PORTA, Carlo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 85 (2016)

PORTA, Carlo

Claudio Milanini

PORTA, Carlo. – Nacque a Milano il 15 giugno 1775, da Giuseppe e da Violante Gottieri. Il padre (1728-1822) discendeva da una famiglia cittadina benestante ed era un funzionario dell’Impero d’Austria, giunto al grado di cassiere generale del Monte di Santa Teresa (cioè del banco statale). La madre (1744-1785) era una donna pia, con un parentado in cui abbondavano i membri del clero; aveva già dato alla luce due maschi, Baldassarre (nato nel 1766) e Gaspare (nato nel 1770), oltre a tre femmine che però si erano spente appena nate o poco dopo (uguale sorte sarebbe toccata ad altre due sorelle, minori di Carlo).

Restato orfano di madre nel dicembre 1785, venne mandato a studiare a Monza, nel Regio imperial collegio de’ convittori, condotto da ex gesuiti. Qui, a partire dal 7 febbraio 1786, seguì i corsi di grammatica, di umanità e di retorica con risultati complessivamente brillanti, come attesta anche il diploma di arcade da lui ottenuto (nel collegio era stata istituita un’accademia aggregata all’Arcadia romana). Lasciò il collegio dopo sei anni e mezzo, il 16 agosto 1792. Tornato a Milano, si iscrisse – secondo la testimonianza indiretta di Tommaso Grossi – come allievo esterno e laico al corso di filosofia del Seminario, ma in ossequio alla volontà del padre fu costretto a troncare gli studi e a intraprendere la carriera amministrativa.

Sugli anni della giovinezza sono giunte poche notizie. Sappiamo che scrisse componimenti – perduti – in latino e in italiano, e che nel 1795 provò a tradurre in milanese l’ode A Silvia di Giuseppe Parini.

L’unica opera pervenuta di questo periodo è il primo dei due almanacchi in milanese pubblicati anonimi sul finire del 1792 e del 1793, intitolato El Lava piatt del Meneghin ch’è mort: comprende raccontini in sestine (uno per mese) e un sonetto conclusivo, oltre a brevi passi in prosa dedicati alle quattro stagioni e a una prefazione in cui si citano Carlo Maria Maggi e Domenico Balestrieri.

Scarso il valore, ma assai significativa la compresenza di registri contrastanti. Da un lato l’autore diciassettenne lascia trasparire in modo esplicito la sua intenzione di raccogliere l’eredità di una tradizione dialettale colta e raffinata, dall’altro presenta scenette burlesche di tenore popolareggiante, non senza indulgere a facezie coprolaliche.

Con l’arrivo dei francesi a Milano, la famiglia Porta subì inevitabili traversie. Giuseppe venne licenziato e vide intaccata, sia pure in misura ridotta, la sua posizione finanziaria. Baldassarre, fervido austriacante e reduce da un matrimonio sfortunato, riparò a Venezia. Carlo, dopo un soggiorno in Brianza forse collegato a qualche lavoro subalterno, raggiunse il fratello primogenito verso la fine del 1798 e prese anche lui servizio come impiegato presso l’Intendenza di finanza. Le lettere inviate nei mesi successivi a Gaspare, restato a Milano, parlano di difficili rapporti con Baldassarre e di ristrettezze economiche non alleviate dagli scarsi soccorsi pecuniari del padre. A Venezia Porta ebbe modo di coltivare l’amore per una nobildonna separata dal marito, Andriana Diedo Corner, e di frequentare attori e poeti, tra i quali Luigi Lamberti e forse Francesco Gritti; sembra anche che componesse versi in veneziano.

Tornò a Milano alla fine di settembre del 1799 e per alcuni mesi, sotto il restaurato governo austriaco, fu addetto al protocollo dell’Intendenza generale delle finanze di Lombardia ma, dopo la vittoria di Napoleone a Marengo, dovette lasciare il posto. Accettò allora vari contratti a termine, lavorando per imprese appaltatrici di forniture militari come amministratore, cassiere, capo della corrispondenza; verso la fine del 1802 entrò non senza riluttanza nella ditta bancaria che il padre era riuscito ad aprire, e per la quale già lavorava Gaspare; infine riuscì a essere riassunto nell’Amministrazione statale: a metà ottobre del 1804 divenne sottocassiere di quell’Ufficio di liquidazione del debito pubblico che, fondato da Francesco Melzi d’Eril poco dopo la nascita della Repubblica italiana, sarebbe stato poi ribattezzato Monte Napoleone. Coltivò intanto un nuovo legame amoroso con la moglie di un ingegnere, Luigia Mainardi Vertemati, presso la villa della quale, a Blevio sul lago di Como, trascorse felici periodi di vacanza.

L’inizio del nuovo secolo lo vide partecipare attivamente alla vita culturale e civile della sua città. Vero è che sul finire del 1800 aveva declinato, forse per eccesso di modestia, la nomina a membro dell’Accademia letteraria presieduta da Vincenzo Lancetti e che si era dimesso, adducendo motivi di salute, dalla Guardia nazionale. Ma già nei mesi successivi divenne socio della compagnia del teatro Patriotico; ne calcò anzi le scene per quattro anni, facendosi conoscere come ottimo attore, interprete eccellente di parti non solo comiche (recitò anche a fianco della moglie di Vincenzo Monti). In questo ambiente engagé, pur rimanendo alieno da ogni estremismo (il Patriotico era stato fondato nel 1796 da intellettuali di simpatie giacobine), ebbe modo di approfondire l’adesione a ideali di stampo illuministico. Tra gli amici più importanti, oltre a Lancetti: Giuseppe Bossi; Angelo Petracchi, poligrafo, deputato, grande organizzatore in campo sia teatrale sia economico; Carlo Casiraghi, funzionario, socio assai attivo del Patriotico, amico di Vincenzo Monti; Giuseppe Prina.

L’esperienza teatrale fu fondamentale anche per la ripresa poetica. I più interessanti fra i testi composti a inizio secolo già si incardinano sulla personificazione di un’alterità: Porta mise i suoi versi in bocca a personaggi dotati di proprie caratteristiche mentali, psicologiche, fabulatrici. Ciò vale sia per i Paricc penser bislach d’on Meneghin repubblican, risalenti al 1801-1802, sia per quei travestimenti dialettali dei primi canti dell’Inferno a cui si dedicò con paziente labor limae specie fra il 1803 e il 1805. Nei Paricc penser, giunti nella forma di una sequenza di cinquantanove versi metricamente irregolare e priva della conclusione, viene rivissuta l’amara esperienza di un giovane ingenuo che vede traditi gli ideali di libertà e di giustizia proprio da coloro che se ne proclamano paladini. Nelle estrose ottave dei travestimenti danteschi l’aldilà appare visitato da un alter ego stupefatto che cerca di ricondurre ogni cosa a una misura quotidiana, con effetti comici a tratti irresistibili.

Il 23 agosto 1806 Porta sposò la ventottenne Vincenza Prevosti, vedova di Raffaele Arauco, con la quale prese residenza nel centro di Milano, in contrada degli Omenoni e poi in contrada del Monte, dove si trasferirono nel 1811. Dal matrimonio nacquero tre figli (più un quarto morto ancora infante): Giuseppe nel 1807, Anna Alessandrina nel 1811, Maria Carolina Violante nel 1816.

Negli intervalli lasciati liberi dal lavoro e dagli altri impegni il poeta continuò per quasi tutto il secondo lustro dell’Ottocento a saggiare la propria vena in più direzioni, passando dal raccontino in versi all’epigramma, dalla satira allo scherzo erotico. Destinati a essere recitati ad alta voce e a circolare manoscritti (unica eccezione conosciuta un sonetto per nozze, apparso su un foglio volante), i versi di questo periodo sembrano rispondere, con poche eccezioni, a una passione scrittoria coltivata senza troppe pretese, per il diletto proprio e di ristrette cerchie di destinatari.

A presentare finalmente a un largo pubblico un suo componimento si decise nell’aprile 1810, in occasione delle nozze di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. Affidò allora a Giovanni Berchet l’incarico di seguire la stampa di un Brindes de Meneghin nel quale l’elogio degli sposi si intrecciava con la celebrazione dei vini prodotti in Lombardia e soprattutto con l’auspicio che il matrimonio fosse prodromo di una pace duratura. Già quattro anni prima, quando Eugenio di Beauharnais si era insediato come viceré a Milano, aveva scritto versi rivolti a chi deteneva il potere, offrendo collaborazione all’amico Bossi per la stesura di un Adress de Menegh Tandoeuggia al Prenzep Eugeni che dava voce a un diffuso desiderio di pace, di buon governo, di autonomia politica. Ora però usciva allo scoperto in prima persona, come poeta e come cittadino.

Il Brindes, uscito a spese dell’autore, annunciava la prima grande stagione creativa: a partire da questo torno di tempo (come risulta anche da acuminati sonetti che condannano con sferzante ironia la superstizione, il parassitismo, il militarismo, i burocrati corrotti), l’autore si lasciò alle spalle ogni timidezza, facendo propria l’eredità della tradizione lombarda di poesia civile.

In dicembre, per volontà del ministro Prina, venne promosso «aggiunto» al Pubblico Tesoro. La salute cagionevole e il desiderio di coltivare con più agio l’otium letterario lo spinsero però a chiedere di tornare al suo posto di vicecassiere: il nuovo ufficio comportava infatti un forte appesantimento dei carichi di lavoro, oltre alla necessità di qualche trasferta (l’epistolario dà testimonianza di un viaggio a Mantova in qualità di ispettore). Il 1° gennaio 1813 riprese servizio presso il Monte Napoleone (poi Monte lombardo-veneto); e qui avrebbe raggiunto, il 9 agosto 1814, quella carica di cassiere generale che era stata un tempo del padre.

Risalgono al triennio 1812-14 i primi poemetti di assoluto valore. Vari i metri, i registri, i generi. Ecco componimenti che celebrano i lumi e mettono alla berlina ceti parassitari e bigottismo, tramite un capovolgimento burlesco delle visioni alla moda (In mort del Consejer de Stat Cav. Stanislao Bovara, Ona vision) o per mezzo del rifacimento parodico di storielle edificanti secentesche (Fraa Diodatt, On miracol, Fraa Zenever). Ecco soprattutto, a intervallo di poco meno di due anni le une dalle altre, le Desgrazzi e le Olter desgrazzi de Giovannin Bongee, due monologhi attribuiti a un operaio nei quali si intrecciano magistralmente comico e patetico e che denunciano le prepotenze patite dalla povera gente.

Altri poemetti sopravvennero poi, entro i due anni seguenti, a dimostrare quanto fossero feconde queste vene poetiche. La satira ora giocosa ora tagliente dei collitorti, dei frati ignoranti, delle false credenze e di un uso distorto della religione trovò seguito in La messa noeuva, El viacc de fraa Condutt, On striozz, On funeral. La rivendicazione di una dignità comune a tutte le creature umane toccò il culmine in La Ninetta del Verzee e nel Lament del Marchionn di gamb avert: racconti di vita e d’amore tradito posti sulle labbra di una prostituta e di un suonatore sciancato, di ampio respiro e scevri da falsi pudori, da cui risulta in modo esemplare come i moti affettivi possano dispiegarsi con commovente ricchezza e sorprendente complessità a tutti i livelli della scala sociale.

Il crollo rapidissimo del Regno d’Italia e l’entrata a Milano, il 28 aprile 1814, delle truppe condotte dal generale Adam Albert von Neipperg non spezzarono il fervore creativo del poeta, che proprio a cavallo di quegli avvenimenti cominciò a trascrivere su quaderni (fra cui uno speciale in pergamena dedicato al figlio) i suoi versi. Non poteva peraltro, anche a causa della sua situazione professionale, manifestare apertamente i suoi sentimenti politici. Pur apprezzando le riforme giuridiche, amministrative e scolastiche volute da Napoleone, aveva assistito alle prepotenze e alle ruberie dei francesi; ora ascoltava con diffidenza le promesse di moderazione fatte dagli austriaci, ben sapendo quanto fossero pericolose le pressioni esercitate dagli esponenti più retrivi della nobiltà e del clero. Sdegno e timori gli dettarono subito un pugno di magnifici sonetti che ripose prontamente nel cassetto. Ma era ormai troppo famoso e non poté esimersi dall’accettare gli inviti ufficiali a rendere pubblico omaggio all’imperatore Francesco I, in occasione della venuta a Milano nel dicembre 1815 e dell’invito rivoltogli dal Teatro dei filodrammatici nel marzo successivo. Diede alle stampe un secondo Brindes de Meneghin e una canzone: e nel nuovo ditirambo riuscì a bilanciare l’ostentazione di lealtà con la sollecitazione a riconoscere l’eccellenza lombarda, mentre nella canzone non mancò di celebrare l’«ingegn italian» di Goldoni e Alfieri.

La morte di Giuseppe Bossi e l’aggiungersi agli impegni consueti del compito gravoso di curarne l’eredità non gli impedirono, nel 1816, di promuovere la nascita della Cameretta: una società di amici, letterati e alti funzionari che iniziarono a riunirsi in casa sua con cadenza settimanale (poi bisettimanale) per discutere di letteratura e di attualità. Frequentatori abituali furono, fra gli altri, Giuseppe Bernardoni (autore a sua volta di poesie in vernacolo), Giovanni Torti, Berchet, Ermes Visconti, Tommaso Grossi: e dal legame d’amicizia con quest’ultimo, allora ventiseienne, sarebbero nati anche testi scritti a quattro mani. Sempre in quell’anno trovò anche il tempo per replicare punto per punto, con una serie di sonetti sferzanti, a Pietro Giordani che sulla Biblioteca Italiana aveva assunto un atteggiamento critico nei confronti della letteratura dialettale. Intanto, stava preparando una raccolta delle sue poesie per la Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese promossa e curata da Francesco Cherubini (dodici volumetti, il primo dei quali aveva causato la condanna di Giordani): il libro portiano, primo e ultimo pubblicato vivente l’autore, uscì con il titolo Poesie come XII della Collezione nel maggio 1817, presso Giovanni Pirotta (quasi trecento gli associati, tra cui Alessandro Manzoni).

Furono esclusi sia i componimenti politicamente compromettenti e troppo scopertamente anticlericali, sia quelli che potevano dare scandalo per riferimenti o scene sessuali (tra i grandi poemetti furono perciò cassati Ona vision, Fraa Diodatt, On miracol, La Ninetta del Verzee); per ottenere il visto della censura, Porta aveva inoltre dato facoltà a Cherubini (lettera del 12 gennaio conservata autografa nella Biblioteca nazionale Braidense, n. 142 nell’epistolario edito da Dante Isella) di «togliere, aggiungere, e cangiare fino all’ultima virgola», cosicché erano state sostituite con eufemismi singole espressioni troppo crude o irriverenti. Cinquanta le poesie presentate. In apertura la versione del canto I dell’Inferno, in chiusura il Brindes per Francesco I: scelta significativa, ove si badi al fatto che in questo modo l’omaggio al sovrano occupava una posizione meno privilegiata del consueto. Entro questa cornice i componimenti erano raggruppati in sezioni metricamente omogenee, secondo una prassi comune nel Settecento e nel primo Ottocento; ma, va aggiunto, nell’ambito di ogni sezione la distribuzione era poi volta a dare un forte risalto ai testi più amati: le prime sestine e le prime ottave erano quelle dei due Bongee, i mille versi del Marchionn occupavano il centro fra le Odi e canzoni, le strofe in memoria di Bossi inauguravano la sequenza dei sonetti; e in penultima sede fra le Poesie varie, davanti a un madrigale giocoso che evitava una pericolosa contiguità con il Brindes, compariva un epigramma in cui si contrapponeva la denutrizione dei poveri agli sprechi dei ricchi, risalente a parecchi anni prima e tuttavia più che mai attuale.

Riconoscimenti ottenuti con le Poesie a parte, il 1817 fu un anno amaro. In gennaio sia Grossi sia Porta furono infatti oggetto di indagini poliziesche a causa delle voci che attribuivano loro la paternità della Prineide, poemetto dialettale in cui si immaginava che Giuseppe Prina – risorto dalla tomba dopo aver subito il linciaggio dell’aprile 1814 – condannasse il malgoverno austriaco. Alla fine Grossi si dichiarò autore dell’opera e riuscì a evitare gravi conseguenze: poiché la Prineide circolava clandestina ormai da mesi, poté sostenere che non tutto era farina del suo sacco e che qualche ignoto l’aveva appesantita. Porta venne scagionato, ma ricevette una solenne lavata di capo dal direttore di polizia Antonio di Raab per il fatto stesso di aver dato adito a sospetti. Giurò allora che non avrebbe mai più scritto un verso. Mantenne il giuramento per tutto l’anno e per buona parte del successivo, ma non riuscì a trattenersi da qualche strappo nel campo della polemica letteraria già durante l’estate seguente: l’accendersi della disputa classico-romantica lo spronò infatti a scrivere un antimitologico Sonettin col covon, mentre il parodistico Scherzo di conversazione scritto da Manzoni e Visconti lo spinse ad abbozzare una Apparition del Tass in difesa dell’autore della Gerusalemme liberata. Accettò inoltre, per via dell’amicizia che lo legava ad Angelo Petracchi, di comporre una comitragedia per il Teatro della Canobbiana in occasione del carnevale 1818: il testo – scritto con l’aiuto di Grossi e intitolato Giovanni Maria Visconti – venne però bocciato dalla censura.

Nel maggio del 1818 ottenne quattro settimane di licenza per motivi di salute e raggiunse Genova, dove da qualche tempo soggiornava la quasi certamente più che amica Anna Vernetti, rimasta vedova del fratello di Giuseppe Bossi. In ottobre Porta riprese in modo continuativo l’attività poetica, sentendosi ormai parte di un gruppo di intellettuali che intendevano reagire al clima della Restaurazione. L’acuirsi delle polemiche dopo l’uscita, in settembre, del Conciliatore lo indusse a iniziare la stesura dell’epistola in versi Il Romanticismo, costruita con una raffinata mescolanza di motti giocosi e osservazioni ben ponderate, destinata a essere resa pubblica in forma di plaquette nel febbraio successivo; non mancò poi né di replicare con beffarda ironia alle maldestre stroncature ricevute dall’Accattabrighe e da Carlo Gherardini, né di fiancheggiare con lucida verve gli amici (tra cui Manzoni) che ripudiavano i canoni dell’imitazione e battevano vie nuove.

Nell’arco di meno di due anni, tra l’ottobre del 1818 e il giugno del 1820, uscirono dalla sua penna quattro capolavori capaci di mettere alla berlina le idee reazionarie e i comportamenti retrivi della nobiltà e del clero senza mai cadere nel moralismo serioso. Nell’Epistola di Meneghin Tandoeuggia, nella Nomina del cappellan, in Offerta a Dio e nel Meneghin biroeu di ex monegh l’amarezza per il tradimento consumato dal governo austriaco nei confronti del riformismo settecentesco si riversò in una poetica del negativo che si affidava ad antifrasi ridicolizzanti, a dislocazioni multiple del punto di vista, al contrappunto dei registri linguistici.

Porta si calò con perfetto mimetismo nei panni di damazze, preti egoisti, figure prive di dignità rappresentandone dall’interno l’attività coscienziale con parole di fisica pregnanza. Abbandonando il genere della novella in versi proprio quando era diventato di gran moda (non è noto peraltro come si sarebbe dovuta sviluppare l’incompiuta Guerra di pret), chiamò in scena in Meneghin biroeu un ultimo personaggio del popolo non perché parlasse della propria vita, ma perché si facesse portavoce sdegnato di un desiderio di ribellione largamente condiviso.

Costretto a letto dalla podagra per più di un mese tra il maggio e il giugno del 1820 e poi nuovamente ammalatosi in novembre, Porta morì il 5 gennaio 1821 «di febbre gastrica» (così si legge nei registri della parrocchia milanese di S. Babila; documento riprodotto nel Ritratto dal vero di Isella, n. 278); dalla sua casa in contrada del Monte le spoglie furono portate al cimitero di San Gregorio (oggi distrutto).

Tommaso Grossi tenne l’orazione funebre e curò nei mesi seguenti una prima antologia postuma delle poesie (Milano, Ferrario). Sarebbe stato però necessario attendere altri cinque anni perché venissero stampati in barba alla censura, entro una Raccolta di poesie inedite in dialetto milanese di Carlo Porta, molti audaci capolavori: apparvero a Lugano, presso Vanelli, con la depistante indicazione «Italia 1826».

Opere. Il testo delle poesie a cui è ormai consuetudine fare riferimento è quello stabilito da Dante Isella (Le poesie, edizione critica, I-III, Firenze 1955-1956). A Isella si devono anche più edizioni riccamente commentate, la più completa e aggiornata tra le quali è uscita con il titolo Poesie, nuova ed. rivista e accresciuta, Milano 2000 (fornisce anche puntuali versioni in italiano, ma la distribuzione dei testi ubbidisce a un criterio che presuppone lettori agguerriti). Tra le recenti antologie con eccellente apparato (e ordinamento cronologico), oltre a quella a cura di Pietro Gibellini già citata, si segnala I poemetti, a cura di G. Bezzola, Venezia 1997. A Isella si devono la raccolta sia dei testi teatrali sia delle lettere: C. P. e il teatro, in R. Bacchelli et al., Un augurio a Raffaele Mattioli, Firenze 1970, pp. 201-244; Le lettere di C. P. e degli amici della cameretta, seconda edizione accresciuta e illustrata, Milano-Napoli 1989 (1967).

Fonti e Bibl.: Le carte di Porta si conservano per la maggior parte nella ricchissima Raccolta Portiana, istituita da G. Crespi nel 1909 presso l’Archivio storico civico di Milano; per la storia e per il catalogo dei manoscritti e delle stampe sono fondamentali le ricognizioni (1953-1999) riunite da D. Isella nel suo C. P.: cinquant’anni di lavori in corso, Torino 2003, pp. 57-192. Una Bibliografia delle edizioni portiane è stata curata da Liliana Orlando Cecco, Milano 1975; la più aggiornata bibliografia comprendente gli studi su Porta si legge in Poesie, a cura di P. Gibellini, traduzioni e note di M. Migliorati, Milano 2011, pp. LXXV-LXXX (si aggiungano: M. Novelli, Divora il tuo cuore, Milano. C. P. e l’eredità ambrosiana, Milano 2013; C. Milanini, Da P. a Calvino. Saggi e ritratti critici, Milano 2014, pp. 11-44).

Non sempre affidabile, ma ancora utile, poiché l’autore poté servirsi di documenti andati perduti durate la seconda guerra mondiale, è il profilo premesso da Raffaello Barbiera alla sua edizione delle poesie portiane, Firenze 1884, poi ampliato in C. P. e la sua Milano, Firenze 1921. Biografie moderne: G. Bezzola, Le charmant Carline. Biografia critica di C. P., Milano 1972 (poi riproposta con il titolo Vita di C. P. nella Milano del suo tempo, Milano 1980); D. Isella, Ritratto dal vero di C. P., Milano 1973 (testo corredato da documenti e preziosa iconografia; solo il testo è poi passato nel volume del 2003 citato, insieme con Le case di C. P.: pp. 5-53, 54-56). Sui rapporti con l’ambiente culturale si veda inoltre D. Isella et al., La poesia di C. P. e la tradizione milanese. Atti del convegno di studi organizzato dalla Regione Lombardia, Milano 1976.

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