Consenso

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2006)

Consenso

Michele Colasanto

La nozione di c. (lat. consensus, "conformità dei voleri") ha avuto nelle scienze sociali un rilievo particolare rispetto alla politica, venendo utilizzata soprattutto per definire l'accordo dei componenti di un determinato sistema sociale sulle regole che presiedono al funzionamento delle istituzioni che lo governano. Benché il c. entri in gioco anche rispetto a obiettivi specifici che caratterizzano le politiche (di natura economica, assistenziale, ambientale ecc.), la letteratura si è focalizzata soprattutto sulle modalità e il grado di c. che riguardano l'esercizio del potere, il contenimento della violenza nei rapporti sociali, la legittimazione dell'autorità, insistendo particolarmente sui dispositivi politici e istituzionali finalizzati al sostegno dei diversi regimi, in primo luogo quelli democratici, e dando risalto all'opinione pubblica, ai modi con cui si determina, all'influenza dei mezzi di comunicazione di massa.

Già A. de Tocqueville aveva sottolineato l'importanza del c. per analizzare l'avvento della prima grande repubblica democratica, gli Stati Uniti, sulla base della transazione tra propensione associativa del tessuto sociale e istituzioni democratiche: è la disposizione del popolo americano a costituire strutture associative di ogni tipo che spiega il carattere della democrazia nordamericana. In questa transazione, e nei processi che la sostengono, sono fondamentali l'adesione a valori comuni e la condivisione di norme e credenze, ossia gli elementi che più in generale vengono indicati come specifici del c. stesso assunto come principio costitutivo dell'ordine sociale. La nozione di c. è presente alle origini stesse della scienza sociologica: è A. Comte che la riprende e la propone come fattore di equilibrio e coesione di un dato sistema sociale rispetto allo stadio evolutivo da esso raggiunto. Con É. Durkheim si dispiega con evidenza il rapporto tra c. come omogeneità culturale, ossia accordo su argomenti normativi e cognitivi, e la concezione della società. Quest'ultima, in Durkheim, è ascrivibile, sotto il profilo epistemologico, alle impostazioni di tipo olistico, implicando un primato della società sull'individuo: la società è una "realtà specifica" con propri caratteri che impone agli individui le proprie forme e le proprie leggi, educandoli e orientandoli in modo funzionale e cooperativo insieme all'ordine sociale. Il c. interviene così rispetto al fatto che, nei sistemi sociali caratterizzati da "solidarietà organica" (contrapposta a quella "meccanica"), altamente differenziati sotto il profilo dei ruoli svolti, specialmente attraverso la divisione del lavoro, i presupposti strutturali non sono sufficienti per il loro funzionamento. È necessaria una giustificazione in termini di apprezzamento sociale, ossia di riconoscimento del merito legato alle funzioni esercitate: a una data "densità materiale" deve poter corrispondere un'adeguata "densità morale". In caso contrario si corre infatti il rischio di una percezione di ingiustizia che può minare la coesione sociale e spingere a stati di anomia.

Nella prospettiva olistica rientrano anche gli approcci di tipo funzionalistico, dove il c., più che essere indotto dalla struttura sociale, si fa risorsa per un sistema sociale concepito come omeostasi, ossia come stabilità e armonia sociale in cui sono essenziali le funzioni di risposta o reazione e di adattamento rispetto a tutto ciò che può costituire turbamento e scompenso. Per tutti è indicativo l'approccio di T. Parsons, nel cui pensiero il problema del c. va letto in rapporto alle funzioni di adattamento, conseguimento dello scopo, integrazione e latenza, che consentono al sistema sociale di salvaguardare il proprio equilibrio. In particolare, la latenza è destinata a riprodurre i valori, i simboli, le idee proprie di un determinato sistema e a controllare le tensioni che possono sorgere nei singoli attori. In questo modo la stabilità dei rapporti e la coesione sociale sono assicurate dall'insieme dei modelli di comportamento (regole e norme) che, una volta istituzionalizzati a livello sociale, vengono interiorizzati dagli attori tramite il processo di socializzazione. Tali processi di istituzionalizzazione e interiorizzazione sono alla base dell'integrazione degli individui e fondano la possibilità di regolare le aspettative reciproche in una situazione di doppia contingenza, ossia in una situazione nella quale ciascun attore, mentre si aspetta che l'altro si comporti in un certo modo, deve tener conto anche delle aspettative che l'altro nutre nei suoi confronti. Un aspetto peculiare del c. nelle rappresentazioni delle società di tipo olistico è la sua declinazione in termini di conformità sociale, che può degradarsi in conformismo.

Altri approcci, in verità, hanno contribuito a questa deriva concettuale che ha reinterpretato il c. pressoché esclusivamente come patrimonio del sistema sociale. Indicativi in tal senso sono la concezione della società come comunità, che presuppone un'appartenenza identitaria; l'ipotesi di equilibrio e bilanciamento tra i diversi elementi di natura cognitiva e non; i tratti culturali che caratterizzano i comportamenti e gli atteggiamenti in grado di assicurare continuità alla vita. Ma questo accento posto sulla conformità sociale è correlato con una scarsità di studi empirici, laddove sono invece ben più numerose le riflessioni di ordine astratto (Gallino 2004). Per altra parte spiega il convergere della ricerca sulle modalità con cui si realizza il c., modalità che sono state definite naturali quando sono riferite allo sviluppo per via endogena di processi culturali fondati su di una tradizione comune. Esse sono invece classificate come artificiali quando riguardano le istituzioni che presiedono alla socializzazione (a partire dalla famiglia e dalla scuola), e quindi all'induzione di determinati comportamenti di ruolo; quando concernono i mezzi di comunicazione di massa, specialmente in occasione di fenomeni di indottrinamento a sostegno di leadership carismatiche o totalitarie; oppure quando si riferiscono a fenomeni di mobilitazione verso mete collettive o contro un nemico esterno. Questa attenzione per la riproduzione del c., più che per il c. in sé, spiega anche la direzione presa dalle posizioni critiche relative alla sua traduzione in termini di conformità; esemplari, sotto questo punto di vista, sono i rilievi della Scuola di Francoforte relativamente alla famiglia come agente di attitudini orientate a rafforzare il comportamento autoritario su cui si fonda l'ordinamento borghese.

Altri approcci, in primo luogo quelli di carattere individualistico, in opposizione a quelli olistici, hanno problematizzato il c. alla luce di un rapporto tra individui e società in cui sono i primi a produrre la società stessa, secondo la lezione di M. Weber, per il quale l'agire sociale non è identificato né in un agire uniforme di più individui, né in un agire qualsiasi influenzato dall'atteggiamento di altri, ma è piuttosto un agire orientato a uno scopo o a un valore (Cesareo 1993). È tra gli altri l'individualismo metodologico di R. Boudon (1979) che affronta in modo incisivo il problema e propone una distinzione tra c. come assimilazione e c. come composizione. Il primo è certamente legato alle inferenze delle relazioni sociali in cui gli individui vivono, ma non può essere interpretato esclusivamente alla luce del "realismo totalitario" che accomuna strutturalismo e funzionalismo e che concepisce il rapporto tra individuo e società in termini di immanenza. C'è un margine di autonomia dei soggetti, e comunque il c. può essere frutto di una costruzione sociale se si fa strumento di legame sociale attraverso accordi, azioni messe in atto secondo uno scopo e che possono conseguire effetti consensuali, di composizione, anche come risultato non intenzionalmente perseguito. Ma come si determinano i processi di ricomposizione? Boudon si rifà ai meccanismi della diserzione oppure di espulsione e protesta. Il c. si ricompone, con effetti non univoci nel gruppo sociale di riferimento, o per defezione, ossia con l'uscita di coloro che dissentono, oppure per pressione attraverso interventi autoritari. Ma è possibile anche che la ricomposizione avvenga per riconoscimento delle differenze. Sarebbe questo in particolare l'esito di una convivenza interetnica, specialmente quella indotta da fenomeni migratori, né conflittuale, né esclusiva da parte delle minoranze immigrate.

Tra olismo e individualismo, varie teorizzazioni si sono poste il problema di un superamento delle antinomie tra individuo e società, ridefinendo in tal modo il c. e il suo ruolo rispetto all'ordine sociale. Al fondo sta il rapporto tra soggetti, individuali ma anche collettivi, e un sistema che non si identifica in un determinato equilibrio, ma è costituzionalmente orientato al mutamento sociale. È interessante in questa prospettiva il recupero di una concezione non antagonistica ma integrativa del conflitto, che consente di mettere in gioco, anche a proposito del c., il tema degli interessi. Le dinamiche conflittuali sono quelle che generano mutamento sociale, ma poiché il c. è uno dei tratti più rilevanti di ogni società, il divenire di quest'ultima si presenta anche come un insieme di processi di sintesi orientati alla convergenza.

È questo, per inciso, il modo in cui sembra essersi realizzato quel compromesso tra capitale e democrazia che, attraverso l'agire dei grandi attori sociali, ossia le imprese, le organizzazioni dei lavoratori, lo Stato e le sue istituzioni, ha prodotto modelli sociali fondati su libertà e insieme coesione. Egualmente interessanti sono gli approcci che si propongono di trovare le intersezioni tra soggetti sociali e sistemi in grado di trasformare in c. ogni tensione di ruolo che gli individui generalmente vivono a motivo della loro pluricollocazione sociale. Si tratta di approcci che si applicano forse più facilmente al livello di sottosistema e non a caso l'organizzazione di impresa è da qualche tempo fatta oggetto di analisi che valorizzano, fino a negare implicitamente il conflitto di interessi (specialmente tra management e lavoratori), la costruzione del c. interno attraverso l'interiorizzazione di mete comuni e a partire dalle opzioni valoriali e culturali dei suoi membri, le loro aspirazioni di status, i rispettivi consolidati cognitivi e simbolici. In termini generali, il carattere dinamico che acquista il c. in tutte queste interpretazioni impedisce di arrivare a formulazioni definitive. È da ipotizzare piuttosto un continuum tra sistema e individui, in cui si passa dalle certezze funzionali degli olismi più strutturati al relativismo negoziale di talune soluzioni etnometodologiche, dove è la ricorrenza degli accordi sulle pratiche sociali, anche in forma tacita, che consente di vivere un ordine sociale che di per sé ha i caratteri della precarietà e della contingenza.

Non mancano reazioni a queste prospettive. Il neocomunitarismo è un esempio tra i più significativi di quelle tesi che ripropongono la necessità di un insieme di vincoli sociali, o intreccio di rapporti sociali condivisi, a garanzia del difficile tentativo di mediare tra la valorizzazione delle libertà personali, politiche ed economiche, e il mantenimento dell'ordine sociale attraverso la difesa del legame sociale e della solidarietà.

In merito al tema del c., è stato osservato (Ardigò 1980) che esso è "subito in causa", in quanto si stabilisce tra soggettività dei "mondi vitali" e sistema sociale, secondo un rapporto di conformità che può derivare direttamente da tali mondi, oppure poggiare su coazioni esterne. Con un linguaggio diverso, si potrebbe dire che, se esiste una società civile e operante nel significato sturziano (ossia capace di autoorganizzazione) - cui possono essere ascritti nelle loro varietà i mondi vitali stessi quali espressioni di relazioni intersoggettive - allora è possibile che si definisca un c. verso l'insieme di norme e valori che danno stabilità e certezza al sistema sociale e alle sue istituzioni: come dire che, se si è in grado di vivere la vita di relazione quotidiana sviluppando una propria identità personale, si è anche in grado di trasferire questo senso vitale alle istituzioni e ai legami sociali che tengono insieme tutti i membri di un determinato contesto.

Il problema della postmodernità è che questo tipo di c. è in discussione per la caduta delle traiettorie portanti della società industriale e dei suoi contesti economici, istituzionali e culturali, nazionali e internazionali, anche per l'indebolimento dei mondi vitali che più alimentano la capacità di produrre senso della vita. J. Habermas (1981) aveva per certi versi preconizzato questo indebolimento come colonizzazione dei mondi vitali stessi da parte dei meccanismi sistemici. La reificazione di derivazione marxista, che rende i prodotti del lavoro autonomi rispetto ai soggetti, nonché la riduzione degli individui a valore di scambio hanno come effetto l'intrusione delle condizioni e degli imperativi sistemici propri della riproduzione materiale nelle strutture di mondo vitale. E questo non può non comportare problemi verso la possibilità di concepire un c. autentico, legato a un agire comunicativo come interazione di soggetti che cercano una comune interpretazione delle situazioni in cui vengono a trovarsi.

La riflessione postmoderna sembra porre su di un altro piano di analisi la transazione tra mondi vitali e società; questa transazione è in difficoltà perché è la società stessa che viene meno, si fa 'liquida' e sfuggente, in questione è la stessa natura umana della relazione sociale. La dominanza del rischio determina una inedita comunanza tra i minacciati, che produce aggregazioni sempre parziali e una perdita di significato dell'appartenenza a causa dei processi di individualizzazione; alle contraddizioni sistemiche si fa fronte infatti con la ricerca di soluzioni biografiche. A incertezza e insicurezza, ormai costitutive del sistema sociale, si cerca di reagire per il tramite di comunità artificiali incentrate sulla ricerca di identità e protezione. Il derivato sociale di questa morfogenesi della società è la natura transitoria dei suoi legami sociali, una loro accentuata fragilità e una durata limitata, una predisposizione al c. passivo, proprio di spettatori in condizioni di dipendenza dal gioco comunicativo. A queste condizioni il tentativo di proporre il tema del c. finisce con ripartire dall'interrogativo sul fondamento della relazione sociale, identificata nel riconoscimento del "volto dell'altro" e nella capacità di ritrovarsi in un destino comune cui restituire il carattere dell'umanità (Bauman 1999). In altre parole, la relazione sociale si definisce tale se assume un carattere valoriale presociale. Non a caso, il tema del c. sembra riproporsi in chiave più ottimista per il tramite di un'altra categoria interpretativa: il rispetto (Sennett 2003). Rispetto che è anch'esso una forma di riconoscimento, ma con un'accentuata sottolineatura del rapporto di reciprocità che esso implica e di un'armonia che, al di là delle disuguaglianze, dà ragione delle differenze e le valorizza. E infatti la metafora del rispetto è l'orchestra che fonda il successo delle sue performance il senso stesso del suo esistere, nella capacità di adottare l'interdipendenza come criterio di comportamento e il c. come principio volontaristicamente ricercato di un 'ordine sinfonico' all'interno di un contesto di diversi, non di disuguali.

bibliografia

R. Boudon, La logique du social, Paris 1979 (trad. it. Milano 1980).

A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, Bologna 1980.

J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a. M. 1981 (trad. it. Bologna 1986).

V. Cesareo, Sociologia. Teorie e problemi, Milano 1993.

Z. Bauman, La società dell'incertezza, Bologna 1999.

R. Sennett, Respect in a world of inequality, New York 2003 (trad. it. Bologna 2004).

L. Gallino, Dizionario di sociologia, Torino 2004.

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