BIENNALE

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

BIENNALE

Stefania Zuliani
Anna Cestelli Guidi
Livio Sacchi

Arte. Manifesta. Monumenta. Bibliografia. Sitografia. Documenta. Bibliografia. Architettura

Arte di Stefania Zuliani. – A partire dall’ultimo scorcio del Novecento, le b., caratterizzate innanzitutto dalla large-scale e dal respiro internazionale – oggi globale – della proposta espositiva, hanno conosciuto uno sviluppo esponenziale, dando vita in tutti i continenti a un’impressionante serie di rassegne periodiche che, al di là delle singolarità e delle specifiche caratteristiche, attestano come il contemporaneo trionfo del valore espositivo trovi proprio nelle b. la sua espressione più convincente ed efficace. Così negli anni Novanta del secolo scorso – ovvero, secondo una lettura politica del fenomeno, «dopo il 1989» (Filipovic, Niemojewski, Vanderlinden, in The Manifesta decade, 2005, p. 21) – hanno avvio, in Europa, ma anche in Asia e nelle Americhe, numerosissime b. tra le quali quelle di Lione (1992), di Gwangju (1995), di San ta Fe (1995), di Shanghai (1996), di Berlino (1996), di Montreal (1998), di Liverpool (1999), in un crescendo che è proseguito ininterrotto nei primi anni del 21° sec.: nel 2001 è stata inaugurata la prima B. di Tirana, nel 2003 è stata la volta di Praga, risale al 2005 la prima edizione della B. di Marrakesh e della B. di Mosca, mentre nel 2007 è nata in Argentina la Biennal del Fin del mundo, nel 2012 in India ha fatto il suo esordio la B. di Kochi e nel 2014 in Thailandia la Pattaya Biennial, mentre per il 2016 è prevista la prima Honolulu Biennial. Si tratta di un’autentica Biennial fever, di cui dà conferma la nascita nel 2009 della Biennial foundation, il cui portale documenta costantemente l’incessante e persino frenetica attività delle b. che si rincorrono nel mondo, dando spazio anche a una sempre più urgente riflessione critica sul significato delle grandi rassegne periodiche come pure sul ruolo del curatore, figura professionale che si è definita e si è diffusa proprio in coincidenza con lo sviluppo mondiale delle b. (O’Neill 2007).

L’affermarsi di una specifica disciplina di studio, la ‘biennalogia’ (Filipovic, van Hal, Øvstebø, in The biennial reader, 2010), il cui oggetto di studio supera peraltro i confini dati dalla stessa definizione di rassegna con cadenza biennale, includendo anche mostre con una diversa periodicità (per es., Documenta), è ulteriore prova di come le b., a costo di una loro sempre più decisa istituzionalizzazione e, quindi, di un progressivo ridursi dell’eventuale potenziale innovativo, abbiano assunto un ruolo dominante nell’attuale scenario dell’arte. E ciò è avvenuto sia dal punto di vista della produzione artistica, non a caso caratterizzata da opere che si uniformano sempre più spesso a quella che Okwui Enwezor, curatore nel 1997 della B. di Johannesburg, nel 2002 di Documenta 11 e nel 2015 della B. di Venezia, ha definito «biennial scale» (Enwezor, in «MJ-Manifesta Journal», 2003-2004), sia nella prospettiva del rapporto con il pubblico, sempre più numeroso e internazionale, come confermano i dati relativi alle presenze, in crescita costante, di visitatori alle ultime edizioni della ormai antica B. di Venezia.

Nata nel 1895, oggi la b. veneziana è a tutti gli effetti un’istituzione di stabilità museale, un punto di riferimento riconoscibile nella topografia espositiva mondiale, avendo mantenuto nelle edizioni del nuovo secolo sostanzialmente inalterata la struttura originaria che, accanto alla mostra internazionale, affidata di volta in volta a un direttore (con l’eccezione, nel 2005, della doppia curatela di Maria de Corral e di Rosa Martinez, le prime donne a ricoprire questo incarico), prevede le rappresentanze nazionali le quali, oltre agli storici padiglioni ai Giardini, occupano sempre nuovi spazi, disseminandosi nel tessuto urbano. Una presenza, quella dei padiglioni nazionali, che, benché ripensata alla luce di una sempre maggiore globalizzazione della produzione e della circolazione dell’arte – e, del resto, sempre più frequenti sono i transiti e le contaminazioni all’interno delle singole sedi nazionali come attesta, per es., nel 2013 la grande installazione dell’artista cinese Ai Weiwei (v.) nel padiglione tedesco –, si conferma punto di forza della B. di Venezia. Le sempre più numerose rappresentanze nazionali, che nel 2011, in occasione della LIV B. diretta da Bice Curiger, sono state addirittura 89, hanno non solo documentato le trasformazioni geopolitiche dell’Europa, con la frantumazione, per es., della Iugoslavia o dell’URSS, ma hanno visto l’affacciarsi di Paesi finora assenti dalla scena artistica: va segnalato l’esordio, nel 2007, del padiglione africano, o, nel 2009, di quello degli Emirati Arabi Uniti, mentre nel 2013 è stato presente per la prima volta il padiglione dello Stato della Città del Vaticano. Un caso a parte quello del padiglione Italia, la cui sede storica ai Giardini ospita da tempo la mostra internazionale: dal 2007, dopo la discussa assenza nell’edizione 2005, il padiglione italiano è stato ricollocato alle Tese delle Vergini agli Arsenali, in una sede ampliata nel 2009.

Il proliferare delle nuove b. e il crescente consenso ottenuto da quelle storiche hanno sollecitato un’ampia riflessione da parte della critica contemporanea, che nell’analisi di questo fenomeno individua la pericolosa alleanza (sovrapposizione) tra esposizione e spettacolo. Si tratta di una combinazione in apparenza vincente che, forte del successo globale in termini di pubblico e di mercato, sembra però mettere a rischio l’incolumità delle opere, sempre più spesso coinvolte in concitate tournées espositive, e, soprattutto, la possibilità di interpretare la mostra come spazio di ricerca. Se nell’ambito della Bergen biennial conference, tenutasi nella città norvegese nel settembre 2009 in previsione dell’istituzione di una nuova b., si è ribadito il necessario valore culturale delle mega-exhibitions, sottolineando come le differenti b. debbano assumere il ruolo di piattaforme per lo scambio sociale e accentuando così i significati di mediazione e di confronto fra culture differenti di cui le mostre internazionali dovrebbero essere portatrici, in realtà va riconosciuto che le b. sempre più spesso si comportano come le grandi fiere internazionali (una per tutte, quella, ormai storica, di Basilea), di cui sovente ripropongono le dimensioni esorbitanti e le modalità espositive collaudate e rassicuranti.

Ciò non toglie che alla base dell’istituzione delle nuove b. ci siano motivazioni non sempre riducibili a mere ragioni di mercato: Yacouba Konaté, a proposito della ‘invenzione’ della B. di Dakar (1990), ha sottolineato, per es., come essa sia stata dettata dall’urgenza di modernizzazione da parte di un Paese ancora ai margini dello sviluppo globale (Konaté, in The biennial reader, 2010), così come è senz’altro vero che alcune b. sono nate con precisi e dichiarati fini ideologici (è il caso della B. dell’Avana), magari con l’intenzione di ottenere, attraverso l’ingresso nel sistema espositivo ufficiale dell’arte contemporanea, una postazione più in vista nello scacchiere mondiale o come reazione a un radicale mutamento politico, come accaduto per la B. di Johannesburg, che è stata istituita all’indomani della fine del regime dell’apartheid e ha così giocato un ruolo significativo nella creazione della nuova identità sudafricana (Marschall, in The biennial reader, 2010), o per Manifesta, la b. europea d’arte contemporanea, istituita con il supporto dell’Unione Europea per rispondere alla nuova condizione geopolitica generata della caduta del muro di Berlino.

Manifesta. – Quello di Manifesta, giunta nel 2014 alla sua decima edizione, rappresenta sicuramente un caso singolare, già a partire dal carattere itinerante della rassegna, le cui edizioni si sono finora svolte a Rotterdam (1996), Lussemburgo (1998), Lubiana (2000), Francoforte (2002), Donostia-San Sebastián (2004), Trentino-Alto Adige (2008), Murcia e Cartagena (2010), Limburg (2012), San Pietroburgo (2014). La b. europea, promossa dalla Fondazione Manifesta che ha sede ad Amsterdam, per statuto si pone l’obiettivo, non sempre raggiunto, di occupare criticamente spazi di conflitto o territori di contatto, evidenziando così nodi problematici di carattere sociale e politico. Emblematico, in questo senso, il caso della sesta edizione della rassegna, prevista a Cipro e poi cancellata per l’impossibilità di trovare un accordo tra i due Stati che tuttora si dividono, senza riconoscimento reciproco, il governo e il territorio dell’isola. Manifesta 6, che si sarebbe dovuta svolgere nell’autunno 2006 a Nicosia, con lo scopo di ricucire attraverso l’arte le due metà della capitale dell’isola, ancora sfigurata dal muro che separa la parte greco-cipriota da quella turco-cipriota, si è rivelata, nonostante il fallimento, un interessante laboratorio critico artistico ed educativo: in particolare, il Department 2, affidato alla cura di Anton Vidokle, artista e critico che aveva scelto per l’occasione di proporre non una mostra, ma una sorta di scuola d’arte sperimentale, un «sito super attivo di produzione culturale» (Vidokle, in Curating and the educational turn, 2010, p. 152), rappresenta, pur nel suo fallimento a Nicosia, un esempio significativo della vocazione sperimentale di Manifesta, che vuole proporsi soprattutto come uno spazio di ricerca rispetto a pratiche curatoriali ed educative non ancora convenzionali. Un intento che si esprime nella pubblicazione del «Manifesta Journal», periodico che raccoglie contributi critici organizzati di volta in volta attorno a precisi nuclei tematici: The revenge of the white cube era, per es., il tema del primo numero, pubblicato nel 2003, mentre l’ultima uscita della nuova serie, senza data e scaricabile on-line (www.manifestajournal.org/issues), è intitolata This situation never leaves our waking thoughts forlong, e analizza dalla prospettiva del sistema dell’arte aspetti di quella che gli editorialisti definiscono Cold war 2.0. Dell’ambizione di fare di Manifesta un laboratorio curatoriale si trova però riscontro soprattutto nelle proposte espositive di alcune passate edizioni della b.: nella settima, diffusa in più siti del Trentino-Alto Adige (Bolzano, Fortezza, Rovereto, Trento), dove la curatela era affidata ad Adam Budak, Anselm Franke/Hila Peleg e all’indiano Raqs Media Collective, o ancora più decisamente nell’edizione successiva, dove la questione, certamente urgente quanto complessa, del dialogo fra Europa e Nord Africa attraverso il Mediterraneo, è stata oggetto di interpretazione da parte di tre differenti collettivi curatoriali (Alexandria contemporary arts forum, ACAF; Chamber of public secrets, CPS; tranzit.org), a riprova di come la curatela collettiva si sia affermata negli ultimi anni come un campo di sperimentazione molto vivace (Collective curating, ed. V. Misiano, 2010). Affidata alla guida del curatore messicano Cuauhtémoc Medina, anche con Manifesta 9 ci si è proposti di prendere netta distanza dal «modello standard di biennale» (Manifesta 9. The deep of the modern, 2012, p. 25), ovvero da una produzione di grandi show che esprime esclusivamente letture orizzontali e istantanee dello stato dell’arte. Incrociando Gramsci e Adorno, Medina insiste sul carattere politico e conoscitivo della sua b., con la quale ha voluto affrontare un vero e proprio scavo archeologico del moderno. The deep of the modern è stato il tema di un’esposizione che, anche nella scelta di un’unica sede – l’ex complesso minerario di Waterschei, a Genk, nella regione belga di Limbourg –, ha inteso contrastare la diffusa tendenza delle b. a dilagare e disperdersi in infinite e talvolta inaccessibili locations, puntando piuttosto sulla concentrazione e l’approfondimento.

A contraddire la consueta inclinazione di Manifesta alla ricerca di nuove modalità curatoriali ed espositive è stata però l’edizione 2014, curata da Kasper König a San Pietroburgo. Coinvolta nelle trionfali celebrazioni dei 250 anni dell’Hermitage, la b. – una «Manifesta senza manifesto» come ha dichiarato nel catalogo lo stesso curatore (Manifesta 10, ed. K. König, 2014, p. 24) – ha lavorato quasi esclusivamente all’interno degli spazi imponenti dell’Ermitage (il palazzo d’Inverno, il nuovo Ermitage e il General staff building), creando con essi un rapporto convenzionale e finendo così per smussare anche le asprezze polemiche che hanno preceduto e accompagnato la manifestazione, per la quale da più parti era stato chiesto il boicottaggio a causa della politica del governo russo rispetto ai diritti civili e alla crisi in Ucraina. Una decisa scelta in senso istituzionale che Viktor Misiano, presidente della Fondazione Manifesta, ha rivendicato come il necessario cambiamento di stato di una b. non più giovane che, dopo aver esplorato esperienze curatoriali e spazi espositivi inconsueti (fabbriche, uffici postali, cantieri navali, carceri abbandonate) alla fine «ritorna al museo» (Manifesta 10, cit., p. 12).

Monumenta. – Non si è mai allontanata dall’ufficialità di uno spazio espositivo di prestigiosa tradizione, facendone anzi il protagonista della sua singolare proposta, la rassegna Monumenta, inauguratasi a Parigi nel 2007. L’enorme navata del Grand Palais – la superficie è di oltre 13.000 m2, l’altezza massima di 45 m – nel corso degli ultimi anni ha infatti accolto e sollecitato le opere commissionate a riconosciuti maestri dell’arte presente, chiamati a confrontarsi con l’architettura di ferro e vetro del monumento realizzato in occasione dell’Esposizione universale del 1900. Una sfida estremamente impegnativa, dal punto di vista progettuale ed economico (la periodicità discontinua è dovuta appunto a difficoltà di bilancio da parte dello Stato francese, promotore della manifestazione), che punta soprattutto sulla necessità di concepire un intervento rigorosamente site-specific, un’opera inedita in cui la poetica di un artista di chiara fama viene posta in relazione complessa con lo spazio, con l’identità e con la storia di un luogo simbolo della Parigi capitale del XIX secolo (W. Benjamin). Non semplicemente una mostra, dunque, ma un’installazione ambientale in grado di offrire nuovi sguardi e altre prospettive su un’architettura molto nota e amata dai parigini.

L’esordio della rassegna, affidato all’artista tedesco Anselm Kiefer, è stato di grande impatto: Sternenfall («stelle cadenti») il titolo dell’opera, un accidentato paesaggio di macerie e scorie, materiali lacerati di quello che l’artista ha definito un «metabolismo universale», visitato nell’arco di cinque settimane da oltre 135.000 persone. Egualmente apprezzato l’intervento dello scultore statunitense Richard Serra, che ha collocato cinque enormi placche di acciaio, alte 7 m e larghe 4, lungo la navata, creando una sorta di percorso (Promenade era il titolo dell’intervento), un itinerario perturbante sia per l’inclinazione dei cinque elementi sia perché essi erano decentrati rispetto all’asse longitudinale della navata, suggerendo quindi una visione spiazzante dello spazio architettonico. Si è dovuto attendere il 2010 per l’intervento di Christian Boltanski, un’installazione che, anche attraverso l’uso del suono (un battito cardiaco) e l’impatto delle temperature invernali (componente, questa, richiesta dall’artista per assicurare la corretta fruizione dell’opera), ha coinvolto oltre 150.000 visitatori in un’esperienza di riflessione sulla morte e sul caso.

Nella primavera del 2011 per la quarta edizione di Monumenta l’artista anglo-indiano Anish Kapoor ha realizzato un gigantesco Leviatano, un’opera in PVC percorsa da quasi 280.000 persone. Altrettanto fortunata l’installazione aerea del francese Daniel Buren (Excentrique(s), 2012), composta da 377 dischi colorati sospesi. Mentre ha ottenuto un risultato di pubblico piuttosto deludente l’intervento degli artisti di origine russa Ilya ed Emilia Kabakov L’étrange cité, un complesso metafisico di bianche architetture, un’impossibile città realizzata per la sesta edizione di Monumenta nel 2014. Il ministro della Cultura francese ha quindi rivisto la formula della rassegna, rendendola biennale in maniera da non entrare in competizione con l’ormai consolidata B. di Lione, affermatasi come la rassegna d’arte contemporanea più importante del panorama francese. All’artista francese di origini cinesi Huan Yong Ping è stato affidato il compito di rilanciare Monumenta con un’installazione che sarà presentata al pubblico nel 2016.

Monumenta

Bibliografia: «MJ-Manifesta Journal. Journal of contemporary curatorship», Winter 2003/Spring 2004, 2, nr. monografico: Biennials (in partic. O. Enwezor, Mega-exhibitions and the antinomies of a transnational global form, pp. 94-119); The Manifesta decade. Debates on contemporary art exhibitions and biennials inpost-wall Europe, ed. B. Vanderlinden, E. Filipovic, Cambridge (Mass.) 2005 (in partic. E. Filipovic, R.B. Niemojewski, B. Vanderlinden, One day every wall will fall. Select chronology of art and politics after 1989, pp. 21-44); P. O’Neill, The curatorial turn. From practice to discourse, in Issues in curating contemporary art and performance, ed. J. Rugg, M. Sedgwich, Bristol-Chicago 2007, pp. 13-28; «MJ-Manifesta Journal. Journal of contemporary curatorship», 2008, 4-5-6; The global art world. Audiences,markets and museums, ed. H. Belting, A. Buddensieg, Ostfildern 2009; Curating and the educational turn, ed. P. O’Neill, M. Wilson, London-Amsterdam 2010 (in partic. A. Vidokle, Exhibition to school: unitednationsplaza, pp. 148-56); The biennial reader. An anthology on large-scale perennial exhibitions of contemporary art, ed. E. Filipovic, M. van Hal, S. Øvstebø, Ostfildern-Bergen 2010 (in partic. E. Filipovic, M. van Hal, S. Øvstebø, Biennialogy, pp. 12-27; Y. Konaté, The invention of the Dakar Biennial [2009], pp. 104-21; S. Marschall, The impact of the two Johannesburg biennials on the formation of a ‘new South Africanart’ [1999], pp. 454-65; G. Mosquera, The Havana Biennial. A concrete utopia, pp. 198-207); F. Martini, V. Martini, Just another exhibition. Storie e politiche delle biennali, Milano 2011; S. Zuliani, Esposizioni. Emergenze della critica d’arte contemporanea, Milano 2012; Manifesta 9. The deep of the modern. A subcyclopaedia, ed. C. Medina, C.M. Fraga, Cinisello Balsamo 2012.

Sitografia: www.biennialfoundation.org; www.grandpalais.fr/fr/evenement/monumenta; www.manifesta.org; www.theexhibitionist.com; www.labiennale.org.

Documenta di Anna Cestelli Guidi. – Concepita sin dalla sua nascita negli anni Cinquanta come mostra di arte figurativa in alternativa al museo tradizionale, Documenta, che ha luogo a Kassel in Germania, è divenuta negli anni l’appuntamento più atteso nel calendario del mondo dell’arte. Diversamente dalle b. che popolano la geografia del mondo globale, il lungo periodo di gestazione consente infatti alla mostra di porsi come spazio di riflessione sull’accadere contemporaneo proponendo ogni cinque anni e per cento giorni una nuova visione della cultura attraverso il linguaggio dell’arte. Più che una semplice mostra di arte Documenta è sempre stata anche una presa di posizione: ogni edizione si connota per una diversa fisionomia espositiva, una diversa visione dell’arte legata all’interpretazione personale del curatore e un’atmosfera irripetibile. La sua capacità di trasformazione è stata il movente della sua esistenza attraverso gli anni: ogni edizione prende forma nel confronto con le edizioni precedenti e può essere considerata un case study di pratiche e metodologie curatoriali adottate di volta in volta in relazione al più ampio contesto culturale e alle dinamiche sociopolitiche contemporanee.

La storia di Documenta può essere divisa in tre momenti. Il primo riguarda le quattro edizioni degli anni Cinquanta e Sessanta ed è intrinsecamente legato alle vicende della storia tedesca del dopoguerra: si trattava del progetto di ricostruzione culturale della Germania all’interno del più ampio contesto europeo, nel tentativo di superare il trauma del collasso culturale degli anni di dittatura nazista. Il secondo momento, inauguratosi con Documenta 5 nel 1972, segna la cesura con le edizioni passate sia per l’esclusiva attenzione all’arte contemporanea sia per l’importanza che acquisterà da ora in avanti il ruolo del curatore come soggetto creativo. Negli anni Settanta e Ottanta la rassegna è diventata, sia per il numero di opere esposte sia per l’estensione geografica e l’esclusiva attenzione all’arte del presente, la più grande mostra di arte contemporanea internazionale. Il terzo momento di cambio di paradigma ha avuto luogo nel 1997 con Documenta X che ha introdotto quel pensiero sincronico che mette l’arte, non più necessariamente solo contemporanea tout court, in relazione con il più generale contesto geografico e politico della società globalizzata.

Documenta

L’intento programmatico è evidente sin dalla scelta del nome Documenta – dal latino «docere», insegnare – che rivela la funzione politico-culturale alla sua origine, cioè ritrovare un’identità all’arte moderna tedesca cominciando dal riabilitare l’arte delle avanguardie che il nazismo aveva bandito come ‘degenerata’. Per Arnold Bode (1900-1977), il visionario architetto erede della tradizione del Bauhaus, anima e moto re delle prime Documenta insieme a Werner Haftmann (1912-1999), sua controparte teorica, si trattava dell’urgenza di «ricostruire un luogo all’arte per riannodare un dialogo a lungo interrotto» (Documenta 1, 1955, p. 23) e situare di nuovo l’arte tedesca all’interno del più ampio movimento dell’arte europea e internazionale. La città di Kassel, ex capitale del classicismo tedesco, completamente distrutta da un bombardamento alleato nel 1943, e ancora negli anni Cinquanta una città di provincia in rovina al confine con la Germania dell’Est, era il luogo esemplare da cui poteva rinascere la fenice in forma di mostra: un temporaneo «museo per 100 giorni».

Gli anni Duemila. Documenta 11, inaugurata nell’estate del 2002 con la direzione artistica del nigeriano Okwui Enwezor, ha accentuato l’apertura dei confini dell’arte occidentale, ampliando lo spazio del discorso artistico contemporaneo all’arte del mondo postcoloniale. La stessa mostra risulta ‘deterritorializzata’: l’esposizione a Kassel non è che l’ultima tappa delle cinque fasi o Platforms di discussione pubblica su temi di democrazia e postcolonialismo che hanno luogo nei centri postcoloniali di Vienna, Nuova Delhi, Santa Lucia e Lagos. L’enfasi di questa edizione ‘postcoloniale’ è posta sui linguaggi che usano l’immagine in movimento, documentario e film, in quanto più adeguati alle narrazioni che riguardano i nuovi contesti geopolitici del mondo globale.

L’approccio globale delle Platforms è stato ripreso nel 2007 da Documenta 12, a cura di Roger M. Buergel e Ruth Noack, con il progetto dei dodici «Magazines», pubblicazioni periodiche a tema, con le quali vengono invitate oltre 90 riviste internazionali a contribuire alla discussione sull’idea della migrazione delle forme, principio curatoriale di questa edizione.

La migrazione diventa invece un fatto reale nell’estate 2012 con Documenta 13 e le sue attività parallele – mostre a Kabul, seminari ad Alessandria d’Egitto e il ritiro al Banff College negli Stati Uniti. Questa edizione si ricollega idealmente alle più ‘politiche’ Documenta X e 11. Il processo di migrazione intrapreso da Documenta 13 sembra essere solo l’inizio di un’ulteriore trasformazione della rassegna: nell’estate del 2017 la 14a edizione della mostra si annuncia divisa tra due città, Kassel e Atene.

Bibliografia: H. Szeemann, Individuelle Mythologien, Berlin 1985; A. Cestelli Guidi, La ‘documenta’ di Kassel. Percorsi dell’arte contemporanea, Genova 1997; H. Kimpel, Documenta. Mythos und Wirklichkeit, Köln 1997; Archive in motion, 50 Jahre/years documenta 1955-2005, hrsg. M. Glasmeier, K. Stengel,Gottingen 2005.

Architettura di Livio Sacchi. – La mostra internazionale di architettura che, ad anni alterni, viene ospitata dalla B. di Venezia, oltre a costituire un importante appuntamento per architetti e critici che vi convergono da ogni parte del mondo, rappresenta una fra le più prestigiose vetrine della contemporaneità architettonica a livello globale. Oltre ai padiglioni nazionali, in costante aumento, spiccano da una parte il padiglione principale e le Corderie dell’Arsenale che ospitano le grandi mostre tematiche ideate dal curatore di turno, dall’altra il Padiglione italiano, istituito dal 2006, in occasione della X Mostra internazionale curata da Richard Burdett, che da allora costituisce il principale appuntamento espositivo per il nostro panorama nazionale. La prima mostra organizzata al suo interno fu affidata, con indubbio successo, a Franco Purini ed ebbe come tema la progettazione di Vema, una città di nuova fondazione posta all’intersezione di due importanti corridoi europei, fra Verona e Mantova. Il progetto costituì un importante banco di prova per un gruppo di venti giovani architetti, che si cimentarono ciascuno su una diversa parte urbana. Nella mostra internazionale, dal titolo Città. Architettura e società, furono presentate, in maniera scientifica, ma anche altamente spettacolare, sedici grandi città del mondo: Shanghai, Mumbai e Tokyo in Asia; Caracas, Città di Messico, Bogotá, San Paolo, Los Angeles e New York nelle Americhe; Johannesburg, Il Cairo e Istanbul in Africa e nell’area mediterranea; Londra, Barcellona, Berlino e Milano-Torino in Europa. Il Leone d’oro alla carriera fu assegnato all’architetto inglese Richard Rogers.

La XI edizione, del 2008, diretta da Aaron Betsky, porta l’evocativo titolo Out there: architecture beyond building. Il Padiglione italiano fu in quell’anno dedicato alla mostra L’Italia cerca casa. Progetti per abitare e riabitare le città curata da Francesco Garofalo. Il Leone d’oro alla carriera venne conferito a Frank O. Gehry, un Leone speciale allo storico James S. Ackerman, quello per la migliore installazione all’architetto statunitense Greg Lynn.

La XII B., del 2010, fu curata dalla giapponese Kazuyo Sejima e intitolata People meet in architecture, un esplicito riferimento alla dimensione sociale e pubblica dell’architettura.

Il padiglione italiano, affidato a Luca Molinari, presentò una mostra dal titolo AILATI. Riflessi dal futuro. Fra i premi conferiti, si ricordano il Leone d’oro alla carriera a Rem Koolhaas, quello in memoriam a Kazuo Shinohara, quello per la migliore partecipazione nazionale al regno del Baḥrein.

La XIII B., del 2012, venne invece affidata al progettista inglese David Chipperfield. Il titolo, Common ground, allude alla coralità della ricerca architettonica e al comune approccio ai problemi del fare architettura. Il Padiglione italiano venne curato da Luca Zevi, che lo allestì in collaborazione con l’INArch (Istituto Nazionale di Architettura), proponendo una interessante mostra intitolata Da Adriano Olivetti all’architettura del made in Italy. Fra i premi si ricordano il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale, che andò al padiglione giapponese curato da Toyo Ito (v.), e quello alla carriera, assegnato al maestro portoghese Álvaro Siza Vieira.

La XIV edizione del 2014, alla quale hanno preso par te 66 Paesi, è stata affidata a Rem Koolhaas (v.): il titolo, Fundamentals, rimette al centro la ricerca degli elementi tipologici fondamentali dell’architettura, presentati senza alcun filtro di carattere stilistico o cronologico. L’attenzione si è dunque spostata dagli autori alle opere e, in particolare, agli elementi costitutivi di esse. Nel corso di tale B., nel lungo spazio delle Corderie è stata inoltre allestita Monditalia, mostra complessa e interdisciplinare curata dallo stesso Koolhaas e dedicata in particolare al nostro Paese, oltre a una mostra speciale dedicata al fotografo tedesco Wolfgang Till mans. Il Padiglione Italia è stato curato, con notevole successo, dal milanese Cino Zucchi (v.) che vi ha allestito tre diverse sezioni: Innesti. Il nuovo come metamorfosi; Milano. Laboratorio del moderno; Italia. Un paesaggio contemporaneo. Quest’ultima, una panoramica della scena nazionale contemporanea, ha costituito l’occasione per presentare una selezione delle molte, qualificate realizzazioni recenti. Il Leone d’oro alla carriera è stato assegnato alla canadese Phyllis Lambert, architetto e soprat tutto mecenate dell’architettura contemporanea.

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