Cattolici e cultura costituzionale

Cristiani d'Italia (2011)

Cattolici e cultura costituzionale

Nicola Antonetti

Lo Stato liberale: ‘opposizione’ o ‘conciliazione’

Vari furono gli approcci che, dopo l’Unità d’Italia, il pensiero politico cattolico sviluppò verso il costituzionalismo liberale; ma, si può dire, in modo del tutto schematico, che il dibattito sullo Stato e sulle sue istituzioni si avviò e si svolse su due percorsi sostanzialmente diversi tra loro1. Il primo, minoritario, tracciato da Antonio Rosmini (e che sarebbe stato ripreso più avanti da Luigi Sturzo) riguardava lo stesso modo di porsi sul piano culturale verso le materie istituzionali: per il filosofo di Rovereto l’identificazione della ‘persona’ con il diritto e la concezione della ‘libertà’ come perenne principio animatore delle azioni umane (anche di quelle politiche) dovevano indurre a considerare senza pregiudizi e in una dimensione storica le prospettive e i limiti propri dell’evoluzione costituzionale dello Stato. Il secondo, maggioritario, fu assunto da vari pensatori a partire da una fedeltà essenziale agli esiti dei dibattiti dei ‘controrivoluzionari’ nell’età della Restaurazione.

La polemica contro i sacri princìpi dell’ ’89 di un De Bonald o di un De Maistre aveva confermato l’immagine della società come ente determinato da un ordine naturale e, insieme, trascendente: cioè, da un ordine nel quale erano cristallizzate la diversità degli individui e la disomogeneità dei corpi sociali, mentre era rigettata ogni idea universalistica e ugualitaria della natura umana. De Maistre respingeva anche l’idea ‘arbitraria’ dell’origine individuale dell’autorità; quindi, la stessa ‘sovranità popolare’ si fondava sulla volontà ‘diabolica’ della ragione tesa a comprimere in soluzioni ‘assolute’ e ‘dispotiche’ l’ordine naturale della società.

La democrazia, per il pensatore savoiardo, era una forma politica del tutto priva di agganci alle tradizioni dei popoli e legittimata solo da astrazioni intellettuali. Fin dal 1796, riflettendo sugli avvenimenti rivoluzionari, si era espresso chiaramente:

«Il popolo è sovrano, si dice, e di chi? Di se stesso apparentemente. Il popolo è dunque suddito. C’è qui di certo qualche equivoco, se non un errore, giacché il popolo che comanda non è il popolo che obbedisce» (Étude sur la souveraineté).

Nel 1819 aveva ulteriormente specificato:

«nessuna sovranità è limitata […], in quanto nel suo campo di legittimità, tracciato dalle leggi fondamentali, essa è sempre dovunque assoluta, senza che nessuno abbia il diritto di dirle che è ingiusta o che sbaglia» (Du Pape).

De Maistre, quindi, negava a chiare lettere la legittimità dei poteri sovrani dello Stato postrivoluzionario e ne denunciava l’illusoria limitazione attraverso norme costituzionali; in alternativa, affermava la necessità che la società mantenesse o riorganizzasse un ordinamento per rispecchiare le sue articolazioni corporative e le sue ‘diversità’.

Tali posizioni, per la loro radicalità, produssero tra i pensatori cattolici italiani, a partire dal 1848, un dibattito con indirizzi ed esiti vari specie sulla definizione delle garanzie statali per l’autonomia della società. Rosmini nei suoi progetti costituzionali riconosceva che i princìpi rivoluzionari erano «in gran parte veri e splendidi di giustizia e di moralità», ma coglieva anche il pericolo che al dispotismo regio dell’ancien régime subentrasse quello, senza limiti, della ‘sovranità del popolo’; negava, quindi, l’idea del suffragio universale, mentre proponeva un doppio regime rappresentativo e l’istituzione di tribunali politici indipendenti. A sua volta, Gioacchino Ventura si arrischiava a riconoscere la derivazione divina della ‘sovranità sociale’, ma si soffermava, con minuziose analisi, sulle funzioni e sui limiti dei poteri pubblici. La vera discriminante che emerse e si sviluppò riguardava la prospettiva di preservare la natura ‘cattolica’ del nuovo Stato nazionale2. La parte maggioritaria dei pensatori cattolici, con argomenti tratti dalla cultura giusnaturalistica, oppose il modello di società organica (intesa come ordine naturale sul quale si riflette l’ordine della trascendenza) e il sistema corporativo della cristianità medievale alla concentrazione e al monopolio del potere politico propri dello Stato liberale. Tra gli altri, padre Luigi Taparelli d’Azeglio, dopo aver denunciato il carattere ideologico della sovranità statale (perché l’autorità politica non può che derivare da Dio) e la radice contrattualistica dello Stato, nel suo Esame critico degli ordini rappresentativi nella società moderna (1854), misconosceva il significato innovativo, anche sul piano civico, del progressivo ampliamento dei diritti individuali; a suo dire, gli stessi partiti, sorti sulla base di tali diritti, non erano che espressione delle lacerazioni che si andavano producendo nella società. In più, per il padre gesuita l’intero percorso istituzionale definito dalle costituzioni liberali era viziato sia dai sistemi di elezione basati sul voto individuale sia dal principio del prevalere negli organi rappresentativi delle maggioranze sulle minoranze; nei nuovi Stati costituzionali, quindi, i governi liberali erano depositari di poteri illimitati e gestiti da ristretti ceti dirigenti per condizionare o sopprimere i diritti collettivi delle società naturali e locali. L’opera taparelliana, intessuta di antistoricismo, era destinata, anche per la sua complessità, a essere usata a più riprese e con prospettive varie nella polemica ‘antistatale’ postunitaria; non a caso fu definita da Carlo Curci il trattato più completo di ‘diritto pubblico cristiano’.

La sottrazione, almeno teorica, da parte di Taparelli della fonte di legittimazione, cioè della sovranità, all’organismo statale, indusse in un primo tempo gli epigoni del padre gesuita (sulle pagine de «La Civiltà cattolica» e negli stessi documenti pontifici) a incrementare l’opinione che lo Stato liberale si ponesse come ordinamento autonomo dalla Chiesa e dalla società solo per vincolare giuridicamente e ‘dall’alto’ la loro libertà; in tal senso, il rifiuto che, dopo la presa di Roma, la gerarchia vaticana oppose alla partecipazione elettorale dei cattolici (non expedit) era motivato dal fatto che lo Stato aveva violato sia l’indipendenza del pontefice e i suoi diritti territoriali, sia l’organizzazione naturale della società. Più avanti nel movimento cattolico, dopo la nascita dell’Opera dei Congressi, gli argomenti taparelliani sul ‘dispotismo’ che le istituzioni esercitavano nei confronti delle molteplici società naturali, contribuì a rafforzare la formulazione, da parte degli ‘intransigenti’, di un ideale di democrazia come ‘consorzio civile’, piuttosto che come ordinamento politico-istituzionale, con il persistente rifiuto opposto allo Stato agnostico, monopolistico e verticistico. Con tale orientamento di fondo, nella crisi economica di fine secolo e quando era ormai alle spalle l’illusione di un crollo dall’interno del regime liberale, il movimento cattolico nelle sue varie espressioni organizzative operò, anche nelle amministrazioni locali, il grande sforzo di riorganizzazione solidaristica delle attività sociali, che favoriva la gestione autonoma degli interessi e mirava a privilegiare la composizione arbitrale dei conflitti contro le forme di lotta tra le classi. In altre parole, divenuto per forza di cose inattuale il problema della legittimità dello Stato, salì in primo piano la questione della sua legalità, cioè delle modalità stesse attraverso le quali il ceto di governo gestiva il potere nelle istituzioni parlamentari. Su tale questione si allargò il solco tra le varie posizioni dei cattolici. Nel campo degli studiosi di diritto amministrativo e costituzionale, i neoguelfi napoletani, a iniziare da Federico Persico, avanzarono, in stretto dialogo con ambienti liberali conservatori, concreti progetti di trasformazione in senso organico di tutte le rappresentanze politiche e amministrative. Del resto, a cavallo tra Otto e Novecento, l’opzione anti-individualistica aveva un suo rilievo culturale, attraverso proiezioni sociologiche del giusnaturalismo, del positivismo spenceriano e delle dottrine di Émile Durkheim, anche in settori molto significativi della giuspubblicistica italiana e, almeno in parte, nella nuova scienza politica, dove la critica o il rifiuto della concezione illuministica del ‘popolo’ induceva a considerare come elementi coesivi dei gruppi sociali i costumi, gli interessi economici, le credenze religiose e le differenze etniche. Di qui il dilemma che rimase irrisolto per decenni sulla possibilità di fare corrispondere gli interessi frazionali della società a nuovi modelli di rappresentanze organiche. Tra le organizzazioni cattoliche specie gli ‘intransigenti’ svilupparono, su impulso di Giuseppe Toniolo, l’impegno a difendere le ‘libertà organiche’ e a costruire una ‘democrazia sociale’; del resto, se, come ammoniva Leone XIII (Immortale Dei, 1885), lo Stato non assolveva le proprie funzioni ‘quasi di padre’, diveniva del tutto legittimo, per la Chiesa e per i cattolici, considerare le stesse forme di governo come realtà ‘indifferenti’ rispetto ai più pregnanti impegni sociali. I ‘transigenti’, al contrario, misero da parte la ‘tesi’ dell’incompatibilità dottrinaria con il liberalismo e articolarono varie ‘ipotesi’ politiche di segno conservatore; cercarono, cioè, più vie istituzionali, da un lato, per salvaguardare l’indipendenza della Chiesa e, dall’altro, per sperimentare, creando in Parlamento un partito conservatore a base agraria, i possibili sviluppi della tradizione autonomistica cattolica nel quadro delle vigenti garanzie costituzionali. Questi tentativi dei ‘transigenti’ o fallirono (il partito, infatti, non si costituì) o furono riassorbiti nella più vasta polemica prodotta dai moderati a favore dell’estensione del voto e del decentramento amministrativo contro lo statalismo dominante.

In sostanza, a cavallo dei due secoli gli atteggiamenti politici delle varie correnti del movimento cattolico si rapportavano in modo sempre più stretto e specifico alla funzionalità delle istituzioni di fronte al difficile evolversi dei processi democratici; lo stesso Leone XIII andava individuando nelle sue encicliche i nessi ineliminabili tra l’ordine sociale e quello politico e, pur conservando il non expedit, incoraggiava i cattolici (non solo italiani) perché nella loro azione, volta al superamento degli squilibri economici tra le classi, non trascurassero di definire gli ambiti e i limiti dell’intervento dello Stato. Nel 1898 il filosofo Igino Petrone sulla «Cultura sociale» di Romolo Murri compendiava le aspettative di quella stagione, evidenziando l’urgenza che i cattolici cooperassero, assieme ai socialisti, a risolvere l’«antitesi storica della democrazia politica e della democrazia sociale». In tale prospettiva erano presenti due nodi problematici di fondo: uno relativo alla collocazione politica di un ipotetico partito cattolico, l’altro relativo alla realizzazione di un legame diretto e vincolante tra le strutture organiche della società e le strutture della rappresentanza. Su entrambi i nodi gravavano retaggi ideologici del passato e letture diverse delle condizioni politico-istituzionali. Sempre nel 1898, un esponente dell’area conciliatorista, Antonio Malvezzi Campeggi, autore di un accurato studio sulle esperienze internazionali del bicameralismo, aveva invitato la Dc murriana a superare il tradizionale antistatalismo e ad accettare le regole dello Statuto per riuscire a far «penetrare in esse lo spirito del cristianesimo». Murri denunciò il significato ‘reazionario’ di tale proposta, perché gli pareva tesa ad avallare la politica antisocialista del ceto di governo, e replicò che bisognava lasciare al loro destino gli istituti statutari «avviati alla rovina», per non rinunciare alla formazione di un «partito cattolico del domani». La divaricazione tra le due posizioni era netta e non occasionale, ma lo stesso Murri, tra gli altri, si impegnò a superarla, verificando, a livello teorico e senza tralasciare la polemica antiliberale, le più attuali tendenze internazionali sulla riforma degli organi istituzionali; di qui l’attenzione inedita e crescente della «Cultura sociale», nonché delle altre maggiori riviste cattoliche (la «Rassegna nazionale» e la «Rivista internazionale di scienze sociali») sia verso il dibattito francese sulla possibile composizione di modelli sociali corporativi con nuovi sistemi elettorali, sia verso i successi ottenuti dai cattolici in Belgio nella promozione delle riforme istituzionali.

Nell’età giolittiana, dopo la stipula del cosiddetto patto Gentiloni (1913), la riflessione dei cattolici sulla riforma dello Stato divenne più densa e puntuale; di fronte alla pressante richiesta della giuspubblicistica coeva per la promulgazione di un’incisiva legislazione sociale emersero diverse valutazioni sulle sorti del sistema politico liberale. Su un versante si attestarono coloro che, sulla scia di Toniolo, tendevano a dotare di una forte coloritura politica gli interessi organizzati per creare una «società tutta intera che governa se stessa». In tale contesto si delinearono inediti profili costituzionali: da quello di una «sociocrazia cristiana» a quello più realistico per l’armonizzazione delle rappresentanze professionali e amministrative con quelle parlamentari. Su un altro versante si attestò Sturzo con la sua concezione dello Stato come «organizzazione politica della società», che inaugurava una nuova prospettiva per la composizione a livello istituzionale delle fratture sociali e per la partecipazione diretta dei partiti di massa alla gestione dei poteri pubblici.

Il popolarismo e la crisi dello Stato liberale

Sturzo nei primi anni del Novecento aveva messo a punto alcune essenziali intuizioni sul tema cruciale dei rapporti tra individui, interessi organizzati e Stato3. Dopo aver accolto con entusiasmo gli indirizzi della Rerum novarum, avvertì che i modelli organicisti e non conflittuali ereditati dalla tradizione cattolica sfociavano inevitabilmente in tendenze ‘sociocentriche’ alle quali era preclusa ogni capacità di riforma del sistema di poteri che si andava stabilizzando in Italia a ridosso della prima industrializzazione. In alternativa, il sacerdote di Caltagirone riformulava l’archetipo della ‘organicità’ di tutte le forme sociali riconoscendo, con ottica rosminiana, la loro storicità, cioè che esse, da un lato, erano soggette a costanti conflitti, interni ed esterni, e, dall’altro, si evolvevano in un rapporto, spesso incontrollato, con le istituzioni. A suo avviso, il richiamo dei cattolici alle ‘libertà’ individuali e collettive non poteva più prescindere dal riferimento alla reale interdipendenza creatasi tra società e Stato; bisognava perciò prospettare inedite modalità di conciliazione tra le ‘libertà’ sociali e l’‘autorità’ delle istituzioni. Di conseguenza, sul piano politico la costruzione di un’ipotesi democratica, che non lasciasse i poteri nelle mani dell’oligarchia liberale o al monopolio socialista sui movimenti di massa, comportava l’apertura di un rapporto politico diretto con le strutture decisionali dello Stato. Su tali premesse Sturzo era in grado di prefigurare per i cattolici italiani la necessità di creare un partito con strutture e contenuti culturali in gran parte inediti; un partito aconfessionale, nazionale e, soprattutto, legato a un programma nel quale erano specificati gli indirizzi politici e istituzionali, peraltro distinti dagli impegni economico-sociali propri degli interessi organizzati. Si trattava della svolta del tutto innovativa dalla ‘cultura dell’opposizione’ alla ‘cultura delle riforme’ di cui fu protagonista il Partito popolare italiano, sorto nel gennaio 1919.

Anche in quel primo dopoguerra, Sturzo non cessò di stigmatizzare «lo Stato panteista, pletorico, burocratico», cioè, il modello ‘statocentrico’ prodotto dal liberalismo italiano, che escludeva l’esistenza di «organismi intermedi» (sociali e territoriali) e nel quale l’‘autorità’ si fondava solo sul rapporto giuridico diretto con gli individui. Pur tuttavia, il segretario del Ppi non si lasciò coinvolgere nei vari progetti per varare una ‘Costituente’, avanzati dai gruppi di matrice interventista e che miravano per lo più a incorporare nelle strutture istituzionali le rappresentanze economiche e professionali, creando un ‘Parlamento sindacale’ o un ‘Parlamento professionale’ e annullando i principi giusliberali dello Stato. In alternativa, il programma del Ppi prospettava una ‘trasformazione’ democratica dello Stato, senza intaccarne le intangibili funzioni di regolazione e di difesa degli interessi generali; ciò doveva avvenire attraverso la complessiva riorganizzazione dei poteri costituzionali e la ridefinizione degli specifici ruoli rappresentativi e decisionali4. In tal senso il partito sturziano portò all’ordine del giorno della politica nazionale i problemi costituzionali più urgenti che si affacciavano nel contesto europeo: quello della riforma delle rappresentanze e quello dei rapporti del Parlamento con l’esecutivo. Non a caso Sturzo sostenne coerentemente il tentativo di rinnovare la rappresentanza politica attraverso il mutamento del sistema elettorale; a suo avviso, l’applicazione della proporzionale, nella forma ‘pura’, avrebbe imposto ai partiti l’acquisizione di un carattere programmatico che li legittimava a svolgere nella Camera dei deputati un ruolo specifico e comunque svincolato dall’esecutivo. Inoltre, per il segretario del Ppi il riconoscimento dei diritti elettorali collettivi maturati con la guerra richiedeva la creazione di rappresentanze ‘speciali’ degli interessi e degli enti locali; tali rappresentanze avrebbero dovuto operare autonomamente da quelle dei partiti, pur cooperando, assieme a esse, a ricomporre le storiche fratture tra le istituzioni e il paese, fino a divenire il vero fondamento ‘organico’ di un sistema politico pluralistico. In questa direzione, si muovevano sia il progetto per riformare il Senato regio attraverso l’elezione di secondo grado dei rappresentanti dei corpi costituiti dello Stato e delle associazioni sociali, sia il progetto per la riforma dei Consigli superiori, sia, soprattutto, quello per la creazione di un sistema di autonomie, imperniato sulle partizioni storico-etniche del territorio. Sturzo, al Congresso di Venezia del Ppi (ottobre 1921), si espresse a favore delle regioni come enti elettivi-rappresentativi con poteri di autogoverno, che dovevano alleggerire l’amministrazione centrale e rafforzare le funzioni politiche dello Stato nazionale5.

La prospettiva riformatrice del Ppi, ancor prima del suo fallimento con l’avvento del regime fascista, incontrò varie resistenze: all’interno del partito apparvero troppo radicali alcune posizioni, come quella regionalistica, e troppo debole l’impegno per la soluzione della questione romana; fuori del partito, sia Gobetti che Gramsci la definirono estranea alla complessa dinamica sociale in atto, perché eccessivamente ‘parlamentarista’ e ‘istituzionalistica’. In realtà, Sturzo aveva colto che l’intreccio dei problemi sociali, economici e politici dell’Italia postbellica si proiettava sullo Stato e che gli esiti di una lunga crisi istituzionale sarebbero inevitabilmente ricaduti sul paese; di conseguenza, i suoi progetti di riforma esprimevano una forte intenzionalità politica, ma fallirono in quel conflitto, anch’esso politico, che vide prevalere forze e poteri disinteressati ai destini dello Stato di diritto. Lo stesso Sturzo aveva già annotato nel 1921 che l’intera prospettiva proporzionalistica era avversata quando non aveva ancora prodotto «i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale». In seguito, addebitò il fallimento del nuovo sistema elettorale all’impossibilità e all’incapacità, comuni sia ai partiti di maggioranza sia a quelli di opposizione, di far fronte alle conseguenze economico-sociali della ‘fase rivoluzionaria’ dei primi anni Venti, se non cedendo alle soluzioni autoritarie del fascismo; in altre parole, a suo avviso, nel dopoguerra, come nel passato, si palesò la compressione dei poteri di riforma del Parlamento da parte degli esecutivi in vario modo collegati agli interessi capitalistici. Di fatto, come registrò Gaspare Ambrosini, la trasformazione auspicata da Sturzo dalla forma di ‘governo di gabinetto’ a quella di ‘governo parlamentare’ non produsse coalizioni democratiche svincolate da poteri estranei alle istituzioni (La trasformazione del diritto parlamentare e del governo di gabinetto, 1922). Non a caso, Sturzo colse immediatamente e denunciò, al contrario di esponenti di primo piano della cultura giuridica e politica, quali V.E. Orlando e G. Mosca, che la legge Acerbo del 1923, snaturando la proporzionale, non solo mutava la legislazione elettorale ma acquistava anche un carattere costituzionale, per l’intenzione esplicita di Mussolini di apportare un primo essenziale cambiamento del regime liberale: cioè di porre le premesse perché ‘una minoranza’ si arrogasse il diritto di rappresentare la ‘volontà collettiva’ e perché il governo esprimesse in un rigido schema monista solo l’indirizzo politico del partito unico o dominante.

Popolarismo e personalismo di fronte ai regimi autoritari

In un provvisorio bilancio della situazione critica in cui versava il regime liberale in quel primo dopoguerra, Giuseppe Capograssi aveva colto lucidamente che la possibilità di salvare la ‘democrazia rappresentativa’ era affidata solo al rinnovamento dell’intero ordinamento costituzionale: bisognava, a suo avviso, riconoscere nuovi diritti alle forze economiche e alle amministrazioni locali, rinnovare le funzioni del sistema parlamentare, riabilitare il ruolo dello Stato come ente regolatore di un’inedita ‘cooperazione’ tra le istituzioni (La nuova democrazia diretta, 1922)6. A quel punto, però, il fascismo stava predisponendo un ben diverso indirizzo costituzionale: la prospettiva corporativa si andava definendo nella soggezione degli interessi organizzati a un esecutivo e al suo capo, che non avevano mai avuto prerogative e attribuzioni così forti. È noto il generalizzato o poco dissimulato ossequio dei cattolici verso il regime, anche perché con la stipula dei Patti Lateranensi sembrò che si potesse riprendere l’antica tesi della restaurazione dello Stato cattolico. Pure non mancarono prese di posizione e contributi critici, nei quali, da un lato, si contestarono le forme autoritarie del fascismo e, dall’altro, si aprirono prospettive nuove, ricavate anche dal panorama internazionale, sui temi della giustizia e dei diritti sociali che parevano i più adatti a elaborare una ‘terza via’ costituzionale per costruire lo Stato democratico. Francesco Luigi Ferrari, alla fine degli anni Venti, tracciò un’analisi rigorosa e per tanti versi originale degli istituti fascisti: ne rintracciò gli elementi ideologici ‘assolutistici’ e ‘cesaristi’ nel nazionalismo e individuò la ragione della loro affermazione nel fatto che le istituzioni liberali non avevano mai colmato il loro difetto, totale o parziale, di legittimità. Soprattutto, l’esule popolare da un lato colse che con la legge del 24 dicembre 1925 sui poteri del capo del governo si era instaurata una ‘diarchia’ con la corona (che «non potrà non risolversi in una lotta di preminenza») e, da un altro lato, giudicò che il riconoscimento delle corporazioni come ‘organi dello Stato’ predisponeva alla compressione autoritaria di ogni libertà economica e associativa dei lavoratori (Le régime fasciste italien, 1928). Su un piano più generale, fu ancora Capograssi a rintracciare gli orientamenti totalitari del fascismo nella concezione, estranea alla tradizione giuridica europea, che lo Stato avesse il potere d’incorporare la società in tutte le sue articolazioni e di produrre un ordinamento nel quale gli individui e le collettività organizzate erano privati della loro libertà e della loro autonomia (Studi sull’esperienza giuridica, 1932). In sostanza, sotto gli occhi dei pochi critici del regime si svolgeva l’esperienza di uno Stato che, inglobando i corpi economico-sociali, aveva perso quei caratteri di neutralità che gli avrebbero consentito il perseguimento dell’interesse generale (o, nel lessico cattolico, del ‘bene comune’); anche Pio XI nella Quadragesimo anno (1931) espresse il timore che «lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza». Dal canto suo, nel lungo esilio, Sturzo riprese in vari scritti la cruciale questione del rapporto di unità/distinzione tra la società e lo Stato. Osservò che il corporativismo fascista, lasciando intatti i poteri economici più forti, metteva in condizione lo Stato di assommare tutti gli strumenti per determinare i fini della vita sociale. Inoltre, nell’analisi del contesto internazionale gli parve che esperienze costituzionali ‘ultrademocratiche’ pur diverse tra loro, come quelle di Weimar e dell’Urss, avevano finito per sopprimere le funzioni regolative dello Stato rendendolo o la semplice «espressione di tutta la società» o addirittura un «organismo economico di tipo monopolistico e ordinato in forma totalitaria». Naturalmente a Sturzo non sfuggì la tendenza dei movimenti antifascisti europei a riformulare il tema della giustizia sociale in vista della rinascita democratica; anzi, prefigurò, nei primi anni Quaranta, il modello della «democrazia sociale», fondata «sulla libertà, sul pluralismo e sulla partecipazione al potere», per superare lo Stato limitato o minimo della tradizione liberale. L’esule popolare non fece fatica a ribadire il significato non formale bensì ‘organico’ o ‘sostanziale’ delle libertà e dell’autonomia di cui dovevano godere le organizzazioni sociali e territoriali, ma confermò la necessaria sovraordinazione dell’autorità statale; si mostrò ancora convinto che solo un rapporto dialettico e garantito giuridicamente tra libertà sociale e autorità dello Stato avrebbe potuto caratterizzare la rinascita democratica7. A questo indirizzo di fondo si allinearono in seguito con convinzione gli ex popolari durante i lavori della Costituente repubblicana, cioè De Gasperi, Piccioni, Scelba, Tupini, Ambrosini, Caristia e qualche altro.

Specie sul versante del personalismo italiano l’aspirazione a costruire una «terza via» democratica (per uscire dalle alternative dell’individualismo liberale, e del socialismo collettivista) indusse a un’articolata riflessione sul tema della giustizia sociale; in tal senso si scartarono alcuni miraggi corporativisti e si assunsero, almeno in parte, gli esiti del dibattito europeo degli anni Trenta sulla crisi della civiltà borghese. La traccia culturale perseguita – e destinata a emergere in piena luce nel dopoguerra col Codice di Camaldoli e poi con l’impegno di La Pira, Dossetti8, Moro9 e Fanfani alla Costituente – era quella di recuperare la tradizione solidaristica (non solo italiana) e quella neotomista dell’«uomo sociale», per dare sostanza programmatica all’«ideale storico-concreto» della «nuova cristianità» tracciato da Maritain e al progetto di Mounier per la riforma dello Stato attraverso la responsabilizzazione politica degli individui e delle comunità organizzate10. In questa linea, la prospettiva della ‘democrazia sociale’, in qualche modo prefigurata nella costituzione di Weimar, portava non solo a riaffermare la libertà dello Stato, ma a rilegittimarne, contestualmente, la funzione di risanamento degli squilibri socio-economici11. Nella stagione bellica l’indirizzo democratico-sociale fu assunto anche dalla gerarchia cattolica; Pio XII richiamò, infatti, l’«inoppugnabile competenza della Chiesa» nel giudizio sulle situazioni sociali e politiche (Cinquantenario della Rerum novarum, 1941); in seguito e fino al dopoguerra, il pontefice argomentò sul rapporto tra le forme istituzionali e le «ultime, profonde, lapidarie, fondamentali norme della società» (L’ordine interno delle nazioni, 1942); arrivò, quindi, ad affermare l’adesione della Chiesa a «una vera e sana democrazia», la cui attuazione era possibile solo rispettando i «princìpi di un ordine politico e sociale» (Il problema della democrazia, 1944).

In realtà, però, alle soglie della ricostruzione democratica, sul problema dei rapporti tra società e Stato si registravano all’interno del mondo cattolico disparità di vedute tra il modello democratico prospettato dal popolarismo e quello del personalismo; disparità che in buona parte (ma non tutte) si sciolsero nell’elaborazione costituzionale. Fu proprio un giurista cattolico, Costantino Mortati che, dando ormai per superato il ‘dualismo’ tra società e Stato della tradizione liberale, volse la sua attenzione alle modalità giuridico-politiche sulle quali, dopo il crollo del fascismo, si poteva stabilire l’ordinamento democratico12. Il giurista argomentò con precisione che una volta cessato il ‘principio organizzativo specifico’ e il ‘carattere differenziale’ del vecchio Stato, diveniva del tutto legittimo costruire uno Stato fondato su nuovi princìpi sociali (La Costituente, 1945). La novità di fondo che nel marzo del 1946 lo stesso Mortati individuava (nella sua relazione sui ‘diritti subiettivi’ per conto della Commissione Forti istituita nel 1945 dal Ministero per la Costituente), consisteva nell’impegno a elaborare una Costituzione nella quale si prefigurasse giuridicamente la «struttura sociale che si presume di poter porre a base del nuovo assetto statale».

La Costituzione repubblicana

L’approdo alla Costituente non fu facile per il mondo cattolico; in particolare, di fronte al referendum per la scelta tra repubblica e monarchia visse un travaglio interno, sul quale influirono varie pressioni ecclesiastiche, anche se nell’aprile del 1946 la Dc degasperiana nel suo Congresso nazionale approvò un ordine del giorno che rivendicava il diritto a esprimersi per la ‘soluzione repubblicana’, pur lasciando libertà di voto ai suoi elettori13. Sul piano generale della politica istituzionale furono rilevanti anche le scelte di De Gasperi per la delimitazione reciproca dei poteri normativi tra il governo e la Costituente; in tal senso, non solo si riprendeva il filo della tradizione costituzionale liberaldemocratica, ma, soprattutto, si impediva di rendere la Costituente un semplice organo di ratifica della ‘rivoluzione compiuta’ dalla Resistenza (come volevano gli azionisti e i socialisti nenniani) e si lasciava all’Assemblea l’autonomia di elaborare il nuovo ordinamento giuridico in base agli orientamenti espressi dai rappresentanti di tutti i partiti14. Comunque, lo spirito resistenziale influì sui lavori della Costituente, specie su quelli delle sottocommissioni nelle quali si suddivise la Commissione dei 75; i costituenti furono concordi nel rigettare le forme totalitarie del fascismo, riequilibrando i poteri e garantendone i reciproci controlli. Più a monte, sui costituenti agirono l’esperienza degli orrori, vissuti o osservati, nel periodo bellico e il riconoscimento delle loro cause nella fragilità delle strutture statali che precedettero o favorirono il fascismo: così la prospettiva democratica si permeò di quello che gli storici hanno chiamato il ‘paradigma antifascista’. Va osservato, però, che nell’elaborazione costituzionale intervennero indicazioni culturali che rimettevano a giorno tradizioni democratiche di più lontane ed eterogenee origini; indicazioni che concordavano nella condanna del modello istituzionale fascista, ma andavano oltre il valore ‘oppositivo’ dell’antifascismo. Era il caso dell’indirizzo sostenuto da Mortati (e non solo da lui) per rinnovare contestualmente la società e lo Stato, muovendo dalla premessa che bisognava porre le basi costituzionali per garantire che il nuovo ordinamento non discendesse più ‘dall’alto’, attraverso l’opera di giuridificazione dello Stato, ma emergesse dalla volontà del ‘popolo’ aggregato e organizzato nei partiti e nelle strutture territoriali. Soprattutto i partiti, secondo il giurista, dovevano essere intesi come istituti terminali del corpo sociale, preposti in Parlamento alla mediazione dei programmi e alla creazione dei necessari raccordi tra il potere parlamentare e gli altri poteri dello Stato. In modo analogo, Giorgio La Pira, nel corso della XIX Settimana sociale di Firenze (ottobre 1945), dichiarava che la Costituzione sarebbe stata «buona se proporzionata alla società», cioè se nelle nuove istituzioni si fossero rispecchiati progetti e strutture del corpo sociale. La prospettiva personalistica e sociale ebbe modo di estrinsecarsi quando, all’avvio dei lavori della Costituente, si pose il problema di ispirare la Carta a dei ‘principi fondamentali’, che integrassero quelli liberali e, insieme, fossero alternativi ai presupposti teorici dei totalitarismi. La Pira non solo pose con solennità la necessità di «riaffermare i diritti naturali della persona umana e di costruire lo Stato in funzione di essi» («lo Stato per la persona e non la persona per lo Stato»), ma riprese i fili dell’organicismo cattolico e della tradizione solidaristica europea per ribadire che lo Stato non assolveva le sue funzioni se non mettendo in grado gli individui di realizzare le proprie finalità comunitarie; in altre parole, i diritti individuali andavano coniugati con quelli delle ‘formazioni sociali’. Anche Dossetti, Mortati e Moro si posero sulla medesima linea, che, pur assunta negli articoli 2 e 3 del testo costituzionale, sollevò crescenti tensioni a causa dei margini di ambiguità che si aprivano sulle modalità giuridiche e amministrative per la concreta affermazione dei diritti sociali. La stessa definizione del carattere programmatico o di indirizzo della Costituzione, da cui discende la sua ‘rigidità’, creò qualche problema. Sturzo, appena tornato dal lungo esilio, si mostrò subito preoccupato dell’indirizzo ‘troppo sociale’ dei costituenti; in seguito, anche con toni aspri, paventò il pericolo che si tornasse, pur in piena legittimità, a dotare lo Stato di eccessivi strumenti istituzionali per intervenire nelle dinamiche socio-economiche, fino a rinnovare situazioni di «statalismo monopolistico e soffocante». Il vecchio leader del popolarismo, che non aveva vissuto la forte tensione al rinnovamento nata con la Resistenza, ribadiva in modo coerente gli orientamenti della sua concezione costituzionale; però, egli non mostrò mai nostalgie per le costituzioni ‘flessibili’ ottocentesche; affermò, infatti, in più occasioni la sua fiducia nel meccanismo di revisione previsto dalla Carta repubblicana; anzi, alla fine degli anni Cinquanta chiese in Senato di precisare meglio le procedure di modifica costituzionale, tenendo ferma «la discriminazione tra le disposizioni fondamentali [...] e le altre disposizioni di carattere organico ed esecutivo»15.

In realtà, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, proprio la parte relativa all’ordinamento (in primo luogo la forma di governo) suscitò perplessità e recriminazioni; non erano state accolte in sede costituente, tra le altre, le proposte di Mortati (da quella sui poteri del capo dello Stato a quella sul bicameralismo ‘differenziato’) per evitare l’approdo a un regime prettamente assembleare e frenato nelle capacità decisionali; anche le norme relative alle Regioni contenevano incertezze e qualche contraddizione, nonostante l’impegno espresso nella Costituente da Ambrosini e, fuori di essa da Antonio Amorth e, naturalmente, dallo stesso Sturzo. Abbastanza in fretta, quindi, si iniziò a comprendere che non erano affatto indifferenti per l’attuazione dei principi fondamentali della Costituzione i tempi e i modi di realizzazione della sua seconda parte; lo sconcerto crebbe quando bisognò attendere la seconda metà degli anni Cinquanta per vedere attivati la Corte costituzionale (1956), il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (1957) e il Consiglio superiore della magistratura (1958); solo nel 1970 furono istituite le regioni a ‘statuto ordinario’. In definitiva, per oltre un ventennio nel paese, che arrivò a vivere il miracolo economico, le dinamiche politiche prevalsero sui problemi del funzionamento dello Stato; anzi le questioni istituzionali furono quasi messe da parte in una vicenda dominata dalla polarizzazione ideologica delle forze maggiori. Da un lato, alcuni meccanismi istituzionali si incepparono (basti pensare al vasto contenzioso che si aprì tra le nuove regioni e lo Stato o agli inutili tentativi di modificare l’assetto bicamerale ‘paritario’ creando una Camera delle regioni); dall’altro lato, e in modo più nascosto, l’evoluzione dei rapporti tra i cittadini e i poteri, tra le libertà civiche e le autorità amministrative fu molto più lenta del previsto, nonostante i costituenti, attraverso la riadozione del sistema elettorale proporzionale, avessero fatto affidamento sulle forme di partecipazione partitica per lo sviluppo del pluralismo democratico16. In realtà, i partiti nel dopoguerra avevano favorito un inedito e meritorio protagonismo politico delle masse, ma con gli anni tesero a condizionare la partecipazione degli iscritti, usando, in modo incontrollato, il proprio consenso per legittimare comportamenti parlamentari e amministrativi spesso lontani dagli impegni programmatici assunti con gli elettori. Mortati aveva chiesto espressamente forme di controllo sulla democrazia interna dei partiti; in modo diverso Sturzo arrivò a individuare una sorta di compatibilità perversa tra la ‘politicizzazione’ della Costituzione e il crescente monopolio partitico della vita pubblica17. Il leader popolare per risolvere il cortocircuito politico-istituzionale che si stava creando, prospettò l’idea di riformare il sistema elettorale in senso uninominale e maggioritario, con la previsione di ballottaggio per i primi eletti; tale progetto era alternativo alla riforma sancita dalla legge 31 marzo 1953, la cosiddetta ‘legge truffa’, con la quale si attribuiva un premio di maggioranza alle liste che avevano globalmente conseguito la maggioranza assoluta dei suffragi. L’insuccesso della legge non sopì il dissidio nato con De Gasperi e con la Dc; tale dissidio non riguardava l’analisi della situazione politica, perché anche Sturzo era convinto che bisognasse sbloccare l’azione dei governi di centro. Il fatto era che De Gasperi voleva superare la crisi del centrismo dando ai futuri governi una base parlamentare più forte e priva di smagliature politiche; Sturzo, invece, riteneva maturi i tempi per favorire la nascita di un sistema bipolare non fondato su presupposti ideologici; infatti, a suo avviso, il sistema maggioritario avrebbe permesso alla Dc di non rimanere ‘inchiodata al centro’, facendo sorgere una forza ‘alternativa’ alla stessa Dc; una forza, però, che, a differenza del Pci, fosse ‘interna’ al sistema democratico. L’opzione che si pose allora per una forma di democrazia governante’, cioè diretta a sviluppare i processi decisionali, senza perdere la partecipazione democratica, non ebbe fortuna; né poteva averla fino all’esaurirsi della stagione del centrosinistra e di quella, molto breve, della ‘solidarietà nazionale’, con gli accordi programmatici di governo che videro coinvolto il Pci. In altre parole, anche oltre la metà degli anni Settanta, il vero impegno della Dc e, soprattutto, di Aldo Moro fu diretto al difficile superamento della cosiddetta conventio ad excludendum verso il Pci attraverso la sua integrazione nell’area delle responsabilità di governo.

Le prospettive di riforma

Dopo la tragica morte di Moro e a partire dagli anni Ottanta, divenne sempre più urgente realizzare l’antica aspirazione a una ‘democrazia compiuta’. Varie furono le ragioni che alimentarono via via tale orientamento generalizzato: con la nascita del Pds, seguita alla caduta del muro di Berlino, sembravano dissolte (almeno in apparenza) le tradizionali preclusioni ideologiche e paure politiche verso il comunismo; si era logorata in modo definitivo l’esperienza dei governi di coalizione, che nell’ultima fase si era retta sul cosiddetto ‘potere di ricatto’ esercitato da una o dall’altra componente della medesima coalizione; soprattutto, l’opera della magistratura aveva fatto emergere la profonda corruzione nelle strutture pubbliche e private, portando allo sfaldamento ‘per via giudiziaria’ del Psi e della stessa Dc. Il problema era divenuto, quindi, quello di porre le condizioni politiche per l’alternanza al governo delle diverse forze, fissando nuove regole istituzionali e, prima di tutto, rinnovando in senso maggioritario il sistema elettorale. L’idea di una democrazia maggioritaria che poteva rinnovare la responsabilità politica dei partiti era stata già avanzata da Mortati agli inizi degli anni Settanta; in seguito, fu Roberto Ruffilli a porre a tutto tondo, nei lavori della ‘Commissione Bozzi’ della prima metà degli anni Ottanta, il problema di una riforma dei partiti che riponesse al centro della sovranità il ‘cittadino arbitro’ dei processi decisionali che si svolgono ai vari livelli istituzionali. Lo studioso cattolico prospettava, quindi, una complessa operazione, prima di tutto culturale, per promuovere un nuovo modello di partecipazione che riequilibrasse ‘dal basso’ le sfasature del sistema politico e aprisse la via a un aggiornamento degli istituti costituzionali18. Per Ruffilli, in sostanza, era divenuto urgente che la vecchia ‘democrazia governata’, con il suo retaggio di lotte ideologiche, cedesse finalmente il passo a una nuova democrazia ‘matura’ o, secondo il lessico politico francese, ‘governante’: era, cioè, urgente ricostruire un circuito virtuoso tra cittadini, partiti e istituzioni, anche intervenendo con molta prudenza sulla parte ordinamentale della Costituzione. Non si trattava dunque, a suo avviso, di rendere ‘soffice’ il declino della Democrazia cristiana, da molti previsto o più semplicemente auspicato, bensì di rimodellare, nella prospettiva dell’alternanza al governo, il sistema dei partiti, senza minare le loro ragioni storiche, ma togliendo a ciascuno di essi, sulla base di regole condivise, ogni tentazione egemonica. In quegli anni, la sempre più difficile opera di neutralizzazione dei conflitti sociali spingeva i partiti a sviluppare una serie di progetti di riforma istituzionale non coincidenti tra loro nelle finalità. Da un lato, e specie da parte dei comunisti, si premeva per il rinnovamento delle forme di partecipazione politica, da un altro, specie da parte dei laici e dei socialisti, si premeva in forme diverse per attrezzare le istituzioni apicali dello Stato a una nuova ‘governabilità’ del paese. Altra prospettiva per una profonda innovazione della parte ordinamentale della Costituzione fu aperta nel medesimo periodo dal ‘Gruppo di Milano’, coordinato da Gianfranco Miglio19. Non si poteva non riconoscere – secondo lo studioso dell’Università Cattolica – che il modello della Costituzione repubblicana era «schiettamente occidentale», e che solo la sua errata applicazione politica aveva generato gravi fratture nelle istituzioni e nella vita economica. Si trattava quindi di trovare forme più agili di revisione del testo costituzionale, mirando a un rafforzamento dei poteri del governo e liberando il leader del governo stesso da condizionamenti e ricatti da parte di «interessi frazionali organizzati». Rimaneva il fatto che anche i più significativi, dal punto di vista politico e tecnico, di questi progetti, su tutti quello presidenziale promosso da Giuliano Amato, presentavano, secondo Ruffilli, elementi di divaricazione tali da rendere inagibile una prospettiva comune, e cioè contenevano

«non tanto la volontà di stimolare tutti gli attori della democrazia repubblicana a costruire in comune le regole per un più efficace e corretto funzionamento della stessa, quanto invece la volontà di dar vita a regole atte a consolidare una “centralità” duratura a favore di uno di essi ma a scapito degli altri»20.

Va sottolineato che Ruffilli non riteneva i partiti unicamente come portatori di diverse tradizioni, ma li vedeva o li immaginava come gli unici strumenti, assieme al sistema delle autonomie, per garantire i rinnovati rapporti tra la società e lo Stato. Soprattutto la società, infatti, si andava prefigurando in un inedito insieme plurale di strutture e di poteri ormai «in grado di condizionarsi reciprocamente e in rapporto ai quali non è possibile pensare alla ricostruzione di centri di potere o di decisione nella linea della sovranità […] nazionale»21. Questo nuovo pluralismo di tipo neocorporativo o neocontrattualista stava soppiantando il pluralismo dei partiti e minando la governabilità dello Stato. Ma la stessa risposta al deficit di governabilità non poteva essere unilineare, bensì doveva investire i problemi relativi sia all’autonomia di tutti i centri politico-amministrativi locali, sia alla ridefinizione dei processi decisionali: dai cittadini, ai partiti, al Parlamento e al Governo; in sostanza era urgente consolidare l’intero assetto democratico. Sulla base di questa analisi, sviluppata assieme al segretario della Dc Ciriaco De Mita, Ruffilli pose la necessità che la Dc si assumesse, nell’ambito parlamentare, la responsabilità di una strategia a largo raggio di quelle che lui chiamava le ‘riforme possibili’: da una parte, la riforma del sistema elettorale, con l’introduzione di alcuni correttivi del proporzionale per favorire il rapporto diretto tra eletti ed elettori e per garantire la formazione di maggioranze di governo votate dai cittadini, ma escludendo l’adozione del maggioritario; dall’altra, la ripresa della proposta avanzata in Costituente da Mortati e da Moro, relativa all’articolo 49, per una regolamentazione accertabile della vita e della struttura dei partiti.

Dopo la morte di Ruffilli, assassinato come Moro dalle Brigate Rosse, e con la scissione della Dc (di cui il nuovo Ppi rimase erede principale, almeno relativamente al rifiuto delle forme costituzionali monocratiche o plebiscitarie) l’opzione per le riforme istituzionali raccolse ulteriori adesioni, anche se lasciava margini indefiniti circa i problemi politici che si collegavano a esse. L’urgenza di giungere a una riforma istituzionale condivisa, capace di porre rimedio alle disfunzioni messe in luce dal sistema politico trovò conferma e una significativa occasione di dibattito nel messaggio inviato alle Camere dal Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, il 26 giugno 1991. In esso Cossiga poneva questioni sia di metodo sia di merito, individuando la necessità di colmare il ‘divario’ che si era venuto a creare «fra società politica e società civile», quindi di recuperare la «fiducia del popolo nelle istituzioni democratiche e rappresentative». Un messaggio che suscitò forti polemiche, anche per l’ipotesi che in esso veniva affacciata dell’attribuzione alle Camere o a un’Assemblea appositamente eletta di «veri e propri poteri costituenti» e, più in generale, per la presenza, alla base delle argomentazioni avanzate, di una venatura populista evidente ai più. La prospettiva di Cossiga fu respinta da molti tra i più autorevoli giuristi del tempo e da numerosi rappresentanti delle forze politiche, tra i quali, significativamente, i senatori democratico-cristiani Nicola Mancino e Leopoldo Elia, intervenuti nel dibattito parlamentare22.

In questo contesto politico, assunse particolare importanza il movimento referendario guidato da Mario Segni, figlio del defunto Presidente della Repubblica e a sua volta a lungo parlamentare della Dc. Affiancato da numerosi intellettuali di area cattolica (diversi dei quali avevano condiviso nei decenni precedenti l’esperienza della Lega democratica) e con l’esplicito sostegno di alcune associazioni e movimenti ecclesiali (tra cui, ad esempio, la Fuci), oltre che con il sostanziale appoggio di una parte della Democrazia cristiana, del Partito comunista e di alcuni esponenti dei partiti laici, Segni si fece promotore di una serie di referendum in materia elettorale, mirati ad adottare la preferenza unica (nel 1991) e a introdurre il sistema maggioritario per l’elezione del Senato (nel 1993), oltre a eliminare il finanziamento pubblico dei partiti. L’imponente maggioranza con la quale i referendum vennero approvati portò, anche per la decisa volontà espressa in tal senso dal nuovo Presidente della Repubblica, il cattolico Oscar Luigi Scalfaro, all’adozione di una legge elettorale in senso parzialmente maggioritario. L’avvento di un incerto bipolarismo non produsse però l’auspicata stabilizzazione del sistema: da un lato, si verificò una proliferazione di partiti e movimenti con scarsa omogeneità programmatica; dall’altro, emersero vari problemi di compatibilità con le norme e gli istituti della Costituzione, sia riguardo alla forma di Stato (per l’insorgere di un federalismo estremo con punte secessioniste), sia riguardo alla forma di governo (con l’opzione presidenzialista più o meno spinta). Tali problemi furono oggetto di ampio dibattito nel corso della XI legislatura, durante la quale si diede vita a una Commissione Bicamerale (presieduta prima da De Mita e poi da Nilde Jotti) preposta all’elaborazione di un ‘Progetto costituzionale di revisione della parte seconda della Costituzione’; la Commissione evidenziò sia l’opportunità di estendere i poteri regionali senza violare l’unità nazionale, sia la possibilità di ridefinire i rapporti tra esecutivo e rappresentanza politica, sviluppando varie ipotesi (anche quella presidenzialista) e preservando i poteri di orientamento e di controllo del Parlamento. La fine anticipata della legislatura segnò però la cessazione dell’attività della ‘Bicamerale’, le cui analisi e opzioni rimasero lettera morta; lo stesso accadrà per i progetti di riforma avanzate dalla Commissione Bicamerale istituita nella XIII legislatura.

Nei due decenni successivi, segnati dall’affermazione di nuove forze politiche e dal progressivo consolidarsi di diversi equilibri tra le istituzioni repubblicane, l’obiettivo di giungere a una riforma costituzionale condivisa è rimasto al centro dell’orizzonte politico italiano senza mai trovare una effettiva soluzione di sistema, ma solo una parziale, per quanto significativa, traduzione nella riforma del Titolo V della Costituzione23.

Il cattolicesimo italiano, pur estremamente frammentato, ha conservato nei decenni, in alcune personalità, la capacità di comprendere che i necessari rapporti tra individui, società, territori e istituzioni necessita di regole condivise sulla base di valori comuni. Naturalmente si sa (o si spera che si sappia) che l’evoluzione democratica delle istituzioni o un nuovo «patto costituzionale» richiedono non solo l’aggregazione di vaste maggioranze parlamentari, ma anche la consapevole adesione dei cittadini.

Note

1 Molti aspetti relativi ai rapporti tra cattolicesimo italiano e questioni istituzionali sono approfonditi in diverse ‘voci’, con relative bibliografie, del DSMC, e nel relativo volume di Aggiornamento 1980-1995, Torino 1997: si vedano specialmente nel volume I, 1: P. Scoppola, Idea di partito cattolico, pp. 195-205; G. Campanini, Profilo del pensiero politico di ispirazione cattolica, pp. 206-232; nel volume I, 2: F. Traniello, Movimento Cattolico e questione romana, pp. 44-54; R. Ruffilli, Movimento Cattolico e questione delle autonomie, pp. 128-136; U. De Siervo, L. Elia, Costituzione e Movimento Cattolico, pp. 232-246; nel volume di Aggiornamento: N. Antonetti, Movimento cattolico e questioni istituzionali, pp. 54-63. Inoltre, importante per l’approfondimento del tema: R. Ruffilli, Istituzioni società Stato, 3 voll., Bologna 1989-1991.

2 Il tema è analizzato in maniera più o meno diretta in tutte le opere generali sulla storia del Movimento cattolico e della Chiesa in Italia, specialmente in G. De Rosa, Storia del Movimento cattolico in Italia, 2 voll., Bari 1966; A.C. Iemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1948; F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma 1977; F. Traniello, Cattolicesimo e società moderna, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, V, Torino 1973, pp. 551-652; P. Scoppola, La democrazia nel pensiero cattolico del Novecento, ibidem, VI, pp. 109-190; A. Acerbi, La Chiesa nel tempo, Milano 1979; C. Vasale, Cattolicesimo politico e mondo moderno, Milano 1988; Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del Risorgimento, a cura di G. Pellegrino, Stresa 1995.

3 Opere scelte di Luigi Sturzo, V, Riforme e indirizzi politici, a cura di N. Antonetti, Roma-Bari 1992; F. Traniello, Città dell’uomo. Cattolici partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1990.

4 Cfr. N. Antonetti, Sturzo i popolari e le riforme istituzionali del primo dopoguerra, Brescia 1988; E. Guccione, Municipalismo e federalismo in Luigi Sturzo, Torino 1994.

5 E. Rotelli, Il regionalismo di Luigi Sturzo, in Luigi Sturzo nella storia d’Italia, Atti del Convegno Internazionale di studio (1971), II, a cura di G. De Rosa, Roma 1973, pp. 593-612.

6 Cfr. Due convegni su Giuseppe Capograssi, a cura di F. Mercadante, Milano 1990.

7 Si vedano Scelte della Costituente e cultura giuridica, a cura di U. De Siervo, 2 voll., Bologna 1980; F. Bonini, Storia costituzionale della Repubblica. Profilo e documenti (1948-1992), Roma 1993; I cattolici democratici e la Costituzione, a cura di N. Antonetti, U. De Siervo, F. Malgeri, 3 voll., Bologna 1998; Ambrosini e Sturzo. La nascita delle regioni, a cura di N. Antonetti, U. De Siervo, Bologna 1998; Cultura politica e partiti nell’età della Costituente, a cura di R. Ruffilli, 2 voll., Bologna 1979.

8 Si vedano G. Dossetti, La ricerca costituente. 1945-1952, a cura di A. Melloni, Bologna 1994; Id., Scritti politici, a cura di G. Trotta, Genova 1995; P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana 1938-1948, Bologna 1978; Id., La Costituente, Bologna 1995.

9 Cfr. Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, a cura di P. Scaramozzino, Milano 1982 (Quaderni della rivista il Politico, 18).

10 Su questo cfr. G. Campanini, Personalismo e democrazia, Bologna 1987.

11 P. Pecorari, Il solidarismo possibile, Torino 1995.

12 Cfr. M. Galizia, P. Grossi, Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, Milano 1990; Costantino Mortati giurista calabrese, a cura di F. Lanchester, Napoli 1989.

13 Cfr. A. Giovagnoli, La cultura democristiana, Bari 1992.

14 Cfr. su questi dibattiti Le idee costituzionali della resistenza, a cura di C. Franceschini, S. Guerrieri, G. Monina, Roma 1997.

15 Si vedano fra l’altro Opere scelte di Luigi Sturzo. Stato, parlamento e partiti, a cura di M. D’Addio, Roma-Bari 1992; Luigi Sturzo e la democrazia europea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1990; L. Sturzo, Discorso sulle comunicazioni del Governo, in Id., Scritti di carattere guiridico. Discorsi e attività parlamentare, Bologna 1962, p. 282.

16 Riflessioni su questi temi in S. Ceccanti, Le istituzioni della democrazia, Roma 1991.

17 Cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Bologna 1991; Id., La Costituzione contesa, Torino 1998; M.S. Piretti, La repubblica limitata, Roma 1976.

18 Si vedano R. Ruffilli, P.A. Capotosti, Il cittadino come arbitro, Roma 1988; M.S. Piretti, Roberto Ruffilli: una vita per le riforme, Bologna 2008.

19 Cfr. G. Miglio, Una repubblica migliore per gli italiani (Verso una nuova Costituzione), Milano 1983.

20 R. Ruffilli, Istituzioni. Le regole del gioco, in Id., Istituzioni, società, Stato, cit., III, p. 486.

21 R. Ruffilli, La società delle autonomie tra neo-corporativismo e neo-contrattualismo, ibidem, p. 579.

22 Del primo cfr. N. Mancino, Il filo spezzato. Crisi della politica e nodo delle riforme, Bologna 2000; L. Elia, Politica e istituzioni 1987-1991, Roma 1991; Id., Costituzione, partiti, istituzioni, Bologna 2009.

23 F. Teresi, La strategia delle riforme. La tormentata revisione della Costituzione repubblicana. Materiali di studio, Torino 1986.

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