CARLO V Imperatore

Enciclopedia Italiana (1931)

CARLO V Imperatore (I come re di Spagna)

Carlo CAPASSO

Nacque il 24 febbraio 1500 a Gand dall'arciduca d'Austria Filippo il Bello, figlio di Massimiliano d'Asburgo, imperatore, e da Giovanna la Pazza, figlia di Ferdinando il Cattolico e d'Isabella di Castiglia. Nessuno poteva prevedere che il fratello e la sorella maggiore di Giovanna sarebbero morti presto e senza eredi; che quindi il grande Impero spagnolo sarebbe passato a lei; e da lei, ben presto uscita di ragione, al marito Filippo, e alla morte di questi, nel 1506, al figlio Carlo. Costui pertanto, se in un primo tempo si trovò ad essere solo principe dei Paesi Bassi (come nipote di Maria di Borgogna, ultima erede del ducato di Borgogna e sposa di Massimiliano di Asburgo), venne a un tratto impensatamente ad avere sulle spalle un'eredità grandiosa, la quale, date le condizioni e i problemi da risolvere, appariva anche paurosa. Ma il giovane principe, cui non difettavano ambizione, calcolo e volontà di ferro, affrontò senza titubanze l'immenso compito: anzi, ne fece base a voli anche più alti.

C. ebbe la ventura di essere allevato con molta cura dalla zia Margherita d'Austria, che gli tenne luogo di madre e che fu anche un'abile reggente dei Paesi Bassi. C., che le testimonianze del tempo ci rappresentano ragazzo aggraziato e bene sviluppato, poté così crescere indisturbato a Malines, che rimase quasi sempre la sua residenza, in compagnia della sorella Eleonora, alla quale egli fu sempre affezionato. Ivi, e poi anche a Bruxelles, si compì la sua educazione letteraria, impartitagli con larghezza di vedute, giusta le tendenze umanistiche, successivamente dagli spagnoli Juan de Vera e Luis Vaca, umanista, e in ultimo da Adriano, decano di Utrecht (il futuro papa Adriano VI). Non sembra però che ne ricavasse molto profitto, dal momento che non possedé mai veramente alcuno dei linguaggi dei numerosi stati che gli furono soggetti, ad eccezione del fiammingo e del francese. Maggiore influenza ebbe su di lui il conte di Nassau, dal quale apprese l'amore alla storia e alle grandi e nobili imprese; e specialmente Guglielmo di Croy, signore di Chièvres, che fu suo governatore sin dal 1509. Legato alla nobiltà dei Paesi Bassi il Chièvres cercò sempre di avere favorevole C. agl'interessi di questa; e non solo negli anni della gioventù, ma anche più avanti, il principe fu remissivo di fronte ai Fiamminghi. Più tardi, e per ragioni anche di politica generale, C. ebbe per i Fiamminghi una politica personale anche assai dura, come nell'aspra repressione della rivolta di Gand (1540).

Alla morte di Ferdinando il Cattolico (1516), che un anno prima Adriano di Utrecht aveva potuto dissuadere dal dividere i suoi stati, dando Aragona e magari Napoli al nipote favorito Ferdinando (Carlo non era punto simpatico alla vecchia corte di Aragona), il figlio di Filippo d'Asburgo ereditò Castiglia e Aragona e ne prese possesso (con poco contento degli Spagnoli) recandosi in persona nella Spagna. A sormontare le prime difficoltà, laddove era un conglomerato di istituzioni e di elementi contrastanti, fu aiutato dal vecchio ministro di Isabella, lo Ximénez. Le accoglienze nei varî stati furono diverse: più fredde e ostili in Aragona che non in Castiglia. Morto poi quasi subito il vecchio Ximénez, il giovane sovrano si trovò di fronte a un fermento di desiderî, di aspirazioni e di contrasti, derivanti dall'infinita varietà degli ordini esistenti, che preludeva alla terribile rivolta del 1520. Veramente, il contegno rapace dei Fiamminghi (dei quali era formato quasi tutto il seguito di Carlo, come, sebbene in minore proporzione, fu poi quasi sempre) e la loro incomprensione delle cose di Spagna contribuirono molto ad irritare gli Spagnoli e ad alienarli dal loro nuovo sovrano. I Castigliani, primi, nelle Cortes di Valladolid, non nascosero la loro irritazione; gli Aragonesi, a Saragozza, vollero, prima di riconoscere Carlo, far riconfermare i loro diritti e privilegi; in Catalogna poi e in altre Cortes, nuovamente convocate in Castiglia nel 1519, furono senz'altro rifiutate le richieste di crediti, allegandosi i privilegi della nobiltà e del clero di essere esenti dalle imposte. Infine si accentuavano la diffidenza e l'ostilità, poiché si insisteva in ogni occasione nel voler considerare il regno come retto da Carlo insieme con la madre Giovanna. Peggio fu quando, morto Massimiliano imperatore nel 1519, Carlo, chiamato da altri maggiori interessi, volle tornare nelle Fiandre e affidò la reggenza in Castiglia ad Adriano di Utrecht. Spiaceva agli Spagnoli che il re di Spagna si allontanasse dal territorio nazionale per altri fini; irritò poi maggiormente l'influenza e l'intervento degli stranieri, cioè dei Fiamminghi, negli affari interni del paese. Anche il clero fece causa comune con i malcontenti, irritato esso pure dell'assegnazione di benefici ecclesiastici spagnoli a stranieri (per es., il conferimento dell'importantissimo arcivescovado di Toledo al fiammingo e giovanissimo Guglielmo di Croy). Pertanto, mentre Carlo, nella primavera del 1520, abbandonava la penisola per recarsi ad Aquisgrana, molte città in Castiglia si rivoltarono apertamente.

La ribellione, che fu detta dei Comuneros, fallì, soprattutto per i contrasti sorti nel seno stesso dei rivoltosi, e per lo staccarsi della nobiltà e del clero, prima consenzienti, dal movimento che aveva assunto in un secondo tempo carattere sociale. Si deve tuttavia porre in rilievo che, sebbene si cercasse di far riassumere di fatto il potere dalla regina Giovanna, che per un certo tempo fu in mano dei ribelli, in realtà il movimento fu diretto essenzialmente contro la reggenza straniera. Tant'è vero che, anche quando i tre ordini erano uniti nell'azione, essi fecero ripetutamente appello alla giustizia del sovrano contro i Fiamminghi. Carlo ritornò per breve tempo in Spagna nel 1522 a restaurare l'ordine definitivamente; e va detto a sua lode che non infierì contro i ribelli, dei quali molti amnistiò, ma solo contro alcuni dei capi principali. Ristabilita la calma, il re riprese la via dell'estero. L'episodio ebbe nello svolgimento della storia spagnola conseguenze rilevanti, poiché indusse il sovrano, in seguito, ad accentrare più rigorosamente i poteri monarchici e a non tenere che piccolo conto delle Cortes. Esso è poi importante per il significato che ebbe di protesta contro la tendenza europea del nuovo sovrano. È il primo grande conflitto fra gl'interessi particolari e nazionali di uno degli stati di C., e quella necessità di una politica europea, a cui C. era trascinato dalla posizione assunta in seguito alla morte del nonno Massimiliano.

Con l'oro, C. era infatti riuscito a farsi eleggere dai principi elettori re di Germania, vincendo l'asprissima concorrenza del re di Francia Francesco I, anche lui candidato alla corona imperiale. L'elezione destò largo rumore e scandalo, per i mezzi adoperati; ma con essa, il principe fiammingo era in breve asceso su due dei troni più importanti dell'Europa; e giovanissimo, dominava su di un insieme di stati quale nessun sovrano aveva mai avuto. Tale sua potenza, ancora più pericolosa per la posizione geografica dei suoi dominî, urtava direttamente contro le ambizioni, le necessità di espansione e la stessa sicurezza della Francia: la quale, pertanto, doveva cercare di valersi di tutti gli elementi ostili agli Asburgo nelle stesse loro terre d'Italia, di Spagna, di Fiandra e di Germania. Si delineava così rapidamente una rivalità che, apparentemente, può essere riferita alle persone di Francesco I e di C., ma che in realtà ha radici ben più profonde. Essa era un conflitto di egemonia e si ricollegava direttamente con le lotte tra Luigi XII e Ferdinando di Spagna, e con quella tra lo stesso Luigi XII e Massimiliano d'Austria. Quanto più C. cercherà di attrarre e saldare intorno all'Impero o, almeno, alla sua casa tutti gli stati d'Europa, tanto più la Francia, e con lei anche stati minori, sentiranno il bisogno di contrastarlo. Era logico che C. non potesse considerarsi prevalentemente re spagnolo, ma dovesse farsi strada in lui il concetto superiore d'imperatore: mentre gli Spagnoli manifestavano le loro tendenze particolaristiche. Se non che, declinando via via il sogno della grande monarchia europea, l'elemento spagnolo si affermò sempre più nei consigli di C.: anche in quelli non direttamente relativi alla Spagna. E verso la fine della sua vita, egli stesso, prima fiammingo e poi europeo, finì col dare la prevalenza e la preferenza alla monarchia spagnola.

Dalla sua elezione a imperatore (1519) alla sua abdicazione (1556), C. dovette trattare ad un tempo numerosi e complessi problemi, molti dei quali strettamente legati fra loro. Lotte e trattative con la Francia; in Germania, rivolta dei protestanti e tendenze autonomiste di città e principi, timorosi di un'eccessiva centralizzazione asburgica; pericolose relazioni tra la Francia, i principi dell'Impero, luterani e cattolici, e l'Inghilterra; impossibilità di abbattere direttamente e rapidamente i protestanti, senza sollevare la gelosia dei principi tedeschi. D'altra parte, come le guerre con la Francia inducevano l'imperatore a transigere coi Tedeschi, così il bisogno di tenersi amico o almeno neutrale il re d'Inghilterra lo tratteneva da azioni violente anche contro di lui, come la sua coscienza di cattolico e i suoi interessi offesi gli avrebbero certamente dettato (per es., nel caso del ripudio, da parte di Enrico VIII, della moglie Caterina d'Aragona, che era zia di C.; 1533). Ebbe poi a fronteggiare il pericolo turco, che fu assai grosso e di fronte al quale, in ultima analisi, nonostante le sue promesse, finì con l'indietreggiare sacrificando coloro che si erano fidati di lui e si erano uniti con lui contro il nemico comune. In Italia C. ebbe a lottare di abilità per introdurre, senza parere, la sua dominazione diretta o indiretta. Con i papi poi le sue relazioni furono tutt'altro che facili, perché, date le sue relazioni con i protestanti, egli finì con l'andare contro gl'interessi della Chiesa; e perché, nelle sue mire ambiziose sull'Italia, egli andò contro gl'interessi del papa come sovrano temporale e italiano. Accanto a questi, che sono i grandi problemi, stanno un'infinità di problemi minori, o di altra indole, che resero difficile e spesso contraddittoria l'azione politica di C. Il quale poi si trovò quasi sempre impigliato in gravi strettezze finanziarie, data la decadenza economica di molti dei paesi a luí soggetti e l'insufficienza dei vecchi sistemi fiscali di fronte a una grande e dispendiosa politica. Sarebbe occorso rendere più moderno il sistema fiscale; ma ci si limitò a fare operazioni gravosissime di prestiti (famose quelle coi Fugger di Augusta) e ad usare l'oro e l'argento che provenivano dall'America: entrate certo cospicue, ma non regolari.

La linea centrale dell'attività politica di Carlo V è rappresentata innanzi tutto dalle continue guerre ch'egli ebbe con Francesco I di Francia, dal 1521 al 1544, e poi, più tardi, contro il figlio Enrico II. Quelle contro Francesco I furono quattro (1521-25; 1526-29; 1536-38; 1542-44). Pretesto ad esse, da parte del re di Francia, i suoi pretesi diritti sul ducato di Milano, già conquistato da Luigi XII e poi perduto, e su parte della Borgogna e delle Fiandre. Nella grima guerra, in cui l'imperatore ebbe per qualche tempo il concorso di papa Leone X (che però morì quasi subito nel 1521 stesso), i successi dei Francesi, che parvero preoccupanti per alcun tempo, furono del tutto annullati dalla famosa vittoria delle truppe imperiali (24 febbraio 1525) a Pavia, nella quale lo stesso Francesco fu fatto prigioniero. Portato a Madrid, l'anno seguente, dopo una prigionia durata un anno, egli sottoscriveva un trattato che si può riassumere nella rinunzia totale di re Francesco alle sue pretese tanto in Italia quanto in Fiandra: il che equivaleva ad escludere totalmente la Francia da ogni influenza al difuori dei suoi confini e ridurla a uno stato di second'ordine. Francesco I si affrettò, appena libero, a ripudiare, come imposto a lui dalla sua condizione di prigioniero, il trattato da poco conchiuso, e naturalmente la guerra si riaccese subito.

Questa volta, l'imperatore ebbe contro anche la maggior parte degli stati italiani, alleati al re di Francia, e in prima linea il papa Clemente VII: mentre proprio C. aveva cercato di farsi amici i varî papi che si erano succeduti, per aver tranquillo il regno di Napoli e per meglio conseguire i suoi fini generali; e aveva anzi aiutato Clemente VII a divenire pontefice. Disegni d'indipendenza e di riscossa infiammarono gli spiriti: ma le forze erano impari e la concordia vacillante. Per quanto le truppe francesi penetrassero in Italia, l'esito delle operazioni fu infelice, anche se per un momento si ottennero successi a Napoli. L'assalto e il saccheggio di Roma, per opera delle truppe del connestabile di Borbone e del Frundsberg (maggio 1527), furono il colpo decisivo inferto alla coalizione italiana. Il papa, rinchiuso in Castel S. Angelo, dovette venire a patti; e negli anni seguenti, mentre gl'imperiali finivano con l'aver ragione dei Francesi, papa e imperatore si accordarono nei riguardi dell'Italia (trattati di Barcellona, 1529, e di Bologna, 1530), alla quale furono ribadite definitivamente le catene della servitù, diretta o mascherata. Mentre a Milano si confermava duca uno Sforza, che non aveva eredi, così che il ducato avrebbe dovuto poi ricadere come feudo all'Impero, cioè a Carlo V; Firenze, che aveva cacciato i Medici nel 1527, fu assediata da un esercito comandato dal d'Orange, presa nel 1530 ed eretta poi in ducato, a favore di Alessandro de' Medici.

A suggellare la sua primazia in Italia, donde aveva cacciato del tutto i Francesi, C. volle rinnovare la pompa dell'antica incoronazione a imperatore e re: e ciò avvenne nel 1530 a Bologna, con l'intervento del papa. L'atto, non mai più ripetuto nei secoli che seguirono, sembra isolato nel tempo e senza conseguenze: ebbe per altro una sua non lieve importanza, in quanto rafforzava con forme di diritto tradizionale l'effettiva dipendenza che gli stati principeschi e le stesse repubbliche (Genova, Siena, Lucca), facenti parte dell'antico Regnum italicum, dovevano avere verso di lui. Il che non occorreva a Napoli, in Sardegna e in Sicilia che erano regni staccati e suoi per diritto di precedente conquista. Sennonché l'incoronazione ha un'importanza anche europea, specie nei riguardi della Germania. Qui, dove C. non aveva possessi patrimoniali proprî, l'incoronazione imperiale venne a rafforzare quell'autorità che a C. veniva dalla qualità di re di Germania e re dei Romani. E di questa maggiore sua forza egli si giovò nella lotta iniziata contro i protestanti, vale a dire contro lo spirito autonomista dei principi e degli stati dell'Impero.

Fin da quando Carlo V venne la prima volta in Germania per l'incoronazione in Aquisgrana (23 ottobre 1520), egli dovette prendere posizione di fronte al movimento luterano il quale, oltre al cattolicesimo, minacciava, per l'aiuto che riceveva da molti dei maggiori principi tedeschi, il principio monarchico. Se il legato papale Aleandro, inviato alla dieta di Worms (1521), insisteva per una condanna a priori, dal punto di vista strettamente cattolico, non concordi erano gli elementi responsabili intorno a Carlo, agitati dal contrasto fra le convinzioni religiose e le necessità di ordine pratico. Mercurino Gattinara, il cancelliere dell'Impero, propendeva per un concilio generale, misura alla quale si venne molti anni dopo: d'altra parte, nell'imminenza della guerra con la Francia, necessitavano aiuti di uomini e di denaro dagli stati germanici. Tale situazione, che su per giù si mantenne sempre, rese oscillante e disposta alle transazioni la condotta dell'imperatore. Così, nella dieta sopraddetta, che doveva essere risolutiva e nella quale Lutero non volle ritrattare le sue opinioni, appellandosi a un concilio, Carlo permise che Lutero stesso potesse essere lasciato indisturbato; e quand'egli, partito, fu condannato al bando, non agì più per perseguire di fatto il dissidente. Questa politica di semitolleranza, determinata senza dubbio non da simpatie, ma da necessità di equilibrio, ebbe gravi conseguenze e determinò per decennî il carattere degli avvenimenti. Preso dalle guerre con la Francia, costretto anche ad allontanarsi per la Spagna nel 1522, l'imperatore affidò la Germania a un consiglio di reggenza, presieduto dal conte Federico del Palatinato, al quale incombeva il compito di contenere le forze che gli si opponevano in Germania. Anche nelle terre austriache, Carlo aveva messo il fratello Ferdinando, lasciando a lui la cura di provvedere da quella parte. Ma né Ferdinando poté far molto, né il consiglio di reggenza fu capace di impedire il dilagare della Riforma e d'altri movimenti, in parte sociali ed economici, come ad esempio la rivolta dei contadini nel 1524. Una dieta tenuta a Spira nel 1526, permettendo ai luterani di poter esercitare indisturbati la propria confessione sino alla convocazione del concilio, significava una vittoria per il luteranesimo (in quel momento, l'imperatore era in guerra anche con il papa stesso); un'altra del 1529, volendo ritogliere il già concesso (allora la guerra si era risolta a favore di Carlo), provocò nel 1530 la celebre protesta di Augusta. Di fronte al pericolo di una guerra in Germania, l'imperatore finì col concedere nuovamente la libertà di esercitare il culto, prorogando ogni decisione al concilio generale ch'egli demandò definitivamente al papa. Clemente VII, che personalmente non v'era incline (e non lo erano molti in Roma, per le eccessive richieste di riforme del clero cattolico, avanzate anche da cattolici in Germania), s'indusse poi ad aderirvi.

Dal 1530 al 1535, si ha un periodo di pace. Questo era il risultato, in parte degli avvenimenti, in parte del cambiamento avvenuto negli organi esecutivi. Il cancelliere Gattinara era morto e gli succedevano Cobos e Granvelle: il primo dei quali, come Spagnolo, aveva naturalmente in cuore gl'interessi spagnoli e quindi era incline ad evitare complicazioni europee. Tutti e due poi, in materia religiosa, preferivano sottomettere gl'interessi della religione alle necessità dello stato. Per l'influenza quindi di questi due uomini, Carlo tentò in quegli anni di pace, durante i quali fu quasi sempre in Spagna (dal 1532 al 1535), di sistemare, dopo dieci anni di lotte, i suoi stati. Nei Paesi Bassi, morta la zia Margherita, pose la sorella Maria come governatrice. Nell'Impero, fece riconoscere come re dei Romani il fratello Ferdinando, designandolo così alla successione: il che significa che fin d'allora egli, sia pure che pensasse di assicurare l'Impero alla casa d'Austria per il caso di una possibile morte immatura, già ventilava la divisione dei possessi spagnoli da quelli germanici. Dell'Italia, ristabilita la pace col pontefice, volle garantirsi la fedeltà, costituendo una lega italiana alla quale accedettero tutti gli stati, Venezia e Roma comprese (1533), perché fosse una minaccia o un avviso alla Francia. Della fedeltà di Genova gli era garante Andrea Doria, passato a lui nel 1529. In Francia stessa, poté avere una decisa influenza, per mezzo della sorella Eleonora, sposata nel 1529 al re Francesco I.

Si presentava ora a Carlo, come imperatore e come re di Spagna la questione turca. Da che egli era salito al trono, l'Impero ottomano aveva avuto uno slancio formidabile per opera specialmente del sultano Solimano. I cavalieri di Rodi erano stati scacciati nel 1522 dalla loro isola, venendo così a mancare una vigile scolta cristiana nel Levante. Nello stesso anno cadeva sotto i Turchi anche l'Egitto. Di più i Barbareschi che esercitavano la pirateria ed erano naturali alleati dei Turchi, stavano facendo del Mediterraneo tutto un lago turco: con questo in peggio, che la loro presenza sulle coste che vanno dalla Tripolitania al Marocco, era un continuo pericolo per l'Italia e più ancora per le coste spagnole. Nel 1526 i Turchi si erano spinti oltre il Danubio e avevano distrutto l'esercito ungherese; nel 1529 avevano assediato Vienna e a gran pena erano stati ricacciati. Occorreva correre ai ripari, anche per dare soddisfazione alle molte querele degli stati spagnoli. Dapprima fu incaricato Andrea Doria di agire sul mare: ed egli ebbe qualche successo nel 1532. Ma la sua flotta era di gran lunga inferiore e non poteva portare colpi decisivi. Si ebbe pertanto una pace fra Turchia ed Austria, assai onerosa per quest'ultima (1533). L'anno seguente, uno dei più temuti pirati, Khair ad-Dīn Barbarossa, occupava Tunisi, scacciandone il re berbero Mūlāy Hasan. Allora si diffuse in Italia e in Spagna un grande spavento: quando poi Carlo seppe che si erano svolte trattative tra i Francesi e il Barbarossa (prodromo di quelle che più tardi, nel 1536, condussero ad una vera alleanza tra la Francia e la Porta), comprese che anche questa guerra contro i Turchi e i Barbareschi era un aspetto della lotta europea. Pertanto decise di portare un gran colpo che, senza avere l'apparenza di urtare la Francia, soddisfacesse nello stesso tempo il desiderio di liberazione e di protezione onde erano animati i suoi sudditi. E ne venne la famosa spedizione a Tunisi del 1535, che egli poté compiere dopo aver abilmente costretto la Francia a non muoversi. Salvo Venezia, vi parteciparono quasi tutti gli stati italiani: in prima linea il nuovo papa Paolo III. Barbarossa fu cacciato da Tunisi; fu restaurato il re Mūlāy Ḥasan; lasciati presidî spagnoli alla Goletta; liberati per alcun tempo il Tirreno e il Mediterraneo occidentale dalle piraterie. Come coronamento, fu affidato il vicereame di Sicilia, che doveva fungere da baluardo contro gl'infedeli, all'energico capitano Don Ferrante Gonzaga.

Passato in Sicilia e a Napoli, visitato il nuovo papa a Roma nella Pasqua del 1536, senza poterlo costringere a deflettere dalla politica di neutralità che aveva inaugurato, l'unica atta in quel momento a raffrenare gli appetiti spagnoli, Carlo, nell'estate, attaccò la Francia, invadendo la Provenza. Rispondeva in tal guisa all'invasione del Piemonte fatta dal re francese. Non appena morto, il 1° novembre 1535, l'ultimo duca di Milano Francesco II Sforza, senza eredi, si era aperta la questione della successione, per la quale il re di Francia accampò senz'altro le sue pretese, nonostante le rinunce anteriori. Prima di entrare in guerra, l'imperatore aveva enunciato i suoi propositi in un bellicoso discorso tenuto a Roma, di sorpresa, alla presenza del papa e del mondo ufficiale: discorso che è uno degli esempî più clamorosi di propaganda e d'intimidazione del tempo. Aspra requisitoria contro Francesco I, in sostanza rappresentò per lungo tempo - e l'impressione fu enorme dappertutto - il programma e i disegni di Carlo. La guerra peraltro fu disastrosa per quest'ultimo: onde nel 1538 egli accettò l'intervento di Paolo III e sottoscrisse una tregua di 10 anni a Nizza, che nel suo pensiero gli doveva dare la possibilità di riorganizzarsi per un nuovo colpo.

In quest'occasione egli concesse in moglie ad Ottavio Farnese, nipote del papa e ancor bambino, la figlia naturale Margherita, giovanissima essa pure e già vedova di Alessandro de' Medici, 1° duca di Firenze. Come il primo matrimonio aveva mirato a consolidare i Medici con l'obbedienza alla Spagna, egual mira avrebbe dovuto avere il secondo per i Farnesi. Ma il disegno fallì. Intenzione del papa era di equilibrare le forze europee stabilmente, per poter affrontare il problema religioso, per tener quieta l'Italia e allontanarle possibili iatture, e insieme compiere una specie di crociata contro i Turchi. Si concordò a questo proposito una lega cristiana fra l'Impero, la Spagna e varî stati italiani, compresa Venezia, che vi si lasciò indurre (1538). Il comando della guerra fu affidato ad Andrea Doria, che però nel 1538 stesso, ai 27 settembre, si lasciò cogliere alla Prevesa e, a causa del maltempo, dovette ritirarsi precipitosamente, dando la funesta impressione d'essere stato battuto, anzi d'essere fuggito. Il risultato fu che, nonostante posteriori grandiosi programmi d'azione, prima Venezia fece pace nel 1540, malamente; poi, lo stesso imperatore accettò delle tregue che furono rinnovate negli anni seguenti, ripetutamente. Così falliva ogni disegno antiturco: e poiché non si può pensare che C. non ne comprendesse il danno, si deve ritenere che fosse indotto a tale politica da esigenze finanziarie e tecniche, e prima di tutto dall'impossibilità d'impegnarsi a fondo e per anni, senza mettere in pericolo tutta la fronte occidentale.

La guerra si rinnovò una quarta volta fra Carlo e Francesco dal 1542 al 1544, con l'intervento anche dei Turchi in aiuto dei Francesi (assalirono e devastarono Nizza, 1543). E anche ora, come del resto dopo, il pomo della discordia fu Milano, che naturalmente Carlo non poteva cedere senza colpire gravemente l'equilibrio di tutti i suoi stati, la sua preminenza in Italia e la stessa possibilità di comunicazioni dirette fra la Germania, l'Italia, il mare e la Spagna. Nel 1542 Carlo ne investì il figlio Filippo, al quale poi doveva lasciare tutti i territorî della Spagna e sue dipendenze: altro segno che, fino allora, egli aveva in mente l'unione degli stati latini. A nulla valsero i tentativi, quasi solo sostenuti dal papa, di far attribuire Milano a un principe italiano (alcuni dissero a un nipote, Ottavio Farnese): Carlo, coerente a quanto già da tempo gli avevano suggerito i suoi Consigli, non intese mai deflettere. E se nella pace di Crespy (1544), che su per giù rimetteva le cose come erano, e nella quale si rinnovavano le rinunzie di Francesco, si lasciava intravedere la possibilità di rimettere in discussione questa materia, a favore del duca d'Orléans (che del resto morì nel 1545), in cambio di compensi, ciò non fu che un artificio diplomatico.

Dopo la pace di Crespy, Carlo volse la sua attenzione più specialmente alle cose di Germania. Prima, circa il 1520, querele di frati e passioni scatenate, ma non un programma; ora, dovunque nuove organizzazioni, cioè luterane; grandi trasformazioni sociali ed economiche; numerosi stati divenuti protestanti e gli stessi cattolici vacillanti ed ostili per varie ragioni a papa e imperatore. Dal 1531 s'era formata la lega di Smalcalda, potente, alla quale fu contrapposta una discorde lega cattolica, tanto debole quanto tarda. Impossibile prender di Ironte tanta forza; d'altro canto occorreva agire. Ecco allora un periodo di tentativi di conciliazione, o almeno di assestamento provvisorio, nel quale Carlo ebbe, in un primo tempo, l'appoggio di Paolo III, desideroso, se possibile, di giungere veramente a una conclusione. Sospeso pertanto il concilio che Paolo III aveva concesso, indetto prima a Mantova nel 1537 e poi revocato, e convocato poi a Vicenza (1538), si ebbe nel 1541 un convegno a Ratisbona. Ma l'accordo non fu possibile. La S. Sede volle togliersi da ogni responsabilità e richiamò il legato, card. Contarini: onde, pur stabilendosi per amor di quieto vivere dei compromessi provvisorî in Germania, d'ora innanzi le due politiche del papa e dell'imperatore in materia religiosa divergono. Roma diventa sensibilmente più intransigente, anche per il sopravvento in essa di elementi più rigidi, come i cardinali Carafa ed altri; Carlo, invece, premuto dalle contingenze varie della sua complessa politica, temporeggia. Fu convocato dal papa il concilio a Trento, e aperto definitivamente il 1545; ma esso, in quel momento non gradito all'imperatore, che prima lo aveva domandato insistentemente, fu continuamente inceppato dalle inframettenze dei rappresentanti laici, in un modo che oggi sembra eccessivo. Gli è che nel 1546 Carlo credette giunto il momento di sviluppare definitivamente l'offensiva contro i protestanti, supponendoli diminuiti di forza e di concordia, ed essendo riuscito ad accaparrarsi alcuni dei più notevoli di loro, come Maurizio di Sassonia. A una lega da lui proposta e attuata nel 1546 contro i protestanti, e a una guerra che si svolse anche nel 1546 e che ebbe il nome di campagna del Danubio (Donaufeldzug), il papa aderì volontieri con uomini e denari: e fu un'azione abbastanza difficile e costosa, che culminò nella vittoria di Mühlberg (1547) e nella cattura dei capi ribelli. Sennonché, già prima della vittoria il papa s'era staccato, comprendendo che rapidamente la guerra si tramutava di religiosa in politica e civile, e che Carlo, attraverso lo scopo o il pretesto religioso, mirava a colpire gli autonomisti germanici: il che non poteva essere né gradito né favorito dalla S. Sede, anche nei riguardi dell'Italia. Donde una tensione che durò sino alla morte del papa (1549) e poi anche contro la sua famiglia e che si espresse nelle minacce e nel tono burbanzoso assunto in Italia dagli ambasciatori cesarei. Vi si aggiunge il doloroso episodio dell'uccisione avvenuta per tacito consenso di Carlo nel 1547, di Pier Luigi Farnese, fatto duca di Parma e di Piacenza nel 1545 dal pontefice suo padre, e che indubbiamente stava per divenire uno dei più forti ostacoli alla dominazione spagnola in Italia.

Dopo Mühlberg, Carlo, comprendendo che meglio era mettere subito quiete nelle cose, tentò un accordo; e non potendolo avere con l'aiuto del papa (che intanto di fronte alle inframettenze imperiali aveva nel 1547 trasferito il concilio a Bologna, per renderlo più libero, senza pur riuscirvi, perché nel 1548 fu costretto a sospenderlo a tempo indefinito), fece comporre una specie di convenzione (l'interim), con alcune forti concessioni religiose ai protestanti, che prelude alla pace di Augusta del 1555. L'accordo suscitò naturalmente clamorose proteste a Roma. In sostanza il disegno riposto d' introdurre in Germania l'accentramento monarchico falliva: né Carlo poté più pensare a riprendere la lotta. Il protestantesimo aveva troppo dilagato; e la stessa lega di Smalcalda, fiaccata un momento, accennò a rinvigorirsi e riprese le armi. A Carlo venne a mancare anche Maurizio di Sassonia che si unì con Enrico II di Francia (succeduto nel 1547 al padre), il quale aveva ripreso un'abile ed energica attività antimperiale. Ne venne una nuova guerra, in seguito alla quale (1552) i tre vescovadi lorenesi Metz, Toul, Verdun, furono occupati dai Francesi, che poi ritennero Metz. Per fortuna di Carlo, che nel 1552 per poco non cadeva prigioniero del duca e a stento si era salvato fuggendo precipitosamente da Innsbruck, Maurizio moriva nel 1553.

Da questo momento, l'imperatore dà non indubbî segni di stanchezza. Ritirato a Bruxelles (che fu negli ultimi anni la sede della corte), lascia al fratello Ferdinando la cura di comporre le cose in Germania; e a costui riesce infatti di raggiungere una pacificazione di una certa durata, in materia religiosa anzitutto, con la Confessione di Augusta (1555). A Bruxelles, nel 1556, si compì un atto solenne, quasi il riconoscimento che gli scopi massimi del programma eran falliti; l'abdicazione di Carlo V in favore di Filippo II. Dopo l'abdicazione Carlo si ritirò in Spagna, nel monastero di S. Giusto; non, come spesso si è detto, in qualità di monaco, ma di semplice privato. Eppure, continuò ad occuparsi, spesso in modo decisivo, degli affari. A S. Giusto egli morì nel 1558.

Difficile è dare un giudizio sopra un uomo di stato come C. L'immensità, la complessità e insieme la contemporaneità di molti, dei troppi problemi da lui affrontati rendevano pressoché impossibile un risultato in grande. I contrasti degl'interessi, tanto di quelli esterni, quanto, e più ancora, di quelli esistenti o formatisi entro l'ambiente dei suoi stati, furono troppo forti. La genialità, l'abilità di Carlo V non erano pari alla grandezza di questi problemi. Ma egli ebbe tenacia, ardire, volontà; ebbe soprattutto un senso del dovere che lo spinse anche oltre i limiti imposti dalle opportunità. Non fu semplice ambizione quella che lo animò nella sua più che ventennale lotta contro la Francia; ma convinzione profonda che fosse assolutamente necessario limitarne la potenza ai confini tradizionali. Nessun odio egli aveva contro la Francia e i Francesi: anzi egli stesso per quasi tutta la vita parlò e scrisse a preferenza francese, si circondò di uomini quasi sempre nati o cresciuti in Francia o vissuti sotto l'influenza francese (Gattinara, Granvelle, ecc.). Gli fece difetto certamente la conoscenza diretta dei suoi popoli e dei suoi stati: in quanto non fu veramente né tedesco, né italiano, né spagnolo. Così, se finì col dare la preferenza alla Spagna (e ciò più per l'influsso dei suoi ministri spagnoli che per altro), ne trascurò d'altra parte i bisogni e non ne seppe praticamente tutelare lo sviluppo commerciale ed economico: lui, che pure aveva un singolare e geniale presentimento di ciò che in proposito sarebbe stata in futuro l'America. In Italia non comprese il travaglio dei varî stati e delle loro popolazioni, mirando solo a deprimerli e a metterli sotto tutela; né comprese la delicata posizione dei pontefici, che erano anche sovrani temporali e italiani e non potevano pertanto non preoccuparsi dell'invadenza straniera. Nelle relazioni religiose, poi, egli pretese da Roma una acquiescenza e un'obbedienza addirittura inaudite, non vedendo che egli stesso compiva quello che rimproverava ai papi, cioè sottomettere gl'interessi religiosi ai suoi interessi politici, e che in tal modo legittimava la reazione dei pontefici. Neppure in Germania comprese a tempo il profondo rivolgimento morale che accompagnava quello politico; e si preoccupò del primo, piuttosto riguardandolo come un aspetto secondario del movimento autonomista e quindi svalutandolo, mentre i principi tedeschi non avevano creato il movimento religioso ma ne sfruttavano le forze. Alcuni oggi non credono a un disegno prestabilito d'accentramento monarchico in Germania, e più ancora a una politica e a un programma costante. La questione è tuttora insoluta, ché, ad onta dell'enorme letteratura sull'imperatore e sui suoi tempi, molto v'è ancora da studiare, sia sui documenti spagnoli di Simancas, sia su tutti gli atti emanati in Germania. Finalmente, anche coi Turchi non seppe o non poté mantenere una linea direttiva costante: non quindi impedire che nel 1540 essi occupassero definitivamente l'Ungheria e che per mare divenissero i padroni del Mediterraneo. (V. tav. XIII).

Fonti: Non è possibile indicare se non quelle fonti che direttamente riguardano la personalità di Carlo V: ché per tutte le notizie e i giudizi contenuti in scritti di argomento generale, bisogna rinviare alla storia degli stati di lui (v. spagna; germania; paesi bassi; italia).

Lavoro di fondamentale importanza per la valutazione della storiografia su C. è quello di A. Morel-Fatio, Historiographie de Charles-Quint, I, Parigi 1913 (è l'unica parte pubblicata, disgraziatamente). Altri lavori si occupano della storiografia su C., per particolari periodi: ricordiamo quello di C. A. Hoefler, Zur Kritik und Quellenkunde der ersten Regierungsjahre Kaiser Karls V., in Denkschr. d. Wiener Akademie, 1876, 1878 e 1883 (per altri, cfr. B. Sánchez Alonso, Fuentes de la historia española e hispano-americana, 2ª ed., Madrid 1927, n. 4709 segg.).

Principali fonti documentarie: Staat-Papiere zur Geschichte des Kaisers Karl V., ed. da K. Lang, Stoccarda 1845; Korrespondenz des Kaisers Karl V., ed. da K. Lang, voll. 3, Lipsia 1844-46; Aktenstücke und Briefe zur Geschichte Kaiser Karl V., ed. da K. Lang, in Monumenta Habsburgica, serie 2ª, I, Vienna 1853; Correspondance of the Emperor Charles V and his embassadors, pubbl. da W. Bradford, Londra 1850; Retraite et mort de Charles-Quint au Monastère de Yuste. Lettres inédites ecc., pubbl. da M. Gachard, voll. 2, Bruxelles 1854-55; Correspondance de Charles Quint et d'Adrien VI, ed. da M. Gachard, Bruxelles 1859; Dokumente zur Gesch. Karls V., Philipps II., und ihrer Zeit, pubbl. sotto la direzione di J. J. v. Döllinger, Ratisbona 1862; Correspondencia del Cardenal de Orma con Carlos V y con su seculario don Francisco de los Colos, in Colección de documentos inéditos para la historia de España, XIV e XCVII; El Emperador Carlos V y su corte (1522-1539), Cartas de don Martín de Salinas, pubbl. da A. Rodríguez Villa, Madrid 1903; Recueil des lettres de Charles Quint, conservées dans les archives du palais de Monaco, pubbl. da L. H. Labande, Parigi 1910. Ma si vedano anche i Papiers d'état du cardinal de Granvelle, I-IV, Parigi 1841-49 (in Collection de documents inédits de l'histoire de France); e nei Calendars, Rolls Series, l'imponente massa di documenti pubbl. da S. A. Bergenroth e P. de Gayangos, Spanish State Papers, Londra 1866 segg. (finora sono pubbl. 9 voll., sino al 1553).

Menzioneremo inoltre L'instruction de Charles-Quint à son fils Philippe II, donnée à Palamós le 4 de mai 1543, pubbl. da A. Morel-Fatio, in Bulletin hispanique, I, Bordeaux 1899, pp. 135-148 (Instrucciones y consejos del emp. Carlos V a su hijo Felipe II al salir de España en 1543, pubbl. da F. de Laiglesia, Madrid 1908). Sulla intricata questione del testamento politico, cioè delle istruzioni che C. avrebbe dato al figlio Filippo nel consegnargli il governo (pubbl. prima in trad. francese da A. Theissier, Instructions de l'empereur Charles V à Philippe II ecc., Berlino 1699; poi, in testo tedesco, da B. Stübel, Die Instruktion Karls V. für Philipp II. vom 25 Oktober 1555, in Archiv für österreichische Geschicte, XCIII (1905), pp. 181-248), cfr. B. Stübel, in Mittheil. d. Institute f. österr. Geshichtsforschung (1901-1902); E.W. Mayer, Das politische Testament Karls V. von 1555, in Hist. Zeitschrift, CXX (1919), pp. 452-94; J. K. Mayr, Das politische Testament Karls V., in Histor. B ätter, I, Vienna 1921, pp. 218-251.

Delle fonti narrative, particolar rilievo meritano i Commentarii dettati dallo stesso C. al segretario van Maele, che scriveva in latino. L'originale è perduto; resta una versione portoghese, che fu pubblicata la prima volta, con una nuova traduzione francese, da A. Morel-Fatio, in appendice al lavoro cit. Historiographie de Charles-Quint. Delle altre edizioni ricorderemo la prima in francese di Kervyn de Lettenhove, Bruxelles 1862.

Cronaca base fu per molto tempo quella di P. de Sandoval, Historia de la vida y hechos del Emperador Carlos V, voll. 2, Pamplona 1614-1618 (n. ed., voll. 9, Madrid 1856-57), che però è stata molto sopravalutata. Di recentissima pubblicazione è la Crónica del emperador Carlos V di Alonso de Santa Cruz, pubbl. da A. Blázquez y Delgado-Aquilera e R. Beltrán y Rozpide, voll. 5, Madrid 1920-25. Pure di recente pubblicazione è la Historia de Carlo Quinto di P. Mejía, pubbl. da J. Deloffre in Revue Hispanique (Parigi), XLIV (1918), pp. 1-564; e gli Annali di F. Lopez de Gomara, trad. in inglese dal Merriman, Annals of the emperor Charls V, Oxford 1912. V. anche A. Ulloa, La vita dell'invitissimo... imp. Carlo V, Venezia 1560; L. Dolce, Vita dell'imperador Carlo Quinto, Venezia 1561.

Bibl.: È immensa; qui diamo le opere principalissime, rinviando alla bibl. raccolta (se pure non completa) da F. de Laiglesia nel vol. I dei suoi Estudios históricos (1515-1555), voll. 2, Madrid 1908-1919, e al Sánchez Alonso, op. cit.

Fra i grandi lavori complessivi oltre all'opera di W. Robertson, The history of the Reign of the Emperor Charles V, voll. 3, Londra 1769 (conosciutissima - ne esistono molte traduzioni, anche italiane), merita il primo posto quella di H. Baumgarten, Geschichte Karls V., voll. 4, Stoccarda 1885-1892 (non completa, ma, per certi riguardi, la monografia più importante oggi, sebbene anch'essa tutt'altro che soddisfacente); W. H. Prescott, The History of Charles the Fifth, voll. 2, Londra 1897; E. Armstrong, The emperor Charles V, voll. 2, Londra 1902 (di carattere meno strettamente scientifico); K. Haebler, Regierung Karls I, Gotha 1907 (è il vol. I della sua Geschichte Spaniens unter den Habsburgern, nella Allgemeine Staatengeschichte del Lamprecht); Chr. Hare, A great emperor, Charles V, New York (1917). Più limitata nell'argomento, ma tuttora di notevole valore, per chiarezza di vedute e sicurezza d'informazione, e tale da costituire uno de' migliori lavori su C., è l'opera di G. De Leva, Storia documentata di Carlo V, in correlazione all'Italia, voll. 5, Venezia 1863-1881.

Su problemi particolari ricorderemo solo i lavori recenti di R. Haepke, Die Regierung Karls V. und der europäische Norden, Lubecca 1914, e di A. Walter, Die Anfänge Karls V., Lipsia 1911. Per le relazioni coi protestanti v. ancora W. Maurenbrecher, Karl V. und die deutschen Protestanten, 1545-1555, Düsseldorf 1865; H. Baumgarten, karl V. und die deutschen Protestanten, Halle 1889; F. Hartung, Karl V. und die deutsche Reichstände von 1546-1555, Halle 1910; P. Heidrich, Karl V. und die deutschen Protestanten am Vorabend des Schmalkaldischen Krieges, Francoforte 1911. Per le relazioni col papato: Pastor, Storia dei papi, IV, V, VI; C. Capasso, Paolo III, voll. 2, Messina 1925 (serve anche per le relazioni generali con gli stati italiani). Per quelle con la Francia, F. Mignet, Rivalité de François Ier et de Charles-Quint, voll. 2, Parigi 1875. Per lo studio dei criterî politici di Carlo V, da segnalare specialmente gli scritti sostanziosi di E. Gossart, Charles-Quint et Philippe II, in Mémoires couronnés par l'Académie royale de Belgique, LIV; id., Notes pour servir à l'histoire du règne de Charles-Quint, ibid., LV; id., Charles-Quint roi d'Espagne. Suivi d'une étude sur l'apprentissage politique de l'empereur, Bruxelles 1910. Per la corte, A. de Ridder, La cour de Charles-Quint, Bruges 1889. E infine, per seguire l'imperatore nei suoi innumerevoli viaggi, il grosso volume di M. Foronda y Aguilera, Etancias y viajes de Carlo V, Madrid 1914, con supplemento in Boletín de la Real Academia de la Historia, LXVI (1915), pp. 540-552.

Sulla vita dei varî domini di Carlo V, v. la bibl. annessa ai singoli articoli (germania; paesi bassi; italia; spagna). Ci limitiamo a ricordare per le questioni di Spagna: C. von Höfler, Der Aufstand der castillianischen Städte gegen Kaiser Karl V., Praga 1876; F. de Laiglesia, Organización de la hacienda en la 1a mietad del s. XVI, in Estudios históricos cit., II (nel vol. I sono altri studî, varî). Per l'Italia, M. Formentini, La dominazione spagnola in Lombardia, Milano 1881; A. Visconti, L'amministrazione dello Stato milanese, Milano 1911. Per i Paesi Bassi, J. S. Theissen, De regeering van Karel V in noordelijke Nederlanden, Amsterdam 1912; A. Walther, Burgundische Zentralbehörden unter Maximilian I. u. Karl V., 1909. Per la Germania v. ancora L. v. Ranke, Deutsche Geschichte im Zeitalter d. Reformation, ultima ed., voll. 6, Berlino 1926.

Per i rapporti con le colonie americane v. soprattutto Cl. Haring, Trade and navigation between Spain and the Indies, Cambridge U. S. 1918; J. Becker, la política española en las Indias, Madrid 1920; J. B. Terön, El nacimiento de la América española, Tucuman 1927 (per altre indicazioni, v. america, p. 945 segg.). E in genere v. Merriman, The rise of the Spanish Empire in the New and Old World, 1918.

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