Croce, Benedetto

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Croce, Benedetto

Gennaro Sasso

Filosofo e storico, nato a Pescasseroli nel 1866 e morto a Napoli nel 1952. Sebbene il suo nome ricorra spesso nei suoi scritti, e il suo pensiero sulla natura della politica abbia avuto, per l’idea che egli ne elaborò nel quadro di una teoria generale della prassi, una fondamentale importanza, C. non fu, in senso stretto, un interprete di Machiavelli. Fu, per così dire, un libero fruitore della sua intuizione della politica come idealmente anteriore all’etica e distinta da questa; e, come si vedrà, fu altresì, da ultimo, un testimone della difficoltà, se non si vuol dire dell’impossibilità, che la riflessione filosofica incontra a chiudere e a risolvere il problema che ne nasce. In realtà, se si fa eccezione per le pagine, peraltro assai notevoli, dedicate alla Mandragola nel saggio su La «commedia» del Rinascimento, che è del 1929, le altre maggiori opere machiavelliane non furono oggetto di sue attenzioni e indagini particolari. Non si può dire, per conseguenza, se, ferma restando la centralità del Principe per la questione che più gli stava a cuore e che riguardava il rapporto (o il non rapporto) della politica con la morale, dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio egli avesse apprezzata l’altrettanto grande, se non superiore, importanza per la costruzione della teoria politica, e delle Istorie fiorentine avesse colto il tema che le anima e le caratterizza: quello, si intende dire, che concerne le ragioni profonde per le quali tutto quanto in Italia era stato costruito nel tempo successivo alla caduta dell’Impero romano non era riuscito né a liberarsi dalla frammentazione in cui la penisola si era ridotta, né, per conseguenza, a ritrovare lo slancio per una nuova impresa unitaria. L’unico intervento che a C. accadde di fare su una specifica opera di M. riguardò una di quelle che, a giusto titolo, comunque le si valuti, si dicono minori; e cioè la Esortazione alla penitenza, un breve componimento appartenente ai suoi ultimi anni nel quale Felice Alderisio aveva colto la presenza di uno schietto sentimento religioso e C. niente più che una «scherzosa cicalata» (Conversazioni critiche, 4° vol., 1932, p. 79).

Il giudizio formulato sulla Mandragola, della quale con finezza seppe cogliere la vena dolorosamente poetica che sta come nascosta e contratta nel suo fondo, seguiva del resto di soli cinque anni lo scritto che rimase il suo maggiore di argomento machiavelliano fino al momento in cui egli non lo riprese nel 1949, per riproporre, come si è accennato, innanzi tutto a sé stesso, la questione della politica e della morale che riteneva sarebbe apparsa insolubile, agli uomini di domani, non meno che a quelli del presente. Il riferimento è al più che conciso paragrafo su Machiavelli e Vico: la politica e l’etica che inaugura la parte storica del breve trattato di teoria o filosofia della politica, nel quale, con il titolo di Politica «in nuce», egli riprese, per porlo a più stretto contatto con le questioni concernenti lo Stato e le azioni che vi si riferiscono, quel che, in tema di prassi economica, aveva delineato nel terzo volume della Filosofia dello Spirito, dedicato alla Filosofia della pratica (1908). Ma se, andando indietro, si retrocede tanto da incontrare i suoi primi scritti, ci si accorge che il nome di M. vi ricorre con discreta frequenza. A cominciare, come è ovvio, da quelli che, sulla fine del secolo decimonono, egli dedicò a Marx. Nel saggio del 1897, Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (ora in Materialismo storico ed economia marxistica, 2001), C. inserì una lunga nota nella quale condensò tutto quanto, in tema di critica machiavelliana, gli era occorso di pensare ponendo il Principe a riscontro con le interpretazioni che, del suo contenuto ‘morale’, erano state date, rispettivamente, da Francesco De Sanctis e da Pasquale Villari, e dichiarando con nettezza che la sua preferenza andava a quella del primo.

Con Villari la polemica era cominciata una decina di anni prima quando, ragionando intorno alla questione, che allora era insorta, se la storia fosse scienza o arte, aveva decisamente optato per la seconda soluzione e criticato con vivacità la tesi che, all’opposto, quello studioso aveva sostenuta e difesa. E ora la proseguiva con non minore asprezza. Gli era sembrato che Villari fosse stato poco penetrante nel primo caso, e non abbastanza avvertito nel secondo. Non se M. si fosse posta, o no, la questione della moralità si sarebbe infatti dovuto chiedere, ma perché, non essendosela posta, fosse appunto accaduto che l’avesse lasciata da parte. A Villari che, sul serio, nell’ampia monografia che aveva dedicata al Segretario fiorentino, aveva, su questo punto, mostrato di non essere riuscito né a conseguire sufficiente chiarezza né a evitare di subire incertezze e ondeggiamenti, C. rimproverava di non essersi avvisto che, poiché la questione era politica, era dall’angolo visuale di questa, e non da quello dell’etica, che il discorso doveva essere condotto; e che quella del fine buono e dei mezzi cattivi, in cui il critico s’impigliava, era in effetti una questione mal posta. Gli sembrava che la si sarebbe risolta, o avviata quanto meno a soluzione, se si fosse considerato

che i mezzi, appunto perché sono mezzi, non si possono distinguere in morali e immorali, ma semplicemente in adatti e disadatti; e che ‘mezzo immorale’, quando non è un’espressione del linguaggio volgare, è una contraddizione in termini, perché la qualifica di morale e di immorale non appartiene se non al fine.

Gli sembrava altresì che, «negli esempi che si sogliono citare ad terrendum», a «un’analisi un po’ accurata» dovesse apparire chiaro che «non si tratta[va] mai di mezzi immorali, ma di fini immorali», e che «il culmine della confusione» fosse «attinto da coloro, che» introducevano «nel problema l’assurda distinzione di morale privata e di morale pubblica» (Materialismo storico ed economia marxistica, cit., p. 112).

Confluivano in questa densa nota polemica concetti non semplici, indizio evidente di una riflessione filosofica che cercava il suo proprio orientamento. Da una parte, questi concetti accennavano a un’idea dell’etica che, essendo di evidente origine kantiana, si sarebbe senza sforzo potuta definire rigoristica nell’atto in cui ogni sua contaminazione con la politica era implicitamente condannata come immorale. Da un’altra, proponevano un’idea della politica che, senza cercare con l’etica né convergenze né brusche dissociazioni, la poneva in una sua sfera che si sarebbe potuto definire autonoma se, a sua volta, il concetto che questo aggettivo presuppone non ne avesse implicato uno intrinsecamente connesso con il tema della distinzione e della relazione: un tema che, a questa data (1897), non era ancora entrato nell’universo concettuale di Croce. A sua volta, il concetto secondo cui il mezzo non era suscettibile di entrare in contatto con l’etica, perché, in un’accezione che si potrebbe definire preweberiana, richiedeva di essere caratterizzato come adatto o non adatto al conseguimento dello scopo, si specificava in due direzioni diverse. La prima delle quali riguardava l’etica che, appartenendo al regno dei fini, non era suscettibile di essere messa in relazione con mezzi comunque estranei al suo ambito. La seconda riguardava il mezzo che, nel modo già visto, si definiva per sé stesso.

La netta dissociazione che in tal modo C. eseguiva dell’etica dalla politica lo disponeva a una così profonda sintonia con il mondo machiavelliano che la si sarebbe potuta definire addirittura una totale coincidenza se non fosse stato per la ragione paradossale che la determinava; e che derivava, non dalla estraneità di C. all’etica e al suo problema, ma al contrario dall’ipervalutazione che, in quel momento della sua vita, egli faceva della sua importanza, della sua purezza, della sua assolutezza, di tutto ciò, insomma, che impediva che essa potesse avere un qualsiasi contatto con la crudezza che la politica non poteva non rivelare quando, con coraggio, fosse stata osservata nella sua physis. Così il fine e il mezzo si dissociavano, ciascuno si chiudeva in sé. E si aveva il già accennato paradosso per il quale, da una parte si dava la ratio machiavelliana della politica, da un’altra la ratio kantiana dell’etica, entrambe assolute padrone nel loro campo. Era un concetto, questo che si contrapponeva a Villari, segnato da un carattere di forte radicalità. E deve ritenersi che egli vi restasse chiuso a lungo, ma non senza travaglio: come può vedersi se, dagli anni in cui era impegnato a discutere di Marx e in genere di economia, e a polemizzare con Pareto intorno al principio economico, si passa a quelli in cui si dette ad approfondire in senso teoretico e sistematico quel che lì aveva cominciato a mettere in chiaro. Si può constatare allora che, certo, la diversità che il nuovo quadro presentava rispetto al precedente era determinata dai concetti dell’unità, della distinzione, della relazione che gli era accaduto di conquistare attraverso il diretto contatto che, nel 1906, aveva stabilito con il pensiero di Hegel. Questo contatto, e la conquista che riteneva di aver raggiunto della vera dialettica fondata sull’intreccio delle antiche figure platonico-aristoteliche dell’opposizione per contraddizione e dell’opposizione per diversità, gli consentivano di strappare all’isolamento, nel quale prima erano rimasti, i concetti della politica e dell’etica e di porli in distinta relazione. Ma, per un altro verso, se l’occhio si fosse spinto fin negli strati più profondi del suo pensiero, ci si sarebbe avvisti che al nuovo l’antico resisteva e faceva valere i suoi diritti: come si vede, per esempio, se, leggendo nella Filosofia della pratica (1908, ora in Filosofia della pratica. Economia ed etica, 1996, p. 30) le considerazioni dedicate al fine, ai mezzi e ai loro rapporti, si constati che l’assai più matura formulazione del loro rapporto reimplicava in sé qualcosa dell’antica concezione. È ben vero, infatti, che, per un verso, il mezzo e il fine erano stretti in un nesso così inscindibile che l’uno era identificato con la situazione di fatto e l’altro con la volizione che a quella era correlativa («tale la volizione quale la situazione», «tal mezzo, tal fine»). Ma proprio perché la reciproca inerenza del fine al mezzo e di questo al fine valeva per la volizione in generale, al di qua della sua specificazione in economica ed etica, non è difficile vedere come l’identità allo stesso modo sottendente sia la volizione economica sia quella morale rendesse impossibile che fra l’una e l’altra si desse un rapporto, e, senza perder nulla di sé, M. (la politica) potesse entrare in rapporto con Kant; e viceversa. La rivendicazione all’utile della dignità categoriale, l’averlo elevato ad autonoma forma dello spirito contro le negazioni moralistiche di cui era stato fatto oggetto in tanta parte della filosofia occidentale non bastavano a risolvere il problema che, nelle loro parti più crude, gli scritti di M. ponevano, e che risorgeva intatto quando, per esempio, C. rivendicava il «valore spirituale della volontà utilitaria, considerata per sé e senza interferenza della ulteriore determinazione morale» (p. 280). Intatto, in realtà, sarebbe rimasto anche se, affinando il concetto della distinzione e considerando quest’ultima non nel senso dell’antecedenza e della successione, ma in quello dell’implicazione nell’unità, si fosse poi dovuto constatare quel che necessariamente ne derivava e si può porre in questi termini. Se all’idealità pura dell’implicazione, per la quale, essendo per sé, ciascuna forma era per le altre, e l’unità si presentava perciò nel segno della loro pura relazione; se a questa pura idealità si fosse avvertita l’esigenza di conferire esistenza storica e in questo quadro, segnato dal prima e dal poi, anche la forma economica fosse stata prospettata; se, in altri termini, il tempo fosse intervenuto a scindere il momento del mezzo da quello del fine e a consegnarli entrambi al loro diverso orizzonte, la conseguenza non avrebbe potuto essere evitata. Il momento storico-fenomenologico sarebbe entrato in tensione, se non addirittura in conflitto, con quello della pura categorialità; e di nuovo la politica avrebbe presentato il suo volto ferino, non ingentilito da cosa che, essendole superiore, le incidesse sul volto i suoi tratti. Così, in certi trapassi dell’argomentazione, anche nel tempo in cui la Filosofia della pratica fu pensata e composta, l’idea della politica che M. aveva elaborata nei suoi scritti era presentata (per esempio, nel saggio su Alfredo Oriani) come la geniale rivendicazione di «un aspetto della realtà, che era stato tenuto nell’ombra dalla morale astratta e dalle superficiali elucubrazioni dei dottrinari politici» (La letteratura della nuova Italia, 3° vol., 1949, p. 247), anche se, in questo stesso atto C. non poteva, per un altro verso, esimersi dal rilevare la visione unilaterale della storia che ne veniva fuori. Ancora nel 1913, quando discusse con Giovanni Gentile intorno all’idealismo attuale, pur senza definirla così, gli accadde di ribadirne l’angustia che la sua genialità non riusciva a vincere e a superare. Riprendendo un giudizio, esso stesso non eccelso, di Schopenhauer, la riduceva infatti a una tecnica, simile a quella che si apprende dal maestro di scherma, «il quale insegna bensì l’arte di ammazzare, ma non insegna a diventare sicari ed assassini» (Conversazioni critiche, 2° vol., 1924, p. 79).

Fu questa non risolubile dissonanza, che nel suo pensiero si era introdotta fra la pura considerazione categoriale e quella storico-fenomenologica, delle forme, fu la scissione, o il rischio della scissione, che, producendosi fra l’una e l’altra, l’esistenza insinuava nel loro rapporto, fu tutto questo a far sì che nel 1924, quando scrisse la Politica «in nuce», C. avvertisse di dover aggiungere alla trattazione del pensiero di M. quella del pensiero di Vico, alla definizione della politica sentì di dover aggiungere la definizione della storia in termini di provvidenza. Il saggio che, mettendolo insieme all’autore della Scienza nuova, egli allora gli dedicò riuscì molto breve, le poche citazioni testuali essendo state tutte, salvo errore, ricavate soltanto e unicamente dal Principe, come dall’opera che, meglio di altre sue, per la nettezza e la crudezza delle sue formulazioni consentiva che il problema fosse posto nella luce più viva. Ma, al di là, o al di qua, della formulazione conferita al tema centrale, il saggio risentiva del momento drammatico che il Paese allora viveva a causa della grave minaccia che il fascismo rappresentava per le sue libere istituzioni. Quella minaccia, che era ormai, a quella data, ben più che una minaccia, aveva lasciato il suo maggior segno nelle pagine dedicate al tema teorico della politica e della morale, dove, se cruda era riuscita la definizione della politica, e drastica la riduzione dello Stato e delle sue istituzioni e leggi al puro profilo economico del concreto agire, è anche vero che il più grande sforzo C. l’aveva allora prodotto nel tentativo di convincere sé stesso che, se la politica aveva «le sue leggi a cui era vano ribellarsi», era pur vero che fra essa e la morale non poteva ammettersi che insorgesse un conflitto insanabile, come quello che, in quel medesimo anno 1924, Friedrich Meinecke aveva drammaticamente rappresentato nel suo Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte. Così, con più forza di quanta in precedenza fosse stato in grado di manifestare, tornava a protestare contro le mediocri sentenze sul «fine che giustifica i mezzi», sulla morale pubblica che è altra cosa da quella privata, sull’inconciliabilità del puro agire morale con l’agire politico, che puro non può essere perché è politico. Sentenze che respingeva come

illogiche, perché la nostra umana coscienza ci grida che in nessun caso è lecito rompere la fede o commettere delitti; che non c’è una morale in casa e una in piazza; che non si può fare il male per ottenere il bene, come se bene e male fossero merci da scambiare (Politica «in nuce», in Etica e politica, 1931, pp. 218-19).

Per un altro verso, tuttavia, quel che aveva cercato di escludere dal regno di ciò che è logico tendeva a ripresentarsi con il suo volto ambiguo; e C. era costretto ad ammettere come necessarie, non certo al privato tornaconto di questo o di quello, ma al bene della patria, al suo «risorgimento e accrescimento», azioni che coloro stessi che le avevano compiute tendevano poi a separare da sé stessi e ad attribuire a esigenze superiori alle quali non si sarebbe potuto esser pari se non agendo come si era agito. Era costretto ad ammetterlo nell’atto stesso in cui, ancora per un altro verso, il suo accento cadeva su un ulteriore concetto che, a rigore, non avrebbe dovuto essere presentato in quei termini. Quel concetto interpretava infatti l’autonomia della politica in termini di anteriorità strumentale, e dunque non come avente il fine in sé stessa, ma come un mezzo del quale l’etica si serviva per le sue proprie costruzioni. Il che, peraltro, se per un verso rivelava un’incertezza che non si riusciva a superare ricacciando indietro il dubbio che tornava infatti a presentarsi, era, per un altro, indizio della decisione con la quale l’ispirazione morale dava testimonianza di sé nella resistenza che opponeva alla forza, anzi alla hybris, della politica, nella tenacia con la quale affermava sé stessa pur nel duro mondo dell’utile. Notevole, in questo testo, era perciò che all’interno della cerchia politica, per intero intessuta dalla forza e dalle ragioni dell’utile, facessero sentire la loro voce gli shakespeariani uomini del pensiero, quelli che think too much e non c’è Cesare, grande o piccolo che sia, che non li consideri dangerous, ‘pericolosi’, e che essi non considerino come il peggior nemico del vivere, come M. diceva, politico e civile. Notevole era altresì che, andando al di là di quel che, stricto iure, il sistema avrebbe richiesto, la politica e l’etica trovassero la loro vera e risolutiva sede, non nelle vittorie che si ottengono, qui giù, nell’ora in cui le opposte forze si combattono e non conoscono generosità, ma nella dimensione della storia e della sua razionale necessità. La dimensione della storia e la sua razionale necessità erano peraltro concepite, ed è un passaggio interessante, che merita di esser notato, in termini esse stesse di moralità: di quella moralità che, a sua volta, coincidendo con la storia, ai suoi occhi era tale che

per essa non vi sono altri rei che coloro i quali non si sono ancora elevati alla vita morale; e spesse volte loda e ammira e ama e celebra i reietti dai governi, i condannati, i vinti, e li santifica martiri dell’idea (pp. 236-37).

Era questa, dunque, la ragione per la quale, nel saggio che gli dedicò nella parte storica della Politica «in nuce», M. fu messo insieme a Vico, la politica fu posta al paragone della storia che, senza farle torto e condannarla, le rendeva anzi giustizia, risolvendo nel suo segno superiore le unilateralità dalle quali era stata segnata nell’atto del suo specifico affermarsi. Era, questa che si è messa in rilievo, e senza la quale il senso della riflessione crociana sfuggirebbe senza rimedio, una ragione tanto interessante quanto singolare. Nel rinviare a qualcosa che stava oltre l’intreccio strutturale delle categorie, dava testimonianza del perché nel fondo di sé C. avvertisse che la questione posta da M. era di quelle che, in senso proprio, non si sarebbero chiuse mai: sia perché era naturale e ovvio che l’umanità tornasse sempre di nuovo a porsela, sia, soprattutto, perché c’era, al fondo di esse, qualcosa che, quando si credeva fosse stato colto e risolto, tornava a mostrare il suo volto problematico e a insegnare che situazioni come queste, strutturalmente drammatiche, non possono essere se non ribadite in questo loro carattere.

Fra i primi giudizi che C. aveva formulati su M. e quelli che su di lui s’incontrano a partire dal 1924 c’è una differenza di accento che dev’essere colta e messa in rilievo. Nei primi giudizi, il riconoscimento delle cose importanti da lui scoperte nel campo della politica era accompagnato dalla riserva relativa alla ristrettezza del suo mondo morale. In quelli elaborati nelle poche pagine consacrategli nella parte storica della Politica «in nuce» questo giudizio era capovolto. Non solo in M. ora C. coglieva «l’acre amarezza» con cui gli accadeva di accompagnare la sua «asserzione della politica e della sua intrinseca necessità», ma, andando oltre, lo presentava come un’«austera e dolorosa coscienza morale», come uno il cui anelito andava «verso un’inattingibile società di uomini buoni e puri», che egli sognava «nei passati tempi lontani» mentre qualche segno dell’antica virtù gli sembrava che potesse essere colto nei popoli della Magna e nei montanari della Svizzera, la cui purezza la corte di Roma, se mai fosse accaduto che, per qualche ragione, vi si fosse trasferita, subito avrebbe spenta e quei popoli virtuosi sarebbero stati attratti nel gorgo della corruzione e della decadenza. Erano temi desanctisiani quelli che in tal modo C. riprendeva e rielaborava alla luce del concetto, che egli ribadiva, dell’autonomia che M. avrebbe assegnata alla politica nei confronti dell’etica, allo stesso modo che dal grande critico gli derivava la severa condanna su Francesco Guicciardini; che, se fosse stato libero nei suoi giudizi, avrebbe dichiarato il favore con cui guardava a Martin Lutero, ma libero non si sentiva nei confronti del suo «particulare», ossia dell’interesse che gli imponeva prudenza e rassegnazione, e perciò quel sentimento lo dichiarava in segreto e lo teneva per sé. Il che lo induceva a pronunziare su quel grande scrittore lo stesso giudizio di condanna che su di lui era stato formulato da De Sanctis quando aveva parlato dell’«uomo del Guicciardini» come dell’Idealtypus di tutti i vizi della nazione italiana, come dell’uomo fatale che si doveva uccidere nella propria coscienza. A Guicciardini, certo, qui non si rendeva giustizia. Ma, anche se nella proclamazione di M. come di un’«austera e dolorosa coscienza morale», C. non si spingeva tanto oltre da farne, come De Sanctis aveva fatto, il Lutero d’Italia, certo è che molta acqua era passata sotto i ponti da quando la sua scienza politica era stato messa sotto il segno del maestro di scherma rievocato da Schopenhauer, e un concetto era stato abbassato a una semplice misura di abilità tecnica. Certo, nell’insistenza che metteva nel fare di M. un personaggio addirittura scisso nei riguardi della scienza di cui aveva scoperto il principio, C. passava il segno; o forse no, se si considera la passione profonda con la quale lo stesso momento politico era oltrepassato per essere osservato nelle sue conseguenze. Chi non ricorda le linee dolenti che si leggono nella lettera che egli inviò a Francesco Guicciardini il 17 maggio 1526 quando parve che la potenza degli spagnoli e imperiali potesse essere contenuta e respinta e che l’occasione non dovesse essere perduta di «trarre quelli ribaldi di quel paese»?

Voi sapete [aveva scritto] quante occasioni si sono perdute: non perdete questa né confidate più nello starvi, rimettendovi alla Fortuna e al tempo, perché con il tempo non vengono sempre quelle medesime cose, né la Fortuna è sempre quella medesima. Io direi più oltre, se io parlassi con uomo che non intendesse i segreti o non conoscesse il mondo.

Chi può dimenticare quella finale exhortatio, per la quale a M. servì il latino?

Liberate diuturna cura Italiam, extirpate has immanes belluas, quae hominis, preter faciem et vocem, nichil habent Liberate l’Italia da questo quotidiano tormento, strappate dal suo suolo queste feroci belve che non hanno nulla di umano, a parte il volto e la voce.

Ma forse nel giudizio che in quei termini C. aveva formulato, nella radicalizzazione del tema concernente la dolorosa moralità machiavelliana, deve vedersi il riflesso di un moto autobiografico, la confessione di un disagio che era anche in lui, anzi soprattutto in lui. Nel teorizzare il concetto dell’autonomia della forma politica, sentiva forse di non essere riuscito a metterlo al sicuro dai dubbi che al riguardo gli provenivano quando, come si è già detto, dal piano logico e concettuale passando a quello storico, fenomenologico ed esistenziale, era costretto a dare un tempo all’agire politico e a non potere, di questo, fare il tempo senza tempo del puro ritmo categoriale.

Non è certo senza riferimento a tutto ciò – che, ben al di là del caso rappresentato dal pensiero di M., costituì, per lui, una ragione profonda di tormento speculativo – che C. gli pose accanto, in posizione di superamento, il pensiero di Vico. Per il quale, scrisse, «la politica, la forza, l’energia creatrice degli Stati» costituivano un «momento dello spirito umano [...] un eterno momento, il momento del certo», al quale in eterno seguiva, «per dialettico svolgimento, il momento del vero, della ragione tutta spiegata, della giustizia e morale, ossia dell’eticità» (Politica «in nuce», cit., p. 260), sì che il simbolo machiavelliano del centauro si mostrava ormai inadeguato. Quella che in tale simbolo era rappresentata come la parte belluina che nell’uomo resisteva alla sua umanità e lo teneva prigioniero di un mondo privo di luce morale, si rivelava umana anch’essa nel circolo ideale nel cui interno agiva come la premessa del compimento dell’umanità primordiale dei bestioni, ancora ignari di Dio, in quella, giunta alla propria perfezione, dei Leli e degli Scipioni (cfr. La filosofia di Giambattista Vico, 1911, ed. 1997, p. 89). Che era, senza dubbio, una rappresentazione fortemente stilizzata e non poco idealizzata: anche perché era stato proprio C. che, nella sua monografia del 1911, aveva fatto notare come in Vico la filosofia dello spirito, con i suoi momenti eterni e necessari nel circolo che formavano, tendesse di continuo a contaminarsi di elementi storici ed empirici, e, in questa sua versione, riproponesse il problema della differenza storica e temporale sussistente tra le forme. Certo, la necessità in cui egli si trovava di rendere pienamente fruibile a sé stesso una verità, quella di M., che non sarebbe altrimenti stata tale, lo obbligava a queste rappresentazioni simboliche piuttosto che storiche. Ma alla radice di tutto questo, a rendere ancor più problematico il suo concetto, si dava un’ulteriore ragione che riguardava direttamente ciò che egli attribuiva a M. quando lo definiva lo scopritore dell’autonomia della politica, e lo poneva, per dir così, all’inizio di un processo ideale che sarebbe stato concluso dalla sua interpretazione, in senso idealistico e dialettico, di Vico. In realtà, come già in tempi preistorici lo scrivente ebbe a notare, se, in termini crociani, si dice autonomia, deve intendersi distinzione; se si dice distinzione, deve intendersi unità; che se questo, viceversa, non fosse possibile, allora autonomia varrebbe unicità, immediata esclusione da sé di ogni realtà con la quale le fosse necessario unirsi e distinguersi, distinguersi e unirsi. E l’idea della scoperta dovrebbe far posto all’altra, che C. lui pure sentiva con drammatica urgenza, del carattere schiettamente ferino della politica, condannata a cercare in sé stessa, e soltanto in sé stessa, la ragione del suo valere di più.

Se non in tutto, in parte, questo complesso giro di pensieri, che rendono inscindibile dalla filosofia di C. l’interpretazione da lui data di M., si ritrova nelle pagine sulla Mandragola, l’unica opera, come si è detto, alla quale egli dedicasse una compiuta, anche se assai stringata, analisi. Si può non essere d’accordo con lui sulle analisi che dedicò ai personaggi che, in quella commedia, conducono il gioco e intrecciano gli avvenimenti in modo che la donna desiderata cada fra le braccia di colui che la desidera e sia sottratta allo stupido marito, impotente a generare con lei il figlio desiderato. Si può non essere d’accordo perché, in effetti, Lucrezia è qualcosa di più, ossia, in realtà, qualcosa di meno, della donna che, non vedendo intorno a sé niente che per lei vada oltre il suo passivo esistere, si adatta alla situazione in cui la stupidità stessa del consorte ha contribuito a collocarla.

Lucrezia è la parodia negativa della virtù che non subisce le situazioni, ma le accetta per trasformarle, a differenza di lei che, invece, le accetta passivamente, perché non è che un oggetto nel mondo degli oggetti, un effetto nel mondo delle cause. Non basta, quindi, per comprenderla, vedervi soltanto una donna mediocre che acconsente e non protesta, perché c’è in questo consentire, in questo accettare, il segno di una passività perversa, come se essa fosse la regina di un regno che, senza combattere, si sia consegnato nelle mani di un nuovo signore. Altrettanto minimizzante di quella dedicata a madonna Lucrezia è l’analisi con la quale è ritratto frate Timoteo che, nella sua totale assenza di senso morale e nel cinismo con cui asseconda la strategia della conquista, da parte di Callimaco, di una donna che frequentava la sua chiesa, rivela l’estrema degenerazione che la scienza dei ‘casi’ subisce quando non sia usata se non a copertura di sordidi interessi. Assai più penetrante è invece il breve ritratto di messer Nicia, il marito che, con la sua motteggiante idiozia, collabora attivamente alla conquista da altri progettata della sua consorte, e che C. vede non soltanto come uno sciocco, ma come un uomo privo di scrupoli e malvagio, indifferente al destino di morte che, come gli è stato fatto credere, attende colui che, possedendo madonna Lucrezia, subirà su di sé le fatali conseguenze della mandragola. La Mandragola, per dire in brevi parole quel che ne richiederebbe certamente di più, è la commedia del rovesciamento dei principi politici, con i quali si tengono i regni e le repubbliche, nelle regole necessarie a governare un miserabile mondo di intrighi senza valore, è lo spietato ritratto della riduzione dell’universo tragico della politica a quello di una piccola conquista erotica. Nella parodia che subiscono, le regole sono le stesse: ma l’oggetto su cui sono chiamate a esercitarsi non è che un mondo degradato. Ed è qui che la corda della Mandragola dà una vibrazione tragica. In questo senso C. aveva ragione quando, contrastando il giudizio di De Sanctis, che non la trovava abbastanza lieve, si domandò se, per caso, la Mandragola non «avesse della tragedia» (La «commedia» del Rinascimento, 1929, in Poesia popolare e poesia d’arte, 1991, p. 224).

Di frate Timoteo C. disse che era l’effetto di una causa (p. 246), e niente più. Ma, con questa osservazione, anticipò un tema destinato a risuonare nell’ultimo scritto che, nel 1949, dedicò a Machiavelli. Era un’idea, questa del causalismo storico, che, dibattuta e criticata fin dagli inizi della sua carriera di filosofo, era stata da lui condotta al suo grado più alto, non solo nei volumi della Filosofia dello Spirito, ma in quelli che, in tema di storia e storiografia avevano tenuto dietro a essi. Non avrebbe, per conseguenza, se non l’imbarazzo della scelta chi, a questo riguardo, intendesse elencare titoli e citare pagine. E diamo perciò per nota la sua critica, che era volta a rivendicare, sulla causa e sul caso, il primato della libertà, e a interpretarla non come l’azione di questo o di quello, ma come la libertà del Tutto, in cui le singole volizioni e azioni si realizzano e si trasfigurano, e in cui non c’è causa che, essendo interna a esso, possa condizionarlo e farlo dipendere da sé. Fu questo uno dei temi, e forse il principale, che egli fece valere quando, nel 1949, essendogli accaduto (come diceva) di aver letto negli ultimi tempi vari libri di argomento machiavelliano, tornò sulla questione. E scrisse un saggio, Una questione che forse non si chiuderà mai: la questione del Machiavelli (poi, con il titolo semplificato La questione del Machiavelli, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1951, ed. 1997, pp. 175-86), nel quale ribadì tutti gli argomenti che via via gli era accaduto di produrre nel corso degli anni. Così rivendicò l’originalità della sua concezione che, sebbene molto fosse stata avversata, e nei più diversi ambienti, fu tuttavia anche avvertita come una conquista irrinunciabile, nei confronti della quale non si poteva tornare indietro («né la positività della coscienza morale poteva essere più abolita dopo il cristianesimo, né quella della politica dopo il Machiavelli», p. 179). Ribadì il significato filosofico implicito nell’idea della politica, di cui M. aveva rivendicata l’autonomia, ma che doveva essere messa d’accordo «con la pari dignità dell’altro termine della diade», la moralità, perché quel significato fosse attinto fin nella sua radice e al suo universo potesse esser strappata via l’angustia che, per una parte, lo affliggeva. Ma poi non esitò a ribadire la valutazione della Mandragola come una commedia che, «non oscena ma dolorosa», era piuttosto una tragedia, «come non poteva non essere in un autore che nel prologo diceva: “Scusate, che s’ingegna Con questi van pensieri Fare il suo tristo tempo più suave”» (p. 180); anche se, poiché considerava erronea in certe sue parti la teoria che il Segretario fiorentino aveva elaborata quando le porte dell’azione politica gli furono bruscamente chiuse ed egli non poté ottenere che gli fossero di nuovo aperte, un limite grave non potesse non indicarlo nel suo pensiero. Il limite consisteva nell’ammissione che potessero esserci o darsi deroghe ai comandamenti dettati dalla pura voce della coscienza morale. E M., che lo condivideva con tanti altri venuti prima e dopo di lui e, fra questi, persino con Hegel nella sua teoria dei weltgeschichtliche Individuen, non ebbe infatti mai la disposizione a discuterlo affrontando nel suo fondamento le teorie della casistica. Così non poté mettere in chiaro che, nella gretta elencazione di ‘casi’ in cui quella ‘scienza’ si esauriva, non c’era niente che trovasse un riscontro nelle sue opere; le quali a oggetto avevano infatti, non i ‘casi’ ritagliati dalla realtà e infilati in un astratto codice dei comportamenti consentiti e vietati, ma la viva e drammatica realtà delle cose storiche e politiche, e per questo riuscirono qualcosa di mezzo – nel che è un loro pregio – fra il trattato politico e la tragedia. Quando scolpì la statua dell’abietto frate Timoteo, M. ebbe l’intuizione, ma artistica piuttosto che concettuale, dell’angustia di quel modo di procedere distinguendo e sottodistinguendo, come poi sarebbe accaduto alla tavola di don Rodrigo. Ma del senso tragico che egli ebbe della politica sono piene le sue pagine; e qui se ne darà un solo esempio tratto da uno dei capitoli cruciali del Principe, dal settimo che, come si sa, è dedicato all’ascesa e alla caduta di Cesare Borgia: «e ritornatogli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si volse agli inganni».

Chi scriveva così aveva vivo il senso della storia, non di una ‘scienza’ in cui si assicura che questo è lecito e quello è vietato. Il che, c’è ragione di credere, sarebbe facilmente stato ammesso anche da C. che della casistica era, per suo conto, avversario deciso, e di questo difetto di rigore filosofico trovava il segno anche in Machiavelli. Al quale, soprattutto, rimproverò, posto che poi si trattasse di un rimprovero, di essersi lui pure lasciato irretire dall’idea che la storia sia una sequela di cause e di effetti, e di non avere attinto il concetto della libertà e della creatività, che è appunto della storia e non dell’individuo: della storia e perciò del Tutto, in cui le astratte individualità, le intenzioni, gli errori, ogni cosa si supera e trova il suo senso. Fu questa, salvo errore, l’ultima parola importante che C. scrisse su M.; ed era, a guardar bene, la stessa che egli aveva pronunciata quando, per integrare e rendere compiuta la sua verità, gli aveva contrapposto Vico e l’idea della provvidenza: senza, tuttavia, riuscire ad avvedersi che, con i crudi dilemmi che impone ai suoi protagonisti, il dramma della politica si svolge sul terreno delle cose che sono misurate, non dal tempo senza tempo dell’implicazione categoriale, ma dal tempo storico che, atto dopo atto, segna il dramma delle coscienze, aprendole alla sofferenza e al dubbio.

Bibliografia: I testi di C. sono citati, ove possibile, dall’Edizione nazionale in corso per i tipi di Bibliopolis: Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo (1897), in Materialismo storico ed economia marxistica, a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi Garampi, con una nota di P. Craveri, Napoli 2001, pp. 67-118; La filosofia di Giambattista Vico (1911), a cura di F. Audisio, Napoli 1997; La «commedia» del Rinascimento (1929), in Poesia popolare e poesia d’arte, a cura di P. Cudini, Napoli 1991, pp. 217-68; Filosofia della pratica. Economia ed etica, a cura di M. Tarantino, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli 1996; Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, a cura di A. Savorelli, Napoli 1997. Per le questioni interpretative toccate nella voce, cfr. G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975.

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