Coro

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Architettura

Nelle chiese occidentali, lo spazio destinato ai cantori e al clero durante le funzioni liturgiche; ne è parte integrante l’insieme dei sedili, in origine semplici banchi di marmo, in seguito stalli lignei formanti una struttura a volte molto grandiosa, che pure si designa col termine coro.

Nell’alto Medioevo il c. si può identificare con la schola cantorum, recinto marmoreo posto dinanzi all’altare che si protendeva entro la navata centrale; dal periodo carolingio gli stalli del c. vennero posti lungo le pareti del presbiterio, poi dietro l’altare a occupare la parte terminale della chiesa in una campata prima dell’abside, cui per estensione si dà anche il nome di coro. Soluzioni particolari ebbe il c. di chiese di alcuni ordini religiosi femminili: fu collocato in ambienti annessi alla chiesa e con questa comunicanti solo attraverso vani chiusi da fitte grate, o in loggiati ricavati, entro la chiesa stessa, a un livello più alto. A seconda delle necessità climatiche o della regola delle varie istituzioni, si ebbero talora nella stessa chiesa più c., come il c. d’inverno, il c. di notte, che può consistere in sale appositamente sistemate, ma indipendenti dall’organismo architettonico della chiesa.

Fra i c. più celebri ricordiamo, in Italia, quelli del duomo d’Orvieto (14° sec.), del duomo di Siena (1363-97), di S. Francesco ad Assisi (15° sec.), dell’abbazia di Staffarda (Torino, Museo Civico), della certosa di Pavia (16° sec.), di S. Giorgio Maggiore a Venezia (16° sec.), quello di S. Pietro a Perugia. Notevoli le tarsie rinascimentali dei c. (duomo di Parma, opera dei Lendinara). Oltralpe, di grande rilievo sono gli stalli del c. dell’abbazia di Westminster a Londra (13° sec.), della cattedrale di Winchester (14° sec.), del duomo di Colonia (inizio 14° sec.), del duomo di Ulma (15° sec.), del duomo di Siviglia (15° sec.), della cattedrale di Amiens (16° sec.).

Letteratura

Danza unita al canto, l’insieme delle persone che l’eseguivano e la parte stessa del dramma destinata a essere cantata dal coro.

In Omero, c. è il luogo della danza, poi il gruppo dei danzatori in canto e la loro danza, di solito in onore di qualche dio. Il c. greco più antico fu detto c. ciclico perché i coreuti si disponevano in tondo intorno all’altare del dio; era di origine cretese e popolare e fu innalzato a forma d’arte e diffuso da Taleta (verso la metà del 7° sec. a.C.) e da Alcmane, il più antico poeta di lirica corale greca. Ma ‘inventore’ del c. ciclico per il ditirambo in onore di Dioniso fu considerato dalla tradizione Arione, poeta e musico di Metimna (fine del 7° sec. a.C.) che istruì a Corinto un c. ditirambico, travestendo i coreuti da satiri; dal ditirambo di Arione sarebbe poi nata la tragedia attica. La massa corale usata nel ditirambo poteva raggiungere il numero di 50 coreuti. Il c. ditirambico, in origine monostrofico, fu diviso da Stesicoro (7°-6° sec. a.C.) in triadi strofiche, ciascuna delle quali costituita da due parti metricamente uguali (strofe e antistrofe), seguite da una parte disuguale (epodo). Tale divisione rimase nella lirica corale successiva e nei cori drammatici. Il c. tragico fu costituito in Eschilo da 12 coreuti, da 15 in Sofocle; invece il c. comico giunse in Aristofane a 24 coreuti; questi erano guidati da un corifeo assistito da due parastati, ognuno dei quali a capo di un semicoro.

Il c. drammatico era istruito, per conto del corego (➔ coregia), dal corodidascalo che dirigeva tutta la recitazione e il canto della rappresentazione stessa; talvolta corrispondeva allo stesso autore del dramma. I coreuti, sempre uomini, portavano maschera e travestimento secondo il personaggio o la figura che rappresentavano. Il c. della tragedia entrava nell’orchestra da due entrate laterali ai lati della scena, le pàrodoi, dopo il prologo e si disponeva nell’orchestra intorno alla thymèle, l’altare eretto al centro, e pàrodos era detto il canto di entrata, in ritmi anapestici. Poi il c. rimaneva nell’orchestra intervallando con canti, stasimi, gli episodi recitati sulla scena. Si ebbero talvolta canti commatici, cioè dialoghi fra uno o più attori sulla scena e il c. nell’orchestra. Il c. era l’ultimo a uscire alla fine della tragedia, dopo l’esodo. Nella commedia invece ebbe particolare importanza la parabasi. L’accompagnamento musicale nella tragedia si faceva di solito con la lira, nella commedia col doppio flauto. La danza era mimica e fortemente espressiva, ma la musica e la danza del c. sono per noi perdute. La lingua dei canti corali ha una leggera patina dorica. Il c. ebbe, specialmente nelle tragedie più antiche, funzioni di personaggio collettivo. Solo con Euripide il legame del c. con l’azione si allenta; le parti corali si fanno meno ampie mentre crescono le parti liriche affidate agli attori; anche nella commedia, dopo Aristofane, il c. comincia a perdere d’importanza; nella commedia di mezzo manca la parabasi e il c. è ridotto a intermezzo di canti e danze.

Presso i Romani il c., tratto sulla scena, comparve solo negli intervalli dell’azione; solo esempio di intermezzo corale è il c. dei pescatori, in settenari giambici, del Rudens.

Musica

Unione di più cantori che eseguono simultaneamente uno stesso brano musicale. Il c. può essere impiegato nella musica sacra, profana, operistica e sinfonica. È composto da sezioni (voci o parti), e si caratterizza a seconda dei vari registri della voce umana presenti (voci maschili, femminili e di ragazzi, o bianche). Il c. è a voci pari quando comprende solo uno di questi tre settori della voce umana, è a voci dispari (o misto), quando ne comprende due contemporaneamente. In relazione alla condotta delle voci, il c. si dice omofonico, quando tutte le voci cantano all’unisono o all’ottava la stessa linea melodica (come nel canto gregoriano); omoritmico, se i valori di durata delle singole voci sono i medesimi (come nella frottola e nel corale); polifonico, invece, quando la composizione musicale contempla per ciascuna voce una diversa parte, con linea melodica e durate diversificate; eterofonico, praticato soprattutto nella musica popolare e antica, allorché le singole voci, pur eseguendo la stessa linea melodica, introducono variazioni o addirittura diverse intonazioni.

Nella storia della musica, la pratica corale è stata legata a occasioni religiose, celebrative o spettacolari (per es., nell’antica Grecia l’esecuzione di canti per occasioni diverse come treni, epitalami, scoli, peana). Nella liturgia del mondo ebraico era usata per l’esecuzione dei salmi e dei canti della Bibbia. Nel canto cristiano, oltre alla pratica responsoriale, se il c. si contrapponeva e alternava al canto solistico, e a quella antifonale, quando l’insieme del c. era diviso in gruppi che si avvicendavano nel canto, si aveva una specifica pratica innodica, allorché un gruppo di cantori eseguiva un inno. Nel Rinascimento, con G. Pierluigi da Palestrina, fu tenuto in gran conto il c. a cappella, composto di sole voci; poi si sviluppò anche il c. concertante, accompagnato da strumenti. La particolare concezione architettonica e la dislocazione delle cantorie nella basilica di S. Marco, a Venezia, nel 16° sec., all’epoca di Andrea e Giovanni Gabrieli e del fiammingo A. Willaert, introdusse l’uso di c. battenti o spezzati, ovvero dialoganti tra loro. Nell’Ottocento il c. fu usato in composizioni sinfoniche e nel teatro d’Opera.

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