COMMERCIO

Enciclopedia Italiana (1931)

COMMERCIO (dal lat. commercium; fr. commerce; sp. comercio; ted. Handel; ingl. trade)

Renato BIASUTTI
Angelo SEGRE
Gino LUZZATTO
Roberto MICHELS
Ugo LA MALFA
Giovanni DEMARIA
Giovanni CORSO
*
Albino UGGE’

Attività economica diretta a trasferire i beni dal produttore al consumatore o da un produttore all'altro. Si esplica generalmente con atti di compravendita e con trasporto dei beni nel tempo e nello spazio.

Il commercio si suole distinguere in: commercio internazionale, quando il trasferimento dei beni ha luogo fra stato e stato o anche fra territorio metropolitano e territorio coloniale, e commercio interno, quando il trasferimento ha luogo entro i confini di uno stesso stato. Per uno stato, il commercio internazionale può essere di importazione, se quello stato riceve i beni da un altro, di esportazione se li destina invece ad altro stato, di transito se i beni provenienti da uno stato e diretti ad altro attraversano soltanto il suo territorio.

Il commercio si suole distinguere anche in: commercio all'ingrosso, se il trasferimento ha luogo per grandi masse di beni e non dal produttore al consumatore, ma dal produttore ad altro commerciante che esplica attività economica più limitata; commercio al minuto, se il trasferimento ha luogo per piccole quantità che vanno direttamente al consumatore. Altre distinzioni, come fra commercio in conto e nome proprio, di rappresentanza, commissione ecc., riguardano più specialmente l'aspetto giuridico dell'intermediazione commerciale. Sul commercio a termine v. p. 966 segg.

Storia del commercio.

Il commercio dei primitivi. - La pratica del commercio non è presentemente ignota ad alcun gruppo umano, per quanto primitivo esso sia. Ma è logico pensare che l'umanità abbia attraversato una fase in cui tale pratica mancava del tutto, e di questa fase precommerciale qualche traccia ancora rimane presso alcune popolazioni, mentre in altre si trovano concezioni e usanze profondamente diverse da quelle che regolano il commercio dei popoli civili, e in tali usanze noi possiamo tentare di riconoscere quali siano state le sue fome primitive, se non addirittura le sue origini.

Lo stimolo allo scambio dei prodotti della caccia, della pesca e della raccolta, fra gruppi insediati in territorî vicini, dové sorgere precocemente quando le condizioni ambientali dei due territorî erano diverse e anche quando, pur essendo simili tali condizioni, differiva la cultura e la capacità inventiva dei gruppi. Molto precoce dovette essere pure la ricerca di taluni particolari prodotti che non si trovano ovunque: certe terre coloranti, talune speciali varietà di roccia, il sale e certi narcotici. Ma a questi stimoli contrastavano molte difficoltà; ogni gruppo umano primitivo vive di regola con un'economia perfettamente chiusa e isolata, utilizzando un territorio dal quale non può uscire senza conflitto con i gruppi circostanti, in un regime rigorosamente comunistico; lo scambio di oggetti o di prodotti con i gruppi limitrofi non può avvenire se non per deliberazione collettiva e collettivamente. Se consideriamo, per es., le testimonianze archeologiche delle più antiche età umane, specialmente del Paleolitico inferiore e medio, dobbiamo riconoscere che non c'è mai alcuna traccia di provenienze esterne: le materie utilizzate sono sempre quelle che potevano fornire le immediate vicinanze. Già per il Paleolitico superiore questo isolamento economico dei gruppi è meno evidente. E nell'età neolitica scorgiamo rapidamente sorgere e moltiplicarsi le prove di commerci e anche di commerci lontani. L'esistenza di un'età precommerciale sembra quindi confermata anche dalle ricerche preistoriche. Vi fu una fase intermedia fra la rapina e il baratto? Racconta il Casati che certi gruppi di Pigmei dell'Africa centrale visitano di nottetempo le piantagioni dei Negri, rubano banane e altri prodotti e se ne vanno, lasciando però come compenso pezzi di selvaggina. Seondo il Yunker, un altro gruppo di Pigmei aveva il costume di piantare una freccia in alcuni grappoli di banane, lasciando così intendere che dovevano essere loro riservate. Dei Vedda selvaggi i Sarasin hanno riferito che usano recarsi di notte davanti alle capanne dei fabbri singalesi per deporvi della selvaggina, ma si attendono di trovare in contraccambio dopo qualche tempo le punte di ferro per le loro frecce. Questi rapporti però, più che rivelarci uno stadio intermedio fra la rapina e lo scambio, ci mostrano in atto alcune forme di quello che è stato chiamato il commercio muto e che si è ritenuto, da qualche studioso, la forma più primitiva di commercio. Esso è segnalato in molti luoghi.

Ne parla Erodoto (IV, 196), riferendo come i Cartaginesi se ne valessero per gli scambî con talune tribù della Libia occidentale. E nell'Africa stessa ce lo descrive Alvise Cadamosto, trattando del traffffico del sale che avveniva alla metà del sec. XV ai limiti fra il deserto e le terre sudanesi, forse sulle rive del Senegal. I mercanti osservano, egli scrive, questo modo: "Tutti quelli di chi è il sale ne fanno monti alla fila, ciascuno segnando il suo; e dappoi fatti i detti monti, tutti della carovana tornano indietro mezza giornata; dipoi viene un'altra generazione di Negri che non si vogliono lasciar vedere né parlare; e vengono con alcune barche grandi, che pare che escano d'alcune isole; e dismontano; e veduto il sale mettonvi una quantità d'oro all'incontro d'ogni monte; e poi tornano indietro, lasciando l'oro e il sale; e partiti che sono, vengono li Negri del sale... e tornansi indietro: e dipoi vengon gli altri Negri dall'oro: e quel monte che truovano senza oro, lo levano, e agli altri monti di sale tornano a mettere più oro, se li pare, ovvero lasciano il sale. E a questo modo fanno la sua mercanzia senza vedersi l'un l'altro, né parlarsi, per una lunga e antica consuetudine" (R. Caddeo, Le navigazioni atlantiche di N. da Recco e A. da Ca' da Mosto, Milano 1928, p. 197).

Varî esempî di traffico muto sono stati poi osservati da viaggiatori moderni, ma la maggior parte di essi, come i primi sopra citati, avevano luogo fra le tribù dei cacciatori della foresta equatoriale e le genti, a cultura molto più elevata, che le circondano. Questa circostanza è sufficiente a escludere che possa trattarsi di un costume molto primitivo e, a maggior ragione, di una forma assunta inizialmente dal commercio. I Pigmei e i Pigmoidi equatoriali, come in altro ambiente i Boscimani dell'Africa australe desertica, vivono in uno stato di soggezione rispetto ai loro vicini più civili (Bantu, Singalesi, Malesi, ecc.), dai quali ottengono il ferro per le armi e i frutti delle coltivazioni, mentre cedono a essi l'avorio, i veleni e altri prodotti della foresta; ma i loro contatti sono assai radi e ostacolati da reciproco timore e da diffidenza. All'infuori tuttavia di questo particolare commercio, muto o palese, che presuppone la vicinanza di una cultura superiore, i popoli attuali più primitivi non sembrano attuare alcuna forma di scambio, non commerciano cioè fra loro. Dei cacciatori o raccoglitori di tipo inferiore forse soltanto i Fuegini e gli Andamanesi lo esercitano, nella forma elementare del baratto.

Si sono cercate pertanto in altri fatti le tracce delle forme primitive del commercio. Il Bücher e il Letourneau avevano già segnalata l'importanza che, presso i popoli di cultura inferiore, assume il dono fra gl'individui di un gruppo e fra i gruppi vicini. Più recentemente il Mauss ha sviluppato tale concetto, con una larga base di osservazioni etnografiche. Fra i primitivi non si incontra quasi mai il semplice scambio di beni attraverso un mercato fra individui. Sono, come si è detto sopra, le collettività che entrano in rapporti. Così avviene, per es., nell'Australia, non solo fra clan e fratrie, ma in certe occasioni anche fra tribù; famiglie, clan, tribù sono presenti in massa o sono rappresentate dai loro capi. Fra i gruppi convenuti si scambiano allora gli oggetti, ma anche cortesie, feste, banchetti, donne. È il sistema delle "prestazioni totali", il cui tipo più puro è l'alleanza di due fratrie australiane o nord-americane, e che si estende occasionalmente fuori del gruppo o dell'alleanza.

Il sistema degli scambî sotto forma di doni appare tanto diffuso e sviluppato nelle società primitive, da farlo realmente apparire come il mezzo con cui i primitivi appresero a incontrarsi senza distruggersi. In tale passaggio di beni da un gruppo a un altro sono strettamente osservate certe regole fondamentali che stanno in opposizione con quelle che regolano il nostro commercio. Vi è l'obbligo di dare e l'obbligo di ricevere: rifiutare l'oggetto offerto significa rifiutare la comunione e l'alleanza, equivale a una dichiarazione di guerra. Vi è poi l'obbligo della restituzione; ma non si chiede mai nulla, non si discute sul valore della cosa ricevuta, anzi si cerca sempre di dare più di quello che si è avuto, perché ne dipendono l'onore, la dignità, la considerazione dei gruppi che si scambiano i doni. E in siffatti rapporti si annunzia anche il credito, giacché in molti casi il contraccambio di doni non è fatto simultaneamente ma a distanza di tempo. Il Brown descrive, per es., l'ospitalità fra i gruppi locali degli Andamanessi, che si svolge fra visite, feste, scambî volontarî di oggetti. Malgrado l'importanza degli scambî, siccome ogni gruppo basta a sé stesso, i doni non hanno lo scopo dei comuni scambî commerciali, Lo scopo è soprattutto morale, tende a stabilire un sentimento reciproco di amicizia. Né la cosa donata è apprezzata unicamente per la sua utilità: essa ha in sé qualche cosa del donatore e dell'anima di questo, ha un valore mistico e magico e non soltanto economico.

Delle tribù del basso Mississippi scrive il Brackenridge: "Il loro modo di commercio è affatto primitivo. Non vi è alcuna discussione sul prezzo delle cose. Una tribù arriva ad un villaggio, pianta il campo nei pressi e, dopo lo scambio di un'infinità di convenevoli, consegna in forma di dono tutto ciò che ha portato. L'altra parte contraccambia in seguito con un dono analogo e la trattazione è chiusa fra giuochi, gare e danze. Il commercio alla maniera dei Bianchi sembra ad essi spregevole e indicare bassezza di spirito". E C. von den Steinen degl'Indiani dello Xingú, nell'Amazzonia, dice espressamente: "Il commercio è ancora uno scambio di doni fra ospiti. I nostri usi commerciali riuscivano del tutto nuovi ad essi, e sebbene li apprendessero rapidamente, la cosa non si svolgeva senza inconvenienti".

Lo scambio disinteressato di doni ha certamente precorso il baratto mercanteggiato. Ma è sopravvissuto al diffondersi di questo e in talune aree etniche si è anzi sviluppato in forme estreme. L'Oceania e l'America hanno soprattutto presentato, in varî gradi di conservazione l'antica usanza del commercio a base di doni. Gli studî del Malinowski sulle Trobriand (Melanesia) hanno illustrato con molta esattezza il commercio detto kula, che coinvolge direttamente o indirettamente tutte le tribù delle isole con un movimento continuo e regolare di spedizioni marittime, che portano, negl'incontri, a feste, scambio d'oggetti preziosi, o di uso comune, di servizî rituali ecc. Tutta la vita degl'isolani è un continuo dare o rendere. Esiste anche un commercio normale, ma di minore importanza. Allo stesso ordine di fatti il Mauss collega i potlatch degl'Indiani dell'America nord-occidentale: gran festini invernali con un'intensa e sregolata distribuzione di doni. Qui, come altrove, lo scambio dei doni è connesso con i concetti e le pratiche dell'ospitalità.

Il sistema dei doni fatti e resi è ingombrante e dispendioso. Non lo troviamo perciò nelle aree a economia complessivamente più progredita dell'Asia, dell'Africa e dell'Europa. Ma l'antichità e l'universalità del costume è attestata da certi suoi residui tenaci dappertutto (cfr. Tacito, Germania, XXXV): nell'uso di far precedere al mercato qualche dono; in quello, che informa ancora la nostra morale specialmente popolare, di accompagnare con doni le solennità, di rendere più di quello che si è avuto, di attribuire un valore sentimentale, e non solo venale, alle cose ricevute.

Lo sviluppo del commercio vero e proprio si è avuto quando dallo scambio di doni si è passati al baratto di oggetti o prodotti attraverso un contratto che implica un determinato valore delle cose. Il contratto fu collettivo prima di essere individuale, e il valore venne dato per molto tempo soltanto dalla momentanea e subiettiva utilità ed estimazione. Al ciclo culturale totemico, che corrisponde all'incirca alla fase dei cacciatori di tipo superiore, Schmidt e Koppers attribuiscono, soprattutto, un primo grande sviluppo del commercio. In realtà, fra le tribù australiane che meglio rappresentano quel tipo di cultura, gli scambî commerciali erano molto attivi, sia con la ricerca di alcuni prodotti rari che determinava spedizioni per centinaia di chilometri, sia con la distribuzione di oggetti d'uso comune, armi o utensili, nella produzione dei quali taluni gruppi si erano specializzati. E nello stesso ambiente, come primo tentativo di liberarsi dall'ingombro delle transazioni collettive, si assiste anche al delinearsi del "commerciante", dell'individuo cui il clan conferisce, con particolari procedimenti rituali, l'incarico delle transazioni stesse, e che gode di una specie d'immunità personale nei suoi incontri con le tribù straniere. Sono stati segnalati pure luoghi particolari scelti abitualmente per gli scambî (per es., Kopperamana sul Coopers Creek), che paiono preludere al sorgere dei mercati. Nell'America del Nord varie tribù convenivano per i loro baratti in un territorio neutrale sulle rive del Mississippi.

Ma lo stabilirsi dei mercati e l'uso della moneta sembrano al Koppers piuttosto prodotti caratteristici della cultura matriarcale degli agricoltori primitivi. L'evidenza in proposito è poco conclusiva per quel che riguarda l'origine della moneta (v.). La connessione fra il mercato regolare, che implica anche la conoscenza della moneta, e l'agricoltura, è invece evidente. La cessione dei prodotti del lavoro agricolo non può svolgersi se non in luoghi determinati e a intervalli regolari e relativamente fissi. E mentre nelle forme di cultura considerate sopra, il commercio è condotto solo dagli uomini, vediamo intervenire nel commercio delle prime società di agricoltori anche la donna, cui spetta la fatica essenziale della produzione e spesso anche di talune industrie domestiche.

La contiguità o l'incontro di culture diverse esercita naturalmente un potente incentivo agli scambî; e taluni territorî dell'Africa, come certi distretti della Melanesia e dell'America Settentrionale hanno rivelato un commercio particolarmente attivo. Lo stesso è avvenuto nelle aree d'incontro fra le culture agricole e i gruppi a cultura pastorale nell'Eurasia. Alcune tribù che avevano una particolare facilità di spostamenti, come certi gruppi marittimi o di pastori nomadi, poterono assumere in modo precipuo una funzione d'intermediarî nel commercio di regioni più o meno grandi. Si formarono in tal modo i popoli commercianti che, come i Chinook e i Chilkat nell'America nord-occidentale, e tuttora gli Haussa nel Sūdān e gli Arabi, ecc., si assicuravano, con l'attività dei movimenti e con la conoscenza dei bisogni e dei mercati, il monopolio del commercio che possiamo dire esterno di vasti territorî. In modo analogo lo sviluppo del commercio interno conduce alla formazione di una classe, che nell'India è una casta, di commercianti.

Bibl.: C. Letourneau, L'évolution du commerce, Parigi 1897; Grierson, Silent Trade, Londra 1903; M.F. Somlo, Der Güterverkehr in der Urgesellschaft, in Notes et Mem. de l'Inst. Solvay, Bruxelles 1909; M. von Moszowki, Vom Wirtschaftsleben der primitiven Völker, Jena 1911; K. Bücher, Entstehung der Volkswirtschaft, 10ª ed., Tubinga 1921; W. Koppers, Die Anfänge des menschlichen Gemeinschaftsleben im Spiegel der neueren Völkerkunde, M. Gladbach 1921; W. Schmidt e W. Koppers, Völker und Kulturen, Ratisbona 1924, pp. 461-65, 483-87, 559-65; B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, Londra 1922; M. Mauss, Essai sur le don, forme archaïque de l'échange, in L'année sociologique, n. s., I (1923-24), Parigi 1925.

Antichità. - Europa. - I rapporti commerciali fra i varî popoli nelle età preistoriche possono essere oggetto di studio soltanto quando i prodotti scambiati sono costituiti da materiali che il tempo non distrugge: pietre silicee, bronzo, zinco, ferro, ambra, ecc. Ove la contropartita di un'importazione di questi prodotti sia costituita da merci deperibili (quali pelli, stoffe, bestiame, schiavi), le nostre conoscenze sugli scambî preistorici sono imperfette. Lo sviluppo dell'industria dei metalli e più ancora l'uso dei metalli preziosi quali mezzi di scambio, prima in barre, anelli, ecc., ritagliati, poi, sotto forma di monete dopo il 700 circa a. C., facilitano lo studio dell'antico commercio, sebbene i nuovi mezzi di scambio abbiano reso i fenomeni commerciali assai più attivi e complessi.

Nel nord dell'Europa l'oro e il bronzo penetrano in gran parte come contropartite dell'ambra, prodotta specialmente sulla costa occidentale della penisola dello Jutland. Lo stagno proviene dalla Cornovaglia, da dove attraverso le Gallie raggiungeva le bocche del Rodano.

Il 2° millennio a. C. presenta un gran dislivello di cultura fra i paesi dell'Europa e quelli delle coste dell'Asia anteriore, di cultura egea ed egiziana. Nel bacino del Mediterraneo occidentale solo la Sicilia e l'Italia meridionale e la Grecia sembrano più direttamente influenzate dalla cultura del Mediterraneo orientale. Verso il 1000 a. C., però, in Russia, nell'Europa centrale, settentrionale e occidentale troviamo già merci prodotte nell'Europa meridionale. Mentre l'Europa settentrionale dà solo prodotti della pastorizia e in minor misura dell'agricoltura, l'Europa meridionale lavora il bronzo i cui oggetti manufatti sono scambiati con materie prime di pregio provenienti dal nord, specialmente l'ambra lavorata, una delle peculiarità della civiltà artico-baltica (Finlandia, Svezia, Norvegia e regioni confinanti con la Russia).

Con la lavorazione dei metalli diventano centri di commercio le regioni produttrici di metalli. Il bronzo sembra si diffonda da Cipro, dove è originario un tipo di pugnali di bronzo. Le doppie asce di bronzo che si trovano isolate in Ungheria e in Svizzera, nella Francia orientale, nella Svizzera occidentale, nella Germania sud-occidentale, centrale e nella parte mediana della Germania settentrionale e che provengono non da Cipro, ma dall'Oriente, fanno pensare a una via che passi per le bocche del Rodano e si diriga verso il nord. Il bronzo fu estratto in Europa in età più recente. Non sappiamo però in quali regioni fosse estratto dapprima. Rame si trova nelle montagne del medio Danubio e in Transilvania, dove si estrae anche oro, che, lavorato, è portato in Germania. In Italia, rame e stagno sono prodotti della Toscana; non sappiamo però se i metalli della Toscana servissero anche per l'esportazione. Assai più ricca di metalli è la Penisola Iberica, dove le miniere di rame e di stagno sono sfruttate sin dal principio dell'età dei metalli. Probabilmente relazioni commerciali riuniscono la Penisola Iberica ai paesi orientali di più antica cultura. Nelle tombe iberiche d'una età compresa fra quella della pietra e quella dei metalli si sono ritrovati oggetti d'avorio, uova di struzzo, ecc., che in altri luoghi europei sono sporadici e che ricordano ritrovamenti egiziani. Sono supponibili scambî della Penisola Iberica con l'Africa del nord e con la Bretagna, Irlanda, alcuni paesi della Germania e Scandinavia. La scoperta di miniere nei paesi dell'Europa dovette probabilmente limitare l'importazione iberica. Dalle Isole Britanniche sono esportati rame, oro e stagno. L'oro dell'Irlanda è stato esportato in Islanda, Inghilterra e Scozia, Francia occidentale, Belgio, Danimarca e Germania occidentale.

Mentre si può seguire abbastanza bene il commercio dei metalli, è assai difficile seguire quello dell'ambra, forse perché nei paesi dove si bruciavano i morti anche le collane di ambra appartenenti al defunto dovettero essere bruciate col cadavere. Il commercio nel 2° millennio si limita all'Europa meridionale, occidentale e centrale e alla Scandinavia del sud. La Scandinavia del nord, la Russia e la Finlandia sono isolate.

Nel 1° millennio a. C. si svolge la cultura cretese micenea, che abbraccia nei suoi rapporti commerciali l'Asia Minore, Cipro, la Siria, la Palestina, l'Egitto e la Nubia, la Sicilia e l'Italia meridionale. La conoscenza del ferro, più diffuso del rame e dello stagno, importa una rivoluzione nel commercio preistorico, il monopolio di molte regioni sparisce.

Prima della colonizzazione greca, l'Italia settentrionale e parte dell'Italia centrale, verso il 1200 a. C., riforniscono una gran parte dell'Europa occidentale, centrale e settentrionale. Vasi, armi, armature di bronzo, ornamenti di vetro, oggetti d'avorio e di corallo si irradiano dalla metà settentrionale dell'Italia in una zona parallela alle Alpi che va dalla Francia meridionale al Danubio; a un'altra zona invece apparterrebbero la Penisola Iberica, le Isole Britanniche, l'Irlanda, la Germania centrale, settentrionale, orientale, la Boemia e la Moravia, la Danimarca e la Svezia, fino alla latitudine di Stoccolma. La colonizzazione greca (1200-700 a. C.) muta questo quadro. Fra il 1200 e il 700 a. C. la regione di maggiore commercio in Europa era la metà settentrionale della penisola appenninica. Nel sec. VII, invece, la colonizzazione greca sulle coste del Mediterraneo e del Ponto fa sì che il commercio che prima prendeva vie di terra diventi prevalentemente marittimo. Il commercio greco è giunto probabilmente per via di mare alle bocche dell'Elba (Pitea di Marsiglia). Marsiglia diventa centro di commercio e di cultura. Da Marsiglia la Grecia influisce sulla cultura celtica e indirettamente su quella germanica.

L'influsso ellenico è pure assai forte sulle città del mar Nero, dove si era formata una cultura greco-scitica e da dove erano esportati cereali, schiavi, pelli, pietre preziose e oro in cambio di olio, vino, armi, oggetti di ogni sorta. Questa ricca esportazione greca fa pensare che la Grecia, anche in età preistoriche, si fornisse di cereali nella Russia meridionale.

L'inclusione d'una gran parte dell'Europa nell'Impero romano sviluppa il commercio, lo svolgersi della vita cittadina entro l'impero e l'industrializzazione della produzione artigiana.

Egitto. - La civiltà egiziana ha un attivo commercio interno, per terra e per acqua (Nilo), ed estero con la Nubia, la Libia, la Siria e le isole del Mediterraneo. Gli Egiziani praticano il cabotaggio sulle coste dell'Asia Minore e dell'Africa e sono in rapporti con le isole dell'Egeo: raggiungono l'Italia solo nell'età greca.

L'Egitto ha importato rame nell'età preistorica dalla penisola del Sinai ed oro dalla Nubia, e legname, di cui manca, dalle foreste del Libano. Dai paesi tropicali trae avorio, aromi, spezie, ebano e in parte pelli. Esporta cereali, oro proveniente dalla Nubia e prodotti industriali.

Il commercio all'estero, per lo meno il commercio all'ingrosso, quasi monopolizzato dai faraoni. Spesso ci troviamo di fronte a monopolî, o quasi monopolî, della produzione di merci. Durante il nuovo impero sono assai attivi i rapporti fra i Siri e le coste mediterranee dell'Egitto; più tardi il posto dei Siri è preso dai Greci.

Palestina e Siria. - Il commercio di questa regione, separata dalle montagne dell'Asia Minore e dell'alta Mesopotamia dai paesi del mar Nero, priva di fiumi navigabili e senza prodotti minerali, ha scarsa importanza nell'età più antica. Nel secondo millennio a. C. sorgono importanti centri quando popoli guerrieri si fissano stabilmente nel paese e fondano città come Biblo, Sidone e Tiro, che diventano centri commerciali e marinari importantissimi. In Siria e Palestina la lingua del commercio era il babilonese fino verso la fine del secondo millenmo a. C.; dove il commercio con l'Egitto era più attivo si usava anche l'egiziano.

Quando gli Ebrei emigrarono nel paese, il commercio rimase in gran parte nelle mani dei Cananei, e gli Ebrei vi parteciparono più tardi. Il commercio con l'Egitto e con Babilonia (in gran parte commercio di transito) è in generale assai attivo.

Il commercio è fatto per mezzo di carovane. Le importazioni sono costituite da spezie, aromi, pietre preziose, metalli, oggetti di bronzo, amuleti, vesti fini, legno e cavalli; le esportazioni da olio, miele, focacce e schiavi. L'Egitto importa per mare sino dal tempo della prima dinastia legno, olio ed altri prodotti. Verso il 1500 a. C. il commercio è assai attivo coi popoli delle isole, Cipro, Creta e Grecia.

Dopo la rovina dei popoli delle isole, verso il 1200 a. C., il commercio passa nelle mani dei Fenici. Le città marinare della Siria acquistano sempre maggior importanza sia per le loro colonizzazioni nei paesi dai quali traggono le materie prime, sia per la decadenza dell'Egitto e la rovina del regno degli Hittiti. Hiram re di Tiro contemporaneo di Salomone acquista una grande potenza. Ai suoi tempi rimonta probabilmente la tradizione che fa dei Fenici gli inventori della maggior parte dei beni della cultura. Salomone cercò di prender parte attiva anch'egli al commercio orientale, ma l'invasione degli Assiri e le condizioni politiche non permisero al commercio ebraico di prosperare come quello fenicio.

Asia Anteriore. - Il commercio nell'Asia anteriore si presenta con forme progredite già nell'età dei Sumeri, i quali usano sistemi di pesi e misure, e metalli come mezzo di scambio. Il commercio all'ingrosso è esercitato dal re, dai templi e da commercianti privati. Il piccolo commerciante vendeva le sue merci non solo alle porte della città, sulla banchina del fiume, ma anche viaggiava con la sua merce e la bilancia e i pezzi di metallo nella borsa. La scrittura ha una parte assai importante nelle transazioni commerciali.

La Mesopotamia esportava prodotti agricoli, specialmente grano, lana ed olio, e riceveva dall'estero metalli, pietre e legnami che in parte riesportava lavorati. I metalli e le pietre preziose erano importati dalla Nubia, l'argento dal Tauro, il rame dall'Elam e da Cipro; è incerta la provenienza dello stagno, usato per fabbricare il bronzo. Il ferro era preparato dagli Hittiti e dai loro vicini orientali del mar Nero. Le pietre e il legname da costruzione erano importati: il cedro veniva dal Libano e dall'Amano, conifere e platani dal lago di Van. Le spezie provenivano dall'Arabia, i cavalli dalle contrade montuose di nord-est, i cammelli, denti e pelli di elefante dall'Arabia. Attiva era l'importazione di schiavi.

Grecia. - I dati relativi al commercio greco nell'età più antica si ricavano principalmente da Omero e da Esiodo.

I paesi coi quali la Grecia del tempo di Omero e di Esiodo si trova in relazioni commerciali erano la Tracia, l'Asia Minore, Cipro, la Fenicia e l'Egitto. Dalla Tracia erano importati vini, dalla Fenicia tessuti, porpora, oggetti di metalli lavorati. Prodotti esotici come l'ambra potevano essere importati dalle coste del Baltico, dal Ponto Eusino e dall'Adriatico settentrionale. L'avorio non poteva giungere che dall'Africa centrale e dall'India, lo stagno dalle isole Cassiteridi, la cui posizione geografica è incerta, ma che vanno cercate o in Bretagna o in Inghilterra. I Greci esportavano probabilmente bestiame, pecore e buoi.

La moneta non era ancora in uso e gli scambî avvenivano o direttamente sotto forma di baratti o mediante oggetti tipici che fungono da monete: buoi, tripodi, lebeti, asce di rame, ecc. In Grecia il commercio appare assai poco sviluppato. Gli Achei dei poemi omerici sono prevalentemente pastori e agricoltori. Potente incentivo al commercio greco diventa la colonizzazione che si inizia con l'invasione dorica. Ai Fenici si sostituiscono i Greci nel commercio del Mediterraneo orientale, mentre i primi seguitano a dominare le coste africane ad ovest della grande Sirti. Il predominio sul Tirreno è conteso fra Greci, Cartaginesi ed Etruschi. Ovunque i Greci portano una civiltà superiore che permette loro di accrescere le risorse del paese migliorandone l'agricoltura, l'allevamento del bestiame e le industrie locali e agevolando i rapporti commerciali dei paesi semibarbari. La colonizzazione greca ha per conseguenza un aumento delle risorse di gran parte dei paesi del Mediterraneo, poiché si estende oltre l'Egeo, nel Ponto Eusino, in Libia, in Sicilia, nell'Italia meridionale, sulle coste dell'Egitto e di Cipro, nelle Gallie e nell'Iberia occidentale. I Greci diventano così sempre più una popolazione marinara che sfrutta il retroterra dei paesi barbari e delle grandi monarchie orientali. Lo stesso sviluppo commerciale e marinaro greco importa una intensa attività industriale. I Greci non lavorano soltanto per i bisogni locali, ma alimentano il commercio mediterraneo coi loro manufatti di lana, lino, metalli, legnami, argilla, pelli e cuoi.

Alcune regioni colonizzate dai Greci diventano grandi centri produttori anche di prodotti agricoli, principali fra questi la Sicilia, l'Italia meridionale e la Cirenaica. Mentre nel sec. VII-VI troviamo già i grandi centri commerciali, la massa del popolo greco è ancora contadina. Il progresso agricolo e industriale dell'antica Grecia fa sì che l'agricoltura e la pastorizia, pur progredendo, perdano la loro importanza relativa di fronte alle altre attività economiche. La creazione della moneta ha dato al commercio greco un grande impulso che ha importato il costituirsi sempre più deciso di un'economia urbana, contrapposta all'economia naturale dei barbari. La πόλις greca, come la città medievale, è un centro non solo politico ma anche commerciale e industriale, raccoglientesi nell'agorà.

Il commercio greco è prevalentemente marittimo di cabotaggio. Nel sec. V il maggior porto del Mediterraneo è il Pireo. Le navi mercantili a vela subordinano i loro percorsi al regime dei venti che è sempre meglio studiato. I maggiori centri marittimi greci sono: il Pireo, Egina e Megara nel golfo Saronico, Corinto sull'Egeo e sul golfo dell'Ionio, Calcide sull'Euripo, Delo nelle Cicladi, Samo, Chio e Lesbo presso la costa asiatica, Mileto e Focea sulla costa asiatica, i porti dell'Ellesponto, della Propontide e del Bosforo, Abido, Cizico, Bisanzio; Sinope e Trapezunte, sbocchi dell'Armenia; Dioscuriade di Colchide, Panticapeo, Teodosia, Olbia, dove sboccano le vie della Scizia, degl'Iperborei e dell'interno dell'Asia. Nel Mediterraneo orientale avevano grande importanza Cipro, Naucrati, sbocco di prodotti egizî e africani, Cirene, sbocco di prodotti dell'Africa. Nell'Ionio troviamo Corcira, Taranto, Siracusa; Cuma nel Tirreno, Marsiglia nel Mediterraneo occidentale.

Nonostante lo sviluppo del commercio, nell'Ellade, come nel più antico Medioevo, la classe dei commercianti non è nettamente differenziata dalle altre. Industriali, artigiani e produttori agricoli molto spesso vendono direttamente ai consumatori. Il sorgere verso il sec. VII di fiorenti città marinare ha portato la classe delle persone dedite ai traffici al dominio delle città sostituendosi alle classi aristocratiche le quali per conservare la loro posizione non avevano altro mezzo che quello di arricchirsi coi commerci. Questo sviluppo industriale e commerciale della città greca (v. città) è evidente ad es. in Egina e Chio i cui cittadini si dedicano specialmente al commercio e a Megara dove la maggior parte dei cittadini viveva fabbricando mantelli per i quali adoperavano come operai, barbari comprati. Ancora nel sec. VI-V a. C., quando sorge la potenza commerciale di Atene, l'ἐμπορία è una professione onorevole mentre più tardi, come presso gli Egiziani, i Traci, gli Sciti, i Persiani, e i Lidî, non è più considerata tale. Dalla legislazione di Solone, Atene ci appare ancora una città agricola la cui industria parrebbe importata da stranieri. Anche dopo le guerre persiane, che fanno d'Atene il centro commerciale del mondo antico, il commercio marittimo e specialmente quello dei grani è quasi esclusivamente nelle mani dei meteci che esercitavano una funzione analoga a quella dei mercanti orientali, e degli Ebrei in ispecie, nel nostro Medioevo. L'importanza commerciale di Atene come grande centro di affari dipende in parte anche dallo sfruttamento delle miniere d'argento del Laurio. Il movimento di ingenti capitali e lo sviluppo degli affari creditizî, fra i quali uno dei più importanti è il prestito marittimo, è facilitato dalla bontà della moneta attica e dal diffondersi dell'istituto delle banche (v.).

Nell'età classica non abbiamo una vera e propria classe di commercianti, né esistono corporazioni di commercianti. In Atene i mercanti sono distinti in 4 categorie: κάπηλοι, per lo più i grossisti; ναύκληροι, i commercianti che esercitano il commercio su nave propria; ἔμποροι, commercianti che esercitano il commercio imbarcandosi su nave altrui; μεταβολεῖς, commercianti al minuto. Il commercio attico ancora nel sec. IV a. C. è intrapreso con capitali mutuati da privati, per lo più banchieri che costituiscono la classe più ricca. Il commerciante accompagna la merce sulla nave; un vero contratto di spedizione non esiste.

Il commercio greco era ostacolato dalla mancanza d'una giurisdizione interlocale che desse maggiore affidamento della giurisdizione di piccoli stati. Conflitti politici, moratorie all'interno, confische non giovano certo al commercio. Liturgie, imposte assai forti e irregolari spingono spesso i privati a occultare il denaro e quindi a restrizioni di credito, perniciose agli affari. Il commercio non era di solito libero. Molto spesso le città, per favorire la popolazione meno abbiente con bassi prezzi di viveri, impedivano l'esportazione di generi di prima necessità; inoltre nei porti greci si praticavano diritti di dogana sia all'entrata sia all'uscita delle merci.

Il mondo ellenistico. - La conquista dell'Oriente per opera di Alessandro Magno produce un rivolgimento nell'economia del mondo antico. I Greci, che erano prevalentemente intermediarî nei commerci coi paesi dell'Oriente sfruttati dai barbari, riorganizzano anche economicamente le grandi monarchie orientali. Tale riorganizzazione è contrassegnata dalla creazione di città greche per opera di Alessandro e poi dei Seleucidi e dei Tolomei, e sposta verso l'Oriente il centro della civiltà e dei commerci greci. Alessandria d'Egitto, Antiochia di Siria, Seleucia sul Tigri, sono grandi centri non solo di cultura, ma anche di traffico.

La conquista di Alessandro schiude ai Greci lo sfruttamento diretto dei bacini del Nilo, del Tigri e dell'Eufrate, della Siria e dell'Asia Minore. Ai Greci si aprirono così le varie vie delle Indie, sia quelle che attraverso l'Armenia e l'altipiano dell'Iran per la Battriana e la Sogdiana giungono all'India del nord-est, sia quelle che traversano l'Asia Minore e il Ponto Eusino e quella che traversa la Siria e la Fenicia settentrionale. Le comunicazioni più dirette con l'Oceano Indiano sono assicurate dalla conquista dell'Egitto.

Il commercio ellenistico ebbe un grande impulso dalle grandi masse di metalli preziosi che costituivano i tesori del re di Persia e che, poste in circolazione da Alessandro, operarono una trasformazione nell'economia greca la quale abbisognava di nuovi capitali per mettere in valore i paesi conquistati, che apportarono all'economia le loro ricchezze naturali e un'abbondante mano d'opera.

La Grecia, dilaniata da guerre intestine e danneggiata dall'invasione dei Galli, mandò i suoi migliori elementi in Egitto e in Siria a colonizzare le regioni conquistate.

I paesi dell'Oriente, sorti a nuova vita dopo l'invasione greca, portarono le loro materie prime sul bacino del Mediterraneo; il Ponto e la Cirenaica cereali, i paesi dell'Asia Minore, del Ponto, della Cilicia, del Caucaso e quelli del Libano i legnami. I paesi dell'Asia e dell'Egitto fornirono il sale delle loro saline; il nitro giunse dalla Lidia, dal lago Arsene o Thopites nell'Armenia, dall'Egitto, dal Delta e dal nomo Nitriota. L'asfalto fu esportato dal lago Asfaltide (Mar Morto), il petrolio, chiamato dai greci asfalto liquido o nafta, dall'Assiria, dalla Babilonia e Susiana. I minerali di ferro provengono dal paese dei Calibi a sud di Trapezunte, a sud di Sinope nel distretto che Strabone chiama Sandarangio; il rame specialmente da Cipro; il minio, o terra di Sinope, dalla Cappadocia e dalla Carmania; l'oro dalla Colchide e Armenia; l'argento dalla Carmania; lo stagno dalla Drangiana.

La pesca e l'industria dei pesci salati fiorisce nel Ponto Eusino, nelle antiche colonie greche della Palude Meotide, in varie città della costa settentrionale dell'Asia Minore, a Calcedonia sul Bosforo, a Dioscuriade nella Colchide. Anche in Egitto i pesci salati dànno luogo ad un importante commercio di esportazione. Lo sviluppo industriale dei paesi ellenistici si manifesta nelle industrie tessili. Centri dell'industria del lino sono Laodicea di Siria, Biblo, Berito e Tiro in Fenicia, Scitopoli nella valle del Giordano, Borsippa presso Babilonia, Amorgo, la Cilicia, l'Egitto, dove si tesse il lino ovunque per il massimo centro di esportazione, Alessandria. Per la lavorazione della lana i maggiori centri sono Patre in Acaia, Mileto, Sardi nella Lidia, la Frigia, la Galazia, e la Cilicia, Cipro e varie città della Fenicia, Damasco, dove si fabbricano anche tappeti, l'Egitto. Il cotone è tessuto in Egitto e in Fenicia. L'industria della seta, la cui materia prima sembra importata dall'Estremo Oriente, fiorisce a Cos e in Fenicia. La produzione della porpora e l'industria tintoria si sviluppano in Fenicia, in Palestina, a Sarepta, a Dora e a Cesarea, a Neapoli, a Lidda nell'interno della Palestina; le industrie tintorie fioriscono anche in Egitto e a Hierapolis sul Meandro. Le industrie metallurgiche sono in pieno rigoglio a Corinto, a Delo, a Chio, a Samo, dove si lavora specialmente il bronzo, a Pergamo, a Cizico e a Rodi, dove si fabbricano armi. Ad Abido si lavora specialmente il ferro, prodotto nel paese dei Calibi, donde proviene anche l'acciaio, esportato da Sinope. Le ceramiche rimangono un'industria prevalentemente greca, le industrie vetrarie, invece, hanno per centri principali la Fenicia e l'Egitto. Anche per l'industria dei profumi i centri principali, fatta eccezione per Cizico e Cirene, sono nell'Oriente: Tarso, Soli, Corico in Cilicia, Cipro, la Fenicia, la Siria, la Palestina, la Babilonia, l'Egitto. Le materie prime a volte erano raccolte sul luogo, a volte importate dall'Etiopia, dall'Arabia, dall'India. Industrie speciali dell'Oriente sono quelle della pergamena, a Pergamo, e del papiro, in Egitto.

Il sorgere delle grandi monarchie ellenistiche, pur non arrivando a formare una unità politica, come aveva vagheggiato Alessandro, permette la costituzione di grandi unità economiche, le quali sono collegate fra loro non solo per via di mare, ma anche dalle grandi vie commerciali, che riuniscono il bacino del Mediterraneo a regioni lontane. Ne menzioniamo le principali.

Una grande via traversava l'istmo caucasico, riunendo il bacino del Ciro e dell'Arasse a quello del Fasi per giungere all'estremità del Ponto Eusino. Un'altra metteva in comunicazione la Siria e la Mesopotamia con la Sogdiana, la Battriana e l'alta valle dell'Indo toccando le città di Efeso, Magnesia, Tralle, Nisa, Antiochia e Laodicea sul Meandro, Apamea Kibotos, Laodicea, Katakekaumene, Koropissos, Mazaca, Samosata, Babilonia, Seleucia del Tigri e attraverso la Media e le Porte Caspie giungendo ad Alessandria d'Asia (Herāt). Di lì un ramo, attraverso la Battriana, raggiungeva la valle del Cofene, affluente dell'Indo; un altro andava rerso il sud e raggiungeva la valle dell'Indo attraverso la Drangiana. Un'altra via da Ortospana per la Battriana e la Sogdiana raggiungeva le vie carovaniere dell'Asia centrale e del paese della Serica. Numerose vie mettevano in comunicazione la Siria e la Fenicia con la Palestina e l'Arabia. Nella Grecia, dove la viabilità rimane meno buona, le comunicazioni avvengono regolarmente per mare. Nei paesi della Mesopotamia il Tigri e l'Eufrate costituiscono importanti arterie di comunicazione, specie tra Opis sul Tigri e il Golfo Persico, e fra Babilonia e il Golfo Persico. In Egitto l'arteria principale di comunicazione era il Nilo. Le strade di terra più importanti stabiliscono le comunicazioni fra il Nilo e il Mar Rosso. I Tolomei migliorarono la navigabilità del Nilo ed aprirono molti canali. Tolomeo II finì di scavare il canale che unendo il Nilo all'estremità settentrionale del golfo Heroopolitico metteva in comunicazione diretta il Mediterraneo col Mar Rosso.

Ma anche nell'età ellenistica le vie di comunicazione più importanti restano quelle marittime, nonostante i pericoli, fra i quali, non ultimo, la pirateria. Le maggiori città del Mediterraneo sono riunite fra loro da vere vie di comunicazione. Anche i mari al difuori del Mediterraneo sono visitati da navi greche. Il traffico dell'Oceano Indiano segue due vie litorali: dall'Egitto all'Arabia Felice, e dalle bocche del Tigri e dell'Eufrate al Deccan. L'Africa orientale è visitata da navi egiziane.

Le principali città commerciali greche nell'età ellenistica sono: Corinto (che riprende la sua posizione commerciale un secolo dopo la sua distruzione nel 146), Delo (che diventa grande centro marinaro e commerciale, per effetto della caduta di Corinto), Efeso, Siracusa, Rodi (importantissima specie pel commercio con l'Egitto e che declina dopo che Delo nel 166 diventa porto franco), Bisanzio, Pessinunte in Galazia, Apamea sul Meandro in Frigia, Tanais (all'imboccatura del Don), Dioscuriade all'estremità orientale del Ponto Eusino, Seleucia di Pieria, porto di Antiochia, centro del commercio della Siria e della Mesopotamia nel Mediterraneo. In Caldea sono grandi città commerciali Babilonia e Seleucia sul Tigri; in Nabatea, Petra; in Egitto, Alessandria.

Nell'età ellenistica i sovrani degli stati attraverso i quali si effettuava il transito delle merci dell'Oriente e dell'Africa dirette in stati stranieri ne traevano profitto con un sistema di dogane, fra le quali le meglio note sono quelle dell'Egitto. Le merci pagavano non solo diritti d'ingresso, ma anche l'uso dei canali e delle strade. Né l'intervento dello stato si limitava a percepire dazî sui prodotti importati ed esportati. Negli stati ellenistici, e in particolare presso i Tolomei, non solo la vendita, ma anche la produzione di molte merci, quali il sale, il nitro, l'olio, il papiro, le stoffe, le pietre preziose, l'avorio, i profumi, le spezie, era esercitata in condizioni di monopolio, o di quasi monopolio. Sulle merci importate le dogane egiziane percepivano un dazio ad valorem del 50%, del 33⅓%, del 25%, del 20%: non sappiamo in quale misura fossero colpite le merci all'uscita. Le merci inoltre erano colpite dai dazî alle porte delle città e dai diritti di porto. I mercanti erano soggetti al pagamento di tasse d'esercizio e per molte merci a tasse di circolazione. Gli aggravî fiscali sono connessi alla politica economica egizia che all'ingrosso può ravvicinarsi a una politica mercantilistica. Il re era il grande agricoltore, industriale e commerciante che amministrava il paese come avrebbe amministrato un bene privato. A principî economici analoghi a quelli greco-egizî si ispirano anche gli altri stati quali la Siria, Pergamo, la Bitinia, la Cappadocia e la Macedonia. I principî della politica commerciale della città greca e quelli del sovrano assoluto informati alle tradizioni orientali si fondono per dar luogo alla politica economica del sovrano ellenistico. Lo svilupparsi dei grandi stati lascia sussistere tuttavia alcune libere città marinare, che traevano profitto dai loro porti, come Rodi, che faceva pagare una tassa per l'uso del porto, e Bisanzio, che esige un tributo per il passaggio delle navi. Anche dal punto di vista economico il mondo ellenistico non giunge che imperfettamente ad assorbire la πόλις nello stato. Però il commercio all'ingrosso delle città ellenistiche presuppone ormai un largo retroterra. Ad Alessandria per esempio fanno capo tutti i prodotti dell'Arabia e dell'India.

Cartagine. - Il commercio coi popoli dell'Oriente all'infuori degli stati ellenistici passava per lo più attraverso popoli non greci che si arricchivano servendo semplicemente da intermediarî, quali gli abitanti dell'Arabia Felice, gli Armeni, gli Arabi Sceniti e i Nabatei; tuttavia anche i mercanti greci non di rado esercitano un commercio diretto con le Indie.

La vita economica e commerciale del bacino del Mediterraneo occidentale faceva capo non alle città greche, ma a Cartagine. L'economia cartaginese si basa soprattutto sul commercio estero.

Cartagine importava dai paesi greci e dall'Oriente grani, vini, olî, terrecotte, bronzi ed esportava specialmente schiavi africani e minerali di piombo e d'argento della Spagna meridionale. Una gran parte dei prodotti provenienti dall'interno dell'Africa, oro, pelli di bestie feroci, avorio, ecc., passava per le mani dei cartaginesi che in cambio fornivano alle tribù dell'interno dell'Africa prodotti lavorati in gran parte stranieri. Il commercio cartaginese, essenzialmente marittimo, gravita sul Mediterraneo occidentale. Le relazioni più attive dei Cartaginesi sono con la Sicilia greca, con la Campania, il Lazio, l'Etruria, la Gallia del Sud e la Spagna del nord-est, già colonizzata dai Greci. Le navi cartaginesi che si spingono oltre le colonne d'Ercole visitano i paesi delle coste del Marocco, facendo scali nelle colonie fenicie e cartaginesi disseminate sulle coste dell'Africa settentrionale e nella parte meridionale e orientale della Penisola iberica, colonie che assicurano alla marina punica comodi rifugi. La politica di Cartagine è in mano a una classe di commercianti e di banchieri provenienti prevalentemente dall'aristocrazia cittadina.

I Cartaginesi cercano di accaparrarsi i mercati, escludendo i concorrenti: dove non riescono, stringono trattati per assicurarsi zone di influenza e reprimere la pirateria, come fanno fede i trattati conchiusi fra gli Etruschi e Cartagine, e fra Roma e Cartagine.

Etruschi. - Un altro popolo commerciante, in concorrenza coi precedenti è l'etrusco, che gravita sul Mediterraneo occidentale e sull'Adriatico in una zona più settentrionale di quella degli Elleni e dei Cartaginesi. Il commercio etrusco è essenzialmente marittimo, sebbene le principali città tirrene non siano situate sul mare.

I principali porti etruschi sono sull'Adriatico: Adria, Spina, Ravenna. Gli Etruschi fecero conoscere alle popolazioni del centro e del nord dell'Italia i prodotti greci e attivarono i rapporti fra le parti settentrionali e centrali della penisola con la parte meridionale ellenizzata.

Roma. - L'attività commerciale romana si sviluppa allorquando Roma, diventata una delle principali città dominate dagli Etruschi, costituisce il centro più importante della via commerciale che unisce l'Etruria alla Campania. Le conquiste di Roma repubblicana fecero della città il principale mercato dell'Italia centrale, che ebbe uno sbocco diretto sul Tirreno alla foce del Tevere nel sec. IV, allorché fu fondata la colonia militare di Ostia. Dello sviluppo commerciale di Roma fa fede il suo trattato di commercio con Cartagine, la cui data tradizionale (509-8) sembra debba essere spostata alla metà del sec. IV. Con questo trattato i Romani rinunziano al commercio con la Sicilia, Cartagine a quello con la Sardegna e con la Libia e alla navigazione all'ovest del Capo Bello. Anche con Taranto alla fine del sec. IV Roma dovette concludere un trattato che le impediva la navigazione al nord-est del capo Lacinio. Queste due date dimostrano come nel sec. IV Roma commerciasse già sul Tirreno e sul mare Ionio. Il commercio romano ebbe notevole impulso allorché si iniziò la coniazione degli assi di bronzo alla metà del sec. IV, più ancora però influì sul commercio la coniazione dei denari d'argento nel 269 a. C. Le tre guerre puniche e la completa vittoria sui Cartaginesi diedero a Roma il dominio del Mediterraneo occidentale; il suo intervento in Grecia seguito dalla conquista dell'Ellade, le sue vittorie su Antioco, Mitridate e più tardi su Cleopatra, fecero Roma padrona del Mediterraneo orientale. Con la conquista delle Gallie, dei paesi sulla riva destra del Danubio sino al Mar Nero, l'annessione più tardi di gran parte della Britannia, degli Agri decumati, della riva sinistra del Reno, e della destra dell'alto Danubio, della Dacia, della Mesopotamia e dell'Arabia, l'Impero romano diviene una grande unità economica che estende i suoi commerci sino all'India, alla Cina e all'Africa centrale. Roma diventa il centro del mondo antico e assume il carattere di città cosmopolita.

Essa poté mantenere una numerosa popolazione approvvigionandosi di grano nell'età repubblicana dalla Sicilia e dalla Sardegna, poi da Cartagine e dall'Asia Minore e infine dall'Egitto e dall'Africa. Per cui in Italia si trascurò sempre più la coltura granaria, sostituita dai frutteti e dagli ortaggi nei territorî più fertili, dalla pastorizia negli altri.

Un certo sviluppo industriale non di Roma, ma delle città dell'Etruria e della Campania è favorito dall'importazione dei minerali dalla Sicilia, Spagna e Macedonia e più tardi dalle Gallie e dal Norico. Queste industrie romane, che nel periodo repubblicano più antico sono esercite da artigiani costituiti di regola in corporazioni, col diffondersi della mano d'opera servile cadono sempre più nelle mani di schiavi, per poi più tardi ritornare in mano di liberi col declinare dell'istituto della schiavitù.

Roma e l'Italia importavano materie prime, derrate alimentari, oggetti fabbricati, prodotti di lusso e opere d'arte. Le Gallie e la Spagna fornivano prevalentemente materie prime: rame, piombo, argento, stagno, lane grezze, pelli da cuoio, l'Asia, il Ponto e la Siria legname, l'Arabia spezie e aromi, la Sicilia cereali, il Ponto e la Spagna pesce salato, le Gallie carne salata e formaggi, l'Asia Minore, la Fenicia, la Siria e Alessandria d'Egitto oggetti di lusso e tessili. Il commercio degli schiavi era alimentato dall'Oriente, dalle Gallie, dalla Germania. Nell'età repubblicana il porto italiano più importante sul Mediterraneo era Pozzuoli, al quale poi Ostia fece una vittoriosa concorrenza. La contropartita delle importazioni era costituita da oggetti di bronzo, ferro e vasi di terra dalla Campania, legno e lana dalla valle del Po. Le esportazioni non coprivano certo le importazioni, sicché Roma e l'Italia in particolare esportano oro e argento accumulati dalle conquiste delle provincie, rifornendosi continuamente coi tributi provinciali.

Il commercio romano si svolge prevalentemente nel Mediterraneo, i cui traffici fioriscono anche in grazia della politica ricostruttrice della fine della repubblica, che si manifesta con la riedificazione di Cartagine e di Corinto e con la concessione di Delo ad Atene nel 166 a. C. alla condizione che questo porto fosse aperto a tutte le nazioni. La politica liberale dei Romani verso Utica e Marsiglia favorisce lo sviluppo di questi porti. Alla fine della repubblica il commercio romano era esercitato prevalentemente dagl'Italioti. Il grande retroterra dell'Impero romano, che ha i suoi sbocchi nel Mediterraneo, non avrebbe potuto essere adeguatamente sfruttato senza le grandi vie di comunicazione, fra le quali citiamo, le vie Appia, Latina, Valeria, Flaminia, Cassia, Aurelia in Italia; e, fuori dell'Italia, nella Gallia meridionale la via Domizia; in Grecia la via Egnazia; in Oriente le antiche vie di comunicazione già citate.

Sotto l'Impero romano le attività economiche del mondo antico sono coordinate in modo più completo che nell'età delle monarchie ellenistiche, poiché ai paesi dell'Oriente, che erano stati riorganizzati economicamente dai Greci, si aggiungono ora le regioni dell'Occidente: Gallie, Iberia, Provincia d'Africa e Mauritania, la Germania coi Campi decumati fra il Reno e il Danubio, una gran parte della Britannia, la Dacia a nord del Danubio inferiore, e in Oriente una parte dell'Armenia. Questa coordinazione non implica fusione economica e politica delle varie regioni, differenti per carattere geografico, etnico, morale, storico.

L'Impero romano si presentò, specie nei primi secoli, come una federazione di stati sottomessi al dominio romano. Il quale, assicurato con l'occupazione militare il dominio delle provincie, permette il loro sviluppo economico e un rapidissimo progresso di quelle che da poco si erano schiuse alla civiltà. Al progresso economico e commerciale dei paesi dell'Impero contribuiscono assai efficacemente la diffusione del diritto romano e l'adozione di un sistema metrico e monetario unico. Anche i rapporti fra l'Impero e i paesi stranieri si avvantaggiano dalla nuova organizzazione. I commerci si estendono a regioni ignote nell'età ellenistica, ampliandosi le conoscenze geografiche.

Tolomeo descrive l'Indocina e giunge alla costa meridionale della Cina, conosce in Africa le regioni delle sorgenti del Nilo e all'ovest il Niger. Durante l'Impero esploratori romani giungono all'Africa equatoriale. Nell'Europa del nord il commercio romano si spinge sino alle coste scandinave e alla Livonia.

I vantaggi di un'economia a basi assai vaste e di un commercio fiorente avrebbero dovuto tradursi in una notevole differenziazione della produzione nelle singole provincie romane, e quindi in un progresso dovuto alla specializzazione dell'agricoltura e dell'industria nelle varie provincie. Nonostante il sistema fiscale di sfruttamento delle provincie adottato dall'Impero, non è dubbio che la produzione del mondo antico nel suo insieme si sia accresciuta notevolmente per i progressi dell'agricoltura nelle Gallie e nella Germania, nel Norico, nell'interno dell'Illiria, nella Pannonia, dove, specie per opera delle legioni, sono messi in valore terreni paludosi, e in paesi dell'Africa del Nord dove l'irrigazione rende fertili territorî prima deserti.

Le merci che formano maggiormente oggetto di commercio furono il grano della Sicilia, dell'Africa e dell'Egitto che serve in gran parte ad approvvigionare Roma; l'olio della Spagna e dell'Africa; il vino delle Gallie, della Dalmazia, dell'Asia Minore e della Siria; le carni salate delle Gallie e della Britannia; i pesci salati della Spagna, del Ponto, del Bosforo Cimmerio e dell'Egitto. L'Egitto e l'Africa producono abbondante lino; l'Asia Minore e l'Africa, lana; l'Illirico e l'Asia Minore, pelli; la Spagna, le Gallie e la Britannia sono nominate pei loro cuoi. La Grecia, l'Asia Minore e l'Africa danno marmi; la Spagna, la Britannia, l'Illirico, Cipro, il paese dei Calibi, metalli lavorati e grezzi; l'Africa e la Siria, legnami; la Spagna, le Gallie, l'Asia Minore, la Siria, la Fenicia, l'Egitto, stoffe; le Gallie, l'Asia Minore, ceramiche; le Gallie, la Fenicia, l'Egitto, vetrerie; l'Oriente, anche gioiellerie; l'Asia Minore, la Siria, la Fenicia, l'Egitto, profumi; la Cirenaica esporta il silfio; l'Egitto, il papiro; Pergamo, la pergamena; l'Africa, bestie feroci; l'Asia Minore, la Siria, l'Egitto, l'Africa, schiavi; la Germania di là dai confini, ambra e schiavi; la Scozia, grano, pelli, pellicce e pietre preziose. Fuori dei confini dell'Impero il regno dei Parti esporta schiavi e bestie feroci; l'Arabia, pelli e ferro; l'Iran, alabastro, incenso, spezie, pietre preziose e cotone; l'India, spezie, profumi, avorio, ebano, bestie feroci, schiavi, pietre preziose; la Cina, seta; l'Africa orientale, tartaruga, avorio, legni preziosi; l'Africa equatoriale, polvere d'oro, pelli, avorio e schiavi.

Intiere popolazioni incivilite mutano di abitudini, l'urbanesimo nelle provincie d'occidente crea nuovi bisogni e nuovi commerci.

Cave di pietra e specialmente di marmo sono dovunque più intensamente sfruttate. L'ingrandirsi di Roma vi fa convergere in maggior misura i marmi della Grecia, di Carrara, i porfidi verdi della penisola del Tenaro, quelli rossi del Mons Claudianus, i graniti di Siene, l'alabastro del Mons Berenicides, ecc. Le Gallie dànno marmi e graniti, le regioni dell'Africa marmi e calcari colorati. Nell'insieme, le miniere di metalli preziosi nei paesi d'oriente avevano diminuito la loro produttività; le miniere dell'occidente avevano ormai ben maggiore importanza. L'oro proveniva sempre più dalla Spagna, dalle Gallie, dalla Britannia, dalla Dalmazia, dalla Mesia, dalla Dacia dopo la conquista di Traiano. Piombo argentifero proveniva dalla Sardegna, Spagna, Gallia centrale e meridionale, Dalmazia, Pannonia, Epiro; il ferro dall'Elba, dall'Etruria, dalle regioni dei Pirenei e del Norico; il rame dalla Betica e Lusitania, dall'Aquitania, dalla Provincia Narbonese, e dalla Britannia; il piombo dalla Penisola Iberica, dall'Africa del Nord e dalla Britannia. Le saline erano sparse un po' dovunque: in Italia ad Ostia, Volterra, Taranto, Gela; in Africa ad Utica e ai confini orientali dell'Egitto; nella Spagna Citeriore, in Linguadoca, presso i Tarbelli lungo l'Atlantico fino alle Fiandre, presso i Sequani e i Mediomatrici; in Epiro, in Illiria e in Tessalia, nella Frigia e Cappadocia, a Cipro e in varie regioni dell'Egitto. Gran parte delle miniere erano di proprietà dell'imperatore (v. miniere).

La conquista romana non modificò la produzione industriale nell'Oriente, mentre fece sorgere in Occidente nuove industrie connesse sia allo sviluppo delle provincie, sia alla produzione delle materie prime: metallurgia, ceramica e industrie tessili.

I giacimenti minerarî della Spagna dànno luogo all'industria di oggetti di ferro e di bronzo a Bilbilis e a Cordova. Nelle Gallie le industrie metallurgiche, che avevano già una tradizione indigena, si sviluppano dopo la conquista romana. Il ferro del Norico è lavorato a Lauriacum, Caractum, Aquincum, Sirmium. In Italia, in Etruria e in Campania la produzione di ceramiche si estende si può dire dovunque, ha però i suoi centri principali a Modena, Cales, Cuma, Arezzo. Questa industria fiorisce nelle Gallie e in Spagna, specialmente a Sagunto. Nelle industrie tessili, la conquista romana fa aumentare la produzione e la concentra. In Italia sono assai note le lane di Pollentia, Parma, Modena, Luceria, Canusia e Taranto dove si lavora la lana dell'Apulia. Padova produce stoffe, tappeti e vesti. Nelle Gallie, la grande produzione di tessuti, lane, lino e canapa ebbe come centro i territorî degli Atrebati, Nervî, Santoni, Lingoni, Cadurci. Importanti città manifatturiere di tessuti furono: Rouen, Amiens, Reims, Bourges, Nîmes. Assai diffusi furono i tessuti di lana dell'Africa del Nord, gli othonia di Malta, i carbasi di Tarragona e le tele di Emporie e Setabis.

Il centro del commercio romano verso il sec. II tende a spostarsi da Oriente a Occidente, poiché la Gallia, la Britannia, la Spagna e le regioni alpine acquistano sempre maggiore importanza nell'economia imperiale. Treviri, Arelate e Narbona e in particolar modo Lione diventano grandi centri commerciali: I mercanti italiani sono attirati verso l'Occidente e abbandonano sempre più i grandi emporî dell'Oriente ai mercanti fenici ed egiziani. Più tardi i Romani andarono abbandonando sempre più agli Orientali anche i mercati d'Occidente.

L'Impero romano non è giunto a una grande unità doganale. Esso si divideva in 10 circoscrizioni doganali, oltre l'Italia, per cui per passare dall'una all'altra le merci pagavano dazî, il cui ammontare variava a seconda delle regioni e probabilmente anche delle merci. Essi variavano fra il 2% in Spagna, e il 5% in Sicilia. Le 10 circoscrizioni doganali dell'impero sono: Sicilia, Spagna, Gallie, Britannia, Illirico, Asia; Bitinia, Ponto e Paflagonia, tutte e tre riunite in un solo distretto; Siria, Egitto, Africa del Nord. Data questa organizzazione doganale, i portorî e i pedaggi gravavano in misura assai elevata sulle merci provenienti da paesi lontani. La politica doganale romana, però, nel suo insieme non fu rigida.

Il commercio romano è esercitato nelle numerose botteghe delle città, e nel mercato pubblico, macellum. Si tenevano anche mercati straordinarî (nundinae) nelle città e nelle campagne ad epoche fisse, per lo più un paio di volte al mese. Il commercio all'ingrosso si svolgeva principalmente nei porti, dove si accentravano le mercanzie del retroterra.

I commercianti si raggruppavano di solito in corporazioni di appartenenti a industrie e commerci e di mercanti (v. corporazioni).

Il commercio romano è agevolato sia in Occidente sia in Oriente dalle banche. In Oriente il sistema bancario, più antico, è assai più progredito che in Occidente (v. banca). Il commercio all'ingrosso si serve di monete d'oro e d'argento e di metalli preziosi pesati, la moneta di bronzo serve solo per il commercio al minuto. Di solito, nelle provincie le città seguitano a emettere monete di br0nzo sino al sec. III d. C. Alcune regioni hanno ancora una circolazione locale di biglione, fra cui l'Egitto, ma le monetazioni locali cessano ovunque alla fine del sec. III.

L'Impero romano nel sec. III si avvia ad una rapida decadenza della quale la vita commerciale si risente profondamente. L'inflazione monetaria, dovuta all'emissione di monete di biglione sempre peggiori con un cambio in oro sempre più sfavorevole, produce una rivoluzione nel commercio, nel periodo che va dall'età di Gallieno a quella di Costantino. Per fermare il rapido aumento dei prezzi delle merci Diocleziano emette l'editto de pretiis rerum venalium, nel quale egli fissa i prezzi di tutte le merci e di tutti i salarî dopo aver fissato il corso del denario a 1/50.000 di libbra d'oro. Sappiamo come l'editto di Diocleziano, il cui scopo fondamentale era probabilmente quello di fissare il corso del denario in oro, rimanesse senza effetto di sorta. Esso però è un sintomo di un sistema politico-economico che caratterizza il periodo della decadenza dell'Impero romano. Il processo di decomposizione dell'Impero è rallentato dalla burocratizzazione di tutte le funzioni sociali. Riscontriamo fenomeni di concentrazione in tutti i campi della produzione. Nell'agricoltura si costituì sempre più il latifondo, coltivato da coloni legati alla gleba. Nella produzione industriale e nel commercio divennero coattive ed ereditarie tutte le professioni d'interesse pubblico, prima organizzate in corporazioni libere: tali quelle dei navicularii, dei fabbri, dei pompieri, degli armaioli e monetarî, dei pescatori di porpora, dei tessitori imperiali, dei minatori, dei mugnai e fornai, dei macellai. Gli artigiani e gl'industriali diventano funzionarî pubblici che s'innestano sull'organizzazione politica della città. Tale nuova organizzazione non poteva esser favorevole allo sviluppo del commercio. Nell'ultimo periodo dell'Impero probabilmente il commercio si concentrò ancor più nelle mani dei Siri e degli Ebrei.

Bibl.: Parte generale: O. Neurath, Antike Wirtschaftsgesch., 2ª ed., Lipsia 1918; K. Bücher, Die Entst. der Volkswirtsch., 2ª ed., Tubinga 1898; L. Goldschmidt, Universalgesch. des Handelsrechts, I, Stoccarda 1893, p. 58 segg.; P. Huvelin, L'hist. du droit comm., Parigi 1904; J. Marquardt, Das Privatleben d. Römer, II, Lipsia 1886, p. 389 segg.; L. Homo, Problèmes sociaux de jadis et d'à présent, Parigi 1922; H. Blümmer, Die gewerbliche Tätigkeit der Völker des klass. Altertums, Lipsia 1869 (trad. in Bibl. di storia econ. di V. Pareto, II, i, Milano 1911); id., Die röm. Privatalterhümer, Monaco 1911, p. 618 segg.; M. Weber, Wirtschaft u. Gesellschaft, Grundriss der Sozialökonomik, Tubinga 1925.

Preistoria: J. N. v. Sadowski, Die Handelsstrassen der Griechen und Römer an die Gestade des Balt. Meeres, Jena 1877; S. Müller, Nordische Altertumskunde, I, Strasburgo 1897; O. Montelius, Kulturgeschichte Schwedens, Lipsia 1906; O. Montelius, Der Handel in der Vorzeit, in Prähist. Zeitschrift, 1910, p. 249 segg.; M. Hoernes, Natur- und Urgesch. d. Menschen, II, Vienna 1909, p. 497 segg.; H. Genthe, Über den etrusk. Tauschhandel nach dem Norden, Francoforte 1874; M. Much, Die Kupferzeit in Europa, 2ª ed., Jena 1893, p. 45 segg.; M. Ebert, Südrussland im Altertum, Berlino 1921, p. 62 segg.; D. Fimmen, Kretisch-myken. Kultur, 2ª ed., Lipsia 1924, p. 95 segg., 113 segg.; J. Déchelette, Manuel d'archéologie, II, Parigi 1910, p. 345 segg.; E. Wahle, in M. Ebert, Reallexikon der Vorgeschichte, s. v. Handel, Berlino 1924-25; O. Schrader-A. Nehring, Reallex. d. indogerm. Altertumsik., 2ª ed., Berlino e Lipsia 1917-1929.

Grecia: M. Clerc, Les Métèques athèniens, Parigi 1893; H. Francotte, L'industrie dans la Grèce ancienne, Bruxelles 1900-1901; A. Boeckh, Staatshaushaltung der Athener, 3ª ed., Berlino 1886 (trad. it. in Biblioteca di storia economica di V. Pareto, I, Milano 1903); B. Büchsenschütz, Besitz und Erwerb im griech. Alterthum, Halle 1869; id., Die Hauptstätten des Gewerbefleisses im klass. Alterthum, Lipsia 1869; J. Hasebroeck, Die Betriebsformen des griech. Handels im IV Jahrh., in Hermes, LVIII (1923), p. 393 segg.; id., Staat und Handel im alten Griechenland, Tubinga 1928; E. Cavaignac, Études sur l'histoire financière d'Athènes au Ve siècle, Parigi 1908; L. Gernet, L'approvisionnement d'Athènes en blé au Ve et au VIe siècle, Parigi 1909; G. Glotz, Le travail dans la Grèce anc., Parigi 1920; P. Guiraud, La main-d'œuvre industrielle dans l'anc. Gręce, Parigi 1900; A. Jardé, Les céréales dans l'antiquité grecque, Parigi 1925; E. Meyer, Die wirtschaftl. Entwickl. d. Altertums, in Kleine Schriften, I, Halle 1910 (trad. in Bibliot. di storia econ. di V. Pareto, II, i, Milano 1911); E. W. Reichhardt, Das Gewerbe im alten Griechenland und das kapital. Gewerbe, in Jahrb. f. Nationalökon. u. Statistik, 126, III (1927), p. 71; P. Roussel, Délos, Parigi 1917.

Ellenismo: U. Wilcken, Grundzüge u. Chrestomathie d. Papyruskunde, Lipsia-Berlino 1912; V. Chapot, La province proconsulaire d'Asie, Parigi 1904; J. Hatzfeld, Les trafiquants italiens dans l'Orient hellénique, Parigi 1919; G. Lumbroso, Recherches sur l'économie pol. de l'Égypte sous les Lagides, Torino 1870; H. Maspero, Les finances de L'Égypte sous les Lagides, Parigi 1905; T. Reil, Beiträge zur Kenntniss des Gewerbes im hellenist. Ägypten, Berna-Lipsia 1913; M. Rostovtzeff, A large estate in Aegypt in the third century B. C., Madison 1922.

Roma e Impero romano: S. Dill, Roman Society in the Last Century of the Western Empire, 2ª ed., Londra 1899; M. Rostovtzeff, The social and economic history of the Roman Empire, Cambridge 1926; E. Speck, Handelsgesch. des Altert., III, ii, Lipsia 1906; J. Hatschek, Brit. und röm. Weltreich., Monaco 1921; R. Cagnat, Le Portorium chez les Romains, Parigi 1880; V. Pârvan, Die Nationalität der Kaufleute im röm. Kaiserreich, Breslavia 1909; M. Rostovtzeff, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VII, col. 126 segg.; A.W. Persson, Staat und Manufaktur im röm. Reiche, Lund 1923; Charlesworth, Trade routes and commerce of the Roman Empire, 2ª ed., Cambridge 1926; A. Waltzing, Étude hist. sur les corporations professionnelles chez les Romains, Lovanio 1895-1902; A. Stöckle, Spätrömische und byzant. Zünfte, in Klio, IX (1911); K. J. Beloch, Die Handelsbewegung im Altertum, in Jahrb. f. Nationalök. u. Statist., III, p. 5; id., Die Grossindustrie im Altertum, in Zeitschrift für Sozialwissenschaft, II (1899); T. Frank, An economic history of Rome, 2ª ed., Baltimora 1927; Gummerus, Die röm. Industrie, in Klio, XIV, p. 129 segg.; G. Salvioli, Il capitalismo nel mondo antico, Bari 1929.

Medioevo ed epoca moderna. - Dalla caduta dell'Impero di Occidente alle Crociate. - La decadenza di Roma dopo il sec. III d. C., le invasioni barbariche e infine il crollo dell'Impero d'Occidente determinano, anche nei riguardi del commercio, il ritorno a un dualismo, che soltanto la grande forza unificatrice delle legioni, del diritto, dell'amministrazione romana era riuscita, e non mai completamente, a comporre: un profondo solco si scava nuovamente fra Oriente e Occidente. Lungo le coste del Mar di Levante e poi, ad opera degli Arabi, lungo le coste settentrionali dell'Africa, in Sicilia, in gran parte della Penisola Iberica, l'antica civiltà greco-orientale continua, senza interruzione, il suo sviluppo, con la sua vita cittadina, con le sue arti, con la sua agricoltura specializzata e intensiva, coi suoi rapporti commerciali estesi a tutto il mondo conosciuto. Nell'Occidente invece il crollo della vecchia organizzazione centrale e periferica, i danni e le minacce delle invasioni, l'abbandono delle città, lo spopolamento delle campagne determinano il ritorno a condizioni di vita primitiva, non molto diverse forse da quelle che avevano dominato in gran parte di quelle regioni prima della conquista romana. Anche dopo l'anarchia del sec. V e VI, quando cominciano i primi segni di una iniziale riorganizzazione nelle grandi proprietà fondiarie, ecclesiastiche e laiche, non è possibile determinare in modo sicuro e uniforme la natura e la funzione degli scambî nell'Occidente europeo.

Qualora l'ordinamento caratteristico di quelle grandi proprietà, che si è designato coi nomi di sistema signorile o curtense (v.), si fosse universalmente diffuso in tutto l'Occidente romano-germanico e si fosse presentato dovunque con quel complesso armonico di prestazioni e controprestazioni, che ne fanno un organismo sufficiente a sé stesso e relativamente chiuso, è certo che in un'economia di tal genere sarebbe stato estremamente esiguo il campo riservato agli scambî. In realtà, sia nei paesi in cui la civiltà latina aveva posto più salde radici, sia in quelli che non avevano avuto con essa che scarsi contatti o non ne avevano avuti del tutto, il sistema curtense non riesce mai ad occupare interamente il quadro della vita economica. Nei primi paesi, molte delle città romane hanno potuto sopravvivere al flagello delle invasioni. Esse - è vero - sono in piena decadenza: ma in ogni modo la città esiste ed è la sede preferita delle maggiori autorità ecclesiastiche e dei più alti ufficiali regi, e, come tale, esercita, per modesta che sia, una forza d'attrazione, anche economica, sulle popolazioni della campagna circostante. Le arti cittadine non sono mai scomparse del tutto, e molte almeno delle città sono sede di un mercato periodico. Negli altri paesi, dove la civiltà romana non era penetrata o la sua azione, troppo recente, era stata distrutta, il centro della vita economica, più che dalla corte signorile, è costituito dal villaggio, sede di un gruppo di famiglie che traggono il loro sostentamento dalla coltivazione del piccolo appezzamento famigliare e delle strisce di terreno seminativo periodicamente suddivise, e dal godimento in comune dei pascoli e delle foreste.

Ma anche dov'è più diffuso ed esteso il sistema delle grandi signorie fondiarie, di cui le varie parti si completano vicendevolmente, non si può sempre parlare di un assoluto predominio dell'economia curtense, nel senso preciso e limitato che si è voluto assegnare a questa parola. Molte volte le corti stesse non rappresentano un organismo unitario, costituito da una serie ininterrotta di terre e da gruppi di casali disposti intorno alla curtis dominica, ma una semplice unità amministrativa costituita da terre sparse in località diverse e spesso abbastanza lontane e da case appartenenti a diversi villaggi. È evidente che in questi casi la corte non può costituire un'isola economica indipendente e chiusa.

Effettivamente, la necessità e la pratica degli scambî non sono mai venute meno del tutto neppure nei secoli più oscuri che seguono le invasioni. Non solo molte vecchie città seguitano ad essere sedi d'un mercato, ma concessioni di aprire nuovi mercati s'incontrano anche per luoghi in cui non esisteva alcuna città.

L'imposta romana dei mercati, detta siliquaticum o curatura, seguitò ad esigersi in Italia e in Francia; come pure il teloneum sulle merci comprate e vendute, il ripaticum sulle imbarcazioni che approdavano alle rive d'un fiume. Più raramente sono ricordati il dazio che si riscuoteva alle porte di qualche città e una tassa sulle botteghe. La moneta non è mai scomparsa e se ne fa menzione in quasi tutti i contratti. Ma probabilmente essa è usata nel commercio interno assai più come misura dei prezzi, che non come mezzo effettivo di pagamenti: la maggior parte degli scambî, i quali richiedevano sempre la presenza dei contraenti e della merce, doveva effettuarsi in natura. Il bisogno della moneta deve essersi fatto sentire soprattutto per il commercio coi paesi lontani.

Quello che sopravvive, in quei secoli, del commercio marittimo internazionale è soltanto l'importazione dei prodotti orientali. Nelle città della Francia meridionale, s'incontrano numerosi i mercanti greci, siriaci, ebrei; mercanti siriaci si trovano anche nell'interno, a Orléans, a Tours, a Parigi; gli Ebrei si trovano dappertutto, in Francia come nell'Italia meridionale. Dai loro paesi d'origine, e specialmente dalla Siria, dall'Asia Minore, da Costantinopoli, quei mercanti importano ricchi tessuti di seta, stoffe dipinte e damascate per le chiese, e, sebbene in misura minore, per le corti e per qualche potente signore. Ai prodotti industriali essi aggiungono talvolta alcuni prodotti agricoli del Mediterraneo orientale e dei paesi tropicali, specialmente vino, spezie, profumi, insieme con le pietre preziose. In cambio di quei prodotti, essi acquistavano sui mercati occidentali qualche metallo grezzo, salgemma, miele, cera, qualche volta grano e assai probabilmente schiavi. Ma il valore dell'esportazione era sempre molto inferiore a quello dell'importazione e le differenze dovevano essere saldate in moneta contante o in metalli preziosi. All'affluenza di mercanti orientali in Occidente non corrispondeva affatto una corrente opposta di mercanti occidentali in Oriente: v'era soltanto una corrente di pellegrini, fra i quali raramente si dovevano contare dei mercanti.

Sebbene, dunque, gli scambî non siano venuti meno del tutto, essi non assumono mai un'importanza tale che i più piccoli gruppi sociali (famiglia, villaggio, signoria fondiaria) siano tolti da quell'isolamento il quale costituisce indubbiamente la caratteristica generale della struttura economica di tutto l'Occidente nell'alto Medioevo. Non si arriva mai alla chiusura completa di queste economie isolate. Esse mantengono sempre qualche contatto col mondo circostante, da cui ricevono abitualmente ciò che loro manca del tutto e a cui forniscono qualche eccedenza della loro produzione. Ma questi contatti non rappresentano per esse una necessità vitale e costituiscono piuttosto l'eccezione che la regola: la regola è quella della produzione per l'immediata soddisfazione dei proprî bisogni.

Ben diverso è il quadro che offre l'Impero d'Oriente, dove la vita economica, rigidamente vigilata e disciplinata dallo stato, si mantiene in generale molto fiorente e attraversa anzi alcuni periodi di grande splendore. Nel sec. VI, l'Impero comprendeva ancora le sole fra le provincie romane che avessero conservato quasi intatta l'antica ricchezza e l'antica attività produttiva, la Siria e l'Egitto. L'Egitto è sempre il granaio dell'Impero, l'esportatore del vetro e del papiro, una delle vie commerciali preferite fra il Mediterraneo e i paesi dell'Oceano Indiano. La Siria è assai ricca di vino e di olio; ma la sua maggiore importanza è data dalle industrie assai sviluppate: oltre alle fabbriche di tela di lino, alle tintorie di porpora e alle fabbriche di vetro di Sidone, un'industria nuova vi aveva preso grande sviluppo: la fabbricazione dei tessuti con la seta greggia che proveniva dalla Cina e che, dal tempo di Giustiniano in poi, era prodotta anche in alcune regioni dell'Impero.

Costantinopoli era nello stesso tempo un grande centro di consumo e di scambî. Sia per il lusso delle classi più elevate, sia per la necessità di provvedere, a spese dello stato, al mantenimento della parte più misera e numerosa della popolazione cittadina, affluisce alla capitale una quantità grandissima di prodotti, in parte come tributi delle provincie o rendite dei demanî imperiali, in parte come acquisti degli ufficiali dell'Impero o anche, in proporzioni minori, di mercanti privati. Ma Costantinopoli, a differenza di Roma, è anche un grande centro commerciale; essa è anzi per qualche secolo il maggiore centro commerciale del mondo, avendo la fortuna di trovarsi in una posizione meravigliosa per cui forma il ponte naturale fra l'Asia e l'Europa. Affluivano al Bosforo tutte le maggiori strade commerciali che attraversavano, per mare o per terra, il mondo allora conosciuto: dalla Russia, dalle regioni danubiane, dal Mediterraneo occidentale, dall'India e dall'Estremo Oriente. Indice dell'universalità del commercio bizantino è la diffusione della sua moneta d'oro, che, fatte le debite proporzioni, occupò fino al sec. XIII, la posizione oggi tenuta dal dollaro.

Scossa dalla formazione dell'Impero arabo e dalla perdita della Siria e dell'Egitto, l'importanza commerciale di Costantinopoli si risolleva nel sec. X, quando il dominio greco si ristabilisce sulle coste dell'Italia meridionale, su Creta, su Cipro, sulla Cilicia e su Antiochia e assume grande sviluppo il commercio fra Greci e Arabi. Ma se Costantinopoli seguita ad essere il più grande mercato del mondo per gli scambî fra Oriente e Occidente, i Greci non partecipano più a questo traffico internazionale con l'attività di un tempo e cedono sempre più il campo ai mercanti stranieri. Fu appunto questo l'inizio della fortuna di alcune città italiane, in particolare di Amalfi, Bari e Venezia, che per i loro rapporti, ormai poco più che nominali, di soggezione dall'Impero greco e per i loro quotidiani contatti con gli stati occidentali, si trovano nelle migliori condizioni per esercitare la funzione di intermediarî fra Costantinopoli e l'Occidente europeo; e con l'intensa attività marinara, finiscono per aver larga parte nello stesso commercio greco e per ottenere larghi privilegi dal governo imperiale.

Accanto alle città marinare dell'Italia bizantina, cominciano a partecipare a quel traffico anche le città del Tirreno, Pisa e Genova in primissima linea, che dai primi tempi del dominio longobardo erano del tutto staccate da Bisanzio. Ma per questi porti, come anche per Amalfi, l'esposizione verso Ponente fu favorevole per intensificare i rapporti non solo col Mare del Levante, ma anche con le isole del Mediterraneo occidentale (soprattutto Sicilia e Maiorca), con le coste di Barberia e con la Spagna, dove la civiltà araba, continuatrice e propagatrice della civiltà greco-orientale, era nel massimo splendore, e dov'essa aveva introdotto la coltivazione del cotone, della canna da zucchero, della palma da datteri, del gelso, la tessitura della seta, del lino e del cotone, l'industria delle armi, dell'oreficeria, dei vetri colorati, dei lavori in cuoio.

I grandi agglomeramenti urbani, alcuni dei quali anche in Europa, come Palermo, Cordova, Siviglia, Malaga, Granata, Toledo, davano vita a scambî attivissimi fra città e campagne, fra regione e regione. La popolazione della Mecca e di altre città dell'Arabia viveva in gran parte col grano esportato dall'Egitto. A Baghdād, i prodotti del Turkestān, del Caspio e dell'India si trovavano accanto a quelli della Siria, dell'Arabia e dell'Egitto. Le varie parti del mondo arabo si completavano a vicenda, trovandosi entro i loro confini, oltre ai generi di prima necessità, tutti quei prodotti rari che altri popoli dovevano importare.

Accanto a questi scambî fra regione e regione del mondo musulmano, non mancò mai il vero commercio internazionale. Gli Arabi di Oriente ebbero sempre rapporti assai frequenti con la Cina e con le Indie. Nei secoli VIII e IX mercanti o navi arabe dovettero frequentare il porto di Canton, allora aperto agli stranieri; e per i bisogni di quei viaggiatori fu compilata in arabo, tra l'854 e l'874, una Guida, nella quale, fra l'altro, si descrive la via marittima dal Tigri fino all'India e alla Cina. Resi poi impossibili i rapporti diretti con l'Impero Celeste, gli Arabi limitarono i loro viaggi alla penisola di Malacca, dove essi, insieme coi prodotti cinesi (soprattutto seta), acquistavano quelli dell'Indocina e della Malesia. Assai più frequenti erano i loro viaggi all'isola di Ceylon e alle coste dell'India anteriore, dove fondarono colonie e si diffuse l'islamismo.

Verso settentrione, si ristabilirono nel sec. IX i rapporti pacifici con l'Impero greco e numerose fiere si tenevano ad Aleppo, ad Antiochia, a Trebisonda, frequentate da mercanti musulmani, bizantini, armeni, ecc.; a nord del Caspio mercanti arabi penetravano nel cuore della Russia, mentre ai porti di Barberia affluiva il commercio carovaniero dei paesi del Sūdān. Le monete arabe d'oro e d'argento erano diffusissime, e ne furono scoperte persino in Russia e in tutti i paesi del Baltico.

Di fronte a una così vasta espansione del commercio degli Arabi ad oriente, a sud e a nord del loro impero molto scarso è lo sviluppo raggiunto, almeno fino al sec. XI, dai loro scambî pacifici coi paesi cristiani dell'Occidente europeo. Quando i loro vascelli toccavano le coste d'Italia o di Francia, non erano pacifici mercanti quelli che ne sbarcavano, ma bande di soldati e di pirati, che minacciavano la distruzione, la strage e la rapina. Soltanto dopo il Mille, quando le nostre città costiere si furono agguerrite nella lotta imponendosi con la forza, cominciarono a stabilirsi rapporti sempre più frequenti con gli Arabi di Sicilia, di Spagna e d'Africa.

Ma anche sull'Occidente fu sensibilissima l'influenza esercitata dagli Arabi nel campo del commercio e della navigazione. Se non ne restassero altri ricordi, una testimonianza decisiva se ne conserverebbe nelle numerosissime parole passate nelle lingue occidentali in materia marinaresca, nei nomi di merci, nei termini di tecnica mercantile; nell'introduzione delle cifre arabiche, e probabilmente di norme e usi di diritto commerciale.

La rivincita dell'Occidente e la fioritura dell'economia cittadina. - Dopo il Mille, la situazione comincia a modificarsi profondamente, e in meno di due secoli essa finisce per essere del tutto capovolta. La trasformazione, che si manifesta dapprima nelle condizioni interne dei paesi di Occidente, è aiutata poi e stimolata dallo sviluppo del tutto nuovo e dal mutato indirizzo dei loro rapporti con l'Oriente, che si accompagnano al movimento delle Crociate. Il rivolgimento interno si esprime in tutta l'Europa d'occidente, nella rinascita o nel primo affermarsi della vita cittadina. Dal punto di vista politico, giuridico, sociale, e in parte anche da quello economico, il fenomeno si presenta, da luogo a luogo, con forme e proporzioni molto diverse. Ma, pur diverso da luogo a luogo, esso conserva dovunque una caratteristica fondamentale comune: la differenziazione tra la funzione economica della città, centro dell'amministrazione civile ed ecclesiastica, degli scambî e della produzione industriale, e la campagna, destinata all'agricoltura e all'allevamento; e, conseguenza di questa differenziazione, il dominio economico della città sulla campagna. La vicinanza d'una città, col suo mercato e con le sue botteghe d'artigiani, è l'elemento dissolvente delle vecchie e minori unità economiche della campagna. Si forma così un'unità più ampia che ha il suo centro nelle città; e trionfa in quasi tutte le regioni dell'Occidente quel tipo di economia, per il quale, dopo il Bücher, è ormai accettata dalla maggior parte degli storici la denominazione di economia cittadina.

Certamente, non si può concepire e rappresentare questo stadio della vita economica medievale in forma troppo rigida e schematica, considerando la città, col breve tratto di campagna da essa dipendente, come una cerchia di scambî ermeticamente chiusa, tagliata fuori da ogni rapporto commerciale col mondo esterno, e in cui la divisione del lavoro e gli scambî fra città e campagna siano organizzati in forma così completa da bastare interamente ai bisogni reciproci. Sebbene i numerosissimi statuti delle corporazioni artigiane, conservati per i secoli XIII e XIV, diano spesso l'illusione che entro le mura delle singole città siano rappresentati tutti i rami delle industrie più necessarie, in realtà la popolazione dei singoli centri cittadini era troppo esigua, le necessità tecniche di molti rami d'industria erano troppo complesse, l'approvvigionamento di molte materie prime troppo difficile, perché quell'ideale potesse essere raggiunto. Per molte città delle Fiandre, della Germania, della valle padana, si è potuta documentare una specializzazione in singoli rami delle industrie tessili o metallurgiche, che doveva, normalmente, accompagnarsi a uno scambio abbastanza attivo fra città e città. E, come la produzione urbana, anche quella rurale variava necessariamente a seconda delle condizioni del suolo, del clima, della densità di popolazione, e non poteva perciò essere sempre tale da escludere la necessità di scambî con gli altri territorî cittadini.

Ma se tutto questo è vero; se non solo è incontestabile che entro la cerchia del mercato cittadino sono sempre penetrati i prodotti dell'Oriente o di altri paesi lontani, ma è anche indubitato che non mancò mai del tutto una corrente di scambî fra le città vicine, non si può tuttavia negare che, nel quadro vario e complesso dell'economia occidentale del più tardo Medioevo, la chiusura o meglio l'autonomia del mercato cittadino costituisce la tendenza più generale a cui la massima parte delle città mira ad avvicinarsi, per assicurare a sé stessa, in ogni momento, la possibilità di vivere. Anche dove l'autonomia comunale non ha raggiunto il grado di sviluppo dell'Italia media e settentrionale, della Provenza, della Fiandra, dell'alta Germania e della regione renana, la debolezza del potere centrale, la difficoltà e la scarsa sicurezza delle comunicazioni facevano sì che dappertutto le singole città si sentissero isolate, e che la loro politica economica mirasse soprattutto allo scopo di bastare a sé stesse.

Si spiegano così il diffondersi, in tutte le città, del regime corporativistico, la politica della città dominante verso la campagna soggetta, la politica annonaria e in genere la politica commerciale delle città medievali. Le corporazioni artigiane, sebbene non abbiano avuto quel dominio universale ed esclusivo che risulterebbe dai loro statuti, sono tuttavia un fenomeno generale e caratteristico, strettamente connesso con l'accentrarsi della produzione industriale entro le mura cittadine e col suo esercizio nella forma prevalente, se non esclusiva, dell'artigianato. Esse rappresentano appunto una difesa dell'esistenza e dell'equilibrio delle minuscole imprese artigiane in un mercato chiuso. La ristrettezza e la chiusura del mercato spingono da un lato gli artigiani ad unirsi per impedire la concorrenza interna e le crisi di sovrapproduzione, rovinose per chi non vive che del proprio lavoro, e dall'altro il comune a far sorgere e disciplinare corporativisticamente le forme di produzione ritenute indispensabili all'indipendenza della città e del suo contado.

Dalla stessa necessità è ispirata la politica, che può sembrare di esoso sfruttamento, della città verso la campagna. Tutti i prodotti dei campi, non riservati all'immediato consumo dei produttori, devono essere offerti in vendita sul mercato cittadino, e soltanto le eccedenze si esporteranno. Strettamente connessa con le relazioni economiche fra città e campagna è la politica annonaria dei comuni, conseguenza dell'addensarsi entro le mura cittadine d'una popolazione completamente staccata dalla terra, per la quale non è sempre sufficiente la produzione della campagna soggetta. Negli anni d'abbondanza il problema è poco sentito, perché ai comuni più popolati e più ricchi è facile importare dalle regioni rimaste ancora prevalentemente agricole il grano e gli altri prodotti di prima necessità. Ma negli anni di scarso raccolto si chiudono completamente le barriere doganali fra comune e comune, e le città maggiori, non potendo contare che sul loro territorio, vedono una parte della loro popolazione condannata alla morte per fame. Per prevenire un tale disastro si creano uffici speciali, dell'annona o dell'abbondanza, od organismi autonomi, come la veneziana Camera del frumento, che di anno in anno, sulla base d'un censimento molto sommario, devono calcolare il fabbisogno della popolazione cittadina, e confrontandolo col raccolto presunto e con le riserve esistenti, devono prendere i provvedimenti necessarî. Nei comuni in cui il fabbisogno era abitualmente superiore od uguale al raccolto medio del territorio soggetto, la proibizione di esportare il grano e le altre vettovaglie era costante; negli altri comuni invece, in cui la proporzione era più favorevole, il divieto assoluto era spesso mitigato dalle licenze di esportazione. Quando si prevedeva una vera carestia, il comune interveniva anche in forma più efficace, acquistando in paesi vicini o lontani grosse partite di grano per venderle direttamente ai consumatori.

Meno rigidamente che per gli scambî delle derrate alimentari, il carattere fondamentale di mercato chiuso si manifesta anche in tutti i provvedimenti e consuetudini che regolano il commercio fra comuni vicini. Basterebbe, fra tutti, l'istituto delle rappresaglie, mantenuto per lungo tempo in vita anche in quelle città che hanno il maggior interesse a sviluppare l'attività commerciale, per dimostrare quanto fosse ancora profonda, in pieno Trecento, la separazione fra città e città, e come il cittadino d'un comune, quando ne avesse oltrepassato i confini, dovesse sentirsi in territorio non solo straniero, ma spesso nemico. Se si aggiungono a questo i dazî e i pedaggi numerosissimi, gli ostacoli spesso insuperabili opposti al mercante straniero che volesse vendere al minuto, il carattere rigidamente cittadino delle corporazioni, il moltiplicarsi delle zecche, con l'infinita varietà di monete che ne deriva, il frequente stato di guerra fra città; se ne conclude che il termine di economia cittadina definisce ciò che vi ha di più caratteristico negli scambî di quei secoli.

Centro di questi scambî è il mercato cittadino, che si svolge ormai in due forme diverse: nella forma cioè del mercato settimanale, più importante ed attivo, a cui intervengono le popolazioni del contado e che serve principalmente ai loro scambî, per lo più diretti e reciproci, di animali e prodotti agricoli, ma anche, in via secondaria, ai loro acquisti di manufatti dell'industria cittadina; ed in quella del commercio permanente il quale non richiede, però, che in misura assai modesta l'esistenza d'una classe d'intermediarî. Anche nel periodo in cui la popolazione si è molto addensata e la produzione è più varia ed intensa, la città è sempre organizzata, dal punto di vista commerciale, come un grande mercato quotidiano, in cui si cerca di facilitare il contatto diretto fra produttore e consumatore. È scambio diretto, ma non è più scambio in natura, ché la moneta di rame e d'argento domina ormai incontrastata anche come mezzo di scambio. Soli intermediarî degli scambî permanenti sono i venditori al minuto di panni ed altri tessuti, i merciai che vendono nastri, oggetti di cuoio e così via, gli speziali o droghieri e i piccoli rivenditori di derrate alimentari o d'oggetti usati.

Carattere del tutto diverso hanno i mercati annuali o fiere, di cui moltissime, se non tutte, le città diventano sede, e di cui alcune soltanto, per la posizione più favorevole, acquistano vera importanza internazionale nel senso moderno della parola, mentre la maggior parte hanno un carattere regionale, con l'intervento, accanto alle popolazioni dei comuni vicini, di gruppi più o meno numerosi di mercanti girovaghi, che vi portano i pochi prodotti più rari e ricercati di paesi lontani. Queste riunioni periodiche, che si tengono abitualmente una volta all'anno e talvolta ogni 6 o anche ogni 3 mesi; rappresentano da un lato una conseguenza della politica esclusivistica delle città, per cui soltanto in periodi eccezionali, e favoriti da particolari franchigie e salvacondotti, gli stranieri vi possono essere ammessi ad esercitare il commercio con piena sicurezza nelle persone e nelle cose; dall'altro, le condizioni particolarmente difficili e malsicure in cui si effettuano i trasporti, specialmente terrestri, in modo che i viaggi un po' lunghi devono essere fatti in carovane, ed è perciò interesse dei mercanti, come anche dei paesi da essi attraversati, che i periodi di riposo delle carovane ed i luoghi d'incontro dei varî itinerarî carovanieri coincidano coi giorni scelti per la fiera. Così le fiere, nonostante la loro funzione internazionale o interregionale, sono una conferma del carattere normalmente chiuso dell'economia cittadina.

In una condizione particolare, sebbene per ciò che riguarda i rapporti fra città dominante e territorio soggetto esse non si stacchino dal quadro generale dell'economia di quei secoli, si trovano invece quelle città che, per lo sviluppo di alcune industrie esportatrici, o per la loro posizione sulle grandi vie del traffico marittimo o fluviale, diventano la sede d'una popolazione assai numerosa, la quale non solo partecipa in forma più intensa e continua al commercio internazionale, ma vede in esso un'indeclinabile necessità per la sua esistenza. Città che si specializzano nell'uno o nell'altro ramo dell'industria tessile, come i numerosi e fiorenti centri urbani della Fiandra e alcuni della Lombardia; città che dànno all'industria della lana uno sviluppo molto superiore ai bisogni del territorio comunale, come Verona, Padova, Bologna e soprattutto Firenze, che sui primi del Trecento avrebbe prodotto più di 100.000 pezze all'anno; città, come Norimberga o Milano, che eccellono nella lavorazione dei metalli, devono tutte contare sopra un mercato assai vasto e assicurarsi da provenienze molto diverse i viveri per la crescente popolazione industriale. Ma anche più particolare è la condizione di quelle città a cui il vantaggio della posizione geografica assicura un vero monopolio commerciale, in modo che una gran parte della loro popolazione, e molti elementi che v'immigrano dal di fuori, possono vivere e prosperare come intermediarî degli scambî internazionali o come esercenti l'industria dei trasporti.

Con la crescente partecipazione alla vita degli scambî, dopo il Mille e specialmente dopo le Crociate, di molti paesi dell'Europa occidentale, centrale e settentrionale, due sono i campi principali del traffico marittimo: da un lato il Mediterraneo, e dall'altro il Baltico e la zona costiera del Mare del Nord. E in questi mari, le città che più vi partecipano sono quelle da cui più facile, per la loro ubicazione al vertice di un'insenatura o sull'estuario d'un fiume navigabile, è la penetrazione verso l'interno, o che hanno alle spalle regioni ricche di città e di attività industriali. Tale la condizione di Venezia, Pisa, Genova, Marsiglia, Arles, Montpellier, Barcellona, nel Mediterraneo; Danzica e Lubecca nel Baltico; Amburgo, Colonia, Bruges e Londra nel Mare del Nord.

Fra questi due campi principali del traffico marittimo, si stabiliscono, per via di terra, comunicazioni frequenti, che dànno vita a importanti centri commerciali lungo le vie fluviali o nei luoghi di passaggio e d'incontro obbligato delle carovane mercantili che attraversano l'Europa da sud a nord e da est ad ovest. Primeggiano fra questi, per tutto il sec. XIII, le famose fiere di Champagne, dove, all'incrocio delle strade che dalle foci del Rodano si spingono alle Fiandre e all'Inghilterra con quelle che dalle Alpi e dal Danubio muovono verso Parigi, si riunisce il maggior numero di mercanti e di merci delle più varie e lontane provenienze. Ma nello stesso tempo o poco dopo godono vantaggi simili i mercati situati a nord delle Alpi, come Vienna, Augusta, Costanza, le città dell'Alto Danubio e del Medio Reno, Lione, Parigi e pochi altri.

In tutte queste città la vita commerciale, alimentata dai ricchi e ricercati prodotti orientali, che vi arrivano dai porti del Mediterraneo e anche, in misura minore, dai mercati russi attraverso i porti del Baltico; dai tessuti di lana, di seta e di lino dell'Olanda, delle Fiandre, dell'Inghilterra, di qualche città italiana; da alcune materie prime più ricercate, come le lane inglesi e più tardi spagnole, le materie coloranti, le pelli, i metalli, specialmente della Germania, le armi e altri lavori di ferro e di bronzo, determina un movimento relativamente intenso d'affari e rende possibile la formazione di agglomerati urbani di 30, 40 o 50 mila abitanti. Ma di gran lunga superiore è lo sviluppo commerciale delle città italiane, le quali godono fra il Duecento e il Cinquecento d'un primato incontestabile e incontestato, sotto tale aspetto, fra tutte le città dell'Europa occidentale. Stanno in prima linea, fra esse, le città marinare, Pisa, Genova, Venezia, che, arrivate già a un grado assai notevole dí sviluppo nel sec. XI, traggono il massimo vantaggio dalle Crociate, che assicurano loro una posizione privilegiata a Costantinopoli, in tutti i territorî residui dell'Impero d'Oriente e lungo le coste della Siria, della Palestina e dell'Egitto. Esse diventano allora, soprattutto Venezia, le necessarie intermediarie del commercio orientale con tutti i paesi dell'Europa occidentale. E in parte esse esercitano questo commercio direttamente, tanto in Oriente, dalle coste di Barberia al Mar Nero, per mezzo di numerose e fiorenti colonie, quanto in Occidente, dall'Ungheria all'Inghilterra, dove spesso stabiliscono vere filiali delle loro case commerciali; in parte maggiore esse preferiscono approfittare della situazione monopolistica di cui godono, per fare della loro città un grande mercato a cui attirano i mercanti dell'Occidente, in prima linea i Tedeschi, riservando a sé invece i trasporti e i traffici dalla propria città ai mercati orientali. Come i pellegrini diretti alla Terra Santa vengono per lo più ad imbarcarsi nelle città italiane su navi italiane, così le merci di Francia, d'Inghilterra, di Fiandra, di Germania e delle città interne d'Italia sono portate a Genova, a Venezia e, in misura sempre minore, a Pisa, per esservi scambiate coi prodotti orientali o per essere di là inoltrate fino ai mercati d'Oriente. Cresciuta poi, nel sec. XIII, l'importanza dei mercati del Mare del Nord, la via di terra non sembrò più sufficiente per il traffico fra essi e i nostri porti maggiori, e si cominciarono a stabilire linee annuali di navigazione che, toccati i porti di Barberia e attraversato lo stretto di Gibilterra, affrontavano l'Atlantico; giunte alla Manica, si sdoppiavano, recando una parte del carico ai porti inglesi, specie a Londra, e una parte maggiore a Bruges.

Lo sviluppo delle città marinare provoca ed aiuta quello di alcuni centri dell'interno, i quali all'attività industriale cominciano ad aggiungere un'intensa partecipazione al commercio internazionale. Venezia, Genova, Pisa, troppo impegnate nel commercio marittimo, devono abbandonare una gran parte del loro traffico terrestre ai mercanti del retroterra che frequentano il loro porto. In tal modo, dal sec. XII in poi si moltiplica il numero dei mercanti italiani che si spingono di là dalle Alpi, molti dei quali si stabiliscono per lungo tempo o definitivamente in Francia, in Borgogna, nei Paesi Bassi, in Inghilterra. Accanto ai mercanti-banchieri di Roma, di Siena, di Firenze, che alle loro funzioni di esattori papali uniscono quelle di banchieri dell'alto clero, della nobiltà e soprattutto dei principi e si valgono di questa loro posizione per ottenere vantaggi doganali e preferenze nella concessione delle licenze di esportazione, si moltiplicano i piccoli banchi di prestito dei cosiddetti lombardi (di Asti, Chieri, Novi, Piacenza, Lucca, Siena, ecc.) i quali, recatisi probabilmente oltr'Alpe come mercanti che andavano di fiera in fiera, approfittarono della disponibilità che essi soli avevano di modeste somme di danaro liquido, per esercitare una funzione che non attirava certo su loro le simpatie delle popolazioni, ma che in paesi usciti appena dall'economia naturale rappresentava una necessità vivamente sentita.

Ma più che nella modesta e invisa attività dei lombardi, la quale in ogni caso rivela la posizione di supremazia di cui godono i nostri mercanti fra tutti i cristiani d'Occidente nella disponibilità e nel commercio del danaro, la superiorità dell'Italia nei tre secoli del suo indiscusso primato commerciale si manifesta soprattutto nell'attività e nell'organizzazione delle sue grandi case mercantili. A Venezia e a Genova, finché dura il primato marittimo italiano, la parte maggiore dei capitali è attratta all'industria dell'armamento e dei trasporti ed al commercio d'oltremare. Non manca in esse il ricordo di grandi ditte mercantili, che hanno i loro fattori nei più lontani mercati, da Trebisonda e dalla Tana fino a Londra e a Bruges, e che esercitano, accanto al commercio vero e proprio, anche l'attività bancaria. Ma essi sono più difficilmente individuabili e non hanno forse la potenza finanziaria raggiunta dalle loro sorelle toscane, perché nelle due città marinare la partenza periodica dei convogli navali per il Levante o per il Ponente è considerata come il maggior interesse cittadino, a cui partecipano migliaia di persone, che hanno danaro disponibile. La potenzialità finanziaria del mercante che s'imbarca sulle navi è moltiplicata dalle commissioni, dalle commende, dalle colleganze di moltissimi cittadini, che al suo ritorno dividono con lui, proporzionalmente alla loro partecipazione, i profitti o le perdite.

D'altra parte, l'attività dei banchieri veneziani e genovesi è esercitata soprattutto nell'interesse del commercio cittadino. La loro funzione principale è quella di agevolare i pagamenti di piazza per mezzo dei conti correnti e delle operazioni di giro e i pagamenti a distanza per mezzo delle cambiali. La loro funzione di prestatori sembra in generale limitata alle anticipazioni e ai mutui che essi fanno allo stato cittadino. In Toscana invece, e particolarmente a Firenze, la forma preferita dall'associazione di capitali è quella delle compagnie o società famigliari, con qualche socio estraneo alla famiglia. Il numero di tali compagnie nella sola Firenze, avrebbe oscillato, nel sec. XIV, fra le 80 e le 108: e molte di esse, come i Bardi, i Peruzzi, gli Acciaiuoli, gli Alberti, raggiungono un'importanza ed una potenza veramente mondiali. Dalla casa madre che risiede a Firenze dipendono decine di filiali sparse in tutti i maggiori mercati d'Italia, del Mediterraneo e di tutto l'occidente europeo, e centinaia di fattori, che risiedono presso le filiali o vanno visitando le fiere. Il campo dell'attività di quelle compagnie non ha limiti. Se essa è di preferenza rivolta al commercio delle lane e dei panni forestieri ed alle grandi operazioni di prestito a privati, a città, a principi, non vi è poi affare di qualsiati altro genere in cui, all'occasione, rifiutino d'impegnarsi. In patria, esse attendono nello stesso tempo al commercio all'ingrosso e al minuto dei panni forestieri e dominano coi loro capitali una gran parte dell'industria della lana; all'estero, intervengono alle fiere di carattere internazionale, dove monopolizzano gli affari di cambio, e nello stesso tempo commerciano in materie coloranti, in spezie, in droghe, si fanno importatori di frumento dalle Puglie e dalla Sicilia, armano o noleggiano navi, si adattano ad ogni genere d'affari che offra speranze di alti profitti.

Così, accanto al piccolo mercante al minuto che ha, per dirla col Sombart, la mentalità e la situazione economica dell'artigiano, si forma, soprattutto e prima che altrove nei maggiori centri d'Italia, il tipo del mercante capitalista, del grande mercante moderno. Questi esce dalla cerchia chiusa e ristretta della vita cittadina, è in certo senso l'erede e il continuatore del vecchio mercante girovago, da cui gli deriva la passione per la vita errabonda, la conoscenza e la consuetudine di paesi e mercati lontani. Pericoli e difficoltà non solo affinano in lui il naturale istinto commerciale, ma sviluppano attitudini del tutto nuove d'organizzazione e d'amministrazione; per cui al mercante si deve se l'Italia del '300 e del '400 diventò la maestra di tutta l'Europa, coi suoi rapidi progressi nell'aritmetica mercantile e nelle tenuta dei libri, nell'organizzazione razionale delle aziende, nella tecnica e nel diritto commerciale.

L'età moderna. - Se le maggiori città mercantili del Mediterraneo e delle Fiandre e, in misura minore, alcune città della Germania e dell'Inghilterra possono considerarsi fin dai primi del Trecento come i precursori del commercio moderno, esse però non rappresentano che un'eccezione in mezzo a un mondo che rimane frazionato nelle sue minuscole economie isolate o rurali. L'economia moderna comincia ad affermarsi assai lentamente dal sec. XV in poi e non trionfa completamente delle superstiti resistenze del mondo medievale che verso la fine del sec. XVIII, quando già s'inizia una nuova era della storia economica. Come caratteristiche fondamentali del commercio nell'età moderna possiamo considerare: l'allargarsi della cerchia degli scambî interni e quello, assai maggiore, del campo degli scambî internazionali, con lo spostamento delle loro vie principali e, perciò, dei centri della vita economica; il trionfo dell'economia del danaro e il crescente predominio del capitale e dello spirito capitalistico; l'importanza assai maggiore ottenuta dal commercio esterno nella vita dei popoli, tanto da indurre le grandi nazioni a una politica d'intervento per stimolarne l'attività e soprattutto per ottenere un'eccedenza delle esportazioni sulle importazioni.

L'allargamento della cerchia degli scambî interni, che s'inizia in Italia, fin dal Duecento, con la sottomissione dei comuni minori ai grandi comuni industriali e mercantili, si manifesta più tardi, in misura assai maggiore, nelle monarchie nazionali che nel Quattrocento si sono già affermate o si vanno affermando nella penisola iberica, in Francia, in Inghilterra, nella Scandinavia. Si è parlato perciò di un'economia nazionale che sarebbe caratteristica dell'età moderna, in contrapposto all'economia domestica o cittadina dell'alto e del basso Medioevo. Ma si è corso un po' troppo, se con questo termine di economia nazionale si vuole indicare un'economia in cui merci e mercanti possano liberamente circolare entro i confini d'uno stato nazionale, il quale provveda completamente da sé ai proprî bisogni, costituendo un'unità economica indipendente e chiusa. Negli stessi paesi in cui, come in Francia, si è costituita una forte unità statale, assoluta e accentratrice, le vecchie divisioni locali sopravvivono fino agli ultimi decennî del Settecento nelle dogane interne, nel regime corporativo a base cittadina, che ostacola il movimento delle persone e dei prodotti da città a città; nella politica annonaria, che rende estremamente difficile, a vantaggio dei consumatori urbani, la circolazione dei cereali e di altre derrate alimentari da provincia a provincia; nell'insufficienza e nella poca sicurezza delle comunicazioni, che rendono spesso il commercio interno più lento, più costoso e più pericoloso del commercio internazionale, esercitato per via di mare. Qualche progresso si è fatto con la creazione, iniziatasi alla fine del Quattrocento, dei servizî postali, e con una più estesa organizzazione di servizî dei trasporti per via fluviale o per via ordinaria. Ma anche i nuovi servizî, almeno dove non esistesse una fitta rete di canali navigabili, non potevano aumentare di molto la frequenza e l'intensità degli scambî fra regioni d'uno stesso paese.

Ma se all'interno sopravvivono le vecchie divisioni, e se l'isolamento delle antiche economie locali può apparire attenuato ma non mai superato del tutto, la formazione d'una superiore unità statale ha una ripercussione innegabile e sensibilissima anche sulla vita economica di tutta la nazione. Essa vigila e disciplina l'ordinamento e l'attività delle corporazioni locali, accentra e unifica l'emissione delle monete, prende iniziative per stimolare e aiutare le più necessarie forme d'attività produttiva o commerciale. Perciò, l'economia degli stati moderni dell'Occidente può definirsi un complesso d'economie isolate, in gran parte cittadine, che tendono sempre più a fondersi in un'unità economica nazionale.

Assai più importanti dei mutamenti negli scambî interni sono quelli che, dopo la fine del Quattrocento, si compiono nel commercio internazionale. L'Atlantico, che fin dal Trecento era stato percorso dalle navi italiane dirette dal Mediterraneo verso la Manica e il Mare del Nord, diventa a poco a poco, dopo i viaggi di Colombo e di Vasco da Gama, la sede di traffici sempre più intensi. Il Mediterraneo conserva bensì una notevole importanza per le vecchie civiltà che fioriscono lungo le sue coste, ma perde la funzione d'intermediario quasi monopolistico del traffico dell'India e dell'Estremo Oriente col mondo occidentale; mentre, all'altra estremità del continente, l'altro mare interno d'Europa, il Mar Baltico, passa in seconda linea di fronte alla crescente importanza del Mare del Nord, che diventa anzi, da allora in poi, la sede del più intenso traffico marittimo di tutto il mondo. Anversa dapprima e poi Amsterdam, Amburgo e Londra non solo lasciano a distanza Lubecca, ma, attirando a sé, oltre al commercio del Settentrione, anche quello dell'Oriente e delle nuove colonie americane, superano presto i maggiori porti del Mediterraneo e diventano, soprattutto Amsterdam, grandiosi emporî d'importanza mondiale. In un primo tempo, finché tra i vecchi e i nuovi centri del traffico mondiale si mantiene un relativo equilibrio, le città dell'alta Germania che si trovano press'a poco a uguale distanza da Venezia e da Anversa e che per la via di Genova possono facilmente comunicare col nuovo mercato di Lisbona, traggono il massimo vantaggio dalla loro situazione favorevole e diventano, per tutta la prima metà del Cinquecento, mercati importantissimi, in cui fiorisce un buon numero di ditte commerciali, che impiegano la loro attività e i loro capitali nell'industria tessile e mineraria, nel commercio terrestre e marittimo, nelle imprese coloniali, negli affari di banca e di finanziamento, e raggiungono una potenza capitalistica tale da oscurare quella dei maggiori mercanti-banchieri di Firenze. Ma, a mano a mano che l'intensità dei traffici dell'Atlantico va aumentando e che l'equilibrio si sposta a danno del Mediterraneo, anche la floridezza di questi centri intermedî va declinando, e le città del Mare del Nord si assicurano definitivamente il primato non solo per il movimento delle navi e delle merci, ma anche per la mole degli affari, per il commercio del danaro, per l'accumulazione di capitali.

Con l'allargamento della cerchia degli scambî si accompagna un sensibile aumento nella qualità e nella quantità degli oggetti del commercio internazionale. Se ancora alla metà del sec. XVI, per tutto il commercio dei Portoghesi con le Indie, oggetto di tante invidie e cupidigie, può essere sufficiente una spedizione annuale di 5 o 6 navi, d'una portata oscillante fra le 600 e le 800 tonnellate, di cui forse meno della metà poteva essere utilizzata per il carico, tuttavia queste importazioni, per cui sarebbe oggi sufficiente un solo piroscafo d'un tonnellaggio al disotto della media, rappresentano un progresso enorme in confronto di quelle che fino al Cinquecento dovevano giungere alle coste del Mediterraneo sul dorso dei cammelli dal golfo Persico o dal Mar Rosso, o che arrivavano ai mercati russi attraverso i deserti e le steppe dell'Asia centrale.

Assai più lento a svilupparsi, il commercio fra le due sponde estreme dell'Atlantico finisce verso gli ultimi del Cinquecento, e specialmente nei due secoli successivi, a fornire occasioni assai maggiori di attività ai popoli che vi partecipano. Se per quasi un secolo furono per esso sufficienti le due flotte annuali in partenza da Siviglia per l'America centrale, di dove ritornavano cariche d'oro e d'argento, di qualche legno pregiato, di materie tintorie e di droghe raccolte nelle foreste tropicali, negli ultimi decennî del Cinquecento l'iniziata colonizzazione spagnola e portoghese, il contrabbando e il commercio negriero offrono l'occasione a tutti i paesi marinari delle coste europee dell'Atlantico di partecipare a quel traffico in misura sempre più intensa. Il commercio negriero soprattutto che, iniziatosi nella seconda metà del Cinquecento, sensibilmente aumentato nel secolo successivo, è portato a proporzioni impressionanti per tutto il settecento, non solo offre per sé stesso occasione a un notevole movimento marittimo fra le coste africane e i porti spagnoli, francesi ed inglesi e da questi all'America, ma permette la formazione delle grandi piantagioni di canna da zucchero e di tabacco, che determinano alla loro volta, dal Seicento in poi, un incremento progressivo ed assai rapido delle importazioni dall'America in Europa.

Ma forse più che dal commercio oceanico l'aumento dell'intensità del traffico internazionale è determinato dalla partecipazione ad esso di popoli che finora ne erano rimasti quasi del tutto estranei, come la maggior parte dei popoli anglosassoni e scandinavi e delle regioni orientali dell'Europa centrale, e dalla diffusione delle abitudini della vita raffinata e di lusso presso le corti, la nobiltà e la ricca borghesia dell'Europa occidentale, laddove prima esse erano prerogativa delle corti, della nobiltà, della borghesia italiane. Con questo aumento qualitativo e soprattutto quantitativo degli oggetti del commercio internazionale si spiega appunto come, per tutto il Cinquecento, Venezia, Genova e le altre maggiori città italiane, nonostante l'inferiorità in cui, per confessione dei loro più autorevoli rappresentanti, si trovano di fronte ad Anversa, seguitano a godere d'una grande prosperità, superiore forse a quella di cui avevano goduto nei secoli della loro supremazia incontrastata.

L'incremento degli scambî, aggiunto alle spese altissime a cui le grandi monarchie come i maggiori stati cittadini erano obbligati, per il mantenimento delle milizie mercenarie e degli eserciti permanenti, per la costruzione delle artiglierie, per l'armamento di flotte da guerra, determinarono una richiesta di danaro molto superiore a quella dei secoli precedenti. Non si può parlare d'una economia del danaro come d'una caratteristica nuova e generale dell'età moderna; poiché da un lato una tale economia, tramandata dal mondo romano a quello bizantino e arabo, aveva già completamente trionfato nei rapporti commerciali delle città d'Occidente per lo meno dal sec. XII, e dall'altro lato l'economia agraria d'una grandissima parte d'Europa seguita a conservare fino all'età contemporanea il carattere prevalente dell'economia naturale. Ma è tuttavia innegabile che l'uso e il bisogno del danaro si estendono, dopo la metà del Quattrocento, in misura assai rilevante; che da questo bisogno, vivamente sentito, è stimolato lo sfruttamento delle miniere di Boemia, del Tirolo e dell'Ungheria; e che, nonostante la loro produzione assai rilevante, la deficienza dei metalli preziosi si ricomincia a lamentare fin dai primi del Cinquecento e sarebbe diventata gravissima se in aiuto dell'Europa non fossero venute, nel corso di quel secolo, le forti importazioni d'oro e soprattutto le importazioni d'argento dal Perù e dal Messico. Dall'aumentata circolazione, e dall'aumento generale dei prezzi che ne deriva, viene bensì uno stimolo alla produzione e agli scambî, oltre che dei beni mobili, spesso anche della terra; ma l'aumento dei prezzi assume un carattere caotico dannoso sia per la troppo rapida svalutazione dell'argento, sia per la politica monetaria, miope e rovinosa, della maggior parte dei principi che, spinti dalle necessità, moltiplicano le coniazioni determinando una vera inflazione di monete divisionali di titolo sempre più basso.

Per riparare appunto al danno della confusione monetaria, enormemente aumentato da questa politica inflazionistica, non essendo sufficienti alle cresciute necessità del commercio internazionale le monete d'oro di valore relativamente costante e sicuro ed essendo venuta meno, dopo la metà del Cinquecento, la fiducia nei banchieri privati, una gran parte dei quali era stata trascinata al fallimento, si sente la necessità d'istituti pubblici che facilitino e garantiscano i pagamenti internazionali con operazioni di conto corrente e di giro, in cui le monete effettivamente depositate dai correntisti siano convertite in una moneta di banca, che abbia un rapporto costante con le monete d'oro più accreditate. Sorgono con tale scopo, negli ultimi decennî del Cinquecento, il Banco di Rialto a Venezia, il Banco Sant'Ambrogio a Milano, il Banco S. Giorgio a Genova, trasformazione del vecchio banco dello stesso nome; e sul loro tipo, ai primi del Seicento, la Banca di Amsterdam, d'importanza mondiale, il Banco-giro di Venezia e la Banca di Amburgo.

D'altra parte, il rapido movimento ascensionale dei prezzi, le nuove occasioni offerte dalle necessità militari e finanziarie dei grandi stati, dal lusso delle corti, dal commercio coloniale, favoriscono in misura del tutto nuova l'arricchimento dei mercanti più audaci e avventurosi, lo sviluppo di quello che si è chiamato lo spirito capitalistico. Non è esatto considerare la sete di guadagno, l'impiego arrischiato di capitali per la speranza di alti profitti, come un fatto nuovo che si manifesti per la prima volta nel sec. XVI. In realtà, era lo stesso spirito che animava i mercanti-banchieri delle maggiori città del Mediterraneo e delle Fiandre e di qualche città anseatica fin dal sec. XIV e forse prima. Ma il fenomeno assume ora estensioni e proporzioni assai maggiori, e trova le espressioni più tipiche della moderna economia capitalistica nella costituzione delle prime società per azioni per l'esercizio del commercio coloniale e nell'istituzione delle Borse per la vendita all'incanto non solo di alcune merci provenienti da lontani paesi, ma anche di valori. Fra tutti gli stati dell'Occidente quello che compie i più rapidi progressi sulla via dell'organizzazione capitalistica dell'attività commerciale è l'Olanda, che nel sec. XVII è, in tutta la vita economica, all'avanguardia delle nazioni europee, e può considerarsi sotto molti aspetti un precursore dell'economia contemporanea.

Assai importante fu il commercio coloniale olandese e profitti altissimi conseguì la compagnia delle Indie Orientali e, per qualche tempo, quella delle Indie Occidentali. Ma più importante fu il commercio marittimo olandese lungo le coste europee, specie nel Baltico, dove esso rivela le caratteristiche che lo accostano assai più al commercio contemporaneo che a quello del Medioevo: il carattere cioè d'un commercio di massa assai più che di qualità. Di tutte le navi registrate in transito, fra il Mare del Nord e il Baltico, le olandesi rappresentano una percentuale che varia dal 54 al 73% (nel 1620 raggiunsero il numero straordinariamente alto di 3843) e il loro carico di ritorno dai porti del Baltico è costituito in prima linea da cereali, che in qualche anno raggiungono, tra frumento e segale, la cifra cospicua di 400.000 tonn., a cui si aggiungono il legname da costruzione, la canapa, il lino, tutte merci relativamente povere e voluminose. Il commercio internazionale assume dunque, per opera degli Olandesi, quella che sarà la funzione fondamentale del commercio contemporaneo, di provvedere cioè, principalmente, non più alla richiesta d'articoli di lusso o voluttuarî, ma ai bisogni elementari della grande massa della popolazione. È vero che qualche cosa di simile era già avvenuto in alcuni dei grandi comuni medievali, e soprattutto a Venezia; ma, in questi casi, le importazioni di cereali e d'altre derrate alimentari erano considerate come una funzione pubblica, per assicurare l'alimentazione della popolazione cittadina e solo eccezionalmente esse offrivano occasione ad un commercio di riesportazione. Amsterdam invece diventa sede d'un importantissimo mercato di cereali, al quale ricorrono tutti quei paesi d'Europa che abbiano bisogno di provvedere alle momentanee deficienze del loro raccolto. Possedendo una marina mercantile che, nella seconda metà del '600, forse superava per numero e tonnellaggio la somma di tutte le altre marine d'Europa, gli Olandesi possono abbandonare, ad eccezione delle Indie Occidentali ed Orientali, il sistema delle compagnie privilegiate e dei viaggi in carovana, e lasciare piena libertà all'iniziativa dei singoli armatori; mentre, per le comunicazioni con Amburgo, con Rouen, con Londra, si organizzano, sempre ad opera di gruppi di armatori privati, servizî marittimi regolari e relativamente frequenti. La modernità del commercio olandese si manifesta anche più tipicamente nell'uso degli acquisti su campione, dei contratti a termine, delle anticipazioni su merci depositate nei magazzini, nell'enorme sviluppo assunto dalle assicurazioni, nel sorgere di una particolare e numerosa categoria di spedizionieri e di sensali di noli.

Mentre in Olanda l'attività commerciale assumeva, su basi prevalentemente cittadine, i lineamenti d'un commercio mondiale aperto a tutte le iniziative, le grandi monarchie occidentali d'Europa, e in prima linea la Francia e l'Inghilterra, cominciavano a sentire anch'esse la grande importanza che poteva avere il commercio internazionale; e si sforzavano di promuoverne lo sviluppo con quella politica a cui si è dato appunto il nome di mercantilistica e che assumeva forme diverse a seconda delle diverse condizioni dei paesi in cui era adottata: mirando, in Inghilterra, soprattutto a creare una forte marina mercantile e ad assicurarle possibilità di vita, difendendola dalla concorrenza olandese; in Francia, soprattutto a migliorare la bilancia commerciale col promuovere lo sviluppo delle industrie esportatrici, specialmente di prodotti di lusso. Politica d'intervento statale in tutte le forme della vita economica, che raggiungeva in gran parte il suo scopo, ponendo Francia e Inghilterra, all'inizio del '700, in prima linea, accanto all'Olanda, nell'attività commerciale, coloniale e marinara.

L'età contemporanea. - Mentre i maggiori e più forti stati unitarî trionfano, sebbene non completamente, del vecchio separatismo locale; mentre lo stesso movimento si estende dalla Francia e dall'Inghilterra nel nuovo regno di Prussia, nell'Austria, in qualcuno fra gli stessi stati italiani, in modo che può assegnarsi appunto al sec. XVIII il definitivo trionfo delle economie nazionali, si vengono nello stesso tempo sviluppando quei bisogni e quei rapporti nuovi i quali condurranno, in meno d'un secolo, al più profondo rivolgimento che si sia manifestato nella vita economica dell'umanità, e da cui deriverà l'odierna economia mondiale. Perciò il secolo e mezzo di storia che consideriamo come età contemporanea dev'essere suddiviso in due periodi, nel primo dei quali, entro le prevalenti economie nazionali, va aumentando l'importanza del commercio internazionale e si maturano, con la progressiva applicazione di nuovi processi tecnici nell'industria, nell'agricoltura e soprattutto nei trasporti, i caratteri fondamentali del secondo periodo, che s'inizia dopo il 1860: cioè la divisione del lavoro fra regione e regione, la possibilità della formazione dei giganteschi agglomerati urbani; l'interdipendenza economica di tutti gli stati; la produzione e il commercio di massa sostituiti alla produzione e al commercio di qualità; la grande mobilità delle persone e delle cose, per cui sembra che il mondo si sia fatto troppo piccolo per l'uomo civile; la rapidità infine nella formazione della ricchezza e la funzione predominante del capitale in tutti i campi della vita economica.

La popolazione dell'Europa che, per tutti i secoli del Medioevo e nei primi secoli dell'età moderna, attraverso periodi di rapida ascesa e periodi più brevi di mortalità altissima, determinata da pestilenze e carestie, aveva finito per mantenersi pressoché stazionaria, tanto che al principio del Seicento essa è ragguagliata a meno di un quarto della popolazione attuale, comincia a rivelare, dall'inizio del Settecento, un movimento di ascesa continua, che si accentua nel trentennio di pace che segue la guerra dei Sette anni. L'Inghilterra e il Paese di Galles, che nel 1690 contavano 5 milioni di abitanti, salgono a 6,5 nel 1750, ad 8 nel 1780, a quasi 10 milioni nel 1801. La Francia, che è in quel secolo il paese più popolato d'Europa, dai 18 milioni di abitanti alla morte di Luigi XIV sale a 23 milioni nel censimento del 1787. Per tutta l'Europa, la popolazione, valutata nel 1700 a 130 milioni, sale dopo un secolo a 188.

Quest'aumento quasi generale della popolazione, che trova una conferma nell'aumento fortissimo dell'emigrazione, mantenutosi fino al 1700 entro cifre modestissime, costituisce a sua volta uno stimolo potente all'aumento del commercio. Aumento non grandissimo nel commercio interno. Nel '700, specie nella seconda metà e nei primi decennî dell'Ottocento, si manifesta bensì un vivo interessamento per l'agricoltura, una viva opposizione contro tutti i vincoli e i privilegi che ostacolano la libera circolazione delle merci e soprattutto dei prodotti agricoli nell'interno dello stato; si dedicano maggiori cure e maggiori spese alla costruzione, al miglioramento, alla manutenzione delle strade nazionali; si cerca di liberare i fiumi da tutto ciò che ne impediva o ritardava la navigazione; s'intensifica, dove è possibile, la costruzione dei canali; si migliorano i servizî di posta e di trasporto. Ma tutti questi provvedimenti e questi lavori, importantissimi per la tendenza ch'essi rivelano, non lo sono altrettanto per i risultati. Si compie bensì un sensibile progresso in confronto alle condizioni dei secoli passati, ma si resta ben lontani dal permettere la partecipazione di tutti i paesi dell'interno e in particolare delle campagne al traffico nazionale e internazionale. Mancano le strade vicinali, e quelle comunali, tolte poche regioni più fortunate, sono insufficienti e in pessime condizioni. Perciò tutti quei paesi che non si trovano sul mare, sopra un fiume o un canale navigabile, o lungo le poche strade nazionali, restano ancora isolati. E anche per quelli che possono valersi delle comunicazioni stradali il costo dei trasporti terrestri è ancora tanto alto da diventare assolutamente proibitivo per i prodotti poveri. Nella stessa Francia, alla vigilia della rivoluzione, il grano delle provincie meridionali poteva essere spedito in America più facilmente che nelle provincie interne del nord-est.

Grandissima, invece, l'importanza assunta nel sec. XVIII dal commercio internazionale, non solo per i prodotti di lusso, di cui la richiesta si fa più intensa e più urgente per il raffinarsi del tenore di vita in paesi nuovi e in più larghi strati sociali; ma, in misura assai maggiore, per le materie prime e le derrate alimentari, anche di prima necessità, di cui domanda e offerta sono rapidamente cresciute, dato l'aumento della popolazione, la tendenza alla specializzazione e la commercializzazione della produzione agricola, che comincia a manifestarsi nei paesi economicamente più sviluppati, come l'Olanda, l'Inghilterra, la bassa Lombardia, e soprattutto dato lo sviluppo demografico e agricolo delle colonie americane.

Nelle sole colonie inglesi dell'America del Nord, la popolazione bianca che, nel 1688, sembra raggiungesse appena le 200.000 anime, sale nel 1770 a 1.850.000; e, 20 anni più tardi, il primo censimento degli Stati Uniti dà una popolazione di 572.000 Negri e 3.177.000 Bianchi. Se a questi si aggiungono gl'Inglesi e i Francesi del Canada, gli Spagnoli e i Portoghesi dell'America latina, sono certamente più di 5 milioni di Bianchi che, alla fine del Settecento, si trovano stabiliti sull'opposta sponda dell'Atlantico e che per i loro bisogni provocano una fortissima esportazione di manufatti e di prodotti agricoli dall'Europa. D'altra parte, la costituzione al di là dell'oceano di estesissime colonie a piantagioni, in cui s'intensifica in misura altissima la produzione di derrate agricole largamente richieste sui mercati europei (zucchero in primissima linea, e poi caffè, tabacco, cotone, cacao, materie coloranti), determina una forte corrente commerciale in senso opposto.

Rotti perciò gli antichi monopolî, abbandonato il sistema dei convogli periodici, l'Atlantico è percorso in tutti i sensi e in tutti i periodi dell'anno da navi di tutti gli stati occidentali, che aumentano continuamente di numero e di tonnellaggio. Dalle necessità, in prima linea, del commercio oceanico, che non è affatto diminuito dal distacco delle 13 colonie americane, è determinato l'aumento rapidissimo della flotta mercantile inglese, che da 3281 navi di una portata complessiva di 261.222 tonn. (in media 80 tonn. per nave) nel 1701, sale nel 1788 a 9360 navi con 1.053.000 tonn. (media 108 tonn. per nave), e a 13.448 navi nel 1802 con 1.844.224 tonn. (media 124 tonn. per nave); mentre la marina olandese rimane stazionaria intorno alle 600.000 tonn.

Un nuovo e più forte impulso allo sviluppo del commercio internazionale e al mutamento della sua funzione vien dato dalla cosiddetta rivoluzione che si compie nei due ultimi decennî del sec. XVIII e nei primi decennî del sec. XIX nel campo delle industrie, con l'introduzione delle macchine e il trionfo della fabbrica. La specializzazione della produzione industriale, i grandi agglomerati di lavoratori, deteminando il fenomeno dell'urbanesimo, che è l'ultima e necessaria conseguenza di questa trasformazione, portano ineluttabilmente a una crescente intensificazione degli scambî, sia per assicurare nuovi e più ampî mercati ai prodotti delle fabbriche, sia per provvedere all'alimentazione di masse enormi di popolazione completamente staccata dalla terra. La divisione del lavoro, che nell'età dei Comuni si era compiuta fra città e campagna, si compie ora fra regione e regione, fra stato e stato, fra l'una e l'altra parte del mondo.

Ma a questa necessaria divisione del lavoro, a questo allargamento e interdipendenza dei mercati non si sarebbe potuto giungere se non in misura parziale e imperfetta; l'applicazione delle macchine e la specializzazione delle industrie, che in Inghilterra già prima del 1830 aveva potuto assumere proporzioni grandiose per lo sviluppo delle sue coste e della sua marina, non avrebbero potuto estendersi che assai lentamente nei paesi continentali, se ad affrettarne il trionfo non fosse sopravvenuta la rivoluzione dei mezzi di trasporto. In Inghilterra, dopo il felice tentativo di Giorgio Stephenson nel 1825, si iniziano subito le costruzioni, in modo che nel 1850 v'erano già, in tutto il Regno Unito, 11.000 km. di ferrovie aperte all'esercizio, su 38.500 km. esistenti in tutto il mondo. A quella data però la febbre delle costruzioni si era estesa ormai a tutti i paesi civili, in modo che nel 1860 non solo esiste in tutti gli stati dell'Europa centrale e occidentale una rete ferroviaria nazionale, ma molti di essi sono riuniti da linee ferroviarie internazionali, e si può parlare d'una rete europea, mentre di là dall'Oceano le costruzioni sono spinte innanzi con slancio anche maggiore negli Stati Uniti d'America.

In Europa il più importante fra gli effetti del moltiplicarsi delle ferrovie, che già nel periodo della maggior febbre delle costruzioni avevano determinato un rapido incremento dell'attività industriale e un fortissimo movimento di capitali, è stato indubbiamente la vera e propria rivoluzione che, principalmente per virtù loro, si compì nella situazione di quei paesi dell'entroterra (e sono la grande maggioranza) che finora erano stati lontani da ogni partecipazione al traffico interno e internazionale. Paesi e regioni che, per secoli e secoli, avevano continuato la loro vita stazionaria e isolata, producendo quel che era sufficiente ai loro bisogni, con metodi tradizionali, con bisogni limitatissimi, con un tenore di vita gretto, modesto e antiquato, si trovano d'un tratto avvicinati alla metropoli, in cui pulsa una vita tanto più agitata, intensa e variabile. Il rapido mezzo di comunicazione che le attraversa, che permette il trasporto di merci e persone a grandi distanze con perfetta sicurezza e a costi bassissimi, che provoca a sua volta la costruzione di tutta una nuova rete di strade ordinarie, su cui dopo pochi decennî le applicazioni dell'elettricità e del motore a scoppio faranno correre nuovi e più adatti mezzi di trasporto, determina in pochissimi anni un profondo mutamento nella mentalità, nei bisogni, nella tecnica delle classi rurali; le induce a specializzare e intensificare le produzioni che possano meglio rispondere alle richieste del mercato e ad acquistare di fuori quel che non possono produrre.

Nei paesi nuovi, come negli Stati Uniti d'America e più tardi in tutti i paesi di recente colonizzazione, la ferrovia assume una funzione anche più importante, in quanto che essa precede e prepara la penetrazione dei coloni verso l'interno. È per merito suo che la colonizzazione anglosassone, limitata per più di due secoli alla breve striscia compresa fra gli Alleghany e l'Atlantico, si spinge in pochi anni fino al Mississippi e di là fino al Pacifico. Ma, nell'uno e nell'altro ambiente, si ha sempre lo stesso risultato: aumento rapidissimo degli oggetti del traffico marittimo, a cui partecipano ormai intensamente anche tutti i paesi dell'interno, per quanto lontani essi siano dalla costa o dalle rive dei fiumi navigabili.

A questa aumentata richiesta di trasporti marittimi corrisponde il trionfo della navigazione a vapore, che si afferma infatti decisamente dopo il 1870, quando appunto si erano fatte dappertutto più sensibili le conseguenze economiche delle grandi costruzioni ferroviarie. La marina a vela, che nei primi 70 anni del secolo, come stimolata dal nuovo concorrente, aveva avuto uno sviluppo sorprendente, tanto che nel solo Regno Unito essa aveva raddoppiato il suo tonnellaggio, comincia finalmente a declinare; e ad accelerarne il tramonto concorre l'apertura del Canale di Suez, che, mentre dà nuova vita al traffico del Mediterraneo, induce l'Inghilterra e gli altri paesi marinari, che erano rimasti più fedeli all'antica e gloriosa vela, a preferirle il vapore.

La facilità sempre maggiore delle comunicazioni, l'aumento continuo della popolazione e dell'emigrazione determinano in pochi decennî l'apertura di nuovi e importantissimi mercati in tutte le parti del mondo, che riforniscono con grande larghezza l'Europa di fibre tessili, di metalli e d'altre materie prime, di cereali, di carni, di pelli, e ne assorbono quantità ingenti di prodotti industriali. Si moltiplicano le metropoli, in cui si addensano non più le centinaia di migliaia, ma i milioni di abitanti e che sono rifornite quotidianamente e con grande abbondanza di tutti i prodotti di prima necessità e voluttuarî dalle più lontane regioni del mondo.

Per le stesse cause, la grande industria, rimasta per quasi mezzo secolo monopolio quasi esclusivo dell'Inghilterra, ed estesasi poi al di qua della Manica in Francia e nel Belgio, guadagna terreno dopo il 1870 in tutti i paesi civili del continente, in primissima linea in Germania e, fuori d'Europa, negli Stati Uniti d'America e finalmente in Giappone. Lo sviluppo industriale dei paesi nuovi, minacciato dai rapidi progressi e dal bassissimo costo dei trasporti internazionali, deve cercare nuove difese; e mentre dopo il 1860, in seguito al trionfo del libero scambio in Inghilterra, una serie numerosissima di trattati di commercio, ispirati dai principî allora trionfanti, avevano sensibilmente abbassato tutte le tariffe, dopo il 1876 si ritorna dovunque, fuorché in Inghilterra, ai dazî di difesa. Ma se il risorto protezionismo doganale è sufficiente ad assicurare alle industrie nazionali prezzi interni più alti, che permettono loro non solo di resistere alla concorrenza inglese, ma anche di espandersi all'estero, esse non determinano affatto un ritorno alle economie nazionali chiuse; ché anzi il volume e il valore del commercio internazionale seguitano a crescere in proporzioni rilevanti, che diventano altissime dopo il 1895 e specialmente dopo il 1902, quando l'iniziato sfruttamento dei ricchissimi giacimenti auriferi del Transvaal determina una generale e continua ascesa dei prezzi.

La lotta per la conquista dei mercati si fa più laboriosa: essa richiede, specialmente da quelli che devono farsi strada dove altri godeva di un tranquillo monopolio, un lavoro assiduo e difficile di penetrazione, con un'intensa propaganda, con un esercito di viaggiatori di commercio specializzati a seconda dei paesi, con l'aiuto di banche potenti; ma i risultati in pochi anni sono brillantissimi, sebbene gli antichi dominatori riescano anch'essi ad aumentare la loro clientela. Le crisi naturalmente non mancano; ma esse sono rapidamente superate e l'espansione riprende in misura tale da far sorgere l'illusione che non ci siano limiti alla potenzialità di assorbimento d'una produzione continuamente in aumento. La guerra mondiale ha fatto cadere una parte di quelle illusioni, non tanto per i danni da essa determinati e per le difficoltà che ne son derivate a ristabilire l'antico equilibrio o a crearne uno nuovo, quanto per l'acceleramento ch'essa portò in un processo di cui già prima si potevano scorgere i segni ammonitori. L'Europa che ha disseminato i suoi uomini ed i suoi capitali in tutte le parti del mondo, che si era creata in tal modo dei mercati ricchissimi per le sue industrie, non poteva illudersi che una tale situazione potesse mantenersi all'infinito. La sua stessa esuberanza di capitali, che si riversavano dapprima negli Stati Uniti, e poi nell'India e nella Cina per crearvi industrie destinate a fare la concorrenza a quelle della madre patria, preparavano le difficoltà che oggi si lamentano. Gli antichi consumatori son diventati produttori e spesso anche esportatori; ma la potenza d'assorbimento dei mercati sembra troppo esigua per tanti concorrenti, e le crisi di sovrapproduzione si susseguono con una frequenza che, dalla metà dell'ottocento in poi, non si era più conosciuta, tanto da suggerire il timore che il male sia diventato cronico. Ristabilire il monopolio dell'industria europea dev'essere ormai ritenuto impossibile: resta solo la speranza che nuovi mercati, soprattutto nei continenti australi, valgano a compensare la perdita totale o parziale degli antichi.

Bibl.: A. Beer, Allgemeine Geschichte des Welthandels, voll. 2, Vienna 1860-1864; Scherer, Storia del commercio mondiale, in Biblioteca dell'economista, s. 2ª, IV, Torino 1859 segg.; A. Segré, Manuale di storia del commercio, 2ª ed., voll. 2, Torino 1923; G. Luzzatto, Storia del commercio, I, Firenze 1914; I. Kulischer, Allgemeine Wirtschaftsgeschichte, voll. 2, Monaco-Berlino 1928-29; W. Sombart, Der moderne Kapitalismus, 2ª ed., voll. 3, Berlino 1916-25; G. Below, Probleme der Wirtschaftsgeschichte, 2ª ed., Tubinga 1926; A. Dopsch, Naturalwirtschaft und Geldwirtschaft in der Weltgeschichte, Vienna 1930; H. Sée, Esquisse d'une histoire économique et sociale de la France depuis les origines jusqu'à la guerre mondiale, Parigi 1929; Cunningham, Growth of English Industry and Commerce, Londra 1911-13; L. M. Hartmann, Analekten zur Wirtschaftsgeschichte Italiens in frühem Mittelalter, Gotha 1904; S. Pivano, Sistema curtense, Roma 1909; G. Volpe, Per la storia giuridica ed economica del Medioevo, in Studi storici di A. Crivellucci, Pisa 1904; Kötzschke, Allgemeine Wirtschaftsgeschichte des Mittelalters, Jena 1924; A. Dopsch, Wirtschaftliche und soziale Grundlagen der europäischen Kulturentwicklung aus der Zeit von Cäsar bis auf Karl den Grossen, 2ª ed., Vienna 1929; A. Schaube, Il commercio dei popoli latini sino alla fine delle Crociate, in Biblioteca dell'economista, s. 5ª, XI, Torino 1905 segg.; Heyd, Storia del commercio di Levante, in Biblioteca dell'economista, s. 5ª, X, Torino 1905 segg.; P. Boissonade, Le travail dans le monde chrétien aus Moyen âge, Parigi 1922; L. Brentano, Die byzantinische Volkswirtschaft, in Schmollers Jahrbuch, XLI (1917); A. Sapori, La crisi delle Compagnie commerciali dei Bardi e dei Peruzzi, Firenze 1926; R. Davidsohn, Geschichte von Florenz, IV, ii, Berlino 1925; Bensa, Francesco di Marco da Prato, Milano 1928; Cessi, Le relazioni commerciali tra Venezia e le Fiandre, in Nuovo arch. veneto, 1917; G. Volpe, Italiani fuori d'Italia alla fine del Medioevo, in Momenti di storia italiana, Firenze 1926; R. Ehrenberg, Das Zeitalter der Fugger, voll. 2, Jena 1896; Baasch, Holländische Wirtschaftsgeschichte, Jena 1927; Hauser, La modernité du XVIe siècle, Parigi 1930; P. Boissonade, Le socialisme d'état, l'industrie et les classes industrielles pendant les deux premiers siècles de l'ère moderne, Parigi 1927; P. Mantoux, La révolution industrielle au XVIIIe siècle, Parigi 1905; C. Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea, voll. 2, Venezia-Perugia 1929-1930; Clopham, An economic History of Modern Britain, Cambridge 1927.

Commercio internazionale.

La "mercatura" come "arte trovata dagli uomini per sopperire a quello che non ha potuto fare la natura, di produrre in ogni paese ogni cosa necessaria o comoda al viver umano" (Bernardo Davanzati), presuppone, se la si considera sotto il rapporto internazionale, gli elementi seguenti:

1. L'esistenza in dati paesi, e la mancanza in altri, di prodotti che presentino qualità essenziali, o supposte tali, generati sia da cause naturali climatiche (importazione di agrumi dai paesi mediterranei nei paesi scandinavi e germanici; importazione di derrate coloniali dai paesi tropicali in quelli di clima temperato), sia da cause tecnico-culturali (importazione di macchine dall'Europa e dall'America nell'Africa centrale). In ambedue i casi si tratta di prodotti che altrimenti non si potrebbero ottenere e che servono ad appagare bisogni dovuti alla loro volta all'arte della mercatura, avendo essa diffuso, tra i varî paesi, la conoscenza dei prodotti dei diversi climi e gradi di progresso civile e tecnico.

2. L'ottenimento di prodotti a minor costo degli eventuali prodotti nazionali simili. La scuola classica concepì il commercio internazionale come l'applicazione, sul terreno degli scambî, della legge naturale della divisione del lavoro, divisione da intendersi come operante tra i varî popoli abitanti la terra, indistintamente. Alla varietà di disponibilità obiettive (geografiche, climatiche, ecc.) e di disposizioni subiettive (psicologiche e fisiologiche) farebbe riscontro una variazione di possibilità e di capacità produttive. La divisione naturale del lavoro scaturirebbe quindi dalla differenziazione determinata dalle varie condizioni ambientali. Lo scambio di merci così stabilito svilupperebbe in ciascun popolo sempre maggiori facilità e rapidità di esecuzione per quel ramo d'industria al quale si fosse, in seguito alla ripartizione avvenuta, dedicato specialmente.

La base concreta della disparità dei prodotti nazionali, unita all'applicazione della legge del buon mercato, formulata da Adamo Smith, dovette far apparire il commercio internazionale come sintesi di una vasta collaborazione pacifica dei popoli. Epperò il commercio internazionale comporterebbe, come suo corollario, il libero scambio e la condanna del protezionismo sperperatore. Se, per esempio, con l'aiuto di dazî protettivi, la Scozia volesse produrre, per bastare a sé stessa, del vino, facendo maturare i grappoli nelle sue serre, il consumatore scozzese sarebbe obbligato a spendere per il vino di più che non importandolo da altri paesi, il cui clima è più propizio alla coltivazione della vite (Smith). Il sistema autarchico, non conforme alle premesse economiche dei varî paesi, non condurrebbe invero che a uno spreco continuo di forze biologiche e finanziarie, senza riuscire neppur sempre a raggiungere gl'intenti economici voluti. Sennonché il criterio appare alquanto semplicista allorquando coglie i valori produttivi solo nella loro attualità, senza tener conto delle loro capacità intrinseche di sviluppo ulteriore. Gli è che da un'applicazione troppo affrettata del principio liberista della divisione del lavoro alcune industrie possono venire gravemente intralciate o addirittura soffocate in germe; mentre, assecondate dallo stato e isolate, per un certo periodo, dalla concorrenza d'industrie estere già maturate, potrebbero forse diventare suscettibili a loro volta di maturazione.

3. La possibilità di ottenere indirettamente profitti maggiori per mezzo dell'importazione di prodotti A che sono sì producibili nel paese medesimo e anzi producibili a minor prezzo di costo, ma la cui importazione dall'estero permette all'economia nazionale di dedicarsi maggiormente alla produzione di prodotti B, redditizî al punto da far scomparire la differenza in più del costo dei prodotti A importati. In tal caso si paga il prezzo maggiore del prodotto A col più lauto guadagno ottenuto dall'esportazione del prodotto B. È questa la legge ricardiana, rielaborata dal Mill, del cosiddetto costo comparativo. Il Ricardo infatti sostenne che un paese ha interesse a importare un prodotto, ancorché il suo costo nazionale sia inferiore al prezzo estero, ogni qual volta tale inferiorità sia minore di quella relativa al prodotto esportato. Un paese fa quindi bene a importare merce estera anche quando è lampante la sua superiorità produttiva, purché il provento di questa sua produttività sia minore di quello ricavato dai generi da esso stesso esportati. Esempio storico portato dal Ricardo: il commercio anglo-portoghese. Esempî forse più felici per la teoria del costo comparativo si rintracciano nella storia economica dell'Australia, dove, per concentrarsi nella produzione dell'oro, si trascurava il taglio deglî alberi e la lavorazione del legname, che pure vi abbondava, importandolo da altri paesi, e dove più tardi, per concentrarsi nella produzione della lana greggia, si faceva venire il panno dall'Inghilterra. Tuttavia, per intendere meglio quest'ultimo fenomeno della rinunzia alla lavorazione della materia prima ottenibile a buon mercato all'interno, giova aggiungere che tale rinuncia è pur sempre un effetto della scarsezza di mano d'opera disponibile, di fronte alle possibilità d'impiegarsi nelle produzioni più redditizie.

4. L'ottenimento di prodotti a minor costo dei prodotti nazionali simili, per mezzo dello scambio parziale reciproco di generi diversi fabbricati in ambedue i paesi, ma per i quali esiste un divario rilevante nelle spese di produzione.

Secondo il Mill per l'Inghilterra dei suoi tempi avrebbe potuto essere conveniente scambiare manufatti di cotone contro ferro svedese, poiché il divario fra il costo di produzione dei cotoni inglesi e quello dei cotoni svedesi era talmente grande che, pur facendosi gl'Inglesi pagare i loro cotoni un po' al disotto del prezzo di costo svedese, il ferro ricevuto in cambio dei cotoni sarebbe costato agl'Inglesi meno di quello prodotto in Inghilterra. Può dunque avvenire che per mezzo di simili scambî diretti di merce il paese importatore paghi il prodotto in questione meno di quel che costi al paese produttore stesso, che a sua volta può trovare pur esso il suo tornaconto, se la produzione nazionale della merce che riceve in cambio gli sarebbe riuscita più cara di quella della merce esportata.

La legge fondamentale di ogni scambio starebbe quindi nell'utilità comparata delle ricchezze da scambiarsi; ma essa è ben lungi dal potersi svolgere liberamente, per molte cause, psicologiche e politiche, come l'imperizia, l'ignoranza dei prezzi comparativi, gl'impegni legali assunti prima, ecc. A questa categoria di motivi si aggiungono gli odî e i rancori politici (che possono dar luogo a tentativi di boicottaggio di merci estere), o i gusti nazionali, suscettibili di far preferire, a qualità pari, e anche inferiori, al prodotto straniero il più caro prodotto nazionale (nazionalismo economico).

Quanto alla divergenza del costo comparativo tra i varî paesi, che contraddistingue il commercio estero da quello interno, essa non è causata solamente dalla varietà delle attitudini dei produttori, ma ha radice in una varietà di altri elementi che vanno dalla possibilità di rifornimento delle materie prime alle condizioni particolari politico-culturali e legali vigenti nei diversi paesi.

Sarebbe fuor di luogo ammettere, come alcuni fanno, l'esistenza di una legge di superfluità, secondo la quale una parte cospicua dei beni destinati all'esportazione deriverebbe dall'eccedenza della produzione sul consumo nazionale. Una tale ipotesi non è solo fallace per la fenomenologia sociale e la grande differenziazione della capacità d'acquisto dell'uomo, per la quale il bene prodotto non dovrebbe prendere la via dell'estero altro che dopo che l'ultimo bisogno nazionale fosse stato soddisfatto; ma anche perché necessità economico-politiche possono costringere un'economia nazionale a rinunciare, a favore dell'esportazione, a prodotti per sé stessi indispensabili, come avvenne, per es., alla Svizzera, che durante la guerra mondiale, pur di ottenere combustibile dalla Germania, dovette impegnarsi a mandarle in cambio una quantità tale dei suoi latticinî, che il suo stesso mercato ne rimase poi pressoché sprovvisto. Come ogni fenomeno economico, anche l'esportazione tende ad essere lucrosa. Non è però che essa sia sempre tale. Mentre per lo più l'esportazione procura all'esportatore un prezzo che, espresso nella sua valuta, non supera soltanto il costo di produzione, ma supera o almeno eguaglia il prezzo normale ottenibile sul mercato interno, vi è anche un genere di esportazione, che è da considerarsi quale svendita e che si accontenta all'estero di prezzi inferiori a quelli ottenibili all'interno. Questo è il caso del dumping per cui l'esportatore, servendosi di prezzi multipli, intende o conquistare il mercato estero o sbarazzarsi dell'esuberanza dei prodotti difficilmente vendibili all'interno. Allora la perdita è compensata dalla speranza di lucri monopolistici in un prossimo avvenire o dal prezzo mantenuto alto sul mercato nazionale.

Più complessa e accanita di quella nazionale è la concorrenza internazionale. Ne segue che devono ridursi i costi. Né avevano teoricamente torto i mercantilisti se videro la base della bilancia commerciale positiva nel buon mercato dei mezzi di sussistenza. L'industrialismo moderno cerca di ridurre il costo di produzione, sia meccanizzando vieppiù il processo di fabbricazione, con rispettiva economia di opera umana, sia accaparrandosi il controllo immediato sulle materie prime necessarie, sia servendosi di mano d'opera immigrata meno costosa, ed eventualmente anche più abile e perciò di maggior rendimento della mano d'opera indigena; e nello stesso tempo cerca di aumentare lo smercio, accontentandosi di una percentuale di profitto molto bassa. Quest'ultimo mezzo ha però i suoi limiti e i suoi pericoli. In primo luogo il calcolo troppo ristretto del prezzo, in base a un minimo di guadagno, comporta il rischio di non valutare esattamente tutti gli elementi molteplici che concorrono nella formazione del vero prezzo di costo, e di svendere (undersell); in secondo luogo conviene tener presente che chi esporta i suoi prodotti col minor saggio di profitto finisce per pagare più cari i prodotti che importa.

Nei tempi moderni l'estensione sempre crescente del capitalismo internazionale ha fatto sì che la fisionomia del commercio estero come tale, sotto certi aspetti, si distingue meno di prima da quella del commercio interno. L'industria, anziché servirsi, per lo smercio dei suoi prodotti, del tramite del commercio estero, ricorre spesso all'impianto di stabilimenti proprî all'estero, accompagnato di frequente dall'emigrazione, temporanea o definitiva, di gruppi di personale dirigente o di mano d'opera altamente qualificata. In tal guisa fa sovente distribuire le merci prodotte direttamente dagli organismi nazionali del commercio interno.

Anche il rifornimento di materie prime di provenienza estera non incombe più esclusivamente al commercio estero, essendo i grandi trusts internazionali padroni essi stessi dei territorî dove sono le miniere, le sorgenti di olî minerali e i campi di produzione, di modo che parte dei prodotti può essere lavorata e smerciata nel paese stesso dove si trova la relativa materia prima. Altri prodotti vengono acquistati direttamente nelle grandi borse internazionali, dove, per esempio, partite enormi di grano o di altri generi agricoli cambiano di proprietario prima ancora che siano maturati sui relativi campi. In modo analogo avvengono i pagamenti: alcuni tratti di penna nelle banche di Londra e di New York sono sufficienti per trasferire il corrispettivo in denaro per merci che si trovano all'altro capo del mondo dal conto di credito dell'acquirente, che magari si trova in Danimarca, a quello del loro antico proprietario, abitante magari nella Cina.

Sennonché, accanto a questa tendenza livellatrice e unificatrice, in virtù della quale l'antico concetto del commercio con l'estero in molti casi va sostituito col concetto moderno del commercio mondiale che non tiene più conto né delle distanze, né delle frontiere nazionali, si scorge un'altra tendenza, ai nostri giorni forse non meno vigorosa della prima, la quale lavora nel senso opposto, in quanto fa spiccare vieppiù nitidamente i solchi che separano le diverse economie nazionali.

Giova tener presente, in ogni indagine sul commercio internazionale, che esso costituisce altresì un fenomeno politico, in quanto fatalmente riflette l'autorità e la volontà dello stato. Epperò il commercio estero fa parte integrale della politica economica. I suoi fenomeni non vengono quindi unicamente determinati dall'economia pura, ma prevalentemente dai bisogni e dai concetti politici vigenti.

La subordinazione del commercio internazionale alla politica scaturisce dalla sua stessa essenza.

Lo stato è d'altronde padrone assoluto della politica doganale che può spingersi, coi divieti d'esportazione e d'importazione, fino all'esclusione, o quasi, del traffico internazionale, non sostituibile che in minima parte col contrabbando. Lo stato, per mezzo delle tariffe, dei trattati di commercio, può regolare l'importazione anche in tempo di pace a suo beneplacito. In tale guisa, la legge degli scambî naturali vigenti sulla base della divisione del lavoro internazionale viene, dal fenomeno politico, secondo alcuni, compromessa o, come dicono altri, corretta e resa più efficace.

Bibl.: A. Smith, Wealth of Nations, Londra 1776; I. G. Fichte, Der geschlossene Handelsstaat, Berlino 1800; G. R. Carli, I bilanci economici delle nazioni; A. Genovesi, Lezioni di commercio o sia di economia civile; A. Serra, Trattato delle cause che possono far abbondare li regni d'oro e d'argento dove non sono miniere: tutti in Scrittori classici italiani di economia politica, Milano 1803-17 I, XI-XII, XV-XVII; F. List, Das nationale System der politischen Ökonomie, Stoccarda 1841; Cunningham, Growth of English industry and commerce, Londra 1855; D. Ricardo, Principî dell'economia politica, in Bibl. dell'econ., s. 3ª, Torino 1873; F. E. Cairnes, Leading principles of political economy, Londra 1874; E. F. Bastable, The theory of international Trade, Dublino 1877; G. J. Goschen, The theory of Foreign Exchanges, 13ª ed., Londra 1888; R. Calwer, Die Weltwirtschaft im 19. Jahrhundert, Berlino 1902; J. A. Hobson, International Trade, Londra 1904; V. Pareto, Manuale di economia politica, Milano 1909; W. Taussig, Wages and prices in relation to international trade, in Quarterly Journal of Economics, 1906; id., e G. De Francisci Gerbino, Commercio internazionale e politica commerciale, Palermo 1907; L. Fontana Russo, Trattato di politica commerciale, Milano 1907; R. Hilferding, Das Finanzkapital, Vienna 1910; F. W. Taussig, Principles of Economics, voll. 2, New-York 1911; A. Graziani, Principî di economia commerciale, Napoli 1913; G. Arias, Principi di economia commerciale, Milano 1917; I. Hirsch, Organis. und Formen des Handels und der staatl. Binnenhandelspolitik, in Grundriss der Sozialökonomie, V, i, Tubinga 1918; R. Michels, Lavoro e razza, Milano 1924; id., Fattori e problemi dell'espansione commerciale, Torino 1924; id., L'organizzazione del commercio estero, Bologna 1926; W. Röpke, Geld und Aussenhandel, Jena 1925; B. Harms, Strukturwandl. der Weltwirtschaft, in Weltwirtschaftliches Archiv, 1927; W. Sombart, Der moderne Kapitalismus, Monaco 1927-28; J. Landmann, Die Agrarpolitik des Schweizer. Industriestaates, Jena 1928; J. Viner, Die Theorie des ausw. Handels, in Die Wirtschaftstheorie der Gegenwart, IV, Vienna 1928.

Organizzazione del commercio internazionale. - Dal punto di vista organizzativo, il commercio internazionale è contraddistinto attualmente sia dal perdurare di forme tradizionali, della cui origine e del cui svolgimento fa ampio cenno la storia del commercio (v. più sopra), sia dal delinearsi di altre forme organizzative, direttamente dipendenti da nuovi orientamenti economici nel campo dell'industria e dell'agricoltura. Così, mentre rimane vasto il campo di attività delle imprese commerciali specializzate, direttamente ereditate, come struttura e funzionamento, da non recenti epoche economiche, è fatto notevolissimo dell'odierna pratica mercantile l'attività d'imprese industriali o agricole che sono riuscite a monopolizzare non solo la produzione, ma il commercio di talune fra le merci di maggiore consumo (petrolî, grani, ecc.). Vi è poi una tendenza, se non diffusa, per lo meno saldamente affermatasi in taluni paesi, a organizzare sulla base del monopolio statale il commercio con l'estero, annullando o riducendo al minimo ogni e qualsiasi iniziativa privata in questo campo, e ciò non solo in ordine a particolari orientamenti politici (U. R. S. S.), ma anche in ordine a particolari considerazioni di politica economica (Persia).

E del resto, anche a prescindere da una tale decisa tendenza alla statizzazione del commercio con l'estero, tipica dei più recenti anni è la tendenza in ogni stato a creare, accanto all'organizzazione privata del commercio, un'organizzazione pubblica che aiuti la privata nello svolgimento dei suoi compiti tecnici ed economici. Tradizionalmente lo stato è intervenuto o interviene a disciplinare il movimento con l'estero delle merci, ora ostacolandone l'importazione a beneficio dei produttori nazionali, ora facilitandone l'esportazione, ma solo recentemente esso si è preoccupato del commercio estero da un punto di vista organizzativo e tecnico, ordinando alcuni servizî pubblici speciali (istituti per il commercio estero) e rafforzando quelli che già da qualche tempo esso metteva a disposizione del commercio (servizî ministeriali, consolari, delle camere di commercio all'estero).

Alle forme tradizionali come ai nuovi orientamenti del commercio si fa qui di seguito breve cenno a lumeggiare l'evoluzione di alcuni fra i più tipici istituti e rapporti commerciali.

Organizzazione privata del commercio. - Il commercio internazionale si fonda principalmente sull'attività d'imprese private, specializzate in tale ramo di affari. Queste imprese sono costituite in genere sotto forma sociale e trattano o il commercio d'importazione o il commercio d'esportazione, o anche l'uno e l'altro. La loro importanza deriva non solo dalla grande specializzazione tecnica, bensì anche dall'attività di carattere creditizio che esse svolgono, concorrendo spesso al finanziamento del produttore o alla concessione di dilazioni al compratore e compiendo operazioni bancarie di vasta portata. Esse hanno rappresentanze e agenzie in tutti i principali centri di produzione e consumo e, se trattano la sola importazione, si specializzano per prodotto o per determinati tipi di prodotti (caffè, tè, caucciù, pelli, grano e farina, olî, ecc.); se trattano invece l'esportazione, si specializzano per mercati, cioè trafficano qualsiasi prodotto per alcune determinate destinazioni.

Accanto a queste grandi case d'importazione e d'esportazione, hanno pure importanza nel commercio internazionale, e più specialmente nell'esportazione, alcune particolari organizzazioni intermediarie, che lavorano o in nome e per conto proprio o per rappresentanza o in altre forme giuridiche del genere, assumendo talvolta, contro particolari compensi, oneri di anticipazione, di finanziamento e, in genere, di garanzia del buon fine dell'operazione di compra-vendita. In Inghilterra questi agenti, specializzati soprattutto per l'esportazione, prendono il nome di shipping merchants; in Francia prendono il nome di agents-commissionnaires, e costituiscono una categoria importante del commercio internazionale (nella sola piazza di Parigi se ne contano circa 600); in Germania prendono il nome di Exportagenten.

Un'organizzazione speciale presentano talvolta i grandi mercati coloniali. In India, il commercio viene svolto in gran parte da poche grandi case site localmente, dotate di capitali ingentissimi, per lo più diramazioni di grandi organismi bancarî, rappresentanti gl'interessi delle singole nazioni che commerciano col paese. Queste case trattano l'importazione e l'esportazione di tutti i principali prodotti, e solo alcune si specializzano in uno o pochi prodotti. Per dare un'idea della grandiosità di queste organizzazioni, basta ricordare che ultimamente si calcolò che il 50% delle esportazioni del paese e il 25% delle importazioni sono trattati da non più di una dozzina di compagnie, di cui due indiane, una americana, una svizzera e le altre inglesi o giapponesi. Lo stesso ordinamento vige in Cina, dove le grandi case di esportazione e importazione hanno sede nei cosidetti Treaty ports: particolare interessante è che queste case commerciano attraverso il cosiddetto compradore, intermediario che si rende garante con cauzione in denaro dei contratti e della solidità finanziaria dei commercianti cinesi che egli mette a contatto con le case, avendone in corrispettivo una provvigione. Nei paesi africani, invece, sono le grandi case d'importazione e d'esportazione con sede in Europa o in America che agiscono, trattando gli affari per mezzo di numerose filiali locali.

Nei mercati coloniali di recente, tuttavia, il grossista indigeno ha cercato di sottrarsi all'intermediazione monopolistica delle grandi case sviluppando rapporti di affari direttamente col produttore o consumatore metropolitano o con gli agenti minori del commercio internazionale.

L'esercizio del commercio da parte del produttore si è sviluppato solo recentemente, col costituirsi delle grandi imprese industriali e cooperative agricole. La ragione di ciò va ricercata nel fatto che, mentre le grandi imprese con i vasti mezzi a loro disposizione sono in grado di creare un'organizzazione commerciale che possa estendere la propria sfera d'azione ai mercati internazionali e trattare l'esportazione o l'importazione per grandi quantitativi, il piccolo produttore ciò non può fare se non in via eccezionale.

Spesso le grandi organizzazioni industriali e agricole non trattano soltanto la vendita diretta del prodotto, ma si occupano dell'acquisto delle materie prime e dei beni strumentali necessarî alla produzione, eliminando così l'intermediazione nelle due fasi, precedente e susseguente alla produzione. Esempî di vendita diretta si hanno soprattutto per prodotti minerarî, meccanici, chimici e talvolta tessili, nel campo industriale, e per cereali, latticinî, frutta e simili nel campo agricolo; esempî di acquisto diretto per carbone, caucciù e simili nel campo industriale, e per concimi e macchine nel campo agricolo.

Il commercio diretto da parte del produttore è molto diffuso in Germania e negli Stati Uniti, meno in Francia, in Inghilterra e in Italia.

Organizzazione privata ausiliaria del commercio. - È rappresentata da numerose associazioni private fra commercianti e produttori, il cui scopo è appunto l'incremento e lo sviluppo del commercio con l'estero, attraverso l'assistenza agli associati e la collaborazione con le autorità e gli uffici statali. Alcune di queste organizzazioni hanno raggiunto anche una grande importanza: così la Federation of British Industries, costituita nel 1916 e di cui fanno parte circa 200 associazioni industriali inglesi; l'Association of British Chambers of Commerce, fondata nel 1860; l'American Manufacturers Exporters Association; la National Association of Manufacturers; l'American Exporters and Importers Association; e in Italia la vecchia Confederazione Generale dell'Industria, divenuta di recente ente pubblico sindacale.

Nel campo internazionale, massimo organo rappresentativo di interessi commerciali può ritenersi la Camera di Commercio Internazionale costituita nel 1921. Questo organismo, che ha la sede centrale a Parigi, si occupa soprattutto di problemi di organizzazione commerciale internazionale. Recentemente essa ha collaborato alla soluzione non solo delle questioni ereditate dalla guerra, ma di una serie vastissima di problemi tecnici, quali i casi di doppie imposizioni, la materia dei crediti documentarî, le proibizioni e restrizioni all'importazione e all'esportazione, il protezionismo indiretto, la stabilità delle tariffe, la protezione della proprietà industriale e così via.

La Camera di commercio internazionale comprende 28 sezioni nazionali, alle quali vanno aggiunte le organizzazioni economiche di 18 paesi nei quali non funziona una regolare sezione nazionale. La sezione italiana conta attualmente 192 membri e riunisce le maggiori organizzazioni economiche del paese (associazioni sindacali, banche, industrie, consigli provinciali dell'economia).

Organizzazione pubblica di ausilio al commercio. - Una delle più recenti, notevoli manifestazioni della politica statale in materia di commercio estero è la creazione di enti o uffici autonomi per lo studio e l'ordinamento di servizî diretti a facilitare tale commercio più specialmente l'esportazione.

Gli enti assumono come funzione principale compiti informativi, cioè la raccolta, lo studio e il coordinamento delle informazioni sui singoli mercati esteri e la loro distribuzione agl'interessati. Questo compito informativo, che ha luogo o per mercati o, in organizzazioni più sviluppate, per gruppi di merce, è poi integrato da una serie d'informazioni tecniche supplementari, sui trasporti, sui dazî doganali, sulle leggi commerciali, aventi attinenza col commercio estero. Infine, molti di questi enti (l'Istituto italiano per l'esportazione, ad es.) si assumono un compito ancor più specifico, studiando non solo i mercati esteri a favore delle correnti esportatrici nazionali, ma addirittura l'organizzazione esportatrice nazionale in sé, cercando di svilupparne e integrarne quegli elementi che possono rappresentare, anche al di fuori della considerazione singola di questo o quel mercato estero, un motivo di perfezionamento dal punto di vista sia produttivo sia strettamente commerciale. L'organizzazione di questi ultimi enti è in tal caso completa, poiché la possibilità di promuovere correnti di traffico internazionale deriva non solo da una più diffusa conoscenza dei mercati esteri, ma anche da una migliore organizzazione tecnica ed economica del mercato interno nei suoi rapporti coi mercati esteri. La costituzione di questi organismi nella forma giuridica di enti autonomi si è spesso resa necessaria non soltanto per il fatto che così potevano essere accentrate funzioni e attività già di pertinenza di varî organismi statali, ma anche perché l'autonomia rendeva possibile quell'agilità di funzionamento e di servizî richiesti dal particolare carattere della materia trattata.

Oltre che alla creazione di questi enti o uffici, e come integrazione dell'attivia loro sui mercati esteri, la politica statale si è diretta recentemente:

a rafforzare ed estendere i servizî dello stato all'estero aumentando il numero di organi o uffici (addetti commerciali, uffici consolari), il cui compito principale o esclusivo è quello d'informare l'organizzazione centrale di tutti quei fatti o problemi che hanno attinenza al commercio estero e ai rapporti economici fra gli stati;

ad affiancare agli organi diplomatici dello stato organi non diplomatici ma ugualmente con carattere ufficiale, aventi una competenza più specifica e compiti informativi limitati a determinate branche economiche (trade-commissioners degli Stati Uniti, agents commerciaux della Francia, ispettori all'estero dell'Istituto italiano per l'esportazione);

a estendere il numero e i servizî delle camere di commercio all'estero (v.).

Negli Stati Uniti è preposto ai servizî con l'estero il Bureau of Foreign and Domestic commerce, alle dirette dipendenze del Department of Commerce. Fu il primo ufficio organizzato in via autonoma per il commercio con l'estero; riorganizzato nel 1921, si presenta oggi come uno degli organi tecnicamente meglio attrezzati per lo studio del mercato internazionale. Attualmente l'ufficio conta 29 uffici distrettuali interni proprî e 49 uffici di collegamento o cooperatives offices, organizzati da camere di commercio per la raccolta d'informazioni sul mercato locale. All'estero esso dispone dei servizî di 36 addetti commerciali, di 26 addetti commerciali aggiunti, di 56 trade-commissioners e di 49 assistent tradecommissioners, specializzati in alcune determinate categorie di prodotti, e di un numeroso corpo consolare. Il Bureau comprende 16 sezioni merceologiche, organizzazione questa tecnicamente perfetta, ma costosa e non completamente attuata in altri stati, e 9 sezioni tecniche consultive, attrezzate per fornire agli esportatori le notizie più varie.

In Inghilterra, l'organo preposto ai servizî del commercio estero è l'Overseas Trade Department, istituito nel 1917. Questo dipartimento dirige tre servizî esteri: il servizio commerciale diplomatico che comprende 40 funzionarî, aventi sede nelle più importanti capitali estere; il servizio consolare con oltre 900 funzionarî e 700 uffici; e il servizio dei commissarî commerciali, attualmente in numero di 18 e destinati a paesi dell'impero; esso inoltre si avvale della collaborazione delle camere di commercio all'estero. L'organizzazione interna del dipartimento comprende un servizio d'informazioni tecniche sui prezzi, le tariffe, i trasporti, i nominativi di ditte; un servizio d'informazioni commerciali sui mercati, un servizio di organizzazione di fiere e altri minori. Dall'Overseas Trade Department dipende inoltre l'Export Credits Guarantee Department (creato nel 1926), autorizzato a garantire per un massimo del 75% il pagamento delle cambiali emesse dall'esportatore inglese a causa di un'invio all'estero di merce di produzione britannica. Un organo particolare del commercio che risponde a precipue necessità britanniche è poi l'Empire Marketing Board. Fu creato nel 1926 allo scopo d'incoraggiare la vendita in Gran Bretagna di materie prime e derrate alimentari di produzione inglese e degli altri paesi dell'impero, e di facilitare gli scambî commerciali interimperiali. Tale ente, oltre a curare la diffusione fra i produttori inglesi dei risultati d'indagini compiute sulle varie questioni attinenti all'agricoltura e a diffondere utili notizie sui migliori sistemi di coltura, selezione, confezionamento, imballaggio, metodi di vendita dei prodotti agrîcoli nel Regno Unito, ecc., ha il compito di svolgere una vasta e attiva opera di propaganda a favore dei prodotti dell'impero e di intensificare sempre più i rapporti di scambio fra l'Inghilterra e i suoi Dominions e Colonie. I paesi dell'impero usufruiscono generalmente dell'organizzazione commerciale inglese. Essi hanno però inoltre proprî uffici centrali (il Commercial Intelligence Service del Canada, ad es.) e proprî organi all'estero (i trade-commissioners del Canada) di cui si valgono per lo sviluppo di rapporti commerciali internazionali.

In Francia i servizî del commercio estero sono affidati all'Office National du Commerce Extérieur. All'estero, quest'organo si vale, come gli altri, dell'opera degli addetti, uffici e agenzie commerciali, dei consoli e delle camere di commercio; all'interno delle cosiddette agenzie regionali, costituite in numero di 13 nelle diverse regioni economiche in cui è diviso il territorio francese e nord-africano. Un organo notevole del commercio estero francese è il Comité National des Conseillers du Commerce Extérieur de la France, che, riconosciuto d'utilità pubblica nel marzo 1921, ha incoraggiato diverse iniziative, fra cui la creazione della Banque Nationale Française du Commerce Extérieur, la partecipazione degl'industriali francesi alle grandi fiere estere, ecc.

In Germania, non esiste un vero e proprio ente autonomo statale per i servizî del commercio estero. Esiste solo un organismo centrale di recente costituzione, a carattere ufficiale, la Zentralstelle für Aussenhandel, che coordina, pur lasciando a ciascuno di essi una certa indipendenza di lavoro, i seguenti tre enti: 1. la Zentralstelle für den wirtschaftlichen Auslandsnachrichtendienst, che dipende dai Ministeri degli affari esteri e dell'economia nazionale e raccoglie, controlla e diffonde tra gl'interessati notizie circa i mercati esteri e le possibilità di collocamento della produzione tedesca; 2. il Deutscher Wirtschaftdienst, che è una società a garanzia limitata, con attività informative; 3. lo Zollbüro, alle dipendenze del Ministero dell'economia nazionale, che cura la diffusione delle notizie doganali. Oltre a questi organismi centrali, la Zentralstelle suddetta dispone di un'organizzazione decentrata, composta di 26 uffici regionali. È in progetto la costituzione di un istituto per l'esportazione (Exportamt) che, finanziato con i contributi dei circoli esportatori e con quelli della fiera di Lipsia, verrebbe inquadrato nell'organizzazione di quest'ultima, completando così l'attività degli organi ufficiali suaccennati.

Enti o uffici autonomi per i servizî del commercio estero esistono inoltre in Belgio, Spagna, Svizzera, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Iugoslavia, Bulgaria, Ungheria, Brasile e in qualche altro stato. In Ungheria sono stati creati due istituti per l'esportazione: uno per i prodotti industriali, l'altro per i prodotti agricoli: è interessante notare che l'Istituto per l'esportazione di prodotti industriali non si propone soltanto uno scopo di assistenza tecnica, ma anche la conclusione di affari per conto d'imprese private, e per questi ha diritto a provvigione.

In Italia, ai servizî del commercio estero è preposto l'Istituto nazionale per l'esportazione, creato con legge 18 aprile 1926, n. 800. Questo istituto è ordinato in maniera autonoma, ma nell'esplicazione della sua attività esso è sottoposto all'alta vigilanza del ministro delle Corporazioni.

Gli organi con i quali l'istituto viene in relazione per il compimento delle funzioni affidategli sono: all'estero, i consiglieri, addetti e delegazioni commerciali, in numero di 22, di cui 17 residenti nelle capitali di Europa, 1 nell'America del Nord, 3 nell'America del Sud, 1 in Africa; gli addetti agrarî, di cui 1 residente negli Stati Uniti e 1 in Svizzera; gli uffici consolari (consolati, vice-consolati e agenzie consolari), di cui 320 aventi sede in Europa, 106 nell'America del Nord, 299 nell'America centrale e del sud, 85 in Africa, 73 in Asia e 14 in Australia; le camere di commercio all'estero, in numero di 46, aventi talvolta sezioni nei centri minori; gl'ispettori stessi dell'istituto preposti su alcuni mercati al servizio di controllo dell'esportazione ortofrutticola; all'interno, i consigli provinciali dell'economia e le organizzazioni sindacali nazionali e provinciali degli agricoltori, degl'industriali e dei commercianti.

L'ordinamento interno dell'Istituto comprende un servizio informazioni, diviso in uffici geografici, che provvede allo studio sistematico dei mercati esteri, un servizio tecnico speciale, per le questioni doganali, di trasporto e simili, e un servizio sviluppo, per la disciplina e l'incremento delle correnti esportatrici nazionali. Un aspetto interessante dell'attività dell'Istituto riguarda il campo agrario. Nell'esportazione di prodotti agrarî, l'istituto ha introdotto infatti, attraverso provvedimenti legislativi, principî di regolamentazione tecnica che sono stati più specialmente caratteristici degli Stati Uniti e di alcuni Dominions britannici, contribuendo con ciò a rafforzare la posizione delle nostre correnti esportatrici e garantendo l'invio sui mercati esteri di prodotti selezionati. Questa regolamentazione va sotto il nome di "legislazione sul marchio nazionale di esportazione". Altro aspetto interessante è dato dall'organizzazione di esposizioni di prodotti nazionali in fiere estere, attraverso un particolare ufficio destinato a questo compito. All'istituto si riallaccia poi tutta l'organizzazione per la garanzia dei crediti per affari speciali di esportazione, organizzazione che ha particolarmente funzionato nei riguardi dei rapporti economici italo-russi.

Organizzazione del commercio estero nell'U. R. S. S. - A differenza degli altri paesi, in cui l'intervento dello stato si limita a compiti di assistenza tecnica o a emanazione di provvedimenti di politica commerciale, nell'U. R. S. S. è stato istituito per legge, fin dal 1918, il monopolio statale del commercio estero, ciò che consente allo stato di regolare le importazioni e le esportazioni, fissando i quantitativi di merci occorrenti al paese e che debbono essere importati, e i quantitativi di merci eccedenti le necessità del consumo interno e che debbono essere esportati. Il controllo del commercio estero è affidato a uno speciale commissariato del popolo; la trattazione di affari a speciali unioni centrali rappresentanti i varî monopolî statali, che hanno sede a Mosca e lavorano in via autonoma, pur facendo parte del commissariato del popolo per il commercio. Queste unioni centrali sono distinte a seconda del ramo dell'economia di cui si occupano, e l'importazione o l'esportazione delle varie imprese, fabbriche, ecc. di quel ramo viene effettuata con il loro intervento. Per le trattative all'estero, il commissario del popolo e le unioni centrali si valgono dell'opera di numerose delegazioni commerciali aventi sede presso le ambasciate. Queste delegazioni comprendono spesso tante sezioni o uffici specializzati quante sono le unioni da cui ricevono ordini, e devono accordarsi con queste circa la preparazione e la liquidazione dei contratti.

La Società delle Nazioni. - L'organizzazione statale per il commercio estero trova la sua integrazione, sul terreno internazionale, nell'organizzazione economica della Società delle Nazioni. A questa sono demandati, infatti, lo studio e la risoluzione di problemi tecnici ed economici del commercio estero che eccedono il campo di attività di uno stato e costituiscono ragione di accordi e convenzioni fra gli stati. Per notizie particolari su questa attività che rientra nel quadro della più vasta attività economica esplicata dall'organismo ginevrino, v. società delle nazioni.

Bibl.: E. Castelnuovo, Manuale di istituzioni commerciali, Milano 1908; B. Olney Hough, Practical Exporting, New York 1921; Clayton Sedgwick Cooper, Foreign Trade Markets and Methods, New York 1922; Allan B. Cook, Financing Exports and Imports, New York 1923; (Inchiesta Balfour), Survey of Overseas Markets, Committee on Industry and Trade, Londra 1925; id., Final Report, Committee on Industry and Trade, Londra 1929; Simon Litman, Essentials of International Trade, New York 1927; J. Partsch, Geographie des Welthandels, Breslavia 1927; F. Eulenburg, Aussenhandelspolitik: Die internationalen Wirtschaftsbeziehungen, Tubinga 1929; C. P. Howland, Survey of American foreign relations, Yale University Press, 1930; National Industrial Conference Board, Trends in the Foreign trade of the U. S., New York 1930.

Commercio interno.

È il commercio che ha luogo entro i confini di uno stato. Presenta caratteristiche e aspetti diversi dal punto di vista sia organizzativo sia giuridico, e si distingue più generalmente in commercio all'ingrosso e commercio al minuto.

Commercio all'ingrosso. - Il commercio all'ingrosso è trattato da intermediarî di diversa importanza. Dalle grandi case commerciali con possibilità finanziarie e creditizie notevoli, che si specializzano in uno o più prodotti, distribuendoli per tutto il territorio dello stato, si scende man mano alle piccole imprese di commercio all'ingrosso che agiscono in una ristretta zona territoriale e vendono direttamente ai commercianti al minuto. I rapporti di affari fra produttori e case commerciali o fra case commerciali di diversa grandezza si stabiliscono spesso con l'intermediazione di speciali agenti, che acquistano fisionomia giuridico-economica, a seconda che assumono o meno il credito o il rischio del credito a proprio carico (manufacturers' agents, commission houses, brokers).

Oltre che dalle imprese commerciali intermediarie, il commercio all'ingrosso è trattato anche direttamente da organizzazioni di produttori e consumatori, così come avviene per il commercio internazionale. I primi tentativi in tal senso sono stati fatti da cooperative di consumatori (v. cooperazione), e si ricordano appunto come organizzazioni di più vecchia data la English Cooperative Wholesale Society, creata fin dal 1863, la Scottish Cooperative Wholesale Society e la Irish Agricultural Wholesale Society, che iniziarono l'acquisto all'ingrosso delle merci dal produttore per distribuirle al pubblico. Più di recente, però, tentativi del genere sono stati anche fatti da produttori agricoli e industriali.

Nel campo dell'industria, molte grandi imprese provvedono oggi direttamente sia all'acquisto delle materie prime e dei semilavorati ai luoghi d'origine, sia allo smercio dei prodotti manifatturati; fra gli altri, i grandi sindacati industriali che si sono di recente costituiti in Germania e Inghilterra per prodotti chimici e metallurgici.

Nel campo agricolo, hanno raggiunto una grande importanza le associazioni cooperative di vendita (Cooperative Marketing Associations), riunite spesso in un'organizzazione federale, che dispone di un'agenzia centrale di vendita (Cooperative national sales agencies). Queste cooperative hanno proprî magazzini generali dove la produzione viene lavorata, impaccata, standardizzata, e proprî magazzini di rivendita, e passano di regola ai loro soci tutti gli utili ottenuti dalle vendite, detratte le spese generali.

Molte istituzioni commerciali sono destinate a favorire le contrattazioni all'ingrosso delle merci. Così le borse, le aste, le fiere ed esposizioni. Un cenno speciale meritano le cosiddette aste, attraverso cui in molti paesi dell'Europa settentrionale si effettua gran parte del commercio all'ingrosso di prodotti agricoli, dei tappeti, pelliccerie, ecc. In Inghilterra, queste aste vengono tenute a periodi regolari di tempo e i prodotti vi vengono offerti a lotti da speciali brokers all'uopo autorizzati; così in Olanda, dove le aste sono gestite e dirette da speciali organizzazioni che assumono la veste giuridica o di semplice associazione o di società cooperative o di società anonime, in Germania, negli Stati Uniti.

Commercio al minuto. - Il commercio al minuto, tradizionalmente esercitato da un singolo commerciante con modeste possibilità finanziarie e creditizie, che vendeva o un prodotto o una serie di prodotti simili (unit stores) o un gruppo di merci varie specialmente alimentari o tessili (general stores), si è evoluto di recente verso forme di organizzazione più complesse, costituendo oggetto di attività di organismi con larghe possibilità finanziarie, ordinandosi sulle basi tecniche proprie della grande impresa economica, orientandosi infine verso forme idonee a favorire e rendere facile il consumo a ogni ordine di acquirenti. Frutto di questa evoluzione si possono considerare, fra l'altro, i cosiddetti grandi magazzini o department stores, i negozî a catena o chain stores, le case di vendita per pacco postale o mail-horder houses, istituzioni che, tipiche in un primo tempo degli Stati Uniti, si sono andate ormai diffondendo in quasi tutti i paesi civili.

Grandi magazzini. - Possono essere definiti dei grandi emporî di merci. In essi si vendono infatti i prodotti più varî, sebbene in reparti diversi. L'organizzazione interna di questi negozî è quanto di più efficiente si abbia oggi nel campo commerciale. Essi sono generalmente attrezzati per l'acquisto all'ingrosso dei prodotti direttamente dal fabbricante, ed usano per lo più sistemi standardizzati nelle varie fasi della vendita al minuto. Tendono sempre più a vendere la merce su campione e ad effettuare le consegne a domicilio con prodotti prelevati da appositi magazzini di distribuzione; con ciò realizzano sensibili economie di tempo nelle consegne, e di spazio nei magazzini aperti al pubblico.

Sono istituzioni caratteristiche della più moderna organizzazione commerciale di rivendita degli Stati Uniti, nei cui grandi centri hanno avuto uno sviluppo assai rapido. I più importanti si trovano a New York e Chicago oltre che in altre principali città della costa dell'Atlantico e del Pacifico, e comprendono fino a 200 reparti. Si è calcolato che le vendite al minuto di questi magazzini hanno costituito, negli Stati Uniti, in questi ultimi anni, all'incirca un ottavo dell'intero volume delle vendite annuali al minuto della confederazione. Anche in Inghilterra, in Germania, in Giappone esistono molti grandi magazzini. Notissimi sono poi i Grands Magasins de Nouveautés di Parigi, che si dedicano principalmente alla vendita di articoli per abbigliamento, confezioni, ecc.

Negozî a catena. - Sono magazzini ubicati in luoghi diversi, gestiti da un'unica impresa, nei quali si vendono alcuni determinati tipi di merce, specialmente di prima necessità. La maggior parte delle società che gestiscono negozî a catena hanno un reparto centrale per gli acquisti, al fine di eliminare il grossista o qualsiasi altro intermediario e assicurarsi le migliori condizioni d'acquisto e una maggiore uniformità dei prodotti. Vi sono tuttavia alcune di tali organizzazioni che lasciano ai singoli negozî il compito dell'approvvigionamento, e ciò soprattutto per evitare l'accumularsi di stock eccessivi e interpretare più fedelmente le particolari esigenze della clientela di ciascun negozio. Spesso questi negozî sono organizzati dai produttori o grossisti (Germania, Inghilterra), come mezzo per assicurarsi lo smercio diretto dei proprî prodotti (scarpe, sigari, confezioni, caffè, latticinî).

La prima organizzazione nord-americana di negozî a catena fu fondata nel 1858, e conta attualmente nei varî centri degli Stati Uniti più di 10.000 succursali. Lo sviluppo maggiore di queste organizzazioni di rivendita al minuto si è determinato negli Stati Uniti dopo il 1910. Attualmente viene stimato che i chain stores americani assorbano circa un sesto dell'intero volume del commercio al minuto annuale della confederazione nord-americana. Le vendite complessive delle sette principali organizzazioni di negozî a catena ammontarono complessivamente nel 1929 a più di 1303 milioni di dollari di merci. Il gruppo più importante di questi negozî è quello addetto alla rivendita di drogherie; segue quello che vende prodotti soltanto a cinque e dieci cents e quello addetto alla rivendita di prodotti medicinali. Altre importanti organizzazioni di questo ramo commerciale di rivendita curano lo smercio di confetterie, calzature e tabacco. Le vendite di questi magazzini sono effettuate esclusivamente per contanti.

Anche in Inghilterra i negozî a catena (multiple shops) sono diffusi: si calcola che esistano oggigiorno nell'Inghilterra circa 2200 organizzazioni del genere distribuite in 25 diversi gruppi di commercio, aventi la gestione di oltre 32 mila negozî. Il sistema della vendita a catena è in uso anche in Olanda, dove esistono circa 230 organizzazioni con 3600 sezioni, che estendono la loro attività a quasi tutti gli articoli di vendita; sono però specialmente importanti nel commercio delle droghe, trattando circa il 9% delle vendite totali di tali prodotti in Olanda.

In Germania, in Francia, in Italia la diffusione dei chain stores è molto minore.

Case di vendita per pacco postale. - Queste organizzazioni di rivendita al minuto, tipicamente caratteristiche del mercato nord-americano, effettuano le proprie vendite a mezzo di pacco postale o spedizione per ferrovia, dietro ordinazione su catalogo; e sono principalmente attrezzate per la distribuzione alle popolazioni dei centri rurali. È stimato che le vendite complessive di queste organizzazioni commerciali siano ammontate negli Stati Uniti, nel 1925, ultimo anno per il quale si hanno rilevazioni al riguardo, a più di 500 milioni di dollari. I loro stock di merci non comprendono, s'intende, articoli deperibili né merci di lusso. Un'organizzazione del genere è anche diffusa nel Canada. In Europa non è ancora praticata.

Bazar. - Una forma particolare di organizzazione del commercio al minuto nei mercati africani e orientali è il cosiddetto bazar. Questa denominazione serve a indicare uno o più negozî nei quali vengono venduti articoli della più svariata specie. Spesso i bazar sono riuniti in uno speciale quartiere, e qui allora viene a concentrarsi tutto il commercio al minuto della località. Il bazar è originario dell'India, ma è diffuso moltissimo in Africa, dove viene esercitato generalmente da Indiani immigrati e da figli di Indiani.

Una forma organizzativa che ha acquistato grande importanza anche nel commercio al minuto è la cooperazione di consumo, iniziata in Inghilterra e diffusasi ormai in tutti i paesi civili (v. cooperazione). Essa muove forte concorrenza al commercio privato.

La diffusione delle cooperative come delle altre grandi organizzazioni per la vendita al minuto ha indotto talvolta i commercianti al minuto, soprattutto quelli che gestiscono negozî per la vendita di generi alimentari, a costituire delle associazioni per trattare gli acquisti in comune direttamente dalle fabbriche, assicurandosi le stesse condizioni di vantaggio sul prezzo e sulla qualità, godute dalle maggiori organizzazioni. Naturalmente queste iniziative hanno avuto vario successo, in relazione alle condizioni economiche in cui si sono realizzate.

Sistemi di pagamento. - Con lo svilupparsi di nuove forme di organizzazione commerciale, si è sviluppato anche un nuovo speciale sistema di vendita, quello con pagamento a rate o installment selling, che è valso ad allargare notevolmente i consumi. La vendita a rate è stata connessa a un sistema di assicurazione del credito, cosicché in definitiva il rischio derivante dalla vendita è addossato, dietro corrispettivo di premî, alle imprese di assicurazione.

Organizzazioni di ausilio per il commercio interno. - Sono costituite o da associazioni private di commercianti o da enti pubblici, camere di commercio, sindacati riconosciuti e simili, che si propongono la tutela d'interessi economici, giuridici e morali delle categorie rappresentate e lo studio dei problemi inerenti all'organizzazione commerciale. Hanno carattere e importanza diversa da paese a paese. In Italia l'organizzazione è soprattutto pubblica, essendo prevalentemente rappresentata da un lato dai consigli provinciali dell'economia, dall'altro dalla confederazione e dalle federazioni nazionali dei commercianti.

Organizzazione del commercio interno dell'U. R. S. S. - Tutte le forme del commercio interno sono regolate mediante un'azione economica svolta dalle organizzazioni statali e cooperative, per salvaguardare gl'interessi della massa dei consumatori. Le norme al riguardo tendono a stabilire determinati prezzi per le varie merci, a eliminare la speculazione e a proteggere le classi agricole. Nel 1926 esistevano nell'U. R. S. S. circa 761.000 enti e imprese commerciali, di cui 603.000 imprese private, 38.000 enti statali, e 120.000 cooperative; le prime dedite quasi esclusivamente al commercio al minuto.

Commercio a termine.

La ragion d'essere del commercio a termine sta nei movimenti del sistema economico. Se questo fosse esclusivamente statico, non vi sarebbe alcun bisogno di ricorrere al commercio a termine. Il sistema è invece essenzialmente dinamico e lo è tanto più nella presente fase economica rispetto alle fasi precedenti. Da ciò la ragione del continuo evolversi dell'istituto, che da questo punto di vista ha attraversato due periodi caratteristici.

Nel primo periodo, che va fino al 1800, il commercio a termine consisteva generalmente in speculazioni sul corso dei titoli e di alcune merci a scopo di giuoco e di scommessa. Poche tracce si hanno di questo periodo: le più remote sono rappresentate dai contratti di mohatra, dai contratti a termine ricordati nella Cronaca di Marchionne di Coppo Stefani, pubblicata nelle Delizie degli eruditi toscani, e infine dai contratti sulle azioni della Camera di S. Giorgio, assai diffusi in Genova verso il finire del sec. XV. Spostato con la scoperta dell'America il centro degli interessi commerciali, il commercio a termine appare verso la metà del sec. XVII in Olanda, coi contratti a consegna sui prodotti della pesca e con le speculazioni sui tulipani e sulle azioni della Compagnia delle Indie Orientali; in Inghilterra, col traffico dei titoli pubblici; in Francia, con le speculazioni sui grani, e nel sistema del Law (1716-21).

Dopo il 1800, allorché lo sviluppo delle comunicazioni consentì l'allargamento dei mercati e l'acquisto diretto delle merci ai luoghi di origine, fiorirono rapidamente gli affari a termine su futuri raccolti e su carichi viaggianti con epoca di consegna indeterminata, ossia subordinata all'avvenuto raccolto e all'arrivo della merce. Ma gravissimi inconvenienti si palesarono subito con questo sistema: l'attendere per mesi e mesi l'arrivo delle merci da lontani centri importava correre l'alea delle variazioni dei prezzi dovute all'incessante mutare della domanda e dell'offerta mondiale. E se tale alea poteva rientrare nel novero dei rischi normali degli acquirenti, finché il mercato in cui si operava aveva un'importanza strettamente locale, essa riuscì intollerabile quando il mercato da locale si trasformò in internazionale, soggetto a una serie complicatissima di movimenti, e divenne difficilissimo conoscere le condizioni presenti e future della produzione e del consumo mondiali. Perciò si cercò di sostituire alla consegna per epoche future, ma incerte, la consegna a data certa, in limitate epoche prima (primavera ed autunno per il grano), in periodi mensili o quindicinali dopo. Il che trasse con sé la formazione di una speciale classe d'intermediarî (speculatori), disposti a negoziare le merci per qualunque epoca futura e ad assumersi i rischi delle variazioni dei prezzi prima cadenti esclusivamente sui compratori a consegna futura e incerta; e portò alla conseguenza che i venditori potessero promettere una merce non di loro proprietà, che forse non avrebbero mai acquistata, e altresì liquidare la vendita prima della scadenza del termine di consegna, mediante il riacquisto della merce e il regolamento delle differenze tra i prezzi di compra e di vendita.

Sorto il commercio anche per epoca certa, a esso ricorsero tutti coloro i quali avevano interesse a premunirsi contro le variazioni dei prezzi, come gl'importatori, gl'industriali e i grandi commercianti. Gli usi poi, trasfusi più tardi nei regolamenti di borsa, disciplinarono i contratti fino a renderli uniformi nelle epoche di consegna, nella quantità e nella qualità delle merci. Quel che dunque caratterizza la laboriosa evoluzione del commercio a termine è un processo lento di specializzazione e di divisione di funzioni, per cui l'alea connessa con il commercio a consegna futura viene spostata dagl'industriali e dai commercianti a commercianti speciali (speculatori) i quali, essendo meglio di ogni altro in grado di conoscere le condizioni presenti e future del mercato, sono disposti a comperare e a vendere per qualunque epoca e quantità a prezzi convenienti per l'altro contraente.

La storia del commercio moderno è intimamente connessa con lo sviluppo dei mercati a termine. Accanto ai mercati tradizionali destinati alla contrattazione di pochi prodotti, sorgono nuovi potenti mercati specializzati. E così, i mercati a termine sul caffè di Amsterdam, Rotterdam, Le Havre, Anversa, Amburgo, Londra, New York; quelli sul cotone di Le Havre, Liverpool, Alessandria d'Egitto, New York, New Orleans e Bombay; quelli sulle lane pettinate di Le Havre, Roubaix-Tourcoing, Anversa e Lipsia; quelli sulla canapa e la iuta di Londra; quelli sugli spiriti di Berlino, Breslavia, Danzica e Amburgo.

In Italia, accanto al mercato di Genova per i grani e di Trieste per il caffè, che risalgono all'anteguerra, si è sviluppato nel dopoguerra il mercato di Milano per i cereali, le sete, i bozzoli e i vini.

Nel corso del suo svolgimento il commercio a termine fu diversamente regolato dalla legislazione. In alcum paesi, il commercio a termine fu, fin dai primordî, riconosciuto: le leggi olandesi lo ammisero nel sec. XVII; così le leggi francesi anteriori al 1754; il codice napoleonico stabilì invece che si dovesse ricercare l'intenzione delle parti per poter sollevare o meno l'eccezione di giuoco. In altri paesi prevalse senz'altro l'idea che il commercio a termine fosse un semplice giuoco d'azzardo, e si pensò di limitarlo o addirittura di proibirlo, dichiarando nulli i relativi contratti. In Francia, durante la Rivoluzione, venne considerato aggiotatore chiunque vendesse merce senza averne la proprietà; in Inghilterra, fino al 1860, si punivano le vendite allo scoperto.

Delle legislazioni moderne, alcune, come l'inglese, la francese, l'olandese, la norvegese e quelle di alcuni stati nordamericani, riconoscono il commercio a termine; altre, per contro, come la svizzera, la tedesca e l'austriaca (queste ultime limitatamente ai cereali e ai prodotti dell'industria molitoria), lo vietano. In Italia, per la legge del 20 marzo 1913, il commercio a termine è pienamente valido.

Nel commercio a termine, il contratto fondamentale e più diffuso è il contratto a termine propriamente detto. Altri contratti che da questo derivano sono i contratti a premio e i contratti di riporto (v. borsa).

Importanza economica del commercio a termine. - Diminuzione delle fluttuazioni dei prezzi. - Il commercio a termine facilita il ricorso alle produzioni lontane. Ma con ciò non se ne spiegherebbe l'importanza assunta negli ultimi anni, poiché il ricorso alle produzioni lontane sarebbe ugualmente facile anche col commercio a consegna differita. Ciò che invece ne costituisce la funzione essenziale è che a un tempo esso diminuisce le fluttuazioni dei prezzi per disponibile e serve come mezzo di assicurazione.

La diminuzione delle fluttuazioni dei prezzi può essere intesa come tendenza a livellare i prezzi nello spazio o a diminuire le fluttuazioni nel tempo. Per quanto riguarda il primo aspetto, tutti gli scrittori sono giustamente concordi nell'affermare che il commercio a termine agevola straordinariamente le operazioni di arbitraggio, senza che sia necessario, nella maggior parte dei casi, il trapasso effettivo di merci. In altre parole, poiché i prezzi a termine sono collegati con i prezzi per disponibile, basta il fenomeno puro di arbitraggio sul termine perché il rapporto di equilibrio si stabilisca tra i prezzi per disponibile dei diversi mercati.

Per contro, la tendenza a diminuire le fluttuazioni dei prezzi nel tempo è contestata in pratica e solo ammessa in teoria. In teoria, infatti, non v'è dubbio che il commercio a termine riduca le fluttuazioni dei prezzi per disponibile, se la speculazione prevede giusto: grazie alla raccolta sistematica delle notizie concernenti le condizioni della produzione e del consumo, lo speculatore può determinare il prezzo del disponibile in epoche future. Con le quotazioni a termine egli stabilisce questo prezzo sul mercato, giacché è sempre disposto a comprare e a vendere a termine al prezzo del disponibile futuro da lui previsto, tenuto conto naturalmente delle spese di mediazione, del premio e dell'interesse sui margini, se la speculazione è in regime di libera concorrenza, e di tali spese più un ulteriore profitto, se la speculazione è monopolizzata. Combinando contratti a termine con contratti sul disponibile, la speculazione pone in relazione i prezzi a termine col prezzo per disponibile, in modo che a ogni variazione dei primi, determinata dalla previsione, sussegua immediatamente una variazione del secondo. Così, ad esempio, se i prezzi a termine sono cresciuti senza che il prezzo del disponibile sia variato, converrà allo speculatore di acquistare merce per disponibile immagazzinandola, finché il prezzo del disponibile non sarà salito nella stessa misura dell'aumento dell'a termine. Nel caso opposto, se i prezzi a termine sono diminuiti mentre quelli del disponibile sono rimasti fermi, converrà vendere merce per contanti riducendo gli stock, in guisa da costringere il prezzo del disponibile a ribassare nella stessa misura in cui è avvenuto il ribasso dei prezzi a termine. Con questo sistema le previsioni sulle condizioni future del mercato concorrono a formare, con lo stato presente della produzione e del consumo, il prezzo del disponibile. Gli effetti delle variazioni future della domanda e dell'offerta vengono a essere anticipati e per così dire scontati, sicché il passaggio da una posizione di equilibrio a un'altra si compie per gradi, senza quelle brusche variazioni che si avrebbero ove il prezzo fosse determinato unicamente dalle condizioni presenti del mercato.

Poiché intervengono nuovi cambiamenti nelle condizioni future della domanda e dell'offerta, il prezzo del disponibile varia, attraverso alle variazioni dell'a termine, un numero di volte superiore a quello che si verificherebbe ove il prezzo fosse determinato solo dalla domanda e dall'offerta presente. Dunque il commercio a termine rende più graduale il passaggio da un prezzo all'altro, benché nel processo di adattamento alle nuove condizioni di equilibrio, il prezzo varî un numero di volte maggiore, come provano le statistiche, prima e dopo l'introduzione dell'a termine.

È errata l'opinione, assai diffusa, secondo cui la speculazione è dannosa perché lo speculatore mira unicamente al proprio guadagno. Infatti, sopprimendo la speculazione si dovrebbe porre subito dopo il problema della sua sostituzione con un meccanismo altrettanto perfetto il quale evitasse le brusche variazioni dei prezzi. Un secondo appunto è stato mosso alla speculazione sul termine: quello d'imprimere una grande mobilità al prezzo del disponibile, con la conseguenza di perdere il vantaggio derivante da un prezzo meno oscillante. Ma le oscillazioni più frequenti sono anche meno ampie. In sostanza, resta favorita più di quanto sembri la tendenza verso la stabilità del prezzo nel tempo, il che è un vantaggio.

Per misurare la connessione tra prezzo a termine e prezzo per disponibile, vanno distinti i prezzi a termine per merce consegnabile entro il ciclo del raccolto, dai prezzi relativi a termini scadenti dopo lo stesso raccolto. Nel primo caso, il rapporto di connessione deve soddisfare alla condizione che un qualunque prezzo a termine sia uguale al prezzo per disponibile più le spese per la conservazione della merce dal giorno della sua quotazione per disponibile alla scadenza del termine, le quali spese sono rappresentate dal magazzinaggio e dall'assicurazione. Se la connessione è per contro stabilita tra un prezzo a termine più remoto e un prezzo a termine meno remoto, il primo prezzo dovrà essere uguale al secondo più le spese per la conservazione della merce dal termine meno remoto a quello più remoto. Nel secondo caso, in cui non può sostituirsi la merce del nuovo raccolto con la merce del vecchio raccolto (altrimenti si ricadrebbe nel primo caso), il rapporto di connessione tra un prezzo a termine scadente dopo il nuovo raccolto e il prezzo per disponibile, o un prezzo a termine meno remoto per merce da consegnarsi prima del nuovo raccolto, non è più determinato dalle spese di trasporto nel tempo. Si verifica in questo caso una rottura nella continuità dei prezzi a termine. Il problema della connessione resta del tutto indeterminato, poiché dipende dal confronto tra le curve della domanda e dell'offerta, che sono proprie del vecchio raccolto, e le stesse curve che sono proprie del nuovo raccolto. Può solo affermarsi che, permanendo immutate le condizioni della produzione e del consumo nei due raccolti, i prezzi a termine per consegne scadenti prima del nuovo raccolto ma vicine a esso sono superiori al prezzo per disponibile e ai prezzi a termine per consegne scadenti nel nuovo raccolto ma vicine al vecchio raccolto; perché i primi prezzi contengono in sé anche la rimunerazione per le spese di conservazione della merce, spese che non esistono o che sono minori per consegne da effettuarsi col nuovo raccolto. Quando invece le condizioni della produzione sono diverse nei due raccolti, il prezzo per disponibile e il prezzo a termine relativi a consegne da effettuarsi prima del nuovo raccolto tenderanno a ribassare se si prevede un raccolto più abbondante che il presente; e viceversa, nel caso opposto. In entrambi i casi, a determinare il rapporto di connessione, concorrono inoltre le spese di mediazione, gl'interessi sui margini e il profitto della speculazione.

Ma a questa caratteristica dei prezzi futuri di essere superiori a quelli presenti dentro il ciclo dello stesso raccolto, si contrappone una tendenza secondaria diretta a far sì che i prezzi futuri non siano superiori ai prezzi presenti di tanto quanto le spese di conservazione della merce comporterebbero. La ragione di ciò va ricercata nella cosiddetta legge di sopravalutazione del Böhm-Bawerk, per cui uno scambio alla pari tra beni presenti e beni futuri difficilmente si avvera. Vi sono nel campo economico fattori oggettivi e soggettivi che tendono a fare aumentare la ragione di scambio in favore dei beni presenti. Inoltre, e più particolarmente nel commercio a termine, esiste la cosiddetta tendenza a sopraesportare o a sopravendere per futuro, tendenza che si manifesta meno nel commercio a pronti.

Riassumendo, la connessione, entro il ciclo dello stesso raccolto, tra prezzi a termine più remoto e prezzi a termine meno remoto o per disponibile è in funzione di una duplice tendenza; una principale, per cui i prezzi per scadenze più lontane tendono ad essere superiori ai prezzi per scadenze più vicine, e l'altra, secondaria e opposta, per cui i prezzi per scadenze più lontane tendono a essere inferiori ai prezzi per scadenze più vicine.

Se in teoria il commercio a termine, collegato con il commercio in disponibile nel modo anzidetto, tende a ridurre, con la condizione presupposta che la previsione sia giusta, l'ampiezza delle oscillazioni (pur accrescendone la frequenza), in pratica la grandissima difficoltà di prevedere il prezzo futuro e la facilità di vaste operazioni sul termine a scopo di giuoco spesso accrescono, invece di diminuire, le fluttuazioni dei prezzi.

Per esaminare l'influenza del commercio a termine sui prezzi per disponibile, nessun metodo di studio è esatto. Infatti, se si confrontano i prezzi per disponibile in un mercato in cui vi sia pure commercio a termine con i prezzi per disponibile in un altro mercato privo dell'a termine, e si determina quale dei due mercati presenta le oscillazioni minori, non si evita l'influenza reciproca dei prezzi, per l'interdipendenza dei due mercati; se poi si confrontano i prezzi di merci diverse ma succedanee o complementari, per una sola delle quali esista l'a termine, anche qui non può sopprimersi l'interdipendenza fra i prezzi delle due merci. Se poi il confronto è fatto tra prezzi di merci diverse non interdipendenti, per una sola delle quali esiste commercio a termine, il confronto non ha senso alcuno, essendo molteplici le cause di variazione proprie di ciascuna merce e del tutto arbitrario il negligerle. Resta la via di paragonare le oscillazioni dei prezzi a contanti con quelle di un periodo in cui non c'è commercio a termine. Questa via, seguita ad esempio dal Hooker, sarebbe buona nel solo caso in cui l'istituzione o la soppressione del commercio a termine fosse avvenuta bruscamente, in modo da fare supporre che il prezzo resti sotto l'influenza delle stesse cause generali, inclusa quella propria del commercio a termine; il che invece non accade di solito. L'unico esempio di brusca soppressione si ebbe in Germania dopo il 1896 e diede luogo a interessanti ricerche, ma non è possibile fare generalizzazioni. Meglio è ricercare il grado di precisione dei prezzi a termine e l'influenza delle manovre speculative per potere dedurre, se il grado è assai approssimato al vero, la conseguenza che il commercio a termine facilita la formazione del prezzo di equilibrio. Ora le ricerche statistiche, più sotto riportate, hanno trovato, per quanto riguarda l'errore di previsione, che questo è più grande di quanto i pratici sogliono affermare in privato e in pubblico davanti alle commissioni d'inchiesta. Più precisamente queste ricerche hanno potuto stabilire che: a) esiste una stretta connessione tra variazioni dei prezzi per disponibile e variazioni dei prezzi a termine secondo la misura fissata. Tradotta graficamente, questa connessione dà luogo a due curve, una dei prezzi per disponibile e l'altra dei prezzi a termine, procedenti nella stessa direzione, sebbene la curva dei prezzi a termine risulti quasi sempre spostata verso destra rispetto a quella dei prezzi per disponibile, manifestando così l'inevitabile imperfezione del mercato a termine; b) l'errore di previsione è assai rilevante; c) gli scarti fra i prezzi a termine e quelli effettivi per disponibile alla scadenza dei termini tendono nel corso del tempo a restringersi. Ciò può essere attribuito al miglioramento delle previsioni o alla tendenza verso la stabilizzazione delle industrie basi, ovvero ad entrambe le cause. È da notarsi tuttavia che la tendenza verso la diminuzione degli scarti non esiste per il mercato dei cotoni nel periodo 1880-1914 esaminato dal Bresciani-Turroni:

d) gli scarti suddetti sono minori man mano che si riduce il periodo intercedente tra l'epoca della previsione e quella della scadenza del termine; e) gli scarti suddetti variano a seconda dell'organizzazione dei mercati e della qualità della merce.

Questi rilievi sono dovuti unicamente alla difficoltà di conoscere le condizioni presenti e future del mercato. Per la produzione le statistiche degli stock, malgrado gli ultimi perfezionamenti, sono tuttora troppo imperfette e lacunose. Più incerte appaiono le congetture sullo stato della produzione futura per la difficoltà di prevedere le condizioni climatiche e l'estensione delle coltivazioni.

Per quanto riguarda il giuoco, il commercio a termine favorisce la partecipazione di chi specula semplicemente sull'andamento dei corsi (outsiders): il tenue importo dei margini, i riporti facilmente concessi dalle banche, la repentina divulgazione delle notizie allarmistiche facilitano l'intervento nel mercato del pubblico incompetente, di chi opera a dritta e a manca senza discernimento. Ove si pensi che, per concorde affermazione dei competenti, gli outsiders finiscono sempre col perdere, non vi ha dubbio che il commercio a termine esercitato dagli outsiders accresce le fluttuazioni dei prezzi. Queste poi sono ancora accresciute dalle manovre degli speculatori di professione, i quali contano sull'intervento del grosso pubblico per esagerare o provocare artificialmente una tendenza e poi ritrarsi dal mercato, in guadagno, prima che sopraggiunga la tendenza opposta. Contro l'intervento degl'incompetenti si sono levate in ogni tempo proteste clamorose; riforme, quali l'iscrizione degli speculatori in appositi registri, sono state proposte e anche ȧttuate in alcuni paesi. Ma i rimedî sono stati spesso più dannosi del male.

Assicurazione contro i rischi. - Prima di dire di questa importante funzione del commercio a termine, è utile accennare a un fatto messo in luce dal Del Vecchio, che, per essere comune a tutte le forme speculative, riguarda anche il commercio a termine. È noto come la speculazione sul termine, per agire, debba operare su un certo deposito di merci. Ciò, consentendo ai produttori di ricorrere in ogni momento al deposito di merci necessario al ciclo produttivo, riduce il costo dei depositi necessarî nell'economia dinamica.

L'assicurazione contro i rischi delle oscillazioni dei prezzi si fa per mezzo della copertura (hedging), la quale consiste nel vendere o nel comprare a termine nello stesso momento in cui un opposto affare in disponibile è stato concluso. In tal modo le eventuali perdite sul mercato del disponibile sono compensate dai guadagni fatti sul mercato del termine, e, viceversa, i guadagni eventuali sul mercato del disponibile sono compensati dalle perdite sul mercato del termine. Nell'uno e nell'altro caso le operazioni sono dovute alla volontà di evitare i rischi delle variazioni dei prezzi. Così la copertura diventa lo strumento di chi non vuole speculare.

Ad esempio, i mugnai si cautelano contro un ribasso delle farine rivendendo a termine il grano acquistato, per il tempo in cui esso sarà macinato e venduto, approfittando del fatto che i prezzi del grano e delle farine procedono di conserva. Se nel frattempo si verifica un ribasso nel prezzo della farina, la perdita sulla farina è compensata dal guadagno sul grano venduto a termine. Giunto il giorno di vendita della farina, occorrerà ricomperare il grano venduto a termine per chiudere l'operazione di assicurazione. Lo stesso metodo è adottato dai commercianti quando non intendono di correre il rischio delle variazioni dei prezzi di uno dei due mercati dove essi operano. Gli stessi agricoltori, di fronte a un previsto ribasso, possono assicurare il loro raccolto vendendolo a termine per il tempo in cui sarà effettivamente raccolto.

In teoria la copertura si potrebbe avere tra i soli assicurati senza l'intervento della speculazione. Ma difficilmente si trovano persone che vogliano assicurarsi nello stesso momento per rischi e tempi uguali. Si ricorre perciò alla speculazione. Dove però il numero degli speculatori è poco elevato, il trasferimento dei rischi alla speculazione riesce meno facile, poiché può convenire piuttosto di correre il rischio che non di pagare il premio alto richiesto dagli speculatori. L'assunzione dei rischi da parte della speculazione, o il loro mantenimento da parte di chi intende di assicurarsi, dipendono dunque dalla concorrenza tra il premio della prima e il profitto del secondo. In condizioni di libera concorrenza, il premio tenderà ad adeguarsi al costo dell'assicurazione e converrà in questo caso pagarne il premio alla speculazione.

Se dal punto di vista degli assicurati le operazioni a termine non sono che operazioni di copertura, da quello dell'assicuratore non sempre sono speculative. All'uopo conviene distinguere la speculazione come un tutto dallo speculatore isolato. Per la prima, l'assunzione dei rischi ha carattere speculativo per quella sola parte di rischi che non trova rischi opposti per annullarsi. Per il secondo, l'assunzione dei rischi ha sempre carattere speculativo. In altri termini, la speculazione funziona da stanza di compensazione dei rischi e quale istituto di assicurazione dei rischi non compensati. È poi da avvertire che chi sopporta i rischi non compensati è spesso la massa dei piccoli speculatori, sui quali i grandi speculatori rovesciano facilmente le conseguenze dei loro errori di previsione.

Non sempre l'operazione di assicurazione riesce perfetta. Se ad esempio un commerciante ha acquistato una merce per disponibile al prezzo di 1,50, vendendola contemporaneamente a termine a 1,57, e ha in seguito rivenduto la merce per disponibile a 1,50, ricomprandola nello stesso tempo per il termine di prima a 1,58, egli viene, a conti fatti, a perdere 0,01. Ciò dipende dallo scarto fra il prezzo per disponibile e il prezzo a termine al momento delle due prime operazioni, il quale non è uguale allo scarto tra gli stessi prezzi al momento delle due ultime operazioni. Teoricamente l'assicurazione sarebbe perfetta solo ove le quotazioni del disponibile e del termine variassero nella stessa guisa. Spesso la differenza tra prezzi a termine e prezzi per disponibile è accresciuta dalle spese di provvigione, allorché la copertura viene eseguita in mercati distanti, come accadde, per esempio, dopo la legge tedesca del 1896, quando gl'importatori dovettero coprire i loro acquisti di grano ricorrendo al mercato a termine di Chicago. Nondimeno le perdite (o i guadagni) provocate dalla non piena interdipendenza dei mercati del disponibile e del termine sono di solito piccole in confronto a quelle che si avrebbero senza l'assicurazione.

L'uso di assicurarsi contro le variazioni dei prezzi è diventato oggi quasi universale, soprattutto negli affari in grano e in cotone, in cui le destinazioni oltre mare sono assicurate per un tempo più o meno lungo. Degne di nota ne sono le conseguenze. Per il commercio a termine, l'assicurazione mediante copertura aumenta la massa degli affari, garantendo pertanto un prezzo più continuo, il che permette alla sua volta a tutti di assicurarsi in tempo un prezzo definitivo per il calcolo del costo: i due fenomeni sono mutuamente dipendenti. Per il commercio del disponibile, l'assicurazione toglie al profitto quasi per intero il suo carattere speculativo per lasciargli soltanto quello che gli deriva dall'essere un reddito autonomo dipendente dalla funzione dinamica degl'imprenditori.

Per questo verso, l'assicurazione stabilizza l'industria e il benessere degli operai. Indirettamente inoltre essa diminuisce le stesse fluttuazioni dei prezzi, perché evita quelle vendite affrettate di stock che si avrebbero nei momenti di panico, ove i detentori di essi non fossero assicurati; e favorisce altresì la sovvenzione su merci e materie prime, poiché il banchiere sa che non correrà alcun rischio se la merce è assicurata. L'unico appunto mosso all'assicurazione contro le variazioni dei prezzi, per cui essa verrebbe a togliere l'effetto benefico che sulla produzione e sul commercio hanno i diversi criterî direttivi costituiti dai prezzi soggetti a variare durante il corso della produzione, non ha grande valore; poiché il commercio a termine, col favorire l'azione delle previsioni sopra i prezzi attuali per disponibile, costringe già l'industria a modificare il proprio complesso in relazione alle previsioni stesse.

Pertanto il commercio a termine deve considerarsi come una delle più grandi istituzioni di assicurazione. Se la sua funzione fosse solo di distribuire i rischi commerciali nel tempo non potrebbe concludersi contro. Vi è invece l'altra supposta funzione, quella di anticipare il prezzo futuro, la quale, per essere imperfettamente adempiuta, provoca profonde perturbazioni nei prezzi. Prevale l'utilità dell'assicurazione? La storia dell'istituto lo prova: il fatto che il commercio a termine ha sostituito le forme più antiquate del commercio e si è diffuso in tutto il mondo è la migliore prova della sua utilità. Ciò non vide il legislatore tedesco quando soppresse i mercati a termine sul grano. Ma i fatti ne dimostrarono subito l'errore, ricostituendo tacitamente il commercio a termine con i cosiddetti contratti a consegna secondo il diritto commerciale.

Bibl.: G. Cohn, Über Differenzgeschäfte, in Volkswirtschaftliche Aufsätze, Stoccarda 1882; R. Siegfried, Die Börse u. die Börsengeschäfte, Berlino 1887; V. Gülpen, Terminhandel und Börse, Berlino 1895; H. C. Emery, Speculation on the Stock and Produce Exchange in Germany, in Yale-Review, 1908; L. Einaudi, A favore dei contratti differenziali, in Riforma sociale, 1896; V. Pareto, Cours d'Économie Politique, Losanna 1897; C. Supino, La borsa e il capitale improduttivo, Milano 1898; A. Crump, Teoria della speculazione di borsa, in Biblioteca dell'economista, Torino 1899, s. 4ª; F. J. Fleger e L. Gschwindt, La riforma delle borse in Germania, in Bibl. dell'econ., s. 4ª; Report of the Industrial Commission on the Distribution of Farm Products, VI, Washington 1901; M. Hayem, Bourse de commerce, in Guyot e Raffalovitch, Dict. de Commerce, Parigi 1901; Stenographisches Protokol über die Enquête betreffend die Reform des Börsenmassigen Terminhandels mit Landwirtschaftlichen Produkten, Vienna 1901; E. Vercamer, Étude historique et critique sur les jeux de bourse, Bruxelles 1903; S. J. Chapman e D. Knopp, Anticipation in the Cotton Market, in The Economic Journal, 1904; H. W. Macrosty, Prices and Speculation, in The Economic Journal, 1905; J. Bessière, Les marchés à terme sur marchandise, Montpellier 1905; E. Sella, La "filière" e la speculazione sulle lane, in Giornale d. economisti, 1905; id., La speculazione commerciale, Torino 1906; Report on the Tariff Commission, Londra 1907; Report of the Commissioner of Corporations on Cotton Exchanges, Washington 1909; G. Prato, Speculazione e prezzi sul mercato del cotone americano, in Riforma sociale, 1910; id., Gli insegnamenti di una regolamentazione arbitraria dei prezzi, ibid.; G. Lexis, Spekulation, in Handwörterbuch der Staatwissenschaften, Jena 1909-11; F. J. Fleger, Börsenrecht, ibidem; R. Ehrenberg, Börsenwesen, ibidem; A. R. Marsh, Cotton Exchange, in The Annals of Amer. Academy, 1911; S. Harris, Methods of Marketing the Grain Crop, ibidem; C. Parker, Governmental Regulation of Speculation, ibidem; I. Fisher, The Nature of Capital and Income, New York 1912; H. H. Brace, The Value of Organised Speculation, New York 1913; A. De Pietri Tonelli, La speculazione di borsa, Rovigo 1912-13; C. Bresciani-Turroni, Dell'influenza del commercio a termine ecc., in Annali del Seminario giuridico, Palermo 1915; id., Relazioni tra prezzi presenti e prezzi futuri, in Giornale d. econ., 1915; J. E. Pope, Can the Farmer etc., in Quarterly Journal of Economics, 1916; A. Garino Canina, La speculazione a termine, in Giorn. d. econ., 1916; A. Marshall, Industry and Trade, Londra 1919; G. Arias, Principii di economia commerciale, Milano 1919; R. C. Wyse, The Selling and Financing of the American Crop, in The Economic Journal, 1920; J. E. Boyle, Speculation and Chicago Board of Trade, New York 1920; id., The Law of the Supply and Demand and the Wheat Market, New York 1921; A. C. Pigou, The Economics of Welfare, Londra 1920; C. O. Hardy e L. S. Lyon, The Theory of Hedging, in The Journal of Political Economy, 1923; F. E. Clark, The Principles of Marketing, New York 1925; M. Pantaleoni, Erotemi di economia, Bari 1925; U. Caprara, Le negoziazioni caratteristiche dei vasti mercati, Milano 1926; id., Il commercio del grano, Milano 1928; F. Messineo, Operazioni di borsa e di banca, Roma 1926; M. Cunietti, Le borse dei cereali, in Rivista del diritto commerciale, 1926; G. Del Vecchio, Teoria economica dell'assicurazione, in Annali di economia, Milano 1928; id., Lezioni di economia applicata, Padova 1928, 2ª ed.; G. P. Watkins, Parity in the Exchange of the Future and Future Commodities; in The Quarterly Journal of Economics, 1928.

Statistica del commercio.

I limiti e il contenuto della statistica del commercio non sono né chiaramente fissati, né facilmente determinabili. Non è praticamente possibile far coincidere il suo campo di applicazione con quello delle operazioni commerciali propriamente dette, secondo gli schemi e le distinzioni comunemente formulati dalla scienza economica, per la quale esercita attività commerciale chi acquista per poi ceder beni, a scopo di lucro, senza sottoporli ad alterazioni nella forma o nella sostanza, assumendo funzioni d'intermediazione fra produttori e consumatori e operando trasformazioni economiche nello spazio e nel tempo. Si può accogliere una nozione più generica che estende il concetto di commercio agli scambî economici, indipendentemente dalla loro particolare natura e finalità. In questo senso, la statistica del commercio, diretta a valutare e studiare quantitativamente gli scambî relativi a un dato paese, in un certo periodo di osservazione, potrebbe stare accanto alla statistica della produzione e del consumo senza sovrapporsi ad esse, giacché, in ogni unità di tempo, non si scambiano solo né tutti i prodotti ottenuti nell'intervallo stesso, e non si consumano solamente né tutti i beni scambiati, mentre poi la medesima quantità di ricchezze può essere oggetto di più atti di scambio consecutivi. Di fatto, le statistiche del commercio si limitano a considerare solo alcuni degli scambî avvenuti.

Commercio estero. - Dei due rami in cui si suole distinguere il commercio di un paese, commercio interno e commercio con l'estero, solo il secondo forma oggetto di rilevazione sistematica, mentre per il primo i dati offerti dalle statistiche ufficiali, anche degli stati amministrativamente più progrediti, sono frammentarî e indiretti, tanto che, spesso, per statistica del commercio si intende senz'altro quella relativa al commercio internazionale e gli annuarî, i bollettini statistici, i periodici d'informazione economica portano rubriche dedicate agli scambî con l'estero, ma non corrispondenti sezioni per gli scambî all'interno.

La statistica del commercio estero, preziosa per l'orientamento della politica economica e fiscale, per l'apprezzamento della posizione di uno stato nei suoi rapporti con le altre nazioni, e per lo studio di certi fenomeni della stessa vita economica interna, dovrebbe contenere indicazione della quantità e del valore delle importazioni e delle esportazioni distinte secondo la natura dei beni e secondo il paese di destinazione o di provenienza. L'assoluta completezza e precisione non sono neppure qui raggiungibili e l'imperfezione delle statistiche obbliga spesso lo studioso a congetture e ricerche suppletive per correggere e integrare le cifre. Il diverso sistema adottato dagli stati nella compilazione delle statistiche rende incerta la comparabilità fra le cifre relative a diversi paesi o, per la stessa nazione, a tempi successivi. Si deve infatti notare a questo proposito: a) che i dati offerti dalle statistiche non abbracciano tutto il traffico effettivo, poiché non tutte le merci in uscita vengono, per varie ragioni (contrabbando, esonero), registrate; b) che in certi casi può nascere incertezza sull'estensione del concetto d'importazione e di esportazione (merci straniere importate per transito; merci nazionali esportate per finitura e reimportate); c) che le categorie in cui vengono raggruppate le merci importate in relazione alle rubriche della tariffa doganale non sempre coincidono per le varie nazioni, creando serî ostacoli alla comparabilità (un tentativo di unificazione, Bruxelles 1913, è fallito per lo scoppio della guerra); d) che l'espressione della misura delle merci importate ed esportate (tipo, peso, volume, numero), come pure quella del valore delle merci stesse, è determinata con criterî e metodi diversi da nazione a nazione, comprendendosi, p. es., nel determinare il valore di una merce importata, secondo alcune nazioni, anche il costo del trasporto e dell'assicurazione, secondo altre no; e) che, infine, anche per quanto concerne l'indicazione dei paesi di provenienza o di destinazione, si presentano varietà di soluzioni: o si tien conto del paese di origine delle merci importate e del paese di consumo per le esportazioni, o del paese di spedizione e di quello al quale i prodotti sono indirizzati, o del paese confinante attraverso le cui frontiere le mercanzie entrano ed escono, oppure del paese dal quale le merci vennero vendute e rispettivamente comperate. Un'altra causa di divergenza per quantità e valori può derivare dal fatto che le merci spedite da un paese a un altro e registrate all'uscita in un dato anno giungano a destinazione e vengano incluse fra le importazioni dell'altro paese nell'anno successivo. Una convenzione internazionale relativa alle statistiche economiche, discussa e approvata da una apposita conferenza (Ginevra 26 novembre-14 dicembre 1928) e firmata da oltre 30 stati, stabilisce alcuni principî comuni da adottarsi nella compilazione delle statistiche del commercio estero.

La statistica del commercio estero in Italia. - I dati sulle importazioni e sulle esportazioni di merci in Italia sono raccolti nelle statistiche del commercio internazionale edite dal Ministero delle finanze in una pubblicazione annuale (Movimento commerciale del Regno d'Italia) e in fascicoli mensili (Statistica del commercio speciale di importazione e d'esportazione). I dati risalgono, per il regno, sino al 1861 (ma non sono omogenei né sempre comparabili, sia per le variazioni del territorio doganale cui si riferiscono, sia per le modificazioni ripetutamente introdotte nei metodi di raccolta e di compilazione). Il Movimento commerciale contiene, nella parte prima, i dati relativi agli scambî complessivi con l'estero, con indicazione della quantità, del valore, del paese di provenienza e di destinazione; nella parte seconda, le informazioni relative al commercio con ciascuno dei paesi esteri. La Statistica del commercio speciale riporta le cifre delle quantità e del valore delle merci relativamente al periodo che corre dal 10 gennaio dell'anno al mese considerato, confrontandole con quelle degli scambî verificatisi nel corrispondente periodo dei due anni precedenti. Solo le merci o i gruppi di merci più importanti per il valore complessivo della loro importazione o esportazione e relativamente ai paesi di maggiore traffico sono ripartite secondo gli stati di provenienza e di destinazione. Il movimento d'importazione e di esportazione è distinto in commercio generale e commercio speciale. Il 1° comprende: all'importazione, tutte le merci introdotte dall'estero nello stato, sia per consumo diretto, sia per immissione nei depositi doganali, nei magazzini generali o nei depositi franchi, oppure importate temporaneamente per subire una lavorazione o per servire come materie prime nella fabbricazione di prodotti da esportare, o, finalmente, reimportate dopo la temporanea esportazione: all'esportazione, tutte le merci uscite dallo stato, prodotte in Italia, anche con materie prime importate temporaneamente, oppure di origine estera riesportate dopo di aver subito una lavorazione in Italia, o estratte dai depositi doganali, dai magazzini generali o dai depositi franchi. Il commercio speciale comprende, in base ai nuovi criterî di rilevazione adottati col gennaio 1930: all'importazione, a) le merci estere introdotte nel regno per consumo, tanto se venute direttamente dall'estero, quanto se estratte da depositi; b) le merci estere ammesse alla temporanea importazione e successivamente dichiarate per consumo, o considerate come in consumo per mancata riesportazione nel termine prefisso; c) i materiali destinati alla costruzione o alla riparazione delle navi, importati dall'estero sotto il regime della temporanea importazione in applicazione della legge sui provvedimenti a favore della marina mercantile; d) le merci estere importate temporaneamente come materie prime per la fabbricazione di prodotti da esportare; e) le merci estere importate temporaneamente per completamento di mano d'opera o riparazione; f) le merci nazionali reimportate dopo aver subito all'estero un completamento di mano d'opera o riparazione; all'esportazione, a) le merci nazionali o nazionalizzate, esportate con destinazione definitiva per l'estero, comprese quelle fabbricate in tutto o in parte con materie prime importate temporaneamente dall'estero; b) le merci nazionali esportate temporaneamente e non reimportate nel termine prescritto; c) le merci nazionali esportate temporaneamente per completamento di mano d'opera o riparazione; d) le merci estere riesportate dopo aver subito nel regno un completamento di mano d'opera o riparazione. Sono escluse le merci imbarcate per provviste di bordo di bastimenti nazionali.

I valori indicati nelle statistiche, i quali sino al 1° luglio 1921 erano fissati da una commissione centrale per i valori doganali, vengono, da allora, basati sulle dichiarazioni degl'importatori e degli esportatori e rappresentano: a) all'importazione, il valore delle merci fuori dazio; b) all'esportazione, il valore delle merci nell'interno del regno, accresciuto della spesa di trasporto fino al confine. Per la quantità, quando essa venga indicata in ragione di peso, si considera per poche merci all'importazione il peso netto legale, per tutte le altre il peso netto reale.

Con la riforma del 1921 si è adottata una classificazione nuova, connessa alla nuova tariffa doganale. Le categorie da 19 sono salite a 52 e le voci da 1200 a 2059. Si è, inoltre, innovato fondamentalmente il criterio di distribuzione delle merci nelle nove sezioni nelle quali si attua il raggruppamento in ordine a considerazioni merceologiche ed economiche non corrispondenti alle antiche. Come paese di destinazione è indicato quello al quale le merci sono destinate per essere consumate, e, come paese di provenienza, quello originario delle merci importate. Per la retta interpretazione delle statistiche italiane del commercio estero, è da osservarsi che, oltre agli oggetti non sottoposti a dazio contenuti nei bagagli dei viaggiatori, esse escludono i valori delle importazioni in conto riparazioni di guerra, e parte notevole di acquisti e di vendite all'estero di navi e galleggianti, oltre a importazioni ed esportazioni di combustibili liquidi e solidi diretti ai depositi dei porti o da questi estratti.

Interpretazione delle statistiche del commercio estaro. - Un problema di notevole interesse si affaccia a chi vuole convenientemente rendersi conto del significato di eventuali variazioni nell'entità del commercio estero. L'aumento o la diminuzione del valore complessivo registrato all'importazione o all'esportazione può ricondursi a due ordini di fattori: potremmo avere una variazione in più o in meno, sia perché sono modificate le quantità introdotte o esportate, restando costanti i prezzi unitari delle varie merci, sia perché sono variati i prezzi unitarî, restando inalterate le quantità dei prodotti scambiati. Nella realtà, ci troviamo di fronte alla risultante della combinata azione dei due fattori. E spesso necessario separare nelle indagini statistiche gli effetti dell'azione dell'uno e dell'altro gruppo di cause. Si noti che non basta conoscere, accanto al valore totale, il tonnellaggio complessivo delle merci importate o esportate, essendo evidente che variazioni nella quantità possono venire determinate o mascherate da mutamenti nella composizione degli scambî. Una sensibile contrazione nella quantità di merci molto preziose e poco pesanti può, ad esempio, venir dissimulato da un leggiero aumento in senso inverso della quantità di merci povere, ma molto pesanti. Il procedimento statistico di discriminazione si basa, fondamentalmente, sui metodi di eliminazione che servono per la formazione dei numeri indici.

1. Si possono applicare alle varie quantità di merci importate o esportate in successivi periodi i prezzi relativi a un intervallo scelto come base; i risultati ci daranno il valore che avrebbero assunto le importazioni o le esportazioni dei singoli periodi nell'ipotesi che solo le quantità delle merci fossero mutate.

2. Si possono applicare, invece, i prezzi delle merci scambiate in successivi tempi alle quantità importate o esportate nel periodo di base; i risultati c'informeranno delle entità che avrebbero assunto le importazioni o le esportazioni nell'ipotesi che costanti fossero restate le quantità scambiate delle singole merci.

I risultati si possono porre sotto forma di numeri indici delle variazioni di quantità e di prezzo verificatesi rispetto ad una base scelta.

Con un sistema più grossolano, ma più semplice e spedito, si può giungere alla costruzione di numeri indici delle variazioni quantitative nel volume degli scambî, eliminando l'influenza delle modificazioni del potere d'acquisto della moneta, col dividere il valore effettivo delle importazioni e delle esportazioni per il rapporto indice generale dei prezzi di ciascun anno; con ciò si viene a supporre che il potere d'acquisto della moneta si modifichi in misura uniforme rispetto alle varie merci.

Indici sintetici delle variazioni di quantità o del livello dei prezzi all'esportazione e all'importazione vengono calcolati per varî paesi dagli uffici statistici nazionali, dal Federal Reserve Board e dalla Società delle Nazioni; per l'Italia esistono le serie di indici del Bachi, del Consiglio provinciale dell'economia di Milano e della Confederazione generale fascista dell'industria. È stata richiamata l'attenzione sulla speciale importanza degl'indici del livello dei prezzi all'importazione e all'esportazione, in quanto possono servire ad illuminare la posizione economica internazionale di un paese, se non in via assoluta, almeno relativamente a un'epoca assunta come termine di riferimento. I rapporti fra gl'indici del livello dei prezzi delle merci d'importazione e quelli delle merci di esportazione corrispondenti, possono essere considerati indici di miglioramento o di peggioramento verificatosi, in confronto al periodo di base, negli scambî internazionali di una nazione. Infatti, se il livello dei prezzi all'esportazione è salito più che il livello dei prezzi delle importazioni, ciò significa che la misura in cui nel mercato internazionale è cresciuto l'apprezzamento delle merci vendute dal paese all'estero supera quella relativa all'apprezzamento dato alle merci che il paese domanda all'estero; cioè, le merci che si sono vendute all'estero risulterebbero rincarate più di quelle fatte venire dall'estero.

Commercio interno. - Del commercio interno non possediamo alcuna valutazione statistica diretta. Si è tentato di determinarne l'entità e di confrontarla con quella del commercio estero, mediante congetture. Il Lexis pensava si potesse ricavare un apprezzamento sul commercio interno sottraendo al reddito nazionale complessivo quella parte che ogni anno viene impiegata nella compra di merci all'estero. Ma, in questo confronto, a parte ogni altra obiezione sul suo fondamento, si viene a contrapporre, non l'entità del commercio interno a quella del commercio estero, bensì l'ammontare del fabbisogno nazionale al quale si provvede direttamente con la produzione interna alla parte per cui si ricorre all'estero.

Indici del volume degli scambî interni e particolarmente delle sue variazioni potrebbero ricavarsi dalle statistiche del traffico ferroviario, della navigazione, del movimento postale, dei dazî consumo, delle tasse sugli scambî commerciali, delle tasse di bollo e registro, ecc.

Bibl.: Oltre alle fonti ufficiali, A. E. Bateman, Comparability of trade statistics of various countries, American statistical Ass., 1892-93 e varie memorie sullo stesso argomento in Bulletins Inst. Intern. de stat., II, III, IV, VI, VII, IX, XII, XV; R. Bachi, Numeri indici delle variazioni di quantità e di prezzo negli scambi commerciali con l'estero, in Bull. Inst. Int. de stat., XXII, Roma 1926; J. Breuer, Die Methoden der Handelstatistik, Paderborn 1920; L. Bodio, Sulle discordanze che si osservano fra le statistiche commerciali dei vari Stati, in Biblioteca dell'economista, s. 4ª, I, parte 1ª; B. Stringher, Note sulle statistiche commerciali, ibid.; id., Gli scambi con l'estero e la politica commerciale dal 1860 al 1910, in Cinquant'anni di storia italiana, III, Roma 1911; F. Coletti, Del valore statistico delle cifre del commercio internazionale, Torino 1923; Flux, International statistical comparisons, in Journal of R. Stat. Soc., Maggio 1923; C. Gini, Le statistiche delle esportazioni, in Rivista di politica economica, maggio 1928; id., La posizione economica internazionale dell'Italia, in Movimento economico dell'Italia, Banca Commerciale Italiana (XVII, 1928; A. Julin, Principes de statistique théorique et appliquée, II, fasc. 1°: Statistique du commerce extérieur et des transports, Bruxelles 1923; Società delle nazioni, Memorandum sur le commerce international et sur les balances des paiements, Ginevra 1924, 1925, 1926, 1927, 1928, 1929; A. De Petri Tonelli, Il commercio estero dal punto di vista statistico, Rovigo 1922.

Norme amministrative per la disciplina del commercio.

L'azione amministrativa per la disciplina del commercio ha manifestazioni molteplici, positive e negative. L'azione negativa si esplica, prevalentemente, con l'esercizio della normale funzione di polizia attribuita allo stato e ai suoi organi ausiliarî; l'azione positiva si attua con l'integrazione, più che con la sostituzione, delle libere manifestazioni dell'attività individuale.

Le norme amministrative che disciplinano in Italia l'attività commerciale possono raggrupparsi in quattro grandi categorie: di polizia sanitaria; di polizia di sicurezza; di polizia tributaria; meramente economiche e a carattere misto.

Norme di polizia sanitaria. - Le norme della prima categoria costituiscono, nel loro insieme, il diritto di polizia e il diritto penale dell'alimentazione pubblica e delle cose di uso personale e domestico. Sono vietati e puniti: la vendita di materie destinate al cibo o alla bevanda che siano guaste, infette, adulterate o in qualunque altro modo nocive; l'impiego di colori nocivi nella preparazione di alimenti, bevande, stoffe, tappezzerie, giocattoli, di carte per involgere alimenti, o altri oggetti di uso personale e domestico, e, per conseguenza, la vendita di sostanze ed oggetti così colorati; la vendita di sostanze non contraffatte, né adulterate, ma pericolose alla salute, quando il pericolo non sia noto al compratore; il commercio di sostanze dichiarate come genuine, allorché non lo siano in realtà e sebbene non siano pericolose. Per l'igiene delle carni è imposto ai comuni con popolazione superiore ai 6000 abitanti di esercitare l'industria della macellazione, e ai privati di ricorrere, per la macellazione, al macello municipale. Il commercio degli alimenti di origine animale, e specie l'importazione e l'esportazione delle carni, la vendita di selvaggina e di pollame, la produzione e la vendita di pesci e molluschi, di latte, di burro e formaggi, sono sottoposti a vigilanza sanitaria. Quanto ai cibi vegetali, è vietata la vendita dei cereali avariati o alterati, a meno che non siano destinati all'alimentazione animale. E, del pari, vietata la vendita delle farine ottenute da cereali guasti, nonché di quelle alterate per fermentazione o inacidamento, invase da parassiti, mescolate con minerali o falsificate con polveri estranee. Le miscele di farina di qualità inferiore con quelle di qualità superiore devono essere vendute col nome della qualità inferiore. Non è consentito di vendere pane fabbricato con farine guaste, né quello fermentato o ammuffíto, o mal lievitato o mal cotto, o, infine, pane contenente una quantità d'acqua superiore a quella massima stabilita dai regolamenti locali d'igiene. Dei grassi e degli olî vegetali è vietata la vendita se siano guasti o alterati, o provenienti da semi putrefatti. La mescolanza dell'olio di oliva con olî di altra derivazione dev'essere dichiarata. La vendita di erbaggi coltivati con concimi infetti non è permessa; né è consentito lo smercio di legumi e frutta immaturi, infraciditi o in qualunque modo alterati o colorati. Non possono vendersi le patate e i tuberi che abbiano subito la congelazione o che siano germoglianti o affetti da malattie parassitarie. La vendita dei funghi deve farsi nei luoghi indicati dall'autorità comunale, dietro licenza annuale del podestà. La vendita ambulante è vietata. Per quanto riguarda i coloniali, è proibita la vendita di droghe o di spezie guaste o esaurite, o la cui qualità non corrisponda al nome sotto cui sono vendute. Lo zucchero non può essere sofisticato con sostanze organiche o minerali. I confetti non possono essere dolcificati con sostanze diverse dallo zucchero; nei canditi, nelle polpe, negli sciroppi, non possono essere sostituiti il frutto, la sostanza gelatinosa, la materia colorante e l'essenza sotto la cui denominazione si vende il prodotto; gli sciroppi artificiali sono permessi purché non siano spacciati sotto denominazioni che possano trarre in inganno il compratore circa la loro natura. Una particolare disciplina hanno: le conserve alimentari preparate con sostanze vegetali; i prodotti medicinali; le bevande (come le acque gassose, il ghiaccio, il vino, la birra, i gelati, le limonate) che si mescolano al minuto nei caffè, nei chioschi, e per le strade. La funzione delle autorità amministrative, nella suddetta materia, si esplica mediante il rilascio di licenze o di permessi, mediante le ispezioni, il prelevamento di campioni, i sequestri, le distruzioni, le contravvenzioni.

Norme di polizia di sicurezza. - Le norme amministrative preordinate a fini di sicurezza pubblica sono molteplici. Tutte le disposizioni concernenti la polizia delle armi e delle materie esplodenti hanno per scopo la prevenzione dei reati e la difesa degli ordinamenti dello stato. Per la raccolta, la detenzione, la fabbricazione, l'importazione e l'esportazione delle armi da guerra (lo smercio è, di regola, vietato) occorre la licenza del ministro dell'Interno. Per la produzione e il commercio delle armi comuni, si richiede la licenza del questore. I fabbricanti e i commercianti di armi sono obbligati a tenere un registro delle operazioni giornaliere: non possono vendere armi ai minori, agl'infermi di mente e a coloro che non comprovino la loro identità. La vendita girovaga delle armi è vietata. Per andare in giro con un campionario di armi occorre la licenza del questore. Per quanto riguarda i prodotti esplodenti, è da rilevare che questi non possono essere fabbricati, venduti o detenuti se non siano stati previamente riconosciuti e classificati dal Ministero dell'interno, e se non sia stata concessa apposita licenza. Il rilascio della licenza spetta al ministro dell'Interno, se si tratti di esplosivi ad alto potenziale: al prefetto, se si tratti di altri esplosivi e di polveri piriche, fuochi artificiali e prodotti affini, ecc. I fabbricanti e i commercianti di esplosivi hanno gli stessi obblighi dei commercianti di armi per quanto riflette la tenuta del registro delle operazioni giornaliere, e le persone con le quali possono compiere operazioni di vendita. A garanzia della morale e dell'ordine, non possono darsi in pubblico rappresentazioni teatrali o cinematografiche, accademie, feste da ballo, corse di cavalli, ecc. senza licenza del questore. Le produzioni teatrali non possono darsi se prima non siano state comunicate al prefetto, che può vietarne la rappresentazione in pubblico. Le pellicole cinematografiche sono sottoposte a preventiva revisione dell'autorità di pubblica sicurezza. Inoltre, chi intende produrle, venderle, importarle o esportarle, deve darne avviso scritto al questore. Severa è la disciplina degli esercizî pubblici. Per l'apertura e la gestione di alberghi, locande, pensioni, trattorie, osterie, caffè, sale da bigliardo, stabilimenti di bagni, locali di stallaggio, di rimessa di autoveicoli e simili, occorre la licenza del questore. Per l'apertura di pubblici esercizî di bevande alcooliche ad alta gradazione occorre la licenza del prefetto. Il numero degli esercizî di vendita e consumo di bevande alcooliche è limitato in rapporto alla popolazione di ciascun comune (un esercizio per ogni quattrocento abitanti). Detti esercizî devono essere collocati a una determinata distanza l'uno dall'altro; per essi sono stabiliti un orario di apertura e di chiusura e particolari obblighi. La vendita delle bevande alcooliche ad alta gradazione è vietata nei giorni festivi e in quelli delle elezioni pubbliche. Quelle di qualsiasi gradazione non possono essere somministrate ai fanciulli, agli ubbriachi e ai malati di mente; né possono essere date in corrispettivo di salario o di mercede. Gli albergatori non possono dare alloggio a chi non dimostri la propria identità. Per esercitare le arti tipografica, litografica, fotografica o altra di riproduzione meccanica o chimica di caratteri, disegni, figure, occorre la licenza del questore. La stessa licenza occorre per l'esercizio del mestiere di sensale e intromettitore e per aprore o esercitare agenzie pubbliche o altri uffici pubblici di affari, comprese le agenzie di pegno, di vendita, di esposizione, di mostre e fiere campionarie e simili. Tali agenzie sono tenute ad avere un registro delle operazioni giornaliere, e ad affiggere la tabella delle operazioni, con la tariffa delle mercedi. Esse, inoltre, non possono compiere operazioni, né accettare commissioni da persone che non dimostrino la propria identità personale. Obblighi analoghi hanno gl'istituti che non possono essere attivati senza l'autorizzazione del prefetto, cioè gl'istituti di vigilanza e d'investigazione privata. I fabbricanti, i commercianti o mediatori di oggetti preziosi, i cesellatori, gli orafi, gl'incastratori di pietre preziose e gli esercenti d'industrie o arti affini devono munirsi di licenza del questore. I commercianti di cose antiche o usate devono farne dichiarazione preventiva all'autorità locale di pubblica sicurezza. Tutti costoro devono tenere il registro delle operazioni e non possono compiere le operazioni stesse se non con le persone munite della carta d'identità. Per l'esercizio del mestiere di guida, corriere, portatore alpino, occorre licenza, rilasciata dal questore e subordinata all'accertamento dell'idoneità tecnica. Infine, gli esercenti mestieri girovaghi devono iscriversi in apposito registro presso l'autorità locale di pubblica sicurezza, che ne rilascia certificato.

Norme di polizia tributaria.- Il terzo gruppo di limitazioni amministrative alla libertà di commercio ha finalità fiscali. Così per le imposte di consumo che colpiscono la vendita delle bevande vinose e alcooliche, la birra, le acque gassose, le carni, il gas-luce, l'energia elettrica e i materiali da costruzione. Gli esercizî dove si spacciano i predetti generi sono soggetti a preventiva dichiarazione all'autorità comunale; i locali di esercizio e di deposito devono corrispondere a condizioni tali da rendere difficili le frodi. Altre limitazioni concernono l'orario d'introduzione dei generi nell'esercizio; la suggellatura delle sostanze vinose e alcooliche; l'obbligo di denunciare la trasformazione dei generi, ecc. Analoghe limitazioni colpisconoo la fabbricazione e il consumo dei generi soggetti a imposta di fabbricazione, come: l'acido acetico, la birra, l'energia elettrica, il glucosio e le altre materie zuccherine, gli olî minerali di resina e di catrame, l'olio di semi, le polveri piriche e gli altri prodotti esplodenti, i saponi, gli spiriti, lo zucchero. È imposto l'obbligo della licenza, che è annuale, e della dichiarazione. I locali, dovunque situati, sono sottoposti alla vigilanza dell'amministrazione finanziaria, che ha facoltà di applicare suggelli in qualunque punto degli apparecchi e delle tubazioni di fabbrica; di applicare, nelle fabbriche, congegni atti ad accertare la natura, qualità e quantità dei prodotti e delle materie prime poste in lavorazione e il numero delle operazioni compiute. Gli agenti governativi hanno facoltà di entrare sempre nelle fabbriche, nelle quali devono, inoltre, essere tenuti al corrente speciali registri, forniti dall'amministrazione. Altre limitazioni riguardano i fiammiferi, la cui fabbricazione è soggetta ad imposta, e la vendita a licenza; gli accenditori automatici e le pietre focaie, la cui importazione e vendita è riservata allo stato; le cartine e tubetti per sigarette, per cui sono stabilite imposte di fabbricazione e importazione; le carte da giuoco, la cui fabbricazione, importazione e vendita è soggetta ad oneri fiscali e a speciale vigilanza; le miniere, cave e torbiere. Vi sono, poi, rami dell'attività commerciale, che sono addirittura interdetti ai privati, o ai fini della migliore organizzazione dei servizî (imprese pubbliche) o per scopi finanziarî (privative fiscali). Fra i monopolî che costituiscono pubbliche imprese sono da ricordare: il servizio postale e telegrafico e il servizio ferroviario. Alla categoria delle privative fiscali appartengono il monopolio del sale, il monopolio del tabacco e il lotto. I comuni, inoltre, sono autorizzati a gestire in regime di monopolio i servizî dei trasporti funebri, dei macelli, dei mercati pubblici e delle pubbliche affissioni.

Norme economiche e a carattere misto. - A complessi fini economici, sociali e di sicurezza mira l'azione dello stato intesa a garantire la fede pubblica, ad assicurare la libertà della contrattazione, ad evitare l'ingiustificata ascesa dei prezzi e ad evitare le frodi. Lo stato, anzitutto, disciplina il commercio di vendita al pubblico. Gli enti privati e le persone che intendono esercitare qualsiasi commercio per la vendita di merci all'ingrosso o al minuto, sia in appositi locali o negozî, sia all'aperto in determinate località, oppure sotto forma ambulante o girovaga, sono tenuti a fornirsi di apposita licenza. Questa è rilasciata da una commissione comunale a base paritetica (due rappresentanti dei commercianti e due delle associazioni sindacali dei lavoratori manuali o intellettuali, oltre al podestà presidente), la quale esamina se il richiedente sia nel possesso dei requisiti di buona condotta e d'immunità da determinate condanne, e se il numero degli spacci già esistenti sia sufficiente alle esigenze del comune, tenuto conto dello sviluppo edilizio, della densità della popolazione e dell'ubicazione dei mercati rionali. Contro il diniego della licenza, l'interessato può ricorrere alla Giunta provinciale amministrativa, che decide in via definitiva. Ove, invece, la licenza venga accordata, l'interessato, per esercitare il commercio al quale è stato in massima autorizzato, deve versare una cauzione. Inoltre, lo stato interviene per disciplinare il credito, per vigilare la funzione delle banche e degli istituti di credito anche privati al fine precipuo della tutela del risparmio nazionale, per vigilare i mercati, le esposizioni e le fiere, per disciplinare l'ordinamento e la funzione delle borse di commercio; sottopone a verificazione periodica i pesi e le misure; presiede alla fabbricazione e all'emissione di monete e determina il corso legale e il corso commerciale, cioè ciò che deve e ciò che può avere valore di danaro. La pubblica amministrazione interviene anche per evitare l'ingiustificato aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità e per prevenire le frodi e gl'inganni che il pubblico non è generalmente in grado di frustrare o reprimere. Al primo fine provvedono i calmieri e i provvedimenti diretti a contenere i prezzi dei generi di più largo consumo; al secondo, oltre alle disposizioni del codice penale, delle leggi sanitarie e di pubblica sicurezza, quelle particolari per prevenire e reprimere le frodi nella preparazione e nel commercio di sostanze a uso agrario e di prodotti agrarî, del sommacco e delle essenze degli agrumi, del caffè. Notevole l'obbligo fatto ai rivenditori di tenere esposti, o nelle vetrine o all'ingresso nei negozî, in modo che tutti possano vederli e leggerli, appositi cartellini portanti i prezzi di rivendita al minuto delle singole merci. Appartiene all'economia politica lo studio delle provvidenze con cui lo stato intende favorire il commercio e regolare gli scambî. Qui basta ricordare che per le esportazioni e le importazioni è costituito apposito istituto, che la materia degli scambî con l'estero è disciplinata dalla legge 7 luglio 1927, n. 1495, e da quella doganale 26 gennaio 1896, n. 20, successivamente modificata; e che è fatto obbligo alle amministrazioni dello stato, degli enti autarchici e di quelli sottoposti alla tutela e alla vigilanza dello stato di dare la preferenza ai prodotti dell'industria nazionale negli acquisti di materiali, apparecchi, macchine, manufatti, prodotti, ecc.

Bibl.: S. Romano, Principî di diritto amministrativo, 2ª ed., Milano 1906, p. 262 segg.; E. Presutti, Principî fondamentali di scienza dell'amministrazione, Milano 1903; G. Fragola, Teoria delle limitazioni amministrative al diritto di proprietà, Milano 1910, p. 193 segg.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE
TAG

Compagnia delle indie orientali

Marchionne di coppo stefani

Indice generale dei prezzi

Banca commerciale italiana

Crisi di sovrapproduzione