato, di istituzionalizzazione della funzione arbitrale. La CPA, nel cui ambito si sono svolti arbitrati che hanno fornito un contributo di notevole rilievo alla rilevazione e allo sviluppo del diritto internazionale, è tuttora operante: l'ultimo caso, Eritrea vs. Yemen, conclusosi nel 1999, è seguito a un lungo periodo di inattività.

La seconda Conferenza internazionale della pace, convocata all'Aja - come la precedente - nel 1907, si propose obiettivi più ambiziosi, i quali però erano destinati a restare soltanto sulla carta. Un progetto di istituzione di una Corte permanente di giustizia arbitrale, la quale avrebbe dovuto fruire di un corpo stabile di giudici, fu allegato all'Atto finale, ma non ebbe alcun seguito; venne invece firmata la convenzione istitutiva di una Corte internazionale delle prede, la quale avrebbe avuto giurisdizione in grado d'appello rispetto alle sentenze delle corti interne competenti nei giudizi delle prede (in materia di liceità delle catture effettuate in caso di guerra ai danni delle navi mercantili nemiche e neutrali). La convenzione, peraltro, non entrò mai in vigore per mancanza di ratifiche.

Nel frattempo, la prima vera corte internazionale permanente veniva istituita sul piano regionale: Costarica, El Salvador, Guatemala, Honduras e Nicaragua diedero vita, con la Convenzione di Washington del 1907, alla Corte di giustizia centroamericana, composta di cinque giudici, nominati per cinque anni da ciascuno degli Stati contraenti e competente a pronunciarsi su una molteplicità di controversie. Tra l'altro essa era aperta a ricevere reclami individuali nei confronti dei governi. Sul piano pratico, l'esperienza si rivelò fallimentare e la Corte cessò di esistere nel 1918. Una nuova Corte centroamericana di giustizia sarebbe entrata in funzione nel 1994 (v. cap. 5).

Le due Conferenze dell'Aja, per quanto non fossero riuscite nell'intento di dar vita a una corte mondiale, sicuramente avevano posto le premesse per la sua creazione: l'impulso decisivo a questo fine fu dato dalle devastazioni della prima guerra mondiale. La Corte Permanente di Giustizia Internazionale (CPGI), la cui istituzione era prevista nell'art. 14 del Patto della Società delle Nazioni (SdN) del 1919 e che nel sistema internazionale predisposto dal Patto veniva a trovare la sua collocazione ideale, quale complemento giudiziario della struttura politica da quello posta in essere, nacque per effetto di uno strumento separato, lo Statuto, approvato all'unanimità dall'Assemblea della Società il 13 dicembre 1920 e aperto alla firma quale trattato internazionale. Lo Statuto, che vide la partecipazione di un alto numero di Stati, con le importanti eccezioni degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, entrò in vigore nel 1921; la Corte entrò in funzione l'anno seguente.Alla Corte Permanente di Giustizia Internazionale, avente sede all'Aja e composta, a seguito della revisione dello Statuto entrata in vigore nel 1936, di 15 giudici eletti per nove anni dall'Assemblea e dal Consiglio della Società delle Nazioni, era attribuita giurisdizione su qualunque controversia tra Stati le fosse sottoposta sulla base di un accordo. Essa poteva anche rendere pareri consultivi su ogni controversia o questione, su richiesta dell'Assemblea o del Consiglio della SdN.Prima Corte tendenzialmente mondiale e con giurisdizione pure tendenzialmente universale, cioè non limitata a settori specifici del diritto internazionale, la CPGI non contribuì certo a evitare il ritorno alla guerra, come avrebbero voluto la retorica ufficiale e le illusioni di alcuni; la sua giurisprudenza, espressa in una nutrita serie di sentenze e pareri consultivi, diede peraltro un contributo di prim'ordine all'evoluzione del diritto e alla crescita della coscienza giuridica nella comunità degli Stati. Vittima, alla pari della Società delle Nazioni, della seconda guerra mondiale (sostanzialmente fin dal 1940, anche se fu disciolta formalmente solo nel 1946), la sua eredità fu raccolta dalla Corte Internazionale di Giustizia (v. cap. 3).Il periodo tra le due guerre mondiali, con lo sviluppo del fenomeno dell'organizzazione internazionale, vedeva anche apparire i primi esempi significativi di corti internazionali speciali: si tratta dei primi tribunali amministrativi internazionali, competenti a pronunciarsi sulle controversie di lavoro tra le unioni di Stati e i loro dipendenti (v. cap. 7).

È però nel secondo dopoguerra, in un mondo unito da una rete di comunicazioni ogni giorno più fitta e sempre più interdipendente sotto i profili economico, strategico, ambientale e dei valori, che si assiste a una vera e propria moltiplicazione delle organizzazioni internazionali della più varia natura, sia a livello universale, per lo più nell'ambito della cosiddetta 'famiglia delle Nazioni Unite', sia a livello regionale o, comunque, tra gruppi più o meno ristretti di Stati. Tale ricchezza di organismi è fonte a sua volta, oltreché effetto, di un bisogno crescente di regolamentazione giuridica e dunque di una vasta produzione normativa, cui consegue l'intensificarsi delle esigenze di accertamento giurisdizionale del diritto.

Da qui l'origine di una serie di corti internazionali organicamente inserite nelle organizzazioni internazionali o che, comunque, a queste devono, direttamente o indirettamente, la loro istituzione. Gli anni cinquanta vedono sorgere in Europa la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (v. capitoli 5 e 6). Analoghe corti, con competenza prevalentemente in materia economica o nel settore dei diritti umani, vedono successivamente la luce nel continente americano.

Nel presente si assiste a un'ulteriore diffusione delle corti regionali; alla nascita di corti o analoghi meccanismi paragiurisdizionali universali che vengono ad affiancarsi alla Corte mondiale, ma con competenza speciale, limitata a certi settori del diritto, quali il Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare o il Sistema per la soluzione delle controversie dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (v. cap. 4); alla creazione, dopo il precedente isolato (e discusso) del Tribunale di Norimberga, di tribunali penali internazionali ad hoc, mentre nel 1998 è stato aperto alla firma lo Statuto di una Corte Penale Internazionale permanente (v. cap. 8).

Il bisogno di giurisdizione si accompagna sempre più frequentemente all'esigenza di ampliare l'accesso al giudice internazionale a nuove categorie di soggetti, che divengono protagonisti, accanto agli Stati, della vita mondiale: le organizzazioni internazionali, gli individui, le società. Lo sviluppo delle istanze giudiziali o paragiudiziali porta anche a un affinamento delle garanzie, quali il diffondersi di meccanismi di doppio grado di giudizio. Mentre ancora carente, specialmente sul piano universale, si presenta il profilo della esecuzione delle sentenze.La moltiplicazione delle corti internazionali, inevitabile portato di una vita di relazioni (non solo giuridiche) internazionali sempre più complessa, diventa infine fonte di preoccupazioni, viene percepita da varie parti quale problema in sé che rischierebbe, tra conflitti di giurisdizione e dissidi nella giurisprudenza, di compromettere il ruolo primario della Corte Internazionale di Giustizia se non, addirittura, la stessa unità e coerenza dell'ordinamento internazionale (v. cap. 9).

La Corte Internazionale di Giustizia

La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) è l'erede della Corte Permanente di Giustizia Internazionale: perché fu istituita, all'indomani della seconda guerra mondiale, per sostituire la CPGI, la cui sorte risultava legata a quella della morente Società delle Nazioni; perché le sue funzioni ricalcano quelle della CPGI; perché il suo Statuto è modellato, con poche varianti, sull'ultima versione di quello della CPGI, così come modellate sull'ultimo Regolamento di procedura della vecchia Corte erano le prime Rules of Court del 1946; perché dalla CPGI la CIG ereditò la sede, il Palais de la Paix all'Aja, gli uffici, l'aula per le udienze, gli archivi e, in parte, gli uomini (sia tra i primi giudici che nel personale della cancelleria); perché, ancora, la CIG ha sempre ritenuto di costituire un tutt'uno con la vecchia Corte e si è più volte riferita ai 'precedenti' individuati nelle pronunce di quest'ultima.Allo stesso tempo, la CIG, a differenza della CPGI, è formalmente inserita nella struttura organica della massima organizzazione mondiale: è istituita dalla Carta di San Francisco del 26 giugno 1945, il cui art. 96 la definisce "organo giurisdizionale principale delle Nazioni Unite"; il suo Statuto è annesso alla Carta e ne forma parte integrante. La sua collocazione quale Corte mondiale, quale suprema istanza giurisdizionale della società degli Stati (seppure solo per ampiezza di giurisdizione e per prestigio), risulta in tal modo ulteriormente accentuata: tanto più oggi che praticamente tutti gli Stati aderiscono allo Statuto della Corte (i membri delle Nazioni Unite, ipso facto, più la Svizzera). Per questo motivo e per il fatto che, per struttura e funzionamento, le altre corti internazionali si ispirano al modello della CIG sotto vari profili, vale la pena dedicare a tali aspetti particolare attenzione.La Corte è composta di 15 giudici, eletti, con doppia votazione, dall'Assemblea generale e dal Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite (NU) da una lista di persone indirettamente designate dai governi degli Stati aderenti allo Statuto tra persone di alta levatura morale, che possiedano i requisiti richiesti nei loro rispettivi paesi per la nomina alle più alte cariche giudiziarie o siano giureconsulti di riconosciuta competenza nel campo del diritto internazionale. Tra questi la CIG elegge il proprio Presidente, che dura in carica tre anni. Nel collegio non può essere compreso più di un cittadino di un determinato Stato e dovrebbero trovare rappresentanza le principali forme di civiltà e i principali sistemi giuridici del mondo.A questo proposito, può ricordarsi che è prassi che vi sia sempre un giudice della nazionalità di ciascuno dei cinque membri permanenti del CdS; ma che, se nel primo periodo della sua attività la Corte ha visto una netta prevalenza dei giuristi occidentali, oggi, a seguito dei profondi mutamenti intervenuti nella comunità internazionale, essa vede più equamente rappresentate le varie aree geopolitiche e culturali.Per i giudici, che sono eletti per un periodo di nove anni e sono rieleggibili, è prevista una serie di garanzie di indipendenza (ad esempio, possono essere rimossi solo a seguito di un giudizio di indegnità pronunciato all'unanimità dagli altri membri del collegio) e di imparzialità nell'esercizio delle loro funzioni.La CIG nomina il proprio Cancelliere e gli altri funzionari che afferiscono alla cancelleria.La Corte, alla pari di quella che l'ha preceduta, esercita competenze in sede contenziosa e in sede consultiva. Fondamentale è, ovviamente, trattandosi di un'istanza giudiziaria, la funzione di decidere le controversie che le vengano sottoposte. Solo gli Stati possono rivestire la qualità di parti nei processi davanti alla Corte e dunque questa può conoscere, in sede contenziosa, soltanto di controversie tra Stati. Non vi sono invece limiti quanto alla natura delle controversie, che possono essere di qualunque tipo. La decisione della Corte si fonda sul diritto internazionale, pattizio e consuetudinario (non è mai stata utilizzata la facoltà di chiedere alla CIG di decidere ex aequo et bono).

La prima questione da risolvere, nel momento in cui una controversia è sottoposta alla Corte, è se questa abbia giurisdizione, cioè se abbia il potere di pronunciarsi sul caso. In caso di contestazione o di dubbio relativo alla sussistenza della giurisdizione, è la Corte stessa a decidere, eventualmente con apposita sentenza.Il principio di base in questa materia è che la giurisdizione della Corte riposa sul consenso delle parti in lite. La Corte può infatti essere adita tramite compromesso, cioè per accordo tra le parti successivo al sorgere della controversia; oppure unilateralmente sulla base di una clausola compromissoria contenuta in un trattato (varie convenzioni, bilaterali e multilaterali, prevedono la possibilità per ciascuno Stato parte di adire la Corte in caso di controversie vertenti sulla interpretazione o applicazione delle norme pattizie); o, ancora, sulla base della cosiddetta "clausola facoltativa di giurisdizione obbligatoria" di cui all'art. 36.2 dello Statuto. Tale clausola prevede che ogni Stato aderente allo Statuto possa dichiarare, in qualsiasi momento, di riconoscere, per un certo periodo di tempo o per un tempo indefinito, la giurisdizione della Corte in relazione a tutte le controversie (la norma parla di "controversie giuridiche" e ne elenca quattro categorie: le definizioni paiono peraltro esaustive di ogni tipo di controversia ipotizzabile), nei rapporti con qualsiasi altro Stato che accetti il medesimo obbligo.È possibile, infine, che lo Stato convenuto si costituisca in giudizio e accetti di sottoporsi al processo, pur in assenza di altre basi di giurisdizione: anche in tal caso la Corte è competente. La non comparizione dello Stato convenuto non impedisce alla Corte di pronunciarsi, e non necessariamente a favore dello Stato attore, ma solo dopo che abbia accertato la sussistenza di uno dei titoli di giurisdizione di cui sopra.La clausola facoltativa è stata sino ad oggi accettata soltanto da una sessantina di Stati, a volte con importanti limitazioni e riserve. Anzi, alcuni Stati di primo piano, quali la Francia e gli Stati Uniti, hanno ritirato la loro accettazione, in contestazione di pronunce con cui la Corte aveva (a loro avviso, senza fondamento) affermato la propria giurisdizione nei loro confronti. Anche gli Stati che hanno accettato la clausola facoltativa ne fanno poco uso. La via del compromesso ad hoc rimane ancora tra quelle preferite per portare le controversie di fronte alla CIG.Alle parti può essere anche data la possibilità di influire sulla composizione del collegio giudicante. Innanzitutto, la Corte giudica normalmente in sessione plenaria: ma anche in questo caso è previsto che, se il collegio non comprende un giudice della nazionalità di una parte, o delle parti, ciascuna di queste possa designare un giudice ad hoc (non necessariamente suo cittadino) che vi partecipi alla pari con gli altri giudici. Il giudice della nazionalità di una parte o designato da questa non è meno vincolato degli altri alla indipendenza e alla imparzialità. È peraltro chiaro che tale persona terrà più facilmente conto di altri degli interessi del suo Stato o dello Stato a cui deve la nomina. L'istituto del giudice ad hoc, comune anche ad altre corti internazionali, comporta l'inserimento nella CIG di un elemento tipicamente arbitrale.La volontà delle parti è però ancora ben più decisiva nei giudizi affidati alle sezioni: in particolare, è previsto che la Corte possa, su richiesta delle parti, costituire al suo interno una sezione, o camera, per decidere una controversia specifica. La sentenza della sezione ha lo stesso valore di una sentenza della CIG. L'art. 26.2 dello Statuto prevede che, in tal caso, il numero dei componenti la sezione sia deciso dalla Corte con l'assenso delle parti. Ma il Regolamento di procedura della Corte e la prassi seguita da quest'ultima hanno finito per lasciare agli Stati in lite anche il potere di influire sulla scelta di ciascuno dei membri della Corte da inserire nella sezione. La possibilità così offerta alle parti di precostituirsi, tra i 15 membri della CIG, una camera di 5 o 7 giudici graditi è sicuramente un modo per rendere il ricorso alla Corte più appetibile per molti Stati, tanto che negli ultimi anni essa è stata utilizzata in più occasioni. È però chiaro che un meccanismo di questo tipo accresce di molto la contaminazione arbitrale della CIG, dando origine anche a rischi di divergenze tra le pronunce del plenum e quelle delle camere.Prima di pronunciarsi sul merito la Corte può indicare alle parti le misure cautelari che debbano essere prese a salvaguardia dei diritti rispettivi di ciascuna di esse, qualora questi rischino di subire un pregiudizio irrimediabile nell'attesa della chiusura del processo. Non è chiaro se l'ordinanza sulle misure cautelari vincoli le parti. In due casi recenti oggetto di acceso dibattito, relativi a controversie in materia di condanne a morte di cittadini stranieri negli Stati Uniti (Paraguay vs. Stati Uniti, ordinanza del 9 aprile 1998; Germania vs. Stati Uniti, ordinanza del 3 marzo 1999), la Corte si è riunita d'urgenza per ordinare la sospensione della condanna, ma è rimasta inascoltata.Il processo si svolge nel rigoroso rispetto dei principî dell'uguaglianza delle parti e del contraddittorio, dividendosi in una fase scritta, con scambio di una o più memorie e contromemorie, ed una fase orale; le udienze sono pubbliche. Le parti sono rappresentate da agenti e si avvalgono della difesa tecnica di avvocati o consulenti. La procedura è disciplinata nel dettaglio dal Regolamento della Corte, modificato da ultimo nel 1978. È ammesso in certi casi l'intervento di Stati terzi nel processo: la disciplina dell'istituto è peraltro molto sintetica e la giurisprudenza della Corte in proposito non è priva di ambiguità.Il processo si conclude con sentenza, la quale è definitiva e inappellabile (art. 60 dello Statuto). La sentenza è vincolante, ma soltanto per le parti in lite e limitatamente al caso deciso (art. 59). A differenza delle corti dei paesi di common law, la CIG non è dunque tenuta a conformarsi ai propri precedenti. Ciò non toglie che la Corte si appoggi spesso su sentenze anteriori (anche della CPGI), sforzandosi di mantenere il più possibile una giurisprudenza costante, a vantaggio della certezza del diritto. Le decisioni della Corte sono assunte a maggioranza e sono corredate di motivi; ogni singolo giudice può allegare alla sentenza una opinione individuale o dissidente, a seconda che sia d'accordo sul dispositivo ma non condivida tutte o alcune delle motivazioni o abbia invece votato contro la decisione maggioritaria.

In sede consultiva, la CIG può emettere pareri su richiesta del Consiglio di Sicurezza o dell'Assemblea generale su qualunque questione giuridica; i pareri possono essere richiesti anche da altri organi delle Nazioni Unite o da istituti specializzati, se a ciò autorizzati dall'Assemblea generale, su questioni che sorgano nell'ambito delle loro attività (Carta delle NU, art. 96). I pareri consultivi della Corte si distinguono dalle sentenze per l'assenza di effetti vincolanti.Va tuttavia sottolineato come i pareri siano emessi dalla CIG a seguito di un procedimento analogo a quello contenzioso; come essi si fondino, al pari delle sentenze, sull'accertamento del diritto applicabile alla questione sottoposta alla Corte; come il parere venga a volte a incidere, più o meno direttamente, su una controversia tra Stati, o tra uno o più Stati e l'organizzazione richiedente. Ciò spiega l'autorevolezza dei pareri consultivi, che, ovviamente, sarà tanto maggiore quanto più accurato sia il ragionamento seguito dalla Corte. Non può che deprecarsi, in epoca recente, l'occasione perduta con il parere, richiesto dall'Assemblea generale, dell'8 luglio 1996 sulla liceità della minaccia o dell'uso delle armi nucleari, ove la Corte non è riuscita, a causa della frattura emersa al suo interno, a esprimere un'opinione definita e coerente sul quesito postole, a evidente scapito del suo prestigio.Va anche precisato che, data l'impossibilità per le organizzazioni internazionali di essere parti nei procedimenti contenziosi, il parere consultivo è a volte utilizzato dalle stesse (ovviamente, purché autorizzate a richiederlo) a modo di decisione vincolante di una controversia di cui siano parti, nei confronti sia di Stati sia di altre organizzazioni. In tali casi l'obbligatorietà discende non dal parere in quanto tale, bensì da un previo accordo tra le parti che gli conferisca l'effetto in questione. Clausole che attribuiscono al parere della Corte effetti vincolanti, aggirando in tal modo, peraltro lecitamente, le limitazioni del processo contenzioso, sono contenute ormai in varie convenzioni concluse, in particolare, dalle Nazioni Unite o dagli istituti specializzati con gli Stati membri.Nei suoi oltre cinquant'anni di attività, la CIG ha emesso una serie nutrita di sentenze e di pareri consultivi, con ritmo paragonabile a quello della CPGI. Intorno agli anni settanta la Corte, percepita distante e ostile da molti paesi di nuova indipendenza (specialmente dopo la controversa sentenza del 1966 nel caso dell'Africa del sud-ovest con cui negava a Etiopia e Liberia la legittimazione ad agire nei confronti del Sudafrica), ha attraversato una fase di crisi, caratterizzata da una drastica riduzione del suo carico di lavoro. A partire dalla seconda metà degli anni ottanta, e in particolare dopo la sentenza sul merito del 1986 nel caso delle attività militari e paramilitari nel e contro il Nicaragua, con cui accertava la violazione da parte degli Stati Uniti dei divieti di ingerenza negli affari interni e di uso della forza ai danni del paese centroamericano, essa si guadagnava il favore di un numero crescente di Stati, attirandosi peraltro anche critiche, dovute più che altro alla conduzione del suddetto affare sotto i profili della verifica della sussistenza delle basi giurisdizionali e della lettura delle fonti probatorie. Oggi la Corte è investita di numerosi casi, in alcuni dei quali sono in gioco problemi di grande rilevanza, quali l'uso della forza da parte dei paesi NATO nel Kosovo o la legittimità di talune risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.Le sentenze della CIG vengono regolarmente eseguite, al di là di alcune eccezioni relative, non a caso, come nel citato affare Nicaragua, a ipotesi di assenza dello Stato convenuto nel processo, in contestazione della sua giurisdizione. Né ha supplito in proposito l'art. 94.2 della Carta, che prevede che il Consiglio di Sicurezza possa adottare misure nei confronti dello Stato che non si conformi a una sentenza della Corte, su richiesta dell'altra parte: qualunque attivazione del CdS in tal senso è stata bloccata sul nascere.Nonostante l'attuale successo della Corte, rimane il fatto che soltanto una piccola frazione delle controversie tra Stati le viene sottoposta. Ma il contributo che la CIG ha dato e continua a dare all'ordinamento internazionale risiede, molto più che nella soluzione di talune controversie, nell'apporto notevole della sua giurisprudenza, tanto delle sentenze quanto dei pareri consultivi, alla rilevazione e allo sviluppo del diritto internazionale generale. Dalla liceità dell'uso della forza alla delimitazione degli spazi marini sottoposti alla giurisdizione degli Stati, dagli obblighi di riparazione conseguenti a illeciti internazionali al principio di autodeterminazione dei popoli, dalla tutela dell'ambiente alla protezione diplomatica delle società, dal diritto dei trattati ai rapporti fra trattati e consuetudini (per fare solo qualche esempio), le pronunce della Corte, o meglio ancora le enunciazioni di diritto contenute nelle motivazioni delle sentenze e dei pareri, hanno spesso assunto valenza decisiva, travalicando i limiti del giudicato, nel chiarire i contorni delle norme consuetudinarie o nel determinarne l'evoluzione in sintonia con gli sviluppi della vita di relazione tra gli Stati.

Le sfide che attendono la CIG nell'immediato avvenire sono, in particolare, quella, emersa soprattutto di recente, della definizione dei rapporti con il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in un senso che non può essere di interferenza nelle libere scelte del massimo organo politico deputato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale né di subordinazione dell'organo giudiziario ai dettami della politica; e quella di mantenere intatti il suo prestigio e la sua autorevolezza a fronte dei nuovi tribunali che in questo o quel settore le fanno concorrenza.

Altre corti a livello mondiale con giurisdizione speciale

Negli ultimi anni, la CIG si è vista affiancare da altre giurisdizioni con analoga vocazione universale, ma competenti soltanto in settori specifici del diritto internazionale. Si tratta, da un lato, di una vera e propria corte internazionale, il Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare; dall'altro dell'Organo d'appello del sistema di soluzione delle controversie dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, il quale presenta caratteristiche sostanzialmente simili alle corti internazionali, pur non potendosi considerare tale dal punto di vista formale. La creazione di queste giurisdizioni si inserisce negli importanti sviluppi che hanno caratterizzato di recente tanto il diritto del mare quanto la regolamentazione dei rapporti commerciali tra gli Stati, fonti, in entrambi i casi, di controversie di natura economica sempre più numerose e rilevanti.

Il Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare

Il Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare (TIDM) è stato istituito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, aperta alla firma a Montego Bay il 10 dicembre 1982 ed entrata in vigore nel novembre 1994 (ne sono attualmente parte più di 130 Stati). Esso ha iniziato la propria attività nel 1996. Il suo Statuto figura in allegato alla Convenzione.

Le origini del Tribunale risalgono fondamentalmente a due esigenze emerse nel corso della Terza conferenza delle Nazioni Unite sul diritto del mare (1973-1982), sede della elaborazione della Convenzione di Montego Bay: la prima di queste esigenze si ricollega a quella parte della Convenzione che disciplina le attività di sfruttamento delle risorse dei fondali oceanici, costituenti l'Area internazionale dei fondi marini, sottratta alle pretese giurisdizionali degli Stati in quanto patrimonio comune dell'umanità (parte XI, oggetto di modifiche con l'Accordo di New York del 28 luglio 1994). Tali attività sono poste sotto il controllo di una nuova istituzione, l'Autorità internazionale dei fondi marini; lo sfruttamento è in parte lasciato all'iniziativa degli Stati e delle imprese da questi patrocinate, in parte affidato all'Impresa, braccio operativo dell'Autorità. Il regime istituito dava origine alla possibilità di controversie tra i vari soggetti coinvolti (non solo gli Stati, ma anche le nuove istituzioni e le imprese private), che necessitavano di poter essere affrontate e risolte da una giurisdizione speciale.

La seconda esigenza si rapporta alla disaffezione di cui la CIG fu oggetto da parte dei paesi in via di sviluppo negli anni settanta: questi paesi erano pronti ad accettare, entro certi limiti, il principio della soluzione obbligatoria per le controversie tra Stati in materia marittima, purché queste potessero essere sottoposte a un organo giurisdizionale nuovo, con una composizione più equamente rappresentativa, rispetto a quella della Corte, delle varie aree geografiche, politiche e culturali.Il TIDM, che ha sede ad Amburgo, soddisfa le suddette esigenze. Esso è composto di 21 giudici, scelti dagli Stati parte della Convenzione tra persone di elevata integrità e competenza nel diritto del mare, la maggioranza dei quali proviene da paesi in via di sviluppo. Al suo interno è istituita una Camera per le controversie relative ai fondi marini, composta di 11 giudici, che ha giurisdizione obbligatoria in questa materia, essendo competente a conoscere anche di controversie cui siano parti l'Autorità internazionale dei fondi marini, l'Impresa e le società private.

La Convenzione, d'altro canto, prevede la soluzione obbligatoria delle controversie tra Stati parte in materia di interpretazione e applicazione delle sue disposizioni (a esclusione, peraltro, di quelle vertenti sulle materie più delicate): gli Stati hanno, in proposito, la facoltà di optare tra l'arbitrato, la giurisdizione della CIG e quella del Tribunale. In questo caso il TIDM esercita dunque una funzione parallela e del tutto corrispondente a quella della CIG.Il Tribunale è, ancora, competente, in via pressoché esclusiva, a ordinare, su richiesta dello Stato di bandiera, il pronto rilascio di navi illecitamente fermate da un altro Stato, nonché a ordinare misure cautelari nel caso di controversie sottoposte alla giurisdizione di un tribunale arbitrale, in pendenza della costituzione di quest'ultimo. La maggior parte dei casi sino a ora sottoposti al TIDM ha avuto a oggetto proprio tali ultime competenze. Solo un caso è stato oggetto di decisione nel merito (M/V "Saiga", sentenza del 1° luglio 1999). La Camera dei fondi marini non ha ancora avuto modo di operare, dato che lo sfruttamento dei fondali oceanici è rinviato a un futuro non immediato.La struttura, l'organizzazione, il funzionamento del Tribunale (che ha elaborato il proprio Regolamento di procedura), al di là delle necessarie particolarità relative alla Camera dei fondi marini e dovute alla partecipazione di soggetti diversi dagli Stati (organizzazioni internazionali e privati), si rifanno per gran parte al modello della CIG. Anche il TIDM, ad esempio, può costituire camere ad hoc, su richiesta delle parti, per giudicare di casi particolari. Le maggiori novità rispetto alla CIG riguardano la previsione di procedure più snelle, che dovrebbero ridurre la durata dei processi davanti al Tribunale.Per quanto riguarda la giurisdizione nel merito sulle controversie tra Stati in materia marittima, la grande maggioranza degli Stati parte della Convenzione di Montego Bay non ha espresso a oggi una preferenza né per il TIDM né per la CIG, determinando dunque il prevalere della soluzione arbitrale. Rimane peraltro la possibilità per gli Stati sia di modificare la loro opzione iniziale, sia di deferire le loro controversie alla CIG o al TIDM di comune accordo. È ancora presto per dire quale potrà essere il rilievo del ruolo del Tribunale in questo campo. Quanto alle competenze innovative della Camera dei fondi marini, esse potranno esercitarsi appieno solo quando l'attività di sfruttamento sarà divenuta tecnologicamente possibile ed economicamente conveniente.

L'Organo d'appello del sistema per la soluzione delle controversie dell'Organizzazione Mondiale del Commercio

L'Accordo di Marrakesh del 15 aprile 1994 segna, con la creazione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC: attualmente conta quasi 140 Stati membri), il momento culminante di un processo di istituzionalizzazione e di ampliamento del quadro multilaterale degli scambi avviato con l'Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e il Commercio (GATT) del 1947, nell'ottica di una liberalizzazione estesa e approfondita. Un aspetto saliente del nuovo quadro normativo e istituzionale è dato dalle modifiche apportate al contenzioso commerciale tra Stati dall'Intesa sulle norme e sulle procedure che disciplinano la soluzione delle controversie, allegata all'Accordo, nel senso di una accentuata giuridicità.Il sistema per la soluzione delle controversie così istituito è alquanto complesso. Basti dire che la responsabilità delle decisioni in questa materia è affidata a un organo politico, l'Organo per la Soluzione delle Controversie (Dispute Settlement Body: DSB), le cui funzioni sono espletate dal Consiglio generale dell'OMC, composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri. L'esame della controversia, peraltro, ove falliscano le consultazioni tra le parti previste nella fase iniziale, è rimesso a un panel di esperti indipendenti, normalmente in numero di tre, nominati, di solito, dalle parti su proposta del Segretariato dell'OMC. Al termine di questo esame, condotto dal panel sulla base delle norme giuridiche e nel rispetto di procedure di tipo giurisdizionale, il comitato di esperti formula le sue constatazioni e proposte di decisione in un rapporto, che è adottato dal DSB secondo il principio del consensus negativo (inverted consensus): esso cioè si considera adottato a meno di unanimità contraria. Dal momento che alla suddetta unanimità dovrebbe associarsi anche lo Stato in causa cui il rapporto sia favorevole, l'adozione risulta praticamente automatica. Una volta adottato, il rapporto del panel vincola le parti. Proprio le caratteristiche menzionate da ultimo parrebbero avvicinare notevolmente la procedura davanti ai panel a un processo arbitrale (per quanto esso si discosti dall'arbitrato sotto certi profili). Ancor più singolare risulta peraltro la previsione di un giudizio di secondo grado, davanti all'Organo d'appello che, al contrario dei panel, ha natura permanente, essendo composto di sette persone, esperte e indipendenti, nominate per un periodo di quattro anni (e rieleggibili per un secondo quadriennio) dal DSB. Ciascuna delle parti ha la facoltà di impugnare il rapporto del panel, prima della sua adozione in seno al DSB.

L'Organo di appello, che opera in formazioni di tre membri, sempre secondo procedure di tipo giurisdizionale, ha competenza per quanto riguarda le questioni di diritto e, in particolare, le interpretazioni giuridiche avanzate dal panel. Esso redige, a sua volta, un rapporto che può confermare o riformare le conclusioni raggiunte in primo grado. Il rapporto dell'Organo di appello è vincolante per le parti dopo che sia stato adottato dal DSB, sulla base della stessa procedura del consensus negativo prevista per l'adozione dei rapporti dei panel.Sembra evidente da quanto detto il motivo per cui l'Organo di appello possa essere considerato, a differenza dei panel, alla stregua di una corte internazionale, anche se la procedura di adozione delle decisioni in seno a un organo politico, il DSB, per quanto automatica essa sia, impedisce che esso possa formalmente chiamarsi tale. La presenza e le funzioni dell'Organo di appello permanente conferiscono d'altra parte una netta impronta giurisdizionale all'insieme delle procedure per la soluzione delle controversie dell'OMC.Il sistema per la soluzione delle controversie dell'OMC ha iniziato presto a funzionare a pieno ritmo. Lo stesso Organo di appello è già stato investito di numerosi casi ed è già all'origine di una cospicua giurisprudenza.

Una particolarità degna di nota del sistema dell'OMC è che l'Organo per la Soluzione delle Controversie risulta anche investito del controllo sulla esecuzione da parte degli Stati delle decisioni e raccomandazioni indirizzate loro nei rapporti dei panel e dell'Organo di appello approvati dallo stesso DSB, potendo, se del caso, autorizzare la parte vincitrice ad adottare contromisure nei confronti della parte soccombente.

Altro aspetto rimarchevole è che, nonostante nelle controversie commerciali siano coinvolti notevoli interessi privati, il sistema di soluzione delle controversie dell'OMC pare strutturato, da questo punto di vista, in termini tradizionali, poiché solo gli Stati possono adire le procedure esaminate.

Le corti istituite a livello regionale, nell'ambito delle unioni economiche

La Corte di Giustizia delle Comunità Europee

La Corte di Giustizia delle Comunità Europee (CGCE) nasce nel 1958, cumulando le funzioni della preesistente Corte di Giustizia della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), operante fin dal 1953, con quelle previste nei Trattati di Roma del 25 marzo 1957 istitutivi della Comunità Economica Europea (oggi Comunità Europea: CE) e della Comunità Europea dell'Energia Atomica (CEEA o EURATOM). Alcune competenze ulteriori sono state attribuite alla CGCE, nell'ambito dell'Unione Europea (quadro generale della cooperazione interna ed esterna alle Comunità tra gli Stati membri di queste ultime, sorta per effetto del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992), in particolare del cosiddetto 'terzo pilastro' (cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997.La natura e le funzioni della CGCE non possono comprendersi se non si tengono presenti gli aspetti del tutto peculiari dell'ordinamento comunitario nel cui ambito essa opera e che, del resto, la Corte stessa ha ampiamente contribuito a forgiare: ordinamento proprio di una organizzazione internazionale, la Comunità (per brevità il discorso che segue si riferirà soltanto alla Comunità Europea, cioè a quella di gran lunga più importante e dotata di competenza generale), cui i quindici Stati membri hanno delegato porzioni crescenti della loro sovranità, specialmente in campo economico, ben oltre l'obiettivo originario della costituzione di un mercato comune; organizzazione caratterizzata da elementi di sovranazionalità (dati dal fatto che gli atti comunitari, all'adozione dei quali partecipano istituzioni composte di individui indipendenti dagli Stati, vincolano direttamente i soggetti degli ordinamenti interni) nonché da una tensione progressiva verso una strutturazione di tipo federale.In tale quadro la CGCE si colloca quale supremo guardiano del diritto (art. 220 del Trattato CE). A tale scopo la Corte è dotata di giurisdizione contenziosa e non contenziosa. In sede contenziosa, essa è competente ad accertare, su ricorso della Commissione o di uno Stato membro, la violazione da parte di altro Stato membro degli obblighi a esso derivanti dal Trattato o dal diritto comunitario derivato; qualora lo Stato non si conformi alla sentenza, la Corte può infliggergli il pagamento di una penalità. La Corte è, ancora, competente a dichiarare la nullità degli atti delle istituzioni comunitarie per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione del Trattato o delle regole da questo derivate o sviamento di potere, su ricorso delle altre istituzioni comunitarie o degli Stati membri. Il ricorso può anche essere proposto da una persona fisica o giuridica riguardo a decisioni prese nei suoi confronti o che, comunque, la riguardino direttamente e individualmente. Su domanda dei medesimi soggetti la Corte può anche constatare che un'istituzione della Comunità si è illegittimamente astenuta dall'agire. Le sentenze della CGCE vincolano gli Stati e le istituzioni coinvolte ad adottare i provvedimenti necessari alla loro esecuzione.

Tra le altre competenze contenziose della Corte, meritano di essere menzionate quella in materia di risarcimento dei danni causati dalle istituzioni o dagli agenti della Comunità (anche in questo caso la Corte può essere adita da persone fisiche o giuridiche); quella relativa alle controversie di lavoro tra la Comunità e i suoi agenti (a tal riguardo la CGCE agisce quale tribunale amministrativo della Comunità); quella, infine, riguardante le controversie di qualsiasi genere tra Stati membri connesse con l'oggetto del Trattato e che le siano sottoposte in virtù di un compromesso (funzione, questa, tipica delle corti internazionali).In sede non contenziosa, la CGCE è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale, su richiesta delle giurisdizioni degli Stati membri, sull'interpretazione del Trattato e sulla validità e l'interpretazione degli atti delle istituzioni comunitarie: in particolare, i giudici interni di ultimo grado davanti ai quali sia sollevata una questione di questo tipo sono tenuti a investirne la Corte di giustizia, la cui pronuncia è vincolante nel giudizio in corso. Va detto che il rinvio pregiudiziale, strumento innovativo, di per sé utile ad assicurare l'uniforme applicazione del Trattato e delle norme derivate in tutto il territorio della Comunità, ha costituito un veicolo potente per mezzo del quale la Corte, in particolare attraverso le dottrine dell'efficacia diretta e del primato del diritto comunitario, ha dato una spinta decisiva alla costruzione di un ordinamento integrato con quelli degli Stati membri e su questi prevalente.

La Corte di Giustizia, che ha sede a Lussemburgo, si compone di quindici giudici, nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri per un periodo di sei anni (rinnovabile) tra persone competenti e di provata integrità. Essa è assistita da otto avvocati generali (nominati allo stesso modo), i quali hanno il compito di presentare alla Corte, in piena indipendenza, in relazione a ogni caso a essa sottoposto, conclusioni motivate, che possano aiutare il collegio nelle sue deliberazioni. È prassi che ciascuno Stato membro abbia un proprio cittadino tra i giudici e che gli avvocati generali siano ripartiti, per nazionalità, tra gli Stati più importanti. La Corte siede normalmente in sezioni di tre, cinque o sette giudici, riunendosi in seduta plenaria solo ove lo richieda uno Stato membro o un'istituzione della Comunità che sia parte nel caso oggetto di giudizio.

Alla CGCE è affiancato, dal 1989, un Tribunale di primo grado, composto, al pari della Corte, di quindici giudici, nominati per sei anni (rinnovabili) dai governi degli Stati membri (sono però i giudici stessi a svolgere a turno le funzioni di avvocato generale). Il Tribunale, che siede normalmente in sezioni di tre o cinque membri, è competente a conoscere in prima istanza di tutti i ricorsi presentati da persone fisiche e giuridiche: le sentenze del Tribunale sono soggette a impugnazione davanti alla Corte di giustizia per i soli motivi di diritto. Il sistema assicura in tal modo ai soggetti privati le garanzie del doppio grado di giudizio, consentendo allo stesso tempo uno smaltimento più agevole del notevole carico di lavoro del giudice comunitario.

Anche la CGCE, come le corti esaminate finora, non è vincolata ai propri precedenti ma, ciononostante, mantiene una sostanziale linea di coerenza nella sua giurisprudenza; la quale ultima, con l'apporto di dosi notevoli di creatività, per non dire di arditezza, ha dato e continua a dare un contributo fondamentale all'edificazione e allo sviluppo di un ordinamento giuridico tuttora privo di eguali nel panorama mondiale. Tra le sfide del presente, vi è quella di costruire solide garanzie per i diritti fondamentali nell'ambito comunitario, permettendo a quest'ultimo di sottrarsi alle opposte minacce provenienti, dall'interno, dal controllo delle corti costituzionali di alcuni Stati membri e, dall'esterno, da quello della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

Altre corti

Così come la Comunità Europea è servita da modello per la costituzione di unioni economiche in varie parti del globo, allo stesso modo la Corte di Giustizia del Lussemburgo è stata assunta a prototipo per le istituzioni giudiziarie chiamate, nell'ambito di tali unioni, a garantire il rispetto del diritto. Al di fuori dell'Europa, tali giurisdizioni hanno peraltro stentato ad affermarsi e a produrre risultati apprezzabili (del resto, lo stesso discorso potrebbe farsi per le relative organizzazioni internazionali): alcune di queste corti sono state istituite sulla carta, senza riuscire a funzionare nel concreto; altre risultano prive di talune caratteristiche essenziali al conseguimento degli effetti voluti; altre ancora hanno iniziato a funzionare da poco, di modo che una loro valutazione sembra prematura. I motivi di tale stato di cose paiono risiedere nell'assenza, nelle regioni ove questi esperimenti sono stati tentati o sono in corso, di quelle condizioni storiche, di sviluppo economico, di comunanza di valori giuridici e di idealità politiche che hanno permesso la nascita e lo sviluppo delle istituzioni comunitarie nel loro luogo di origine. È peraltro possibile, e auspicabile per chi vede con favore forme sempre più intense di integrazione regionale anche al di fuori delle aree più sviluppate, che tali dati di fatto stiano mutando, quantomeno in taluni dei casi in questione.Non potendosi, in questa sede, dare un quadro compiuto e dettagliato delle molteplici esperienze di cui sopra, si procederà a una breve ricognizione delle istituzioni, attualmente esistenti, che paiono più significative. Nella stessa area geografica cui appartiene la CGCE operano due giurisdizioni in qualche modo a essa collegate: si tratta in primo luogo della Corte di giustizia del Benelux, Unione economica tra Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo istituita con il Trattato dell'Aja del 1958, la quale è in funzione dal 1974 e possiede in particolare la competenza a interpretare in via pregiudiziale le regole dell'Unione (il collegamento in questo caso è costituito dal carattere ormai nettamente residuale dello stesso Benelux rispetto alla Comunità Europea di cui i tre Stati sono parte); in secondo luogo della Corte EFTA, istituita nell'ambito dello Spazio Economico Europeo (SEE) stabilito, con l'Accordo di Porto del 2 maggio 1992, dalla Comunità Europea con l'Associazione Europea di Libero Scambio (European Free Trade Association: EFTA). La Corte EFTA esercita, in riferimento agli Stati membri dell'EFTA e aderenti al SEE, competenze per quanto riguarda l'attuazione dell'Accordo SEE parallele e analoghe (ma più limitate) a quelle attribuite alla CGCE nei confronti degli Stati membri della CE (le quali corrispondono alle competenze usuali di quest'ultima): gli Stati interessati sono oggi soltanto tre, l'Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia, così come tre sono i giudici della Corte.Fuori dell'Europa, l'unica corte attiva da anni e provvista oggi di competenze simili, quantomeno in linea teorica, a quelle della CGCE è la Corte di Giustizia della Comunità Andina, organizzazione di integrazione economica tra cinque paesi sudamericani (Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela) creata con l'Accordo di Cartagena del 26 maggio 1969. La Corte fu istituita dal Trattato di Cartagena del 28 maggio 1979, modificato da ultimo con il Protocollo di Cochabamba del 28 maggio 1996, entrato in vigore il 25 agosto 1999.Il modello della CGCE è stato seguito abbastanza fedelmente anche nell'istituzione della Corte di Giustizia del Mercato Comune dell'Africa Orientale e Meridionale (Common Market for Eastern and Southern Africa: COMESA), organizzazione creata con il Trattato di Kampala del 5 novembre 1993 e funzionante dal 1994 (essa ha 21 Stati membri). La Corte è stata costituita nel 1998 e sta pertanto muovendo i primi passi.

Alle prime armi è anche un'altra istituzione giudiziaria africana cui sono attribuite competenze di rilievo e alquanto originali: si tratta della Corte comune di giustizia e di arbitrato istituita nell'ambito dell'OHADA (Organisation pour l'Harmonisation en Afrique du Droit des Affaires), organizzazione sorta con il Trattato di Port-Louis del 17 ottobre 1993 e di cui è parte una quindicina di Stati, per lo più dell'Africa centro-occidentale. In particolare la Corte è chiamata a funzionare da giudice di cassazione, in sostituzione delle corti di cassazione nazionali, per quanto riguarda il contenzioso relativo al diritto commerciale uniforme che gli atti delle istituzioni politiche dell'OHADA hanno iniziato a produrre.Un cenno particolare merita, infine, la nuova Corte centroamericana di giustizia, istituita con il Protocollo di Tegucigalpa del 13 dicembre 1991 che ha modificato la Carta della Organizzazione di Stati Centroamericani (ODECA), dando vita al Sistema dell'integrazione centroamericana. Lo Statuto della Corte, approvato nel 1992, è entrato in vigore tra El Salvador, Honduras e Nicaragua il 2 febbraio 1994 (ma dovrebbero entrare a farne parte anche Costarica, Guatemala e Panama). In questo caso, sulla carta, la Corte è dotata, nei confronti sia degli Stati sia degli individui, di giurisdizione molto ampia, non limitata al profilo dell'integrazione economica.

Le corti istituite a livello regionale, con competenza nel settore dei diritti dell'uomo

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo

La prima corte di giustizia competente ad accertare le violazioni commesse dagli Stati di obblighi attinenti alla tutela dei diritti dell'uomo fu istituita nell'ambito del Consiglio d'Europa, con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore nel settembre 1953. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) entrò in funzione nel 1959. Nel sistema originario contemplato dalla Convenzione, i ricorsi, sia statali sia individuali, venivano filtrati da un altro organo quasi giurisdizionale, la Commissione europea dei diritti dell'uomo, cui erano demandati anche compiti di conciliazione tra le parti. Ove quest'ultima non fosse riuscita, la Commissione redigeva un rapporto nel quale esprimeva il proprio parere in merito alle presunte violazioni della Convenzione. Entro tre mesi dalla comunicazione alle parti del rapporto, la questione poteva essere deferita dalla Commissione stessa o da ciascuno degli Stati interessati (più tardi anche dall'individuo) alla Corte, che decideva con sentenza. In mancanza di deferimento alla Corte, la decisione definitiva spettava a un organo politico, il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa. Va anche precisato che sia la competenza della Commissione a ricevere ricorsi individuali sia la giurisdizione della Corte dovevano fare oggetto di esplicite dichiarazioni di accettazione da parte degli Stati vincolati dalla Convenzione.Il sistema è stato oggetto di radicali modifiche con il Protocollo n. 11, aperto alla firma l'11 maggio 1994 ed entrato in vigore il 1° novembre 1998. La riforma era dovuta al duplice intento di permettere al sistema di continuare a funzionare a fronte di un enorme incremento dei ricorsi e di un aumento altrettanto importante degli Stati parte della Convenzione (che oggi coincidono con i 41 membri del Consiglio d'Europa) e di perfezionare il meccanismo di tutela dei diritti individuali, attraverso un'estensione e un approfondimento delle garanzie esistenti. Ne è risultata una ristrutturazione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, cui sono state attribuite anche le funzioni precedentemente di pertinenza della Commissione, ormai disciolta, e quelle giurisdizionali del Comitato dei ministri.

La CEDU, la quale, a differenza che in passato, siede in permanenza, è attualmente composta di un numero di giudici pari a quello degli Stati membri: essi sono eletti dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa per ciascuna delle parti contraenti, da liste di tre candidati presentate da queste ultime. Sono previsti gli usuali requisiti di competenza e integrità nonché le usuali garanzie di indipendenza e imparzialità; è invece irrilevante la nazionalità. Il mandato è di sei anni, rinnovabile.

La Corte ha giurisdizione nei confronti di tutti gli Stati parte della Convenzione. Essa può ricevere ricorsi da ciascuna parte contraente che imputi a un'altra parte contraente una inosservanza della disciplina convenzionale o da qualsiasi individuo, gruppo di individui o associazione che ritenga che una parte contraente abbia commesso a suo danno una violazione di uno o più tra i diritti riconosciuti nella Convenzione o in uno dei protocolli stipulati successivamente (essi appartengono per lo più alla categoria dei diritti civili e politici, anche se non mancano taluni diritti economici e sociali). Il ricorso non è ricevibile ove non siano stati esauriti i ricorsi interni disponibili o qualora siano trascorsi più di sei mesi dalla decisione interna definitiva: requisiti che ben esprimono la natura puramente sussidiaria della tutela convenzionale rispetto a quella che gli ordinamenti interni sono tenuti a offrire. Ogni ricorso individuale passa dapprima al vaglio di un comitato di tre giudici e, qualora non sia da questo giudicato irricevibile o comunque radiato dal ruolo con decisione unanime, viene sottoposto a una camera di sette giudici, che si pronuncia sulla ricevibilità e sul merito. I ricorsi statali sono sempre sottoposti a camere di sette giudici, che decidono su entrambi i predetti profili. Una causa può anche essere deferita dalla camera che ne è investita alla Grande Camera, composta di diciassette giudici, qualora sollevi questioni gravi di interpretazione della Convenzione o la sua decisione rischi di dare adito a difformità nella giurisprudenza della Corte. La Grande Camera è competente anche a decidere in grado di appello su rinvio delle parti entro tre mesi dalla pronuncia di una camera, ma solo se la controversia solleva un problema importante di interpretazione della Convenzione (sulla ammissibilità del rinvio decide un collegio di cinque giudici della Grande Camera).Le sentenze della Grande Camera e quelle delle camere, in assenza di rinvio alla prima entro i termini o qualora il rinvio sia respinto, sono definitive. La Corte accerta se vi sia stata violazione della Convenzione; essa può anche accordare alla parte lesa un indennizzo, valutato secondo criteri equitativi. Gli Stati membri sono tenuti a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate in controversie di cui siano parti. I compiti di vigilanza sulla esecuzione delle sentenze tuttora attribuiti al Comitato dei ministri risultano, a oggi, assai poco incisivi.

Nella prassi, il livello di conformità alle sentenze della Corte, per quanto generalmente elevato, differisce notevolmente da paese a paese: solo in alcuni Stati membri, ad esempio, una sentenza della CEDU consente la riapertura di un processo già chiuso con pronuncia definitiva. Molto spesso, del resto, il pieno conformarsi alle sentenze della Corte europea, nonostante queste vincolino soltanto in relazione al caso singolo esaminato, comporterebbe per uno Stato la modifica della propria legislazione quando non la adozione di riforme radicali di certi settori del proprio ordinamento o di taluni apparati dello Stato, il che risulta molto più difficile, come dimostra, a titolo esemplificativo, la pletora di condanne dell'Italia per l'eccessiva durata dei processi.

La Corte, con la sua ormai ricca giurisprudenza (anch'essa coerente nelle grandi linee di fondo, pur in mancanza del vincolo del precedente), ha teso e sempre più tende a porsi quale struttura portante di un 'ordine pubblico europeo' fondato sullo Stato di diritto e sul rispetto dei diritti dell'uomo; né probabilmente è estranea al suo successo la politica giudiziaria prudente e progressiva da essa scelta: politica che ha limitato il controllo sugli ordinamenti interni, sulle scelte dei singoli Stati in nome di un lato 'margine di apprezzamento' a questi concesso nella tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione.Nonostante la riforma, la Corte si trova però tuttora in difficoltà nello smaltire un carico di lavoro soggetto a una crescita esponenziale: il che, tra l'altro, si traduce in una durata eccessiva dei processi che mal si concilia con gli standard imposti a quelli interni. Tanto che è già allo studio una modifica del Regolamento di procedura della Corte che questa ha adottato nel novembre 1998 e che già si discute di ulteriori, necessari emendamenti alla disciplina convenzionale. Tutto questo nel mentre, dal lato sostanziale, la CEDU si trova a dover difendere i livelli di tutela dei diritti fondamentali in Europa a oggi conseguiti, promuovendo anzi un'evoluzione verso una tutela sempre più avanzata, allo stesso tempo consentendo l'integrazione nel sistema dei paesi dell'Europa centro-orientale, dotati di livelli di protezione più arretrati e più precari.

La Corte Interamericana dei Diritti dell'Uomo

Il sistema interamericano dei diritti dell'uomo stabilito dalla Convenzione americana sui diritti dell'uomo, elaborata nell'ambito dell'Organizzazione degli Stati Americani (OSA), aperta alla firma a San José de Costa Rica il 22 novembre 1969 ed entrata in vigore nel 1978, è modellato, con alcune differenze, sul sistema originario previsto dalla Convenzione europea del 1950. Le funzioni di tutela sono ripartite tra la Commissione interamericana dei diritti dell'uomo, organo dell'OSA, preesistente alla Convenzione (fu istituita nel 1959), la quale svolge compiti di rilievo anche al di fuori del campo d'azione di quest'ultima e la Corte interamericana dei diritti dell'uomo, creata invece ex novo e operante per lo più nell'ambito convenzionale.

La Commissione ha competenza obbligatoria a ricevere ricorsi presentati da individui, da gruppi di individui o da organismi non governativi che adducano che uno Stato parte abbia violato diritti garantiti dalla Convenzione (ma non necessariamente nei loro confronti); per quanto riguarda, invece, i ricorsi statali è necessario che gli Stati interessati abbiano previamente dichiarato di riconoscere la sua competenza.A fronte degli uni e degli altri ricorsi, la Commissione svolge la consueta funzione di filtro, procedendo all'esame di quelli dichiarati ricevibili. L'esame si conclude con un rapporto confidenziale, trasmesso agli Stati interessati, in cui la Commissione esprime le sue valutazioni. Entro tre mesi da tale comunicazione, uno Stato interessato o la stessa Commissione possono deferire il caso alla Corte, la quale peraltro ha giurisdizione soltanto nei confronti degli Stati che l'abbiano accettata con apposita dichiarazione. Ad oggi, dei venticinque Stati che hanno ratificato la Convenzione (tra i quali non figurano Canada e Stati Uniti; Trinidad e Tobago ha notificato il suo recesso nel 1998), diciotto (compreso Trinidad) hanno dichiarato di accettare la giurisdizione della Corte.La Corte Interamericana, che ha sede a San José ed è operativa dal 1979, si compone di sette giudici, eletti nell'Assemblea generale dell'OSA dagli Stati parte della Convenzione per un mandato di sei anni, rinnovabile una sola volta. Nell'accertare che un diritto tutelato dalla Convenzione è stato violato, essa può, oltreché accordare un equo indennizzo al soggetto leso, disporre che lo Stato responsabile adotti le misure necessarie per ristabilire la situazione che sarebbe esistita in mancanza dell'illecito. La Corte possiede anche estese competenze in sede consultiva (ben più ristrette sono invece quelle della CEDU), potendo emettere pareri su richiesta degli organi dell'OSA o di qualunque Stato membro di tale Organizzazione.

La Corte ha emesso le sue prime sentenze nella seconda metà degli anni ottanta e solo di recente la sua giurisprudenza ha iniziato ad acquisire una certa consistenza: rimane, nonostante l'indubbio miglioramento del clima politico nei paesi dell'America Latina, la difficoltà dell'operare con efficacia in una regione segnata da numerose e gravi lesioni dei diritti individuali.

Altre corti

Tra i grandi sistemi regionali per la protezione dei diritti dell'uomo, quello istituito con la Carta Africana dei Diritti dell'Uomo e dei Popoli, aperta alla firma a Banjul il 27 giugno 1981 ed entrata in vigore nel 1986, era l'unico privo di una corte di giustizia. Il sistema di tutela da esso predisposto risultava infatti affidato ai limitati poteri di un organo, la Commissione Africana dei Diritti dell'Uomo e dei Popoli, il cui operato è per lungo tempo rimasto al di sotto delle più timide aspettative. Di recente, mentre da un lato la Commissione Africana veniva a svolgere un ruolo finalmente più incisivo, si ridestava l'interesse dei governi per la previsione di un controllo giurisdizionale. Il Protocollo aperto alla firma a Ouagadougou il 9 giugno 1998 prevede l'istituzione di una Corte Africana dei Diritti dell'Uomo e dei Popoli, composta di undici giudici, eletti dalla Conferenza dell'Organizzazione dell'Unità Africana (OUA) da una lista di candidati proposti dagli Stati parte del medesimo.Le competenze della Corte paiono modellate su quelle della CEDU prima della riforma, se si eccettua la possibilità del ricorso diretto individuale, ma solo nei confronti degli Stati parte che abbiano emesso una apposita dichiarazione di accettazione. Novità di rilievo risultano l'esclusione dal collegio giudicante del giudice di nazionalità di uno Stato parte in un procedimento davanti alla Corte (l'opposto di quanto previsto solitamente nelle corti internazionali, comprese la CEDU e la Corte Interamericana) e l'estensione della giurisdizione di questa alle controversie vertenti sull'interpretazione e applicazione non solo della Carta Africana, ma di qualunque strumento sui diritti dell'uomo ratificato dallo Stato interessato.

Rimangono nel Protocollo molti punti oscuri, in particolare per quanto riguarda il coordinamento delle competenze rispettive della Corte e della Commissione. E rimane da vedere se e quando questo strumento entrerà in vigore e quale potrà essere il suo apporto a un miglioramento effettivo della tutela dei diritti umani nel continente africano.

I tribunali amministrativi delle organizzazioni internazionali

Le organizzazioni internazionali disciplinano in piena autonomia il rapporto di lavoro con i loro funzionari e agenti temporanei. Nel caso di controversie tra i dipendenti e l'organizzazione sono previsti ricorsi gerarchici sui quali decide in ultima istanza il capo dell'amministrazione, cioè il segretario o direttore generale. Ma si è presto sentita l'esigenza di introdurre forme di controllo giurisdizionale, tanto più che, normalmente, e per quanto la situazione sia oggi in evoluzione, le organizzazioni, in materia di rapporti di lavoro, godono dell'immunità dalla giurisdizione civile degli Stati nei quali operano. Non si può dunque consentire che vicende tanto rilevanti sotto il profilo della tutela dei diritti individuali rimangano senza giudice. Le organizzazioni hanno dunque istituito tribunali amministrativi, cui i dipendenti, o i loro aventi diritto, possono rivolgersi dopo aver esaurito i ricorsi gerarchici.

Il primo tribunale amministrativo fu quello della Società delle Nazioni: creato nel 1927, esso estese la sua competenza anche alla Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che nel 1946, estinta la Società, lo ereditò, modificandone successivamente lo statuto. Questo tribunale esercita oggi le sue competenze in relazione a varie organizzazioni internazionali facenti parte del sistema delle Nazioni Unite.Altri istituti specializzati fanno invece riferimento al Tribunale Amministrativo delle Nazioni Unite (TANU), istituito con risoluzione dell'Assemblea generale nel 1949. Nel 1980 un tribunale amministrativo è stato creato in seno alla Banca mondiale. Al di fuori della famiglia dell'ONU varie altre organizzazioni internazionali conoscono forme più o meno autentiche di giurisdizione amministrativa; del resto, come si è visto, svolgono funzioni di tribunali amministrativi anche talune delle corti internazionali esaminate sopra, quali la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (v. cap. 5).La Corte Internazionale di Giustizia, in un parere del 1954, ha sostenuto che il TANU (e il discorso può estendersi agli altri tribunali di tipo analogo) è organo indipendente e realmente giudiziario, negando dunque che l'Assemblea generale possa rifiutarsi di eseguirne le decisioni che accordino un'indennità: superando in tal modo i dubbi che pure vengono avanzati in dottrina e che attengono alla natura sussidiaria di tali tribunali rispetto agli organi politici che li hanno istituiti.

L'esigenza di assicurare un controllo giurisdizionale in seconda istanza ha, d'altro canto, portato, per quanto riguarda il TANU nonché il Tribunale amministrativo dell'OIL, alla previsione (contenuta nei rispettivi statuti) della possibilità che venisse richiesto, in taluni casi, un parere alla Corte Internazionale di Giustizia sulla correttezza della sentenza emessa dal tribunale. In particolare, nel caso del Tribunale dell'OIL è previsto che i pareri della Corte possano essere richiesti dall'Organizzazione per le ipotesi di incompetenza o violazione sostanziale della procedura e siano vincolanti. La possibilità di riesame, peraltro, è venuta meno per il TANU, a seguito di una risoluzione dell'Assemblea generale dell'11 dicembre 1995, che ha modificato lo statuto. Tra i motivi prevalenti di questa riforma vi era probabilmente la necessità di non caricare la CIG di una funzione puramente interna alle organizzazioni internazionali interessate e priva dunque di rilevanza sul piano dell'ordinamento internazionale.

I tribunali penali internazionali

L'evoluzione forse più significativa dell'ultimo decennio in tema di giurisdizioni internazionali è data dagli sviluppi verificatisi nel diritto internazionale penale. L'idea di istituire una corte internazionale competente a giudicare taluni crimini individuali, in particolare le gravi violazioni del diritto umanitario commesse in tempo di guerra, non è nuova. Senza risalire più indietro nel tempo, il Trattato di Versailles del 1919 prevedeva che l'ex imperatore tedesco Guglielmo II, accusato di aver violato la moralità internazionale e la santità dei trattati per avere scatenato una guerra di aggressione, fosse sottoposto al giudizio di un tribunale speciale: ma il Kaiser si rifugiò nei Paesi Bassi, sfuggendo alla cattura.Le cose andarono diversamente al termine della seconda guerra mondiale: con l'accordo di Londra dell'8 agosto 1945 le quattro potenze occupanti della Germania (Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica) istituirono un Tribunale internazionale militare, con sede nella città di Norimberga, al fine di giudicare i gerarchi nazisti per i crimini da loro commessi in occasione della guerra. Il Tribunale di Norimberga, internazionale per la composizione e per il fatto di essere stato costituito tramite accordo fra Stati, poteva per il resto ritenersi una giurisdizione interna, gestita dalle potenze occupanti in virtù dei poteri loro spettanti sul territorio tedesco (così come interno era, a maggior ragione, il Tribunale militare internazionale per l'estremo oriente, con sede a Tokyo, istituito con decisione unilaterale del Comandante supremo delle potenze alleate del 19 gennaio 1946). Notevole fu comunque il contributo dato sia dallo statuto del Tribunale, la cosiddetta 'Carta di Norimberga' (annessa all'accordo di Londra), sia dalla giurisprudenza di quest'ultimo a una prima definizione dei crimini individuali rilevanti per il diritto internazionale: i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità e i crimini contro la pace.Il difetto principale di tali precedenti era dato dal fatto che essi incarnavano la giustizia dei vincitori nei confronti dei vinti. Soltanto una corte penale permanente e con competenza generale avrebbe potuto offrire una garanzia in direzione di una giustizia uguale nei confronti di tutti i responsabili di crimini internazionali, ovunque e in qualunque circostanza commessi. Ma solo la fine della guerra fredda ha consentito una ripresa decisa del cammino in questa direzione. Sul finire del secolo è stato pertanto adottato lo statuto di una corte penale internazionale permanente, che però non è ancora in vigore.

Nel frattempo, a fronte di gravissime situazioni di emergenza verificatesi in diverse parti del globo, è intervenuto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con l'istituzione di due tribunali ad hoc, per giudicare dei crimini commessi, rispettivamente, sui territori della ex Jugoslavia e del Ruanda: né, si badi, la natura speciale e temporanea di questi tribunali li priva delle caratteristiche di stabilità che si sono identificate come proprie delle corti internazionali (v. cap. 1). La costituzione di ulteriori tribunali speciali in Cambogia e in Sierra Leone è attualmente oggetto di negoziati tra il Segretariato delle Nazioni Unite e i paesi interessati.

Il Tribunale per la ex Jugoslavia

Il Tribunale internazionale per il perseguimento delle persone responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio della ex Jugoslavia a partire dal 1991 (brevemente, Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, TPIJ) fu istituito con la risoluzione 827 del 25 maggio 1993 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La giurisdizione del Tribunale copre i crimini di guerra, il genocidio e gli altri crimini contro l'umanità da chiunque commessi, in situazioni sia di guerra internazionale sia di guerra civile, sull'intero territorio della ex Jugoslavia, dal 1° gennaio 1991 a una data da stabilirsi dal Consiglio di sicurezza una volta che sia ristabilita la pace (la data finale non è ancora stata fissata). Tale giurisdizione è concorrente con quella degli Stati; ma il TPIJ ha la primazia sulle corti nazionali, potendo loro richiedere in qualunque stadio del procedimento il deferimento della causa.Il TPIJ, che ha sede all'Aja, funziona in conformità con lo Statuto approvato dallo stesso Consiglio sulla base di un rapporto del Segretario generale e ha adottato il proprio Regolamento di procedura. Esso è composto di 14 giudici, eletti per quattro anni (rinnovabili) dall'Assemblea generale da una lista sottopostale dal Consiglio di Sicurezza e formata sulla base di candidature presentate dagli Stati membri delle Nazioni Unite. Si richiede che i candidati possiedano, oltre ai requisiti per la nomina alle più alte cariche giudiziarie, esperienza nei settori del diritto penale o del diritto internazionale, con particolare riferimento ai diritti dell'uomo e al diritto umanitario.

Il Tribunale siede in tre camere di prima istanza di tre e una Camera d'appello di cinque giudici, la quale offre la possibilità di un doppio grado di giudizio al fine di correggere sia gli errori di fatto sia quelli di diritto. Il processo, che si richiama in larga misura a quello accusatorio di impronta anglosassone e solo in parte a quello inquisitorio di marca europea continentale, dando vita a un modello originale non privo di ambiguità, prevede garanzie rigorose dei diritti della difesa.Il Tribunale è affiancato da un Procuratore indipendente, nominato dal Consiglio di Sicurezza su designazione del Segretario generale, che può iniziare l'azione penale sia d'ufficio sia sulla base di informazioni presentate da qualunque fonte esterna. Il TPIJ ha anche a sua disposizione un carcere in territorio olandese, ma sotto la giurisdizione delle Nazioni Unite, utilizzato per la custodia cautelare degli imputati.

Le sentenze del Tribunale che riconoscano la colpevolezza di un imputato stabiliscono anche la pena detentiva (non è contemplata la pena di morte) che il reo dovrà scontare nelle strutture carcerarie di uno Stato membro che abbia prestato la propria disponibilità in tal senso al TPIJ. Va sottolineato che la cooperazione degli Stati è essenziale al funzionamento di questo, come degli altri tribunali penali internazionali, sia al fine della ricerca, dell'arresto e della consegna degli indagati (il Tribunale non giudica del resto in contumacia), sia per l'esecuzione della sentenza. Lo Statuto mette in chiaro che tutti gli Stati sono tenuti a cooperare con il TPIJ.L'istituzione di un Tribunale penale internazionale con risoluzione del Consiglio di Sicurezza è stata oggetto di varie critiche, sia sotto il profilo del potere del CdS di creare un organo giudiziario, sia per la natura politica e contingente delle motivazioni che spinsero a tale passo e per il carattere almeno parzialmente ex post facto del Tribunale.

Sotto il primo profilo, la Camera d'appello del TPIJ nel caso Tadič ha ritenuto legittima l'istituzione del Tribunale, sulla base dell'art. 41 della Carta delle NU (che contempla l'adozione da parte del Consiglio, in situazioni di minaccia alla pace o di violazione della pace o in presenza di atti di aggressione, di misure non implicanti l'uso della forza: sentenza del 2 ottobre 1995). Quale che sia la base giuridica della risoluzione 827, la legittimità del TPIJ pare oggi accettata da parte della grande maggioranza degli Stati, anche se permangono resistenze e contestazioni.

Secondo la medesima sentenza di cui sopra, d'altro canto, nessun principio di diritto internazionale impone che il giudice internazionale sia precostituito per legge: ciò che conta è che esso sia istituito da un organo competente e in conformità delle procedure giuridiche applicabili e che osservi i dettami dell'equo processo. Tale radicamento nella rule of law, sempre secondo la Camera d'appello, è comprovato dallo Statuto e dal Regolamento di procedura del Tribunale per la ex Jugoslavia.

Nonostante le difficoltà ben note nel condurre in giudizio i maggiori responsabili della tragedia jugoslava, il TPIJ ha ormai al suo attivo numerosi processi e varie condanne, anche nei confronti di taluni personaggi di primo piano, grazie in parte ai compiti di polizia espletati dalle forze NATO in talune aree della ex Jugoslavia. La sua giurisprudenza sta dando, d'altra parte, un contributo importante allo sviluppo del diritto internazionale, non solo penale. Sicuramente deficitaria rimane la cooperazione degli Stati, soprattutto di quelli più direttamente interessati, per quanto ultimamente si siano fatti dei progressi anche da questo punto di vista.

Il Tribunale per il Ruanda

Molte delle osservazioni fatte con riferimento al TPIJ possono estendersi al Tribunale penale internazionale per il perseguimento delle persone responsabili di genocidio e di altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse sul territorio del Ruanda e dei cittadini del Ruanda responsabili di tali violazioni nel territorio degli Stati vicini (brevemente, Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, TPIR), istituito con risoluzione 955 dell'8 novembre 1994 del Consiglio di Sicurezza. Anche in questo caso il Tribunale fu istituito quale risposta a una situazione di emergenza.La giurisdizione del TPIR presenta peraltro differenze di rilievo rispetto a quella del TPIJ, non solo con riguardo ai territori interessati: quanto ai crimini coperti, si tratta, oltreché delle gravi violazioni del diritto umanitario in situazioni di conflitto armato non internazionale, di genocidio e di crimini contro l'umanità, commessi a prescindere dall'esistenza di una qualunque situazione di guerra; ratione personarum, il Tribunale è competente in relazione a qualunque individuo si sia macchiato dei suddetti crimini in Ruanda, ma solo in relazione ai cittadini ruandesi per i crimini commessi nei paesi vicini; ratione temporis, la giurisdizione riguarda un periodo predeterminato fin da principio: dal 1° gennaio al 31 dicembre 1994.

Il TPIR, che ha sede ad Arusha, in Tanzania, si suddivide in tre camere di prima istanza di tre giudici, mentre le funzioni di Camera d'appello sono svolte dalla Camera d'appello del TPIJ. Anche il Procuratore è condiviso con quest'ultimo Tribunale. Le norme dello Statuto (annesso alla risoluzione 955) che presiedono all'elezione dei giudici di prima istanza, così come i principî di base attinenti allo svolgimento del processo, ai rapporti con le giurisdizioni nazionali e agli obblighi di cooperazione degli Stati sono modellati su quelli del TPIJ.Anche la giurisprudenza del Tribunale per il Ruanda, ormai abbastanza nutrita, ha fornito contributi importanti, quali la ricostruzione del crimine internazionale di genocidio operata dalla sentenza di prima istanza del 2 settembre 1998 nel caso Akayesu.

Il progetto di Corte Penale Internazionale

Dopo anni di lavori, nel 1994 la Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite, organo sussidiario dell'Assemblea generale composto di esperti indipendenti, approvava un progetto di statuto per una corte penale internazionale. L'Assemblea generale, ritenendo che il testo dovesse essere rivisto da rappresentanti dei governi, lo sottoponeva a un Comitato ad hoc e poi a un Comitato preparatorio della Conferenza diplomatica convocata a Roma nell'estate 1998 per l'approvazione definitiva. Il 17 luglio 1998 è dunque stato adottato a Roma e aperto alla firma degli Stati lo Statuto della Corte Penale Internazionale (CPI), frutto di difficili compromessi che, peraltro, non sono riusciti a coagulare i consensi di tutti i paesi: ferma è stata e permane, in particolare, l'opposizione degli Stati Uniti.La giurisdizione della Corte si estenderà, ratione personarum, soltanto ai crimini compiuti sul territorio o da cittadini degli Stati parte dello Statuto o che comunque dichiarino di accettarla. Questo limite, peraltro, non riguarda le situazioni che potranno essere deferite alla CPI dal Consiglio di Sicurezza.

Sotto il profilo materiale, la Corte avrà competenza in relazione ai crimini di genocidio, ai crimini contro l'umanità, ai crimini di guerra e al crimine di aggressione, ma solo dopo che gli Stati parte si siano accordati per una sua definizione, non prima di qualche anno dalla entrata in vigore dello Statuto. Quest'ultimo fornisce, invece, una definizione dettagliata delle altre categorie di crimini; ulteriori precisazioni apportano gli Elementi dei crimini che, insieme con il Regolamento di procedura sono stati ora approvati dal Comitato preparatorio al fine di essere adottati dall'Assemblea degli Stati parte. L'insieme di questi testi già costituisce un corpus di diritto e di procedura penale internazionale di grande rilevanza.Il ruolo della CPI non sarà in alcun modo sostitutivo, ma complementare rispetto a quello dei giudici interni: la Corte potrà infatti intervenire soltanto ove questi ultimi non vogliano o non siano in grado di iniziare e portare a termine un processo in modo indipendente e imparziale. Sull'esistenza di tali condizioni è la Corte stessa che decide.

La CPI, che avrà sede all'Aja, sarà composta di 18 giudici, eletti dall'Assemblea degli Stati parte per un mandato di nove anni non rinnovabile, i quali opereranno in camere dei giudizi preliminari di uno o tre membri, in camere di primo grado di tre membri e in una Camera d'appello di cinque membri.Le indagini saranno condotte dall'Ufficio del Procuratore, cui afferiranno un Procuratore capo e uno o più vice procuratori indipendenti eletti, anch'essi, dall'Assemblea degli Stati parte. L'esercizio dell'azione penale è discrezionale; questa peraltro deve essere sospesa, per un periodo di dodici mesi, su richiesta del Consiglio di Sicurezza con risoluzione adottata sulla base del capitolo VII della Carta: l'interferenza di un organo politico è grave, ma improbabile se si considera che una richiesta di sospensione dovrebbe posare sul consenso dei cinque membri permanenti.Anche lo svolgimento del processo davanti alla CPI sarà reso possibile dalla cooperazione, in particolare nell'arresto e nella consegna dell'indagato, cui tutti gli Stati parte sono tenuti. L'esecuzione della sentenza di condanna a una pena detentiva potrà invece avvenire nelle strutture carcerarie degli Stati che prestino la loro disponibilità in tal senso.

Lo Statuto di Roma entrerà in vigore nel momento in cui sarà depositata presso il Segretario generale delle Nazioni Unite la sessantesima ratifica. Ammesso che tale obiettivo venga raggiunto, il che oggi pare probabile, anche se non nell'immediato, soltanto una accettazione tendenzialmente universale di questo strumento potrà attribuire alla Corte un ruolo realmente incisivo affinché i più gravi crimini individuali non restino impuniti. Ciò in quanto la CPI nasce per via di un accordo tra Stati e non di una decisione vincolante del Consiglio di Sicurezza e nel consenso degli Stati, come si è visto, trova i suoi limiti più evidenti. Qualunque valutazione dello strumento posto in essere a Roma, in attesa degli elementi che soltanto la sua applicazione potrà offrire, non può, d'altro canto, non tenere conto dell'inevitabile natura sussidiaria di ogni giurisdizione penale internazionale a fronte del ruolo ineludibile degli apparati giudiziari interni.

Considerazioni conclusive

L'esame delle varie giurisdizioni internazionali, pur così diverse nelle loro funzioni, dà adito a talune osservazioni di carattere generale. In linea di massima (ma il discorso non vale per quanto riguarda, ad esempio, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee) l'incidenza di tali corti nella vita delle relazioni internazionali tra Stati, ma anche tra Stati e individui e tra individui, pare modesta. Alcune controversie, alcune violazioni dei diritti individuali vi trovano soluzione; taluni gravi crimini sono sottoposti al vaglio del giudice internazionale. La maggior parte delle controversie, delle violazioni e dei crimini rimane al di fuori della sua portata, affidato, nel migliore dei casi, ad altri metodi di soluzione, ad altri procedimenti, interni o internazionali.L'esecuzione delle sentenze delle corti internazionali, che nel complesso può dirsi soddisfacente, si affida in buona parte agli strumenti del diritto interno, mentre a poco valgono le competenze di controllo affidate a organi politici, i quali per definizione obbediscono a motivazioni differenti, tanto più là dove, come avviene nel CdS, non trova applicazione il principio nemo iudex in re sua. La sovranità degli Stati, che pure cede sempre più il passo per quanto riguarda l'esercizio di competenze normative e giurisdizionali, conserva ancora normalmente il monopolio della coercizione.Ma in una società priva, quale quella internazionale, di legislatore, ove la produzione normativa rimane affidata al particolarismo degli accordi e all'incerto coagularsi della consuetudine, fondamentale è, soprattutto, la funzione dei giudici internazionali nella interpretazione delle norme pattizie e nella rilevazione di quelle consuetudinarie. La giurisprudenza internazionale non è solo una guida indispensabile per gli studiosi che vogliano ricostruire il diritto internazionale vigente, ma è parametro essenziale anche per gli Stati, venendo a incidere in modo evidente sulla prassi, sugli accordi successivi, sulla evoluzione del diritto. È parametro, a volte, per gli ordinamenti interni che, soprattutto in certi ambiti regionali e settoriali, si vanno conformando alle linee direttrici che promanano dalle pronunce internazionali.

Tra le tendenze che emergono attualmente nel panorama delle corti internazionali, va rimarcata quella in direzione di sempre più ampie possibilità di accesso per i soggetti degli ordinamenti interni e in particolare per gli individui: i quali, anzi, non solo possono agire per la tutela dei loro diritti, ma vengono chiamati a rispondere davanti al giudice internazionale per taluni comportamenti di estrema gravità. Parallela a questa è, entro certi limiti, la tendenza all'istituzione di meccanismi vari di doppio grado di giudizio, che proprio in relazione alle cause coinvolgenti gli individui (ma vi sono importanti eccezioni: si veda il caso dell'OMC) trova una consacrazione sempre più estesa.Rimane, infine, il dato di fondo del moltiplicarsi delle corti internazionali. In sé il fenomeno non ha nulla di negativo, poiché costituisce la risposta a esigenze concrete di accertamento giurisdizionale in settori sempre più vari delle relazioni internazionali tra Stati e tra privati. Si aggiunga che di solito le singole corti hanno competenze definite che non sono suscettibili di sovrapporsi a quelle di altre corti. Vi sono però delle eccezioni: taluni problemi di conflitto di giurisdizione potrebbero ad esempio porsi tra la Corte Internazionale di giustizia ed il Tribunale Internazionale per il Diritto del Mare. In tutt'altro ambito, conflitti potrebbero sorgere tra la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e la Corte di Giustizia delle Comunità Europee.D'altra parte, anche ove la giurisdizione sia chiaramente ripartita, i giudici si trovano frequentemente ad applicare lo stesso diritto: le medesime norme internazionali possono così essere rilevate o interpretate dalla CIG, dalla CEDU o dal Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia. È chiaro che ciò comporta il rischio di interpretazioni divergenti: il che già si è verificato in talune occasioni. Dal momento che l'ordinamento internazionale non prevede una gerarchia tra le varie giurisdizioni esistenti, né tale soluzione sembra ipotizzabile nel futuro prossimo, l'unico rimedio possibile pare dato dalla disponibilità che le diverse corti dimostreranno nel prestarsi a quella cross-fertilization, cioè a quel formarsi di linee giurisprudenziali condivise, cui solo un'ampia circolazione delle sentenze può portare. Una evoluzione di questo tipo potrà essere sicuramente favorita dalla provenienza di gran parte dei giudici da una medesima élite di esperti del diritto internazionale.Il primato della Corte Internazionale di Giustizia, che certamente contribuisce a mantenere l'unità e la coerenza dell'ordinamento internazionale, è oggi più minacciato di un tempo: il suo permanere dipenderà in buona misura dalla Corte stessa, che solo mantenendo alto il suo prestigio con la qualità delle sue decisioni potrà servire da punto di riferimento per l'insieme delle corti internazionali presenti e future. (V. anche Arbitrato; Comunità europea; Diritti dell'uomo; Mare: diritto; Processo; Trattati internazionali).

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