BASILICA

Enciclopedia Italiana (1930)

BASILICA (gr. βασιλική, βασιλική στοά, lat. basilica)

Antonio SOGLIANO
Carlo CECCHELLI

È una forma di pubblico edificio assai diffusa nel mondo antico e persistente tuttora, benché modificata, nel tempio cristiano.

La basilica greco-romana. - Essendo destinato all'amministrazione della giustizia e al commercio, non deve recar meraviglia che presso i Romani, ai quali si deve il Corpus iuris e nelle cui mani era il commercio mondiale, questo edificio sia stato oggetto di particolare sviluppo, sì che l'ulteriore più grandiosa forma di esso si abbia da considerare una creazione del genio architettonico romano. La basilica era costituita, di regola, di un'alta navata centrale e di due più basse navate laterali, separate dalla centrale per mezzo di colonne o di pilastri. Per lo più, ma non sempre, la basilica aveva, come sede particolare dell'amministrazione della giustizia, un tribunal in fondo alla navata centrale o in forma di un'abside (apsis) o in forma di un'elevata exedra con colonne sul lato anteriore.

Ma, se la grandiosità e la magnificenza delle basiliche rivelano la potenza romana, il prototipo di tale edificio, come il suo nome dimostra, è da ricercarsi sul suolo greco. L'aggettivo βασιλικός, accanto all'altra forma Βασίλειος, ricorre già nel sec. V a. C. (cfr. K. Lange, Haus und Halle, p. 97); e poiché βασιλικός dice lo stesso che βασίλειος, è da ammettere che la βασίλειος στοά o ἡ τοῦ βασιλέως στοά (portico regio o del re) in Atene si sia anche chiamata, per amor di brevità, nell'uso linguistico del popolo, βασιλική, cioè στοά βασιλική; se non che non si può citare in appoggio il luogo di Platone (Charm., 153), come fecero il Nissen (Pompeianische Studien, p. 207) e il Lange (op. cit., p. 98), giacché la lezione βασιλικῆς va sostituita con βασίλης, che è la vera lezione (cfr. P. Girard, L'éduc. athénienne, p. 28, n. 4). E la basilica si ricollega col portico del re non solo per la somiglianza del nome, ma altresi per l'identità della destinazione che una parte di essa aveva con quel portico, giacché, come nella basilica si amministrava la giustizia, così il portico del re in Atene era la residenza dell'arconte re (ὁ ἄρχων βασιλεύς), che, con i suoi due assessori (πάρεδροι), vi istruiva i processi dei delitti che ricadevano sotto la sua giurisdizione.

Il Lange (op. cit., p. 70, nota 2) afferma che il portico del re era chiuso al pubblico ordinario, e lo deduce dal luogo di Platone (Euthyphr., I a), nel quale Socrate si aggira intorno al portico del re (περὶ τὴν τοῦ βασιλέως στοάν). Ma da questo luogo non scaturisce la conseguenza che il Lange vuol trarne. Socrate, accusato d'empietà e di corruzione del costume, si recava al portico del re per difendersi in periodo d'istruzione del processo, quando nei pressi appunto della residenza dell'arconte re s'imbatte in Eutifrone, il quale gli rivolge cosi la parola: "Che c'è di nuovo, Socrate, che hai lasciato i trattenimenti del Liceo, per venire oggi a trattenerti qui intorno al portico del re?". È dunque Eutifrone che parla; questi domanda a Socrate il motivo della sua presenza in quel posto. Certamente il pubblico di spettatori non poteva essere ammesso nel portico del re; ma il pubblico interessato ai processi che vi s'istruivano, doveva avervi accesso. Se Platone, nella finzione dell'incontro di Eutifrone con Socrate nei pressi del portico del re, si fosse servito di quella stessa rappresentazione artistica, che ammiriamo fusa col contenuto filosofico nel Protagora e nel Convito, forse avremmo qualche elemento di più per formarci un'idea approssimativa di quell'edificio, della cui pianta e disposizione non siamo, disgraziatamente, per nulla informati.

Nel passaggio dal reggimento monarchico al reggimento oligarchico in Atene, le attribuzioni dell'antico basileus, concernenti l'amministrazione della giustizia, passarono al secondo arconte, ma limitate alle pratiche preliminari dei processi di carattere religioso, essendo demandata la decisione dei processi stessi alla bulè areopagitica ovvero al tribunale degli Eliasti. E poiché la tutela della religione e l'amministrazione della giustizia erano tra le principali prerogative del re, così al secondo arconte fu mantenuto il nome di re, e fu detto ἄρχων βασιλεύς o βασιλεύς senz'altro, pure essendo sottoposto al primo arconte, che era l'eponimo, cioè il supremo magistrato, che dava il suo nome all'anno. Un'analogia si riscontra nella storia religiosa più antica dei Romani, presso i quali il sacerdote, che compiva quei riti sacri che un tempo erano compiuti dal re, si chiamò rex sacrificulus, perché sembrasse che quei sacri riti fossero ancora compiuti dal re, benché i re fossero stati espulsi per sempre. Ma a togliere a quel sacerdote ogni velleità di autorità regia e suprema venne sottoposto al pontefice massimo, come appunto l'arconte re all'arconte eponimo.

La βασίλειος στοά di Atene, edificata probabilmente dai Pisistratidi, era situata sul lato occidentale dell'agorà (mercato civile), e precisamente all'estremità occidentale della serie delle erme, tra la stoà poikile a nord e il portico di Zeus Eleutherios a sud (Paus., I, 3,1; cfr. Lange, op. cit., pp. 61-68 e pp. 92-93; v. atene). Il Lange (op. cit., p. 69) crede che il portico del re fosse non un lungo portico aperto, come la stoa poikile e il portico di Zeus Eleutherios, che erano semplici portici con colonne, aperti verso il mercato, con una lunga parete posteriore e due brevi pareti laterali; ma piuttosto un portico chiuso, parendogli inverosimile che il portico del re avesse la medesima forma dei portici aperti, che erano ai suoi lati. E ritiene rafforzata la sua ipotesi dalla menzione fatta da Pausania di due gruppi di terracotta (ἀγάλματα ἀπτῆς γῆς, I, 3,1), nei quali riconosce giustamente due acroterî, che avrebbero decorato, secondo lui, il tetto di copertura del portico negli angoli estremi del frontone orientale, ovvero sarebbero stati l'uno sopra il frontone orientale, l'altro sull'occidentale. Se si ammetta perciò, continua il Lange (op. cit., p. 70), che il portico del re fosse una στοά chiusa, bisogna anche ammettere che esso avesse colonne nell'interno, avvicinandosi così alla grande sala a colonne dell'antica casa reale ateniese, dove il re convocava a consiglio gli anziani del suo popolo; e tale avvicinamento merita tanto maggior fede, in quanto che l'ufficio di un magistrato, qualunque esso sia, può essere pensato molto più convenientemente in un portico chiuso che in un portico aperto; tanto più poi, quando si consideri la natura di quest'ufficio e l'uso del portico del re nelle diverse epoche della storia attica. La ricostruzione ideale quindi, che il Lange fa della βασίλειος στοά (op. cit., p. 95), è la seguente: una sala cinta intorno da pareti, del tutto coperta, divisa, mediante serie di colonne, le quali sorgevano anche nei lati corti, in una navata centrale più larga e in navate laterali più strette. Essa volgeva l'uno dei suoi lati corti all'agorà, ed era decorata verosimilmente, nella fronte, di un portico con colonne, il quale poteva corrispondere, secondo il Lange, all'antico greco πρόϑυρον.

Quanto alla sua grandezza, lo stretto rapporto nel quale la bulè areopagitica stava con l'arconte re, come col suo presidente, in tutti i processi di sua competenza, induce a pensare che il portico del re fosse luogo di adunanza di un collegio di areopagiti. Ora non è verosimile, pensa il Lange, che in seguito all'aumento per la riforma solonica la bulè areopagitica, sino al tempo dei Pisistratidi, abbia superato il numero di 100 membri; d'altro lato, difficilmente la grandiosità dei Pisistratidi nelle loro costruzioni si sarà strettamente attenuta a questo rapporto, una volta che il nuovo edificio doveva rivaleggiare, sino a un certo punto, col già esistente buleuterion, che era destinato a contenere un'assemblea molto più numerosa. Quanto alla forma del tetto che ricopriva il portico del re, il Lange, come già sopra si è detto, crede che sia stata quella di un tetto a due spioventi, con un acroterio su ciascun frontone; e circa la sopraelevazione della navata centrale, egli si fonda sulla tradizione architettonica egizio-fenicia, a cui si ricollegherebbe il megaron omerico, e per la quale il principio della sopraelevazione si sarebbe continuato a sviluppare nell'antica casa principesca greca (op. cit., p. 99 seg.).

Questa ricostruzione ideale della βασίλειος στοά ateniese fatta dal Lange urta essenzialmente contro il concetto generale di στοά, che vuol dire portico aperto sopra un'area scoperta: tali erano di fatto, per non allontanarci da Atene, la stoà di Attalo, la stoà poikile, la stoà di Zeus Eleutherios. E il concetto di stoà, cioè di portico aperto sopra un'area scoperta, è il concetto fondamentale nella denominazione di βασίλειος στοά o ἡ τοῦ βασιλέως στοά, tanto che per gli antichi Greci le basiliche talora non valevano propriamente come una particolare forma di edificio, ma esprimevano il concetto generale di portico (v. le fonti presso Nissen, Pomp. Stud., p. 209). Anche presso i Latini troviamo la voce basilica adoperata nel significato di portico, come nella epigrafe: (Corp. Inscr. Lat., IX, 3162): res publica populusque Corfiniensis macellum Lucceium vetustate dilapsum adiectis basilicis sua pecunia restituit. In altri termini, essendo passato il concetto fondamentale di στοά nell'aggettivo sostantivato ἡ βασιλική, il nome basilica finì per significare anche semplicemente porticus. E la riprova se ne ha nel fatto che, mentre nell'architettura romana il portico che precede l'ingresso alla basilica è detto chalcidicum, questo nome, benché di provenienza greca (da Calcide nell'Eubea), è quasi estraneo alla letteratura greca, per la ragione che, comprendendosi con la basilica il concetto generale di στοά ogni altro nome speciale veniva rigettato (Nissen, op. cit., p. 292). Eppure un portico con colonne sulla fronte era considerato come una necessaria esigenza di un edificio greco profano di carattere pubblico. Né i due acroterî di terracotta visti da Pausania possono far fede per la copertura dell'intero edificio: essi potevano appartenere alla copertura del portico anteriore o calcidico, ovvero anche alla copertura di altra parte dell'edificio stesso.

Ma, come sopra è detto, il Lange giustamente ritiene che il portico del re fosse un portico chiuso, dovendosi pensare l'ufficio di un magistrato, e di tanta importanza, molto più convenientemente in un portico chiuso che in un portico aperto. A conciliare tale legittima esigenza col concetto di στοά, quale risulta dalle stesse testimonianze classiche, non v'ha altra via che immaginare il portico del re come un edificio, il cui interno fosse scompartito, mediante serie di colonne, in tre navate, delle quali la centrale, più larga, fosse scoperta. L'ufficio dello ἄρχων βασιλεύς poteva ben trovare un posto opportuno nel portico posteriore, di fronte al portico d'ingresso; e nulla vieta di ammettere che quel portico posteriore, in corrispondenza della navata centrale scoperta, avesse la parete conformata ad abside ovvero contenesse un βῆνα o suggesto per il magistrato.

Nulla ci autorizza ad ammettere un piano superiore nel portico del re, ma se, come nota il Lange (op. cit., p. 68), il mettere in rilievo un edificio per mezzo di portici che lo fiancheggino conferisce all'edificio stesso un'alta importanza, maggior rilievo di certo si sarebbe dato al portico del re con un piano superiore, che avesse dominato così la stoà poikile come il portico di Zeus Eleutherios.

Tutti gli elementi che il ragionamento e il buon senso forniscono alla ricostruzione ideale della βασίλειος στοά ateniese, trovano il loro riscontro nella più antica delle basiliche di cui si conoscano avanzi, cioè nella basilica di Pompei, la quale, avvicinandosi molto al prototipo ateniese, è per tal rispetto di un'eccezionale importanza.

Da una testimonianza epigrafica (Corp. Inscr. Lat., IV, 1842) siamo informati che in Pompei già esisteva la basilica innanzi all'anno 78 a. C.; e tutto un insieme di salde prove, che si possono riassumere, oltre che nella citata epigrafe, nella maniera di costruzione, nell'unità di misura adottata, che è il piede italico, nella decorazione di primo stile e nella presenza di lettere osche tracciate in rosso sui muri anteriormente alla decorazione di primo stile, induce ad attribuirne l'edificazione assai probabilmente alla seconda meta del sec. II a. C. (cfr. Sogliano, La basilica di Pompei, in Memorie della R. Accad. di Archeol. e belle arti di Napoli, III, 1911). Anche la designazione di basilica è assicurata da un'iscrizione graffita (Corp. Inscr. Lat., IV, 1779). Mentre la βασίλειος στοά era situata verso l'estremità nord del lato occidentale dell'agorà, la basilica pompeiana, l'edificio più splendido e architettonicamente più interessante di Pompei preromana, fu edificata nell'angolo sud-ovest del Foro sopra un'area ricavata dalla demolizione di edifici privati, che fino al sec. II a. C. avevano fronteggiato la strada, la quale in quel tempo costituiva il limite meridionale della piazza (Sogliano, op. cit., p. 120). Come la βασίλειος στοά, anche la basilica di Pompei volgeva il suo lato corto orientale alla piazza; e, come quella era verosimilmente preceduta da un portico, così in questa cinque ingressi, difesi da cancelli, tra sei pilastri di tufo introducono dal Foro in un vestibolo coperto detto chalcidicum, forma di edificio trapiantata dalla euboica Calcide nelle città calcidesi sul golfo di Napoli e di lì nella Campania e in Roma stessa (Nissen, op. cit., p. 292).

La facciata del calcidico doveva avere un'altezza di m.3,82, quale è l'altezza all'incirca delle colonne del portico del Foro, le quali non si può dubitare che non fossero uguali in altezza ai pilastri della facciata stessa. La decorazione di questo vestibolo era assai semplice, presentando una superficie bianca con uno zoccolo giallo, orlato di rosso. Salendo quattro gradini di lava si entra nell'edificio; quattro colonne spartiscono l'ingresso; i tre intercolumnî centrali erano aperti del tutto i due estremi, a destra e a sinistra, chiusi mediante un muro, nel quale però era aperta una larga porta. Nell'edificio si entrava altresì per due porte, anch'esse munite di cancelli, nel mezzo dei lati lunghi, settentrionale e meridionale, giacché la basilica, come si è già detto, aveva la fronte rivolta a oriente. Tutto lo spazio interno è lungo m. 55 ed è largo m. 24, sicché l'area interna dell'edificio è di mq. 1320. Riducendo i metri a piedi italici (cfr. Sogliano, Il Foro di Pompei, in Memorie della R. Accademia dei Lincei, classe scienze mor., s. 6ª, I, 1925, p. 238 segg.), si ha la lunghezza di piedi italici 200 e la larghezza di piedi 87 e mezzo. Ventotto robuste colonne di mattoni del diametro di m. 1, 10 (piedi italici 4), conservate soltanto in poca altezza, dividono lo spazio interno in uno spazio centrale scoperto e in un portico che gira intorno, sostenuto dalle menzionate robuste colonne laterizie, talché non si riscontra qui il motivo caratteristico della maggiore altezza dello spazio centrale col doppio ordine di colonne, come a torto suppose il Lange nella sua ricostruzione ideale della basilica di Pompei (op. cit., p. 351 segg.). Mezze colonne di minore diametro (m. 0,84) sporgono dalle pareti, la cui decorazione di stucco imita in lavoro plastico un'incrostazione di lastre di marmi colorati: il noto motivo del cosiddetto primo stile pompeiano. Un diametro uguale a quello delle mezze colonne hanno le colonne già menzionate dell'ingresso e quelle del lato posteriore, agli angoli del tribunal. I capitelli ionici di tufo sono in parte conservati; non cosi quelli delle ventotto robuste colonne, i quali sparirono senza lasciar traccia. Nel lato posteriore si apre con un colonnato il tribunal sopra un basamento alto m. 1,65 (6 piedi italici). Di un eccellente pavimento di mattone pesto (opus signinum) sono rimasti scarsi avanzi: esso si estendeva nel portico e nello spazio centrale. Un canaletto corre su tre lati dello spazio centrale appiè delle robuste colonne, interrotto da otto vasche quadrangolari.

La ricostruzione ideale della basilica pompeiana, quale è consentita dalle ricerche e studî recenti, è la seguente: le robuste colonne che separano il portico dall'area centrale scoperta, avendo un metro e più di diametro, potevano essere alte circa m. 10. Al contrario le mezze colonne sporgenti dai muri perimetrali e le colonne dell'ingresso e del lato posteriore, del diametro di cm. 84, con il loro capitello ionico non erano più alte di m. 5,98. Ora, poiché le pareti non potevano essere più basse delle grandi colonne col loro epistilio, così al disopra dell'epistilio delle mezze colonne doveva necessariamente continuare il muro perimetrale, e infatti di questa parte superiore ci sono pervenuti notevoli avanzi di colonne in tufo. È da ammettere quindi un ambulacro superiore, il cui piano di calpestio fosse quasi allo stesso livello della copertura del piano inferiore del tribunal. E alla parete di questo ambulacro superiore appartenevano senza dubbio le colonne, i tre quarti di colonne, i capitelli e talune basi di tufo con rivestimento di stucco bianco, che abbiamo menzionato e che ora giacciono lungo le pareti della basilica. Tali avanzi dimostrano che nei lati lunghi, sull'epistilio delle mezze colonne, addossate alle pareti, era collocato un altro ordine di mezze colonne più piccole (diametro m. o,53), interrotto nel mezzo da finestroni con colonne intere, verosimilmente sull'appiombo delle porte laterali. Sul lato d'ingresso la parte superiore si elevava, analogamente, del tutto aperta sul solaio piano o terrazza di copertura del calcidico. All'ambulacro superiore del portico si perveniva, salendo la gradinata esterna all'angolo sudest dell'edificio, ritenuta sinora unicamente gradinata di accesso all'ambulacro superiore del portico del Foro; sviluppando, con la stessa pedata e con la stessa alzata dei gradini superstiti, quella gradinata, si ha che essa va bensì a finire col primo rampante a quel livello, ma di lì, voltando a sinistra, sale esattamente sulla terrazza di copertura del calcidico, donde si accedeva, allo stesso livello, all'ambulacro superiore della basilica e in fondo, ripiegando, al piano superiore del tribunal. Questo è la parte più notevole dell'intero edificio, oggi egregiamente ricostruita sotto la direzione dell'architetto Luigi Iacono, al quale si deve anche la ricostruzione ideale dell'ambulacro superiore del portico. Il tribunal sorge sopra un bel basamento fortemente modinato, e si apre con un colonnato sull'area centrale; le pareti articolate mediante mezze colonne imitano, come quelle del portico, un'incrostazione marmorea colorata. È un tribunal nel senso più proprio della parola: sull'alto podio sedeva il giudice insieme coi suoi assessori; le parti in causa stavano in basso, nel braccio posteriore del portico. Il basamento del tribunal contiene un ambiente mezzo sotterraneo, il quale per due aperture circolari praticate nella vòlta è in relazione col tribunal soprastante. La destinazione di tale ambiente non è sicura: qui potevano trattenersi gli addetti al tribunale, ovvero potevano qui esser depositati oggetti occorrenti all'amministrazione della giustizia, per esempio oggetti di scrittoio, che si porgevano attraverso le due aperture rispondenti nel pavimento del tribunal. A destra e a sinistra di questo sono gli ambienti o recessi per le scale. Al tribunale si saliva mediante scale di legno, mentre nell'ambiente sotterraneo si discendeva per scale di pietra accessibili dai detti recessi; e poiché delle due scalette di pietra soltanto quella a sinistra è fortemente logorata, mentra l'altra a destra ha quasi l'aspetto di nuova, è da ritenere che soltanto a destra fosse collocata la scaletta di legno, per cui si saliva al tribunale: onde da questa parte restava impedito l'accesso al sotterraneo. Non sappiamo a che uso fosse adibito il piano superiore del tribunal: trovandosi, come si è detto, allo stesso livello dell'ambulacro superiore del portico e in comunicazione con esso, non è improbabile che vi si decidessero o componessero le liti concernenti il commercio. L'edificio era coperto da un tetto a quattro falde inclinate verso l'area centrale scoperta (compluviato), ovvero inclinate verso l'esterno (displuviato). Entro l'area centrale tornò in luce una vasca marmorea di fontana, e di fronte all'ingresso secondario settentrionale, fra due colonne, sta la base quadrata marmorea di un'altra vasca di fontana, non potendosi ammettere che vi poggiasse un puteal, poiché non vi corrisponde nessuna gola di pozzo: un frammento di fistula, che attraversa il pavimento di signino, conforta tale ipotesi. Inoltre nel sottosuolo furono segnalati serbatoi d'acqua, che certo dovevano alimentare le fontane. E di vasche di fontane rinvenute nell'interno della basilica parlano l'architetto Gaspare Vinci (Descriz. di Pompei, Napoli 1839, p. 106) e il Fiorelli (Descriz. di Pompei, Napoli 1875, p. 318). Orbene, la presenza di queste si spiega assai meglio con l'area centrale scoperta, come appunto accade nel teatro della stessa Pompei, che non con un'area coperta.

Certamente il tetto non era visibile, ma mascherato dai lacunaria. In un vasto e grandioso edificio, quale è la basilica di Pompei, i lunghi e alti muri esterni del tutto ciechi avrebbero offeso quel senso architettonico che gli antichi avevano cosi squisito; di qui la necessità di animare con un colonnato la parte centrale superiore dei muri.

Restituito il tetto al portico e lasciato scoperto lo spazio centrale, tutto l'edificio ridiventa una vera e propria στοά; ma non diversamente, secondo il sano ragionamento, doveva presentarsi la βασίλειος στοά ateniese; dunque la basilica di Pompei va collegata, non con la serie delle basiliche romane, ma col più antico tipo di basilica, rappresentato appunto dalla στοὰ βασίλειος d'Atene. Il qual prototipo continuò a essere imitato non solo nell'Oriente ellenistico, ma altresì in Occidente.

Nell'anno 47 a. C. Cesare fece edificare in Antiochia una basilica, detta dal suo nome Καισάριον (Io. Malala, 216, ed. Bonn). È stato giustamente osservato essere inverosimile che il dittatore abbia voluto introdurre in quel gran centro di civiltà ellenistica una forma del tutto romana di edificio. Ora Giovanni Malala, al duale dobbiamo la notizia, dice (287): 'Εκάϑευδε ... εἰς τὸ ἐξάερον τῆς λεγομένης βασιλικῆς τὸ Καισάριον, cioè "dormiva nell'area scoperta della basilica detta il Cesareo". In questa, per conseguenza, doveva essere una parte coperta e un'altra scoperta, la στοά, cioè, e l'ἐξάερον, che il cronista contrappone a quella dove meglio si sarebbe potuto dormire, perché al coperto. E chi non vede la stretta analogia che il Caesarium presenta, da un lato, con la basilica pompeiana, che conteneva appunto la στοά e l'ἐξάερον e, dall'altro, col comune prototipo, la βασίλειος στοά ateniese? (cfr. Sogliano, op. cit., p. 124).

La basilica di Turi, colonia voluta e attuata da Pericle, molto verosimilmente doveva riprodurre il tipo della βασίλειος στοά ateniese, e a questo medesimo tipo si riannodava certamente la basilica di Saepinum nella regione di quei Sanniti ellenizzati che edificarono la basilica di Pompei (cfr. Sogliano, op. cit., p. 126 segg.). Persino nella Betica, in Abdera (oggi Adra: Corp. Inscr. Lat., II, 1979), si ha memoria di una basili]cam cum hypa[ethro: se si fosse trattato di una basilica romana, si sarebbe detto semplicemente basilicam, come tante volte s'incontra nelle iscrizioni. Ma l'aggiunta cum hypaethro vuol significare che quella basilica doveva contenere una parte ipetrale, cioè l'ἐξάερον delle basiliche di Pompei e di Antiochia, ed essere stata perciò costruita more graeco.

Ma per la sede della giustizia e del commercio, Roma, i cui legislatori avevano tanto contribuito alla più alta concezione ed amministrazione di questa primaria funzione statale e il cui commercio ormai abbracciava tutto il bacino del Mediterraneo, non poteva star contenta di un semplice portico, sia pure a doppio ordine; si richiedeva necessariamente un edificio vasto e grandioso, che materialmente rispecchiasse l'altezza e l'importanza della funzione che vi si esercitava. E per quell'attaccamento dell'arte classica alla tradizione, per il quale ogni innovazione non era che sviluppo ulteriore di forme già trovate, gli architetti romani non ebbero che a scegliere nella bella architettura ellenistica quel tipo di edificio che meglio rispondesse allo scopo, dando ad esso quella grandiosità e splendore che fecero della basilica l'edificio più ambito nel mondo antico. Già la somiglianza, notata da Vitruvio, tra l'architettura della basilica romana, così pubblica come privata, e quella dell'oecus aegyptius della casa ellenistica accusa un legame tra le due architetture. Vitruvio infatti dice: (VI, 3, 9): "Inter corinthios autem et aegyptios (oecos) erit discrimen. Corinthii simplices habent columnas aut in podio positas aut in imo, supraque habent epistylia et coronas aut ex intestino opere aut albario, praeterea supra coronas curva lacunaria ad circinum delumbata. In aegyptiis autem supra columnas epistylia et ab epistyliis ad parietes, qui sunt circa, imponenda est contignatio, supra coaxationem pavimentum, subdiu ut sit circumitus. Deinde supra epistylium ad perpendiculum inferiorum columnarum imponendae sunt minores quarta parte columnae. Supra earum epistylia et ornamenta lacunariis ornantur et inter columnas superiores fenestrae conlocantur, ita basilicarum ea similitudo, non corinthiorum tricliniorum videtur esse". La differenza dunque tra l'oecus corinthius e l'oecus aegyptius consisteva in questo, che, mentre il primo era una sala la cui copertura a vòlta poggiava su tre serie di colonne lungo le pareti (oecus della casa del Labirinto in Pompei), il secondo, cioè l'oecus aegyptius, essendo di maggiore ampiezza, conteneva nel mezzo due serie di colonne alte quanto le pareti e parallele a queste, in modo da spartire l'ambiente in tre navate; e su tali colonne si elevavano altre colonne, di un quarto più piccole delle colonne inferiori, che sostenevano il tetto a due spioventi e fra le quali si aprivano finestre tagliate in lastre di marmo o fatte con telai di legno incastrati nelle colonne, per le quali finestre entrava la luce nell'interno. Esternamente a queste finestre e a un livello più basso si trovavano le coperture piane delle due navate laterali, cioè delle terrazze, su cui si poteva passeggiare all'aria libera (cfr. Lange, op. cit., p. 141). Si ha dunque nella spartizione dell'ambiente in tre navate e nella sopraelevazione d'una parte della copertura dell'oecus aegyptius della casa ellenistica lo stesso principio costruttivo della basilica romana.

Ma l'architettura di questo grandioso edificio romano viene, d'altra parte, collegata con l'architettura ellenistica dal confronto della grande sala ipostila, scoperta in Delo negli anni 1907-1908 e pubblicata e illustrata da G. Leroux (La salle hypostyle, in Exploration archéologique de Délos faite par l'Ècole française d'Athènes, fasc. II, Parigi 1909; cfr. G.E. Rizzo, in Rivista di Filologia, XXXVIII (1910), p. 621 segg.).

Essa limitava a settentrione l'agorà, compiuta verso l'anno 126-125 a. C. dall'epimeletes ateniese Teofrasto, alla quale volgeva gran parte del suo lato lungo meridionale, ed era, a poca distanza, davanti a chi sbarcava nella parte orientale del porto, quasi contigua all'angolo nord-ovest del ἱερόν di Apollo. Di pianta rettangolare, misurando in grandezza m. 56 x34 circa, conteneva un'area di oltre 1900 mq.; era dunque il più vasto edificio di Delo, dopo la stoà di Filippo V. Nei tre lati, orientale, settentrionale e occidentale, la sala era interamente chiusa da un muro; ma sul lato meridionale, cioè sulla facciata rivolta al porto, il muro non correva, a partire dagli angoli sud-est e sud-ovest, che sopra una lunghezza di poco più di m. 6; la maggior parte del lato di facciata era occupata da un portico di quindici colonne doriche, che dava ingresso all'edificio. L'area interna, orientata da nord a sud, era divisa da nove file di colonne, in tutto quarantaquattro, ma non tutte dello stesso ordine. Il colonnato dorico correva parallelamente alle quattro facce dell'edificio, a distanza uguale, o quasi, da ciascun muro, e comprendeva nove colonne sui lati lunghi e cinque sui lati corti, contando due volte le colonne angolari. Lo spazio rettangolare delimitato dal colonnato dorico era diviso, secondo l'asse minore, cioè l'asse della facciata, da sette file di colonne ioniche; secondo l'asse maggiore da cinque file di colonne. Giusta la plausibile ricostruzione del Leroux, giustificata dall'assenza di ogni avanzo di frontone, la copertura dell'intero edificio era a quattro spioventi; ma sulla parte centrale sarebbe stata sopraelevata una costruzione lignea, coperta, a sua volta, da un tetto a quattro spioventi, il cui columen sarebbe stato sostenuto dalla fila centrale delle colonne; in siffatta costruzione lignea sopraelevata, al disotto del tetto, sarebbero state aperte finestre, per dar luce alla sala. La quale, senza dubbio, era destinata ad uso pubblico: situata presso il porto, in una città di grande traffico, era come un'immensa sala di convegno, dove uomini di commercio potevano trattare comodamente i loro affari, al riparo dalle intemperie. Secondo la dotta dimostrazione del Leroux, fondata sull'esame stilistico ed epigrafico, l'edificazione della sala ipostila di Delo deve essere attribuita all'età macedone, agli ultimi anni del sec. III a. C.

Non si può negare che la sala ipostila delia, così per la disposizione della sua pianta e della sua probabile copertura, come per la sua destinazione desunta dalla sua ubicazione, abbia elementi comuni con la basilica romana; ma essa, per la sua connessione con le sale ipostile egiziane, ci riconduce all'architettura alessandrina; dunque in questa, come era già stato supposto, è verosimile che gli architetti romani abbiano scelto il tipo architettonico della basilica (cfr. F. Studniczka, Gött. gel. Anzeig., 1901, p. 548; A. Michaelis, Mél. Perrot, p. 245 segg.; Lange, op. cit., p. 14 segg.).

Certo nel sec. III a. C. la sala ipostila dovette essere un tipo prediletto dall'architettura ellenistica; ma la sua introduzione in Roma come basilica non avvenne prima degl'inizî del sec. II a. C., giacché nell'anno 210 a. C. nessuna basilica esisteva ancora in Roma, giusta l'attestazione di Livio (XXVI, 27,3). Non è improbabile che tale tipo architettonico alessandrino sia stato introdotto nella Campania e quindi in Roma per il tramite di Puteoli. Comunque, nell'anno 184 a. C. sorse in Roma la prima basilica voluta da Catone, nella sua qualità di censore, con l'orazione uti basilica aedificetur e chiamata Porcia dal suo nome.

Sennonché la sala ipostila di Delo è essenzialmente ancora una stoà; spetta agli architetti romani il merito di aver trasformato il semplice portico in un vasto e splendido edificio. Assai istruttivo è il confronto con la Basilica Giulia, come quella che, mentre offre le più grandi somiglianze con la sala ipostila di Delo, a cominciare dalla sua posizione rispetto al Foro, dimostra, d'altra parte, lo sviluppo che a quel tipo di edificio diedero gli architetti romani. Cesare nell'anno 46 a. C., cioè un anno dopo l'edificazione del Cesareo in Antiochia, incominciò sul lato meridionale del Foro Romano la costruzione della grande Basilica Giulia, la quale, volgendo al Foro il suo lato lungo settentrionale, si estese anche sul posto della preesistente Basilica Sempronia edificata nel 170 a. C. Compiuta da Augusto, fu distrutta da un incendio; e negli ultimi anni di Augusto si trovava ancora in rinnovazione; in seguito essa, tra il 283 e il 305 d. C., s'incendiò ancora due volte e venne di nuovo restaurata; nell'anno 377 fu ancora riparata.

L'edificio di pianta rettangolare, della lunghezza di circa m. 102 e della larghezza di m. 49, era diviso da serie di pilastri in cinque navate e aveva, in luogo del muro perimetrale, una serie di arcate sostenute da pilastri, nelle quali si aprivano botteghe (tabernae) sul Foro e sulle due vie adiacenti, il Victus Tuscus e il Vicus Iugaruis. Poiché il suolo sale verso occidente, fu necessaria una sostruziorie, che a oriente era altissima, a occidente assai bassa. Tutto l'edificio era esternamente circondato da portici. Il pavimento della navata mediana o centrale è allo stesso livello di quello delle navate laterali, le quali corrono su tutti i quattro lati intorno alla navata centrale, mentre il pavimento dei portici esterni è più basso di due gradini. La larghezza della navata centrale è di m. 16, il che in una lunghezza di circa m. 82 determina un rapporto tale, che risulta evidente l'intenzione dell'originaria copertura della navata (cfr. Iulia tecta, presso Marziale, VI, 38,6 e Stazio, Silv., I, i, 29). Anche il ricco pavimento della navata centrale, che è fatto di cipollino, giallo, africano e pavonazzetto, mentre le navate laterali sono pavimentate di lastre di marmo bianeo, caratterizza chiaramente la navata centrale come la parte più importante dell'intero edificio, la quale come tale non poteva naturalmente essere scoperta. Era separata dalle navate laterali mediante transenne di marmo incastrate fra i pilastri. La copertura dell'edificio, secondo la ricostruzione ideale fattane dal Lange (op. cit., p. 184 segg.), sulla base di testimonianze letterarie e di confronti monumentali, sarebbe stata di un triplice ordine graduale discendente: il tetto della navata centrale si sarebbe elevato al disopra di quello che ricopriva le gallerie soprastanti alle navate laterali, e allo stesso livello del soffitto di queste ultime, cioè più in basso, si sarebbe distesa la terrazza piana di copertura dei portici esterni. Dalla parte superiore della navata centrale, attraverso finestre in essa aperte, pioveva la luce nell'interno; e siffatta sopraelevazione della navata centrale costituiva, per l'aspetto esterno, la stessa accentuazione dello spazio centrale, che, per l'aspetto interno, era dato dal pavimento più ricco. La terrazza piana di copertura dei portici esterni, mentre rendeva possibile, anche dall'esterno, l'illuminazione delle gallerie interne superiori, poteva ben essere utilizzata come posto assai comodo e opportuno per assistere alle feste del Foro.

Introdotto in Roma il tipo alessandrino della sala ipostila, vennero edificate, dagl'inizî del sec. II a. C. a tutto l'impero di Augusto, oltre alle basiliche Porcia, Sempronia e Giulia, già ricordate, la basilica Fulvia nel 179 a. C. e poco dopo la basilica Aemilia, ambedue sul lato settentrionale del Foro, la basilica Opimia nel 121, a nord-ovest del Foro, la basilica Iulia Aquiliana elevata in onore di Cesare da un Aquilius, forse C. Aquilius Gallus, amico di Cicerone, e infine la basilica Antoniarum duarum (Corp. Inscr. Lat., VI, 5536), così denominata dalle due figliole di Ottavia e M. Antonio. Di queste due ultime basiliche è ignota l'ubicazione.

Fuori di Roma la più antica notizia sopra una basilica ci è data da un'epigrafe (Corp. Inscr. Lat., X, 5807 = I, 1166), secondo la quale, prima dell'anno 90 a. C. in Aletrium (Alatri) la basilica fu nuovamente intonacata (basilicam calecandam). Che già al tempo di Augusto fosse di regola che ciascun municipio avesse la sua basilica, ben si desume dal racconto di Svetonio (Aug., 100) sul trasporto del cadavere di Augusto, il quale veniva esposto in basilica cuiusque oppidi. Numerose basiliche attestate dalle iscrizioni sorsero in Italia, specialmente nell'Italia meridionale (v. lo spoglio del Corp. Inscr. Lat., fatto dal Mau in Pauly-Wissowa, s. v.). Qui si ricorderà solo che, mentre in Pompei già esisteva la basilica prima della guerra sociale, Ercolano non ebbe la basilica che all'età di Augusto (Corp. Inscr. Lat., X, 1425). Due ne ebbero Puteoli (Basilica Alexandrina e Basilica Augusti Anniana) e Beneventum.

Ormai la basilica romana è giunta a tal punto del suo sviluppo architettonico, che Vitruvio può ben fissarne le norme. Egli infatti prescrive (V,1,4): a) che la basilica annessa al Foro sorga nel posto più caldo, affinché i commercianti, durante l'inverno, possano trattenervisi, senza essere esposti all'inclemenza della stagione; b) che il rapporto tra la larghezza e la lunghezza della basilica non debba essere superiore a 1:2, né inferiore a 1:3; in altri termini, che la larghezza della basilica non debba essere maggiore della metà, né minore del terzo della lunghezza, se però la natura del luogo non lo vieti e non costringa quindi a regolare diversamente il rapporto; c) se poi lo spazio assegnato richieda una maggior lunghezza, si costruiscano alle estremità, cioè nei lati corti, dei chalcidica (vestiboli) come nelle basiliche Giulia e Aquiliana; d) l'interno della basilica si divida in uno spazio centrale più alto e in un portico più basso, separato da quello per mezzo di colonne, e la cui larghezza sia un terzo della larghezza dello spazio centrale; e) l'altezza delle colonne sia uguale alla larghezza del portico; f) sull'epistilio di queste colonne si collochi un secondo ordine di colonne più piccole; g) tra l'ordine inferiore e superiore si faccia un parapetto (pluteus), il quale sia alto un quarto meno dell'altezza delle colonne superiori, cioè 3/4 dell'altezza di queste colonne; h) i portici siano coperti da una soffitta piana (contignario), sostenuta dall'architrave delle colonne inferiori dall'un lato, e, dall'altro, dai muri esterni, e che serva da ambulacro; i) sullo spazio centrale si distenda un gran tetto a due pioventi (mediana testudo, la quale veramente nel luogo citato non è menzionata, ma è ricordata poco dopo, V,1,6). Negl'intercolumnî dell'ordine superiore vadano quindi inserite le finestre, così da ottenere per lo spazio centrale un'altezza uguale a 7/8 della sua larghezza. Questo è lo schema della basilica considerato da Vitruvio come normale e che corrisponde allo schema, tracciato dallo stesso architetto, dell'oecus aegyptus; ma in nessun modo esso fu strettamente mantenuto. Vitruvio per il primo, che ne aveva dettato i precetti, deviò da siffatto schema nella costruzione della sua basilica nella Colonia Iulia Fanestris (Fano; v. Vitr., V,1,6 segg.). Anche questa basilica volgeva uno dei suoi lati lunghi al Foro, nel qual lato era l'ingresso principale; e di riscontro a questo, nel mezzo del lato lungo opposto, aveva annesso il tempio di Augusto.

A differenza della Basilica Giulia, la basilica di Fano era chiusa da muri su tutti e quattro i lati. Nell'interno lo spazio centrale, grande piedi 120 × 60, era diviso, mediante un ordine di robuste colonne, dal portico largo 20 piedi, che girava sui quattro lati. Sull'epistilio di queste colonne poggiava la mediana testudo di copertura dello spazio centrale. Le colonne, quattro nei lati corti, otto nei lati lunghi (comprese le angolari), erano alte 50 piedi e grosse 5, sicché nello spazio centrale il rapporto tra la larghezza e l'altezza era di 10:9. La larghezza degl'intercolumnî nei lati lunghi importava la settima parte di 120 piedi, cioè circa 17 piedi; nei lati corti la terza parte di 60, cioè 20 piedi, quanta è appunto la larghezza del portico. Delle otto colonne del lato lungo opposto all'ingresso mancavano le due centrali, soppresse per lasciare libero lo sguardo sul pronao dell'annesso tempio di Augusto, sicché in realtà quel lato aveva sei colonne. Il portico era a due piani; la copertura piana del portico inferiore era sostenuta da una doppia serie di pilastri quadrangolari (parastaticae) così costituita: ciascuna colonna aveva un pilastro addossato a sé (habentes [columnae] post se parastaticas), al quale corrispondeva un simile pilastro addossato alla parete perimetrale. Su queste parastaticae alte 20 piedi poggiava la contignatio, che sosteneva il pavimento della galleria superiore. Le parastaticae si ripetevano, ma più piccole (alte 18 piedi), nel piano superiore, per sostenere in maniera simile il tetto di copertura delle gallerie superiori. Le robuste colonne, quindi, che per la loro grossezza devono essere immaginate laterizie, come appunto quelle della Basilica Pompeiana, si elevavano ancora al di sopra della copertura delle gallerie superiori, a sostegno della mediana testudo che, fatta di due spioventi, ricopriva lo spazio centrale, e nei loro intercolumnî erano inserite finestre per dar luce all'interno. La basilica di Fano adunque aveva intorno intorno una galleria superiore, il cui tetto di copertura era più basso che il tetto dello spazio centrale: submissa infra testudinem tecta. È questo il primo classico esempio nella letteratura, il quale attesti la tipica sopraelevazione della navata centrale.

L'annesso tempio di Augusto si apriva nella basilica con l'intera larghezza della sua fronte e aveva il tetto disposto in modo, rispetto a quello della basilica, che il comignolo o culmine del tetto del tempio si prolungava sino a incontrare ad angolo retto quello della mediana testudo. La larghezza del tempio corrispondeva a quel triplice intercolumnio risultante dalla soppressione delle due colonne centrali del portico adiacente: la sua profondità o lunghezza non è data. Naturalmente, innanzi al tempio, era interrotto il portico a due piani.

Ma in qual parte del tempio bisogna immaginare il tribunal, che vitruvio dice contenuto in esso (tribunal quod est in ea aede). Gli studiosi accusano Vitruvio d'imprecisione, per essersi egli limitato a un'indicazione assai vaga; ma è da considerare che l'architetto scriveva per i suoi contemporanei, sotto i cui occhi era la basilica di Fano; una tale considerazione spesso ci sfugge, quando esaminiamo i dati di fatto degli autori antichi. Il tribunal era in forma di un arco di cerchio (hemicyclium schematis minoris o apsis) con una corda di 46 piedi e una profondità di 15 piedi. comune opinione che l'hemicyclium fosse davanti al tempio di Augusto; ma il Lange (op. cit., p. 192 seg.) pensa invece che esso si trovasse nell'estremità posteriore del tempio, adducendo ragioni tutt'altro che solide. Piuttosto è da ammettere, come altri giustamente crede, che, sorgendo il tempio sopra un alto basamento e immaginandolo della forma più semplice, cioè un templum in antis, i muri laterali del pronao, cioè le antae, si prolungassero oltre la fronte, sino a raggiungere lo spazio centrale della basilica; e sporgendo del pari anche l'alto basamento, fosse cavata in questo, in quasi tutta la sua larghezza, una nicchia in forma di segmento di cerchio, superiormente aperta, della profondità di 15 piedi, il cui pavimento si trovasse o allo stesso livello di quello della basilica, ovvero un po' più in alto, accessibile mediante qualche gradino. Insomma qualche cosa di simile al suggesto innanzi al pronao del tempio del divo Giulio nel Foro Romano. Cosi immaginato, il tribunal si sarebbe dunque trovato nell'alto basamento del tempio, fra i prolungamenti dei suoi muri laterali; al tempio quindi non si sarebbe potuto accedere dalla fronte, ma per mezzo di gradinate laterali, come nel tempio del Genio di Augusto in Pompei. In tal modo il testo vitruviano vien reso intelligibile: anzi tutto si giustifica la laconica espressione quod [tribunal] est in ea aede, giacché l'alto basamento è parte integrale del tempio italico. In secondo luogo Vitruvio pone la ragione della grandezza dell'abside o nicchia nel fatto che le persone, le quali si raggruppavano intorno ai giudici, non dovessero disturbare i negozianti nella basilica (uti qui apud magistratus starent negotiantes in basilica ne impedirent). Ora di un tal disturbo non si dovrebbe parlare se il tribunal fosse stato realmente nel tempio, cioè sull'alto basamento. In terzo luogo si chiariscono le parole: eius autem hemicyclii in fronte est intervallum pedum XLVI. Trattandosi della forma di un segmento di cerchio, l'architetto non poteva adoperare la parola latitudo, come a torto insinua il Lange (op. cit., p. 193), ma, a significare l'ampiezza dell'apertura dell'abside, usa la parola intervallum col complemento di luogo in fronte. Ora un intervallum in fronte hemicyclii non può essere altro che l'ampiezza della fronte della nicchia, compresa tra i muri laterali di questa.

In Oriente, oltre alla mentovata basilica di Antiochia, edificata da Cesare nel 47 a. C., è da ricordare la βασίλειος στοά fatta edificare da Erode nell'anno 19 sul lato meridionale del piazzale del tempio di Gerusalemme (Ioseph., Antiq., XV, 11,5). Lo stesso nome βασίλειος στοά, che Erode volle conservato al suo edificio, ci avverte che il prototipo di questo, piuttosto che nella basilica romana, debba ricercarsi nella βασίλειος στοά di Atene, non ignota di certo a quel re filelleno. Difatti dalla descrizione che ce ne ha tramandata Giuseppe Flavio risulta che la βασίλειος στοά di Erode era del tutto indipendente dalle norme vitruviane, e che, pure essendo tripartita mediante tre file di colonne, e una di mezze colonne, incastrate nella parete di chiusura nel suo lato meridionale, era quasi interaramente aperta, e manteneva perciò, come la stoà ateniese, il carattere di vero e proprio portico di grandiose dimensioni (cfr. Lange, op. cit., p. 204 segg.: v., ivi, la pianta in tav. V, fig. 9).

Del resto in Oriente le basiliche, di cui abbiamo notizia, sono di tempo posteriore: tali la basilica di Efeso (Falkener, Ephesus, 94,98) e le due basiliche di Smirne (Corp. Inscr. Graec., 3148). La qual cosa ben si spiega, quando si pensi che la diffusione del tipo romano della basilica è strettamente connessa con l'estendersi dell'impero dall'Oceano all'Eufrate. Intorno all'anno 112 d. C. venne edificata nel Foro Traiano la basilica di Traiano, detta perciò Basilica Ulpia; delle basiliche intitolate l'una al nome di Marciana, sorella di Traiano, e l'altra a quello di Matidia figlia di lei, come della basilica Neptuni, sappiamo soltanto che si trovavano nella regione IX (Circus Flaminius). Severo Alessandro cominciò a edificare nel campo Marzio, a occidente dei Saepia, la colossale basilica Alexandrina; e parimenti nel campo Marzio l'imperatore Gordiano III (238-244 d. C.) ideò grandiosi edifici, fra i quali anche una basilica (Iul. Cap., Vit. Gord., c. 32). Finalmente Massenzio edificò sulla Via Sacra la basilica, che poi venne compiuta da Costantino. Non si sa quando siano state costruite le basiliche indicate nell'indice delle regioni, basiliche che, dalle merci che vi si vendevano, erano dette argentaria, vestilia, vascolaria, floscellaria.

Nelle Gallie l'esistenza di una basilica è attestata in Aquae Sextiae, Nemausus (Spart., vit. Hadr., 12), Naroo (Corp. Inscr. Lat., XII, 530, 3070, 4342: cfr. anche 2332, 2533), Augusta Treverorum, Vesuna nell'Aquitania (Grut., 171,4); nelle Spagne in Abdera (v. sopra) e Illiberis (Corp. Inscr. Lat., II, 2083). In Africa esistono tuttora gli avanzi della basilica di Theveste in Numidia; dalle epigrafi sono attestate le basiliche di Septimia Vaga, Cirta, Cuicul (Corp. Inscr. Lat., VIII, 1219, 7017, 7037-38, 8318-19, 8324: cfr. anche 9997). Di recente si è scoperta in Tripolitania quella magnifica di Leptis Magna. Quando la capitale venne trasferita a Costantinopoli, anche qui furono edificate basiliche.

Le basiliche, oltre a essere destinate all'amministrazione della giustizia, possono considerarsi come un ampliamento del Foro, accogliendo esse una parte del commercio, che aveva luogo nel Foro: di qui il frequente nesso forum et basilica. Vitruvio menziona i negotiatores della basilica. I servi publici addetti alle basiliche (Corp. Inscr. Lat., VI, 1067,1068) dovevano curarne la nettezza, le riparazioni, ecc. Come pubblici edifici le basiliche potevano servire altresì ad altri scopi e usi. In Roma, un tempo, i tribuni della plebe ebbero la loro sede nella basilica Porcia. Commodo presiedette nella basilica Ulpia una distribuzione di frumento. In Cere gli Augustali avevano il loro collegio (phetrium) uella basilica (Corp. Inscr. Lat., XI, 3614). Nei municipî, all'occorrenza, l'ordo decurionum (consiglio municipale) si adunava nella basilica così in Abella, Puteoli, Sora (Corp. Inscr. Lat., X, 1208, 5670, 1782).

Oltre alle basiliche nel Foro, vi erano anche basiliche in unione con altri pubblici edifici. Così il grandioso disegno edilizio di Gordiano III (v. sopra) comprendeva anche una basilica. Ma non è da intendere, come qualche dotto ha pure inteso, che siano state vere e proprie basiliche quegli edifici, ricordati nelle iscrizioni sotto tal nome e annessi a terme, a teatri, a mercati di commestibili; come sopra si è detto, la parola basilica finì per significare presso i Latini semplicemente portico. E nel senso di un portico, che cingesse una vasta area, è da intendere senza dubbio la basilica equestris exercitatoria, ricordata in un'epigrafe della Britannia (Corp. Inscr. Lat., VII, 995).

Anche i collegia ebbero a scopo di culto luoghi di riunione, detti basilicae, e ciò è dimostrato da un'iscrizione a mosaico sul pavimento del vestibolo d'ingresso alla Basilica Hilariana sul Celio, detta così dal nome del munifico donatore, Manius Poblicius Hilarus margaritarius, al quale i dendrophori matris deum magnae Ideae et Attis posero una statua nello stesso edificio delle loro adunanze (cfr. Not. degli scavi, 1889, p. 398 segg.; Sogliano, La basil. di Pomp., in op. cit., Napoli, II (1911), p. 119 segg.).

Da ultimo anche le grandi case private e segnatamente i palazzi imperiali avevano basiliche. Secondo Vitruvio (VI, 5,2) nelle case dei nobili "qui honores magistratusque gerundo praestare debent officia civibus, faciendae sunt... basilicae non dissimili modo quam publicorum operum magnificentia comparatae, quod in domibus eorum saepius et publica consilia et privata iudicia arbitriaque conficiuntur". Di tali basiliche private sono conservati due sicuri esempî: nel palazzo dei Flavî sul Palatino e nella villa di Adriano a Tivoli. L'una e l'altra basilica è costituita di un grande e lungo salone, col tribunal situato di fronte all'ingresso; sennonché nella basilica del palazzo dei Flavî il tribunal ha la forma di un'apsis (abside), mentre in quella della villa di Adriano si presenta come un'exedra quadrangolare con una nicchia nella parete di fondo. La disposizione delle colonne in ambedue i saloni ricorda quella dell'oecus corinthius, in quanto che esse, ordinate in due serie parallele ai lati lunghi, sono poco discoste dalla parete, così da non formare un portico propriamente detto. La mancanza di questo ben si spiega con la destinazione di tali basiliche, le quali servivano esclusivamente alla trattazione di affari, accogliendo nel tribunal quei publica consilia et privata iudicia arbitriaque, di cui fa parola Vitruvio. In tutte e due le basiliche all'ordine inferiore di colonne n'era sovrapposto un altro; ma il doppio ordine non aveva che un carattere puramente ornamentale. (V. Tavv. LXV-LXVII).

Bibl.: Oltre alle opere citate nel testo, v. J. Durm, Die Baukunst der Römer, 2ª ed., II, Stoccarda 1905, p. 618 segg.; A. Mau, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclop., s. v. Basilica, III, Stoccarda 1899, col. 83 segg.; G. T. Rivoira, Architettura romana, Milano 1921.

La basilica cristiana. - Il termine "basilica", in senso specificamente cristiano, fa pensare a quell'edificio a sviluppo longitudinale diviso in navate, terminato da una o più absidi e preceduto dall'atrio, che è invero il tipo della basilica cristiana greco-romana, quale apparve dal secolo IV in poi. Tuttavia sta di fatto che le rare volte che si trova usato il nome di basilica in epoca anteriore a Costantino (Recognitiones pseudoclementinae del secolo III; pseudo-Giustino pure del sec. III) esso appare riferito non a una speciale e determinata costruzione architettonica, ma ad un luogo per le riunioni liturgiche cristiane.

Gli scrittori dei secoli IV-VI usano la parola basilica in modo vario, unendola al concetto di casa, di dominicum (gr. κυριακόν "casa del Signore": cfr. il ted. Kirche, ecc.), di ecclesia (gr. ἐκκλησία: v. chiesa). Il termine "basilica" che sul principio designava non il solo luogo di culto, ma l'abitazione del vescovo ecc., dapprima più largamente usato di "chiesa", ne fu poi sopraffatto riducendosi a designare chiese non parrocchiali.

Per i pagani, come per i cristiani, non poté essere sempre presente l'etimologia della parola. Vediamo infatti che Eusebio usa spesso la parola οικος βασίλειος, vale a dire "casa regale, reggia". E poiché è ben strano che si parli di reggia a proposito di una stanza grande di una casa privata, o di un oratorietto, ovvero di un edificio parrocchiale rurale, ne consegue che il titolo di reggia dev'essere soltanto in rapporto con il re che vi abita e che fa di ogni mediocre costruzione un'abitazione sovrana. Questo re non può essere che il Signore, cioè il dominus del dominicum.

L'οἶκος delle case greche (corrispondente all'oecus vitruviano) non è tutta la casa, ma è quella parte dove si tenevano le riunioni di famiglia, si prendevano i pasti e si praticavanti i doveri della ospitalità. Si comprende perciò come il termine ben s'applichi alla sinagoga giudaica concepita come luogo di raccolta per la preghiera (οἶκος προσευχῆς) e si comprende altresì come esso stia a designare tipicamente quel sito delle sinassi e delle agapi eucaristiche cristiane che è la basilica.

Perciò noi potremmo mettere, per similarità di concetti, in un gruppo i vocaboli: sinagoga, proseuca, οἶκος τῆς ἐκκλθσίας (domus ecclesiae "casa della comunità"), e in un secondo gruppo i vocaboli: dominicum, οἶκος βασίλειος (o βασιλική "basilica"). Il primo accenna alla riunione della comunità tutt'al più additandone gli scopi liturici, il secondo allude alla misteriosa presenza della divinità.

Ora, se si ravvicinino a questo termine di basilica tutte le testimonianze primitivo-cristiane che fanno capo al concetto di "reggia del cielo" o di "regno celeste", noi ci accorgiamo facilmente che vi è un'aderenza di significati. E sapendo che la reggia del cielo (detta altresì la Gerusalemme celeste) è concepita come l'accolta degli eletti divenuti immortali presso il Cristo, rileviamo il parallelo coi fedeli in terra che si raccolgono attorno alla mensa ove Cristo, il commemorato, diuturnamente riappare nella rinnovazione del sacrificio.

Del resto una delle più antiche composizioni iconografiche cristiane, il mosaico absidale di S. Pudenziana in Roma (fine del sec. IV, inizî del V), può dimostrare quanto sia presente ai fedeli dei primi secoli questo parallelismo della reggia celeste con la reggia terrena.

Nella basilica primitiva il vescovo è al centro, sul trono rialzato per poter controllare tutti i fedeli (ἐπισκοπεῖν). Gli altri sacerdoti stanno ai suoi lati seduti sulla solea del βῆνα (vale a dire sul bancale che gira attorno all'abside). Davanti ad essi, in luogo della tavola ricurva (stibadium) che serviva all'antico rituale agapico eucaristico, vi è l'altare, che per lungo tempo conserverà l'originale carattere di mensa (v. altare). Sotto quest'altare, quando sarà definitivamente fissato e isolato (e cioè nei primi edifici basilicali), si praticherà la reposizione delle reliquie di un martire che completerà l'immagine giovannea delle anime dei confessori sotto l'altare.

Stabilite le premesse religiose cui s'ispira e dalle quali discende la basilica, allorché si tradurrà in un edificio di forme determinate, vediamone questa primitiva conformazione: la descrizione che ci fa Eusebio nel sermone che egli recitò nella dedicazione della basilica di Tiro (anno 314 secondo il Harnack; o non oltre il 319, secondo lo Schwartz) ci offre un'idea quasi completa di una basilica primitivo-critiana.

"Il vescovo - parafrasiamo il suo dire - non ha voluto che i fedeli lordino il santuario entrandovi coi piedi infangati e non lavati; perciò ha lasciato fra il tempio e il suo primo ingresso uno spazio grandissimo circondato da quattro portici colonnati. Nel mezzo di quest'atrio egli ha posto la fonte dell'acqua viva per le purificazioni. A mezzo di vestiboli (il narthex) egli aprì dei passaggi al tempio, e in faccia ai raggi del sole (cioè rivolte a oriente) egli praticò tre porte, di cui quella centrale più alta e più larga. Per ciò che riguarda l'aula della basilica, egli v'impiegò materiali più ricchi e preziosi.

Dopo avere così ultimato il tempio, egli l'ornò di troni assai elevati in onore di coloro che presiedono, e inoltre di banchi disposti in bell'ordine per i fedeli. Soprattutto egli stabilì nel mezzo l'altare dei santi misteri e, perché esso non fosse accessibile alla folla, lo recinse di una barriera di legno intrecciato (è il setto della iconostasis). Il pavimento non fu trascurato da lui, giacché l'ornò di marmi di grande bellezza" (H. Eccl., X, 4,1).

In questo periodo, o poco dopo, l'imperatore Costantino erigeva la basilica lateranense, magnifica nelle sue cinque navate, nella sua grande abside adorna di mosaici, nel suo spazioso atrio e nel suo nartece (la parola νάρϑηξ vuol dire: "disciplina").

Sorgeva in seguito, attorno al sepolcro dell'apostolo Pietro, un'altra splendida basilica dello stesso tipo. Più piccole (talune modestissime) furono invece quelle erette dallo stesso Costantino a S. Paolo (la primitiva era in direzione opposta e aveva dimensioni assai minori dell'attuale, che risale alla fine del sec. IV), a S. Lorenzo in agro Verano, ai SS. Pietro e Marcellino sulla via Labicana. Una figlia del sovrano, Costantina, eresse una basilichetta in onore della vergine martire Agnese. Ma questo santuario era anch'esso minore dell'attuale. Una grande aula basilicale a unica navata dovett'essere quella fatta costruire da Elena Augusta nel Sessorium, per il culto delle reliquie della Croce. Anche ad Aquileia il vescovo Teodoro, poco dopo la pace della chiesa, inaugurò una grande basilica a unica navata e la pose in comunicazione con l'aula, pure a navata unica, che comprendeva i resti del luogo anteriore di riunioni private (risalente almeno fino al sec. III) opportunamente ingrandito (v. C. Cecchelli, Litostrati d'Aquileia, in Memorie storiche forogiuliesi, pubblicate in Boll. R. Dep. friulana di st. patria, XVIII, 1922, p.1-25). Questo primitivo luogo di sinassi cristiane può dare l'idea di ciò che era un antico titulus. Nell'aula aquileiese del sec. III si vedono ancora le scanalature per l'incastro della transenna dividente il clero dal popolo. Un riquadro del musaico privo di decorazione segna il sito dell'altare. È avvicinato da un altro con la figura di un capro (simbolo di sacrificio) e un'acclamazione di carattere funerario alludente a persona forse commemorata come martire (Cyriace vibas). Altre parti di musaico ricordano il rito dell'agape eucaristica che si compiva in quel luogo (capri in adorazione di cesti di pane, ecc.).

Anche a Parenzo la sala delle adunanze liturgiche nella casa del martire Mauro fu ampliata nei primi decennî del sec. Iv, e poi, in tempo assai più tardo (sec. V), le si sovrappose una nuova basilica.

Ma queste aule non possono dare un'idea dell'edificio tipicamente basilicale quale viene formandosi dal sec. IV in poi.

Per maggior chiarezza e compiutezza noi ora descriveremo lo schema evoluto d'una basilica del tipo diffuso in occidente (íl tipo greco-romano) e lo immagineremo idealmente completo in ogní sua caratteristica architettonica e decorativa.

La basilica è dunque considerata quale espressione architettonica, un edificio ordinariamente a pianta rettangolare, che include un'aula. Quest'aula è, nel senso della lunghezza, scompartita in tre, ovvero in cinque navate (naves) per mezzo di pilastri o colonne che sorreggono arcuazioni ovvero lunghi architravi a piattabanda. Esempî di basilica a 3 navi: S. Maria Maggiore in Roma; S. Sabina in Roma (ambedue del sec. V); a 5 navi: S. Paolo fuori le Mura in Roma (fine set.. IV: ricostruita in gran parte dopo l'incendio del 1823). Esempî di colonnati ed arcate: S. Paolo predetto; Santa Sabina a Roma; S. Apollinare Nuovo a Ravenna (sec. IV); a ordine architravato: S. Maria Maggiore predetta, basilica della Natività di Cristo, a Betlemme (sec. IV).

La navata di centro è sempre più ampia, le collaterali più ristrette. Sopra i colonnati che limitano la navata centrale poggiano le pareti che sostengono il soffitto rialzato della medesima. Il rialzamento serve per dar luce a questo tratto intermedio, poiché vi si praticano numerose finestre. Sulle collaterali declinano a una sola falda i tetti più bassi. Le finestre per l'illuminazione delle navatelle sono aperte nelle pareti esterne.

Nello schema basilicale propriamente detto il tipo della copertura dell'edificio è a tetto, e infatti le disposizioni e le dimensioni delle pareti appaiono adatte solo alla resistenza delle azioni verticali. Le capriate sono applicate su muri di piedritto con semplicissimo ma solido sistema. Generalmente il trave maestro corrisponde al tratto di muro pieno fra finestra e finestra e alla sottostante colonna.

Se queste coperture a tetto, sostenute ritmicamente da capriate, fossero apparenti o nascoste da soffitto a lacunari è argomento molto discusso e tuttora incerto. Probabilmente nelle antiche basiliche cristiane, come in quelle civili romane, tale soffitto esisteva e aveva ricca veste decorativa: ad Aquileia, per es., sembra che alcuni resti caduti sul litostrato ne diano sicura notizia; e forse, secondo il Giovenale, tale disposizione rimase per gran parte del Medioevo. Così a S. Maria in Cosmedin in Roma ne avrebbe il Giovenale stesso trovato sicure tracce. Più tardi però dev'essere stato sostituito dalla costante disposizione delle capriate apparenti; come ci è testimoniato in S. Maria Maggiore di Roma, dalla decorazione pittorica dei triangoli nei muri trasversali sotto il tetto, o come in S. Miniato presso Firenze, nel duomo di Monreale e in numerosi altri esempî ancora, è attestato dalla ricca ornamentazione delle incavallature.

Rare le basiliche a una sola navata (come la basilica teodoriana di Aquileia, quella dei Ss. Cosma e Damiano al Foro Romano, sec. VI): le unite figure ci mostrano le planimetrie più tipiche di basiliche a più navate: talune a semplice divisione longitudinale, con abside sporgente o nascosto e talvolta anche mancante; talune a interno porticato completo, disposto cioè, anche nei lati minori, a somiglianza delle basiliche civili romane; in altre infine, secondo una disposizione frequente in Roma e nell'Asia minore, le divisioni delle navate non arrivano sino al fondo della basilica, ma si arrestano a circa tre quarti della lunghezza per lasciare un sufficiente spazio al transetto (transaeptum) che è una nave trasversale riservata al clero. Il punto di separazione fra questo luogo e il resto della basilica destinato al popolo (quadratum populi) è segnato in alto da una parete trasversa, che sulla nave mediana s'incurva a guisa di grande arcata (arco trionfale) la cui impostazione è spesso rafforzata da due alte colonne (imponente è l'arco trionfale di S. Paolo fuori le Mura). Nei casi in cui non esiste il transetto serve da arco trionfale la fronte sopra l'abside (basilica di Parenzo, sec. VI).

Questa navata trasversa può sporgere dalle pareti estreme, formando un vero e proprio braccio che viene a comporre la forma della croce latina (S. Pietro in Vaticano prima delle ricostruzioni del Rinascimento: sec. IV).

La divisione trasversale nel basso è costituita da parapetti su cui talora salgono alcune colonne reggenti un leggiero architrave destinato all'attacco delle lampade. Questa barriera, che interclude il luogo ove si svolge il divino sacrificio, ha presso i Latini il nome di pergula che ricorda la simbolica vinea Domini e la vitis vera, cioè Cristo. Presso i Greci invece, in epoca più tarda, sarà molto più chiusa e si chiamerà iconostasis perché sarà tutta decorata di immagini (eikones) di Cristo, della Vergine e dei Santi. Della pergula della vecchia basilica di S. Pietro restano le colonne tortili con fregi vitinei, riadoperate dal Bernini nelle logge delle reliquie. Esempio di iconostasi: duomo di Torcello (parte bassa, sec. X ?; immagini in alto rifatte forse nel sec. XIII).

Il transetto può mancare e allora il presbiterio si recinge con parapetti marmorei (cancelli). Perfino in una cripta cemeteriale, dove sia un altare, può darsi il caso della necessità di una protezione (nelle catacombe di S. Aspreno a Napoli e nel cemeterio ad catacumbas in Roma). Fra il sec. V e il VI tale recinto del presbiterio è talvolta aggettato in avanti verso la nave media, includendo un'area rettangolare; è questo il recinto destinato al corpo dei cantori. Se ne son trovate le tracce negli scavi della basilica di S. Sebastiano senza poter tuttavia determinare a quale epoca appartenessero. Al sec. VI pare appartengano quelle della basilica di Manastirine presso Salona (v. in Römische Quartalschrift, 1891, p. 24 e tav. II). E, nonostante i dubbî espressi, è certamente il nome di Giovanni II (532-535) che si deve leggere nel monogramma scolpito sui cancelli di S. Clemente, dove pure la schola cantorum è ornata di ghirlande classiche riempite dì musaici solamente nel secolo XII, quando tutti i parapetti del recinto, già in situ nella basilica primitiva, furono trasportati e riadoperati nella nuova basilica a livello superiore. Ma di schola cantorum non si trova alcuna menzione nelle fonti letterarie anteriori al secolo VII (v. F. Grossi Gondi, I monumenti cristiani, ecc., Roma 1923, p. 437). Essa deve probabilmente essere messa in relazione con la riforma del canto liturgico operata da Gregorio Magno (590-604).

Entrando ora nel presbiterio, notiamo in primo luogo l'altare che ha, nella maggior parte dei casi, la sua edicola di copertura, sorretta da quattro colonne e chiusa da veli. Per l'altare (col suo ripostiglio di reliquie o con la sua comunicazione col sottostante loculo cemeteriale) e per la sua copertura vedi quanto è detto alle voci altare e ciborio.

La parete di fondo della basilica è quasi sempre provvista di una o tre absidi (nicchione a pianta semicircolare; v. abside). Nel caso di una, essa fa capo alla navata grande, nel caso di tre, le altre due sono piccole e stanno in testa alle collaterali. Quando le collaterali sono quattro anziché due l'abside è, di regola, una sola cioè la maggiore.

A volte l'abside non sporge all'esterno della parete di fondo, ma è costruita proprio nell'interno della basilica e ha la sua curva esteriore appoggiata a detta parete (per es. in Santa Maria delle Grazie a Grado, sec. V-VI). In alcuni casi l'abside di questo tipo è scostata dalla parete di fondo così da lasciare un largo spazio per una specie di retrochiesa, la quale però è messa in comunicazione con la basilica per mezzo di passaggi arcuati dell'abside predetta. Questo si osserva per esempio in S. Severo a Napoli, in Ss. Cosma e Damiano a Roma e nella basilicula figurata nel donario bronzeo della lampada votiva africana).

Ai lati del presbiterio le absidiole minori includono due altari secondarî destinati alla preparazione e allo scioglimento della cerimonia liturgica. Più spesso (anche non essendovi le absidi) si trovano due locali chiusi, a cameretta, due veri e proprî sacraria per la prothesis (inizio della cerimonia) e per l'apodosis (chiusura della stessa). Questo secondo ambiente è detto anche diakonikon. Ambedue i vani sono da alcune fonti orientali chiamati pastofori (παστοϕορεῖα). V. pianta di S. Maria Antiqua al Foro Romano (sec. VII ?).

Segnaliamo anche il caso di una retroabside, vale a dire quando all'abside che serve all'interno della basilica corrisponde un'abside parallela posteriore. Ne risulta un deambulatorio semicircolare; un esempio era nella basilica lateranense (forse più antico del sec. V cui lo si attribuisce).

Da ultimo rileviamo la particolarità della controabside, cioè di un'abside opposta alla principale e sporgente dalla parete d'ingresso. La si osserva in alcune basiliche africane, da cui la trassero alcune chiese monastiche dell'età carolingia (es. Orleansville in Africa, sec. V; basilica monastica di S. Gallo, sec. IX, per cui vedi l'antico piano riprodotto nella voce abbazia).

Nel basso dell'abside principale corre a semicerchio un banco per il clero (bema), che nel mezzo ha un rialzo cui si giunge per qualche gradino (tribunal); quivi è poggiata la cathedra vescovile.

Talvolta la basilica ha degli ambienti che soprastanno alle navate minori e che si aprono a mezzo di loggiati sulla maggiore: i matronei (v.). Quando essi mancano, allora la parete è unica, e vi si aprono, come abbiamo detto, le finestre, che sono munite di lastre marmoree a traforo (transennae; v. transenna), con incastri di vetri, o di lastre sottili di marmo trasparente (lapis specularis), ovvero di un minerale di gesso (come ha accertato il Muñoz per S. Sabina e per altre chiese romane), detto nelle fonti: metallum gypsinum. Al principio della navata grande e delle minori vi può essere un vano separato (per mezzo di parapetti e talvolta con un filare di colonne) dal resto della basilica. È il nartece interno per i penitenti e per coloro che attendono il battesimo, o cathecumeni. Più spesso serve da nartece il portico esterno che immediatamente precede l'aula basilicale.

Davanti al portico si distende lo spazio quadrangolare dell'atrio, recinto da portici o da semplici mura.

Quest'atrio (v.) che talvolta è detto "paradiso" con allusione ai recinti giardini celesti (παράδεισοι), comunica con la strada per mezzo di un arco o di un passaggio a vòlta. In S. Sofia di Costantinopoli (sec. VI) vi era un secondo nartece, cioè un primo luogo di sosta a contatto della via (esonartece). Nel mezzo dell'atrio una fontana per le abluzioni purificatrici o cantharus, talvolta (come nell'esempio dell'antico S. Pietro) ricoperta di un tegurio su quattro colonne e recinta di parapetti. L'ingresso sulla strada era spesso protetto da una specie di baldacchino su colonne (prothyrum) di cui però troviamo esempî in Occidente non prima del sec. VII (Cimitile presso Nola; esempî dell'età romanica in S. Clemente e in S. Prassede a Roma, ecc.).

Tale è il tipo di basilica oblonga, a sviluppo longitudinale che prevalse in Occidente. Le due spartizioni interne corrispondono alle esigenze del culto e alla necessità d'isolare le varie categorie di fedeli (secondo i dettami della disciplina penitenziale, per l'ossequio alle gerarchie, per la divisione dei sessi, ecc.).

Vediamo ora quale può essere l'origine di questo tipo di basilica. Varie sono le teorie avanzate in proposito, e qui le esporremo sommariamente.

Il Martigny, lo Zestermann, il Witting sostennero che la basilica rappresentasse una concezione tradizionale del cristianesimo e in particolare il Kraus la ritenne il portato di una contaminazione fra la cella trichora e l'aula della basilica pagana. Gli altri pensarono a taluni cubicoli cemeteriali con destinazione liturgica. Vi è da opporre che le basilicule cemeteriali sono tarde e riproducono perciò il tipo delle grandi già in questo tempo costruite. Non si capisce poi come il raro tipo della cella trichora abbia potuto dare lo spunto per la basilica.

Un gruppo di studiosi pengò anche alla basilica civile profana o alle basiliche private. Ma la basilica civile è orientata diversamente poiché ha l'ingresso sul lato lungo. Ha poi altre varianti interne che la rendono sostanzialmente dissimile dal tipo della basilica cristiana. Quindi questa teoria del Nibbv, del Canina, del Crostarosa e d'altri dev'essere anch'essa respinta. In quanto alla basilica privata, essa varia di forme, e anche il tipo del palazzo dei Flavî al Palatino è abbastanza lontano dslla pianta di una basilica cristiana (specialmente ove si guardi alla pianta fattane dopo gli ultimi rilievi della Scuola degl'ingegneri di Roma).

Il Dehio, Victor Schultze, il Marucchi, il Lemaire e qualche altro pensarono alla casa privata, cioè alla delomus. Si risponde di sì, qualora si guardi alla generica successione degli ambienti e cioè ingresso, atrio, zona intima della casa. Ma quando si passi poi ad esaminare quest'ultima zona in tutta la sua distribuzione, ci si accorgerà subito che l'analogia scompare.

Il Kreuzer, il Cumont, il Hauser-Conze, il Leroux pensarono al tempio pagano o agli edifici del culto misterico. In quanto alla prima ipotesi si osserva come il tempio pagano abbia la cella impenetrabile che è la dimora del Dio, mentre la basilica parte dal concetto di accomunare tutti i fedeli (e si vorrebbe che fosse tutta l'umanità) in un sol luogo per commemorare il sacrificio del Dio-uomo, invisibile ma presente. Le religioni dei misteri che rappresentano alcunché di più vicino all'ideale cristiano, hanno infatti l'aula comune per tutti gli adepti (v. la basilichetta sotterranea di Porta Maggiore in Roma, sec. I): aula che ha qualche rassomiglianza con la basilica cristiana, ma altresi talune divergenze (copertura a vòlta imposta dagli ambienti quasi sempre sotterranei, uso dei pilastri in luogo delle colonne, bancali correnti attorno all'aula, ecc.). Inoltre si può ben dire che ogni culto abbia un tipo diverso dall'altro e questo tipo varia a seconda dei luoghi cui si deve adattare la costruzione (p. es., sacelli mitriaci o metroaci sono adattati in sotterrane; di edifici termali, entro il pianterreno di una casa, o dovunque se ne presenti l'opportunità). Il cristianesimo si sarebbe preso la cura di scegliere una di queste costruzioni e di trarne l'ispirazione d'un tipo universalmente adottato? E avrebbe poi chiesto tali imprestiti a religioni che erano le sue più acerbe concorrenti e che, quando le basiliche erano già in piedi, continuavano ad accanirglisi contro per contrastargli il cammino? È poco probabile.

Appare molto più logica una teoria esposta di recente dal Giovannoni. Egli osserva che il mondo antico in edifici privati e pubblici, profani e religiosi, conosceva già sostanzialmente il tipo della basilica cristiana con aula (absidata o non, con pronao o senza) indivisa, ovvero formata da più navi senza sopraelevazione della nave centrale. La divisione in navate è suggerita da necessità costruttive quando la capacità del vano aumenti ed esigenze di rapidità e di economia non consentano la copertura a vòlta. La sopraelevazione della nave centrale è suggerita dalle necessità dell'illuminazione. Il cristianesimo avrebbe formato, di un tipo generico, utilizzato per scopi religiosi e profani, uno schema fisso di costruzione spaziosa ma semplice e soprattutto rapida, adatto alle nuove necessità del culto, divenuto pubblico dopo la pace costantiniana. Sull'originalità di questo tipo il Giovannoni si pronuncia in senso negativo. Si può osservare che l'originalità è proprio nell'aver sviluppato da tanti, e a volte dissimili, elementi uno schema unico e nell'avere scelto quelle parti che convenivano all'idea religiosa cristiana e alle conseguenti necessità del culto.

Quando e dove sia sorta la prima grande basilica pubblica cristiana è impossibile per ora accertarlo, giacché può darsi benissimo che in talune provincie, profittando di alcuni periodi di relativa tolleranza, si fossero costruiti degli edifici per il culto cristiano almeno sin dalla seconda metà del secolo III. La cosa non è sicura. Ma una parola si può dire fin da ora: la basilica è, come già vedemmo, il prodotto dell'elaborazione (avvenuta nel mondo romano) d'un tipo promiscuamente desunto da elementi, diremo così, mediterranei, giacché si trovano un po' nell'arte italica, un po' nella greca, un po' nell'Oriente anteriore. La formula: basilica greco-romana è la più esatta per designare il tipo sopradescritto. Tipo che subisce ulteriori evoluzioni in oriente perdendo la sua firma longitudinale e restringendosi alla pianta centrale della "croce greca".

Esteriormente a questa evoluzione vi è l'altra - del tutto indipendente - della basilica a pianta centrale circolare che parte da concezioni e da premesse architettoniche diverse. In questo secondo tipo si distingue soprattutto il sacrario innalzato per glorificare e proteggere le reliquie d'un eroe della fede. Si prende quindi per base il tempietto o edicola circolare, l'ἡρῷον dell'Oriente e della Grecia antica.

Escludendo per ora questo tipo, segneremo quì appresso a grandi linee i caratteri della basilica orientale originata dal tipo classico sin qui descritto.

Si suole intendere per basilica cristiana orientale quella in cui l'uso predominante dei pilastri e delle vòlte (originato dalla scarsezza di materiali leggieri da copertura) porta a soluzioni architettoniche svariate. È certo che, quantunque nella tradizione architettonica classica romana vi fossero già vòlte e pilastri (si ricordi l'esempio della basilichetta di Porta Maggiore), la basilica cristiana d'occidente preferì senz'altro il tipo a colonne e soffitto piano, o a incavallature di legname scoperte. E mentre la tecnica delle costruzioni in mattone porta alle pareti piane, alle finestre scorniciate, ecc., il materiale di pietre, più usato in Oriente per gli esterni e per gl'interni, porta all'uso di elementi decorativi sculturali che naturalmente non sono applicati, ma ricavati dal masso. Questo avviene persino nelle costruzioni laterizie, giacché vi si imita il movimento decorativo delle fronti scolpite in pietra (si notino le analogie fra le decorazioni del palazzo di Ctesifonte in Persia e quelle dei templi rupestri indiani).

La divisione a pilastri delle navate permette in Siria (ove i pilastri son fatti bassi e larghi, talvolta con grossi fusti di colonne addossati e con la sporgenza dell'imposta - una specie di pulvino - per capitello) amplissime arcate.

Un'arcata la si vede talvolta all'apertura del nartece sulla fronte della basilica, la quale spesso non ha l'atrio. Il Puchstein volle paragonare questo tipo al chilani hīttita. Certo una grande arcata si vede pure all'ingresso della reggia di Ctesifonte. Ai lati di questo grande arco della facciata sorgono talvolta due torri (specialmente nelle basiliche siriache).

Le esigenze dell'illuminazione dell'interno imposero, non potendosi forare la vòlta con finestre, l'elevazione della cupola sulla vòlta a botte della navata. Questa cupola prese lo spazio di due campate della nave centrale, i cui pilastri furono dovuti naturalmente corroborare con archi di rinforzo. Così la cupola si sovrappose a un quadrato. Per la necessità di raccordare la cupola al quadrato di base vi furono tre sistemi:1. i pennacchi (triangoli sferici); 2. le trombe o cuffie; 3. le semplici pietre. Il pennacchio angolare è assai diffuso anche nell'arte romana dove peraltro è ottenuto con il calcestruzzo, mentre l'orientale è per sovrapposizione di pietre incuneate nelle pareti. Vero è che il secondo presume il primo.

Le trombe o auffie d'angolo si vedono molto usate in costruzioni civili persiane. In Occidente la loro forma decisa appare agl'inizî del sec. V (battistero di Sotero a Napoli).

Il rimedio della pietra angolare (che non poteva dare grandi frutti) fu praticato in Siria. La tromba d'angolo si diffuse molto in Egitto. A Costantinopoli, per S. Sofia, si uil pennacchio.

L'apparire della cupola e il suo sviluppo (specialmente in Asia minore e in Armenia) esigono forti elementi di sostegno. Perciò ne consegue: 1. l'elevaziome delle navate laterali (risolte sulla navata centrale col matroneo); 2. la creazione di absidi laterali; 3. l'uso, già noto all'arte romana, di contrafforti esterni (che poi gli architetti bizantini cercheranno di portare nell'interno); 4. la creazione di vòlte a botte trasversali di controspinta che origineranno il tipo a croce greca; 5. l'alleggerimento della cupola con uso di materiali leggieri (uso già conosciuto nell'arte romana, ma particolarmente raffinato nell'orientale). Quando la cupola verrà a far parte organica di tutto il sistema architettonico a pianta centrale, i Bizantini penseranno a un'inclusione di questo tipo nel quadrato, appunto per dare la maggiore stabilità e regolarità all'edificio.

In quanto alle strutture per sé stesse, si nota nell'arte edificatoria orientale la tendenza a costruire vòlte senza appoggi di centine (data appunto la deficienza del legname), a differenza dell'arte romana che, costruendo a "getto", ha bisogno di queste armature di legname fino al momento in cui la colata del calcestruzzo non si rassoda. Perciò si adoperarono tutti i ripieghi tecnici possibili: assise di conci successivamente sporgenti secondo il tipo delle strutture arcaiche, filari di conci messi verticalmente per costa e talvolta formati a cuneo, sistemi misti del genere, vòlte di tubi fittili entranti l'uno nell'altro, ecc. I Romani non ignoravano alcuno di questi aistemi costruttivi. Ma il fatto è che, avendo a portata di mano altro materiale, seguirono il sistema più rapido e solido della vòlta a getto foderata di laterizî. Anche gl'incastri di pietre furono magnificamente praticati dai Romani. I quali però preferirono servirsi di grossi massi, anziché di blocchetti, come si pratita ad esempio in Siria, in Asia minore e in Armenia (v. siria: Architettura; armeni: Architettura).

I rimandi ci dispensano dall'estendere le esemplificazioni. Ricordiamo appena la basilica siriaca di Turmanin (a sviluppo longitudinale con grandi torri di facciata, quella, pure siriaca, di Qalb Lūzah col particolare dei pilastri in luogo delle colonne, e del tetto sostenuto da mensole rette da piccole colonne, e poi i grandi archi della basilica di Tafkha e la basilica di Bin Bir Kilīsā (Bin birKilisa) nell'Anatolia con le due torri di facciata e le volte a botte, tanto nella navata centrale quanto nelle laterali.

A Khōgia Qal‛esī (Kocakalesi) in Asia minore, la cupola è raccordata a trombe angolari, a S. Clemente d'Ancyra in Galazia si presenta lo stesso tipo con struttura laterizia, a Cassaba in Licia, la cupola su pennacchi.

In Egitto v'è il particolare della pianta a trifoglio nella parte del presbiterio (triconco), e del raccordo a cuffie (così nella basilica della Natività a Betlemme). Citiamo il Convento rosso (Amtia Schenuti).

In Armenia troviamo il quadrato ad absidi allungate e larga cupola su tamburo (raccordo a sistema di cuffie) della Santa Hripsime di Vagharsapat (vicino all'Ararat). Per gli altri monumenti si veda il citato articolo sull'architettura armena.

Nell'Africa romana prevale il tipo a sviluppo longitudinale, che molto di frequente serve per una basilica cemeteriale. Uno splendido esempio di basilica cemeteriale è a Thabraca. Ivi su ogni sepolcro è un tratto di musaico raffigurante il defunto ovvero una serie di figurazioni simboliche. Variano specialmente le forme absidali, ché non di rado il giro dell'abside è quasi incastrato nella parete di fondo in modo da formare con le sue sporgenze il recinto dei secretaria laterali (Tigzirt), altrove esso è lobato da nicchie (Dar-el-Kus), talora è molto approfondito come un coro monastico (Biarel-Kherba), talaltra le absidi si aprono entro un'inquadratura rettilinea (Annuna). Si hanno dei veri atrî con quadriportici (Hanchir Tikubai), o dei vestiboli (Morsott e Sidi Embarek), o dei porticati con in più, sul davanti, il vestibolo (El Hamiet). La basilica di Damus-elKarita (Cartagine) è di una forma tutta singolare. Le sue 9 navate sono separate da otto file di 12 pilastri ciascuna. Oltre l'abside ordinaria ve ne è un'altra inserita nella prima. All'estremità del transetto si vede ancora un'abside chiusa da un'iconostasi composta di quattro colonne. L'atrio è un'area a semicerchio con colonnati. A Tebessa è maestosa la colonnata del coro cui si sovrappongono altre colonne di puro stile classico. E difatti bisogna credere che molto sia rimasto della tradizione romana in queste basiliche dell'Africa che hanno tanta severità e logicità nel loro sviluppo architettonico.

Ora passiamo alle basiliche a pianta tipicamente centrale (circolari o poligonali).

Nell'arte romana classica non è ignoto il mausoleo (v.) circolare, eretto in onore degl'imperatori divinizzati (p. es. d'Augusto e d'Adriano in Roma); a Spalato è ancor integro il mausoleo dell'imperatore Diocleziano che ha internamente colonne addossate a fianco di nicchie ed esternamente è poligonale. Esempî di siffatte piante circolari o poligonali preesistevano in Oriente, e anche in Occidente. Ciò posto, dobbiamo far notare che la basilica di questo tipo fu più accetta all'Oriente, che all'Occidente.

Già nel secolo IV S. Gregorio Nazianzeno e S. Gregorio di Nissa descrivono i martyria innalzati nella loro citta vescovile. Il primo fu fondato proprio dal padre di S. Gregorio. Sappiamo per certo che ambedue erano a pianta centrale.

A una pianta più complessa di questo tipo dev'essersi ispirato il costruttore della basilica di S. Stefano rotondo in Roma, dedicata nel sec. V, forse per accogliere alcune reliquie del protomartire orientale. Essa ha un alto tamburo che, a imitazione di quello del mausoleo di Costantina, è forato da finestre e sappiamo essere stato coperto da cupola. Poggia su colonne e ha in giro la navata collaterale anulare. Vi son le tracce di altri anelli, i quali erano interrotti da quattro atrî formanti tra loro croce greca. La spinta eccessiva della cupola sul tamburo troppo alto la fece presto ruinare, dimodoché si dovette sostituire un tetto leggiero di legname, e per di più spalleggiare le mura del tamburo con archi di rinforzo trasversali poggianti su alte colonne.

In Oriente, tipi più semplici di martyria furono trovati nell'Asia Minore, in Siria e Mesopotamia. Il martyrion di Antiochia, fondato nel 331 da Costantino e portato a fine dal comes Gorgonio sotto Costanzo, aveva forma ottagonale con tribune e cupola centrale. In Siria l'ottagono di Ezra (S. Gregorio) ha cupola ovoidale, pilastri centrali e raccordi a semplici pietre trasversali negli angoli.

A Costantina (Vīrānshehr a nord della Mesopotamia), Costantino aveva edificata una basilica, dopo la vittoria sui Persiani, con cupola poggiante su pilastri e contornata alla base da una navata anulare di pianta ellittica. Da una parte vi era l'appendice di un coro lungo terminante in un'abside a emiciclo. Dall'opposta vi era un nartece quadrato fiancheggiato da torri quadrate.

Così il martyrion circolare od ottagonale, isolato o iscritto nel quadrato, con o senza la doppia o tripla navata anulare, interrotta da passaggi componenti fra loro la croce greca, va in Oriente dalle forme semplici delle cappelle funerarie (p. es. quelle di Bauit in 'Egitto) alle grandiose della basilica, come quella di S. Gregorio l'Illuminatore a Ečmiadzin in Armenia.

Unendosi questi due tipi agli altri evoluti dalla basilica greco-romana, sorsero le meraviglie architettoniche di S. Sofia di Costantinopoli e di S. Vitale di Ravenna (v. bizantina, civiltà: Arte).

Ricordando ancora S. Marco di Venezia che è il tipo della basilica a cupole, noi avremo compiuto la rassegna dei tipi di basilica che pur non trascurando gl'insegnamenti dell'architettura romana, si ricollegano all'evoluzione prodottasi successivamente in Oriente.

Nella decorazione delle basiliche, si usarono in abbondanza intarsi marmorei, sculture, affreschi.

L'emiciclo dell'abside ebbe nel basso tarsie di marmi (persino con iscrizioni di madreperla come è il caso della basilica di Parenzo, sec. VI). Talvolta ci si accontentò di un semplice rivestimento di marmi fini (specialmente pavonazzetto e porfido): un bell'esempio (forse del sec. VIII) è in S. Giorgio in Velabro, a Roma. Nella parte alta dell'emiciclo e nel catino è spesso la visione della Gerusalemme celeste e vi campeggia il Cristo, o la Vergine, tra i santi. L'offertore della basilica vi è pure ritratto come nelle scene della receptio della pittura cemeteriale, e cioè sotto la tutela del santo eponimo della basilica.

Sull'arco trionfale appare molto spesso il soggetto apocalittico delle acclamazioni dei seniori. Al centro è il trono vuoto (etimasia) col libro dei Sette Sigilli. In S. Maria Maggiore a Roma, esaltandosi il trionfo del dogma proclamato ad Efeso, volle glorificarsi nell'arco trionfale la divina maternità di Maria col riprodurre gli episodî dell'incarnazione del Verbo.

Sulle pareti della navata centrale corrono le scene dell'Antico e del Nuovo Testamento. Ma talora vi è soltanto la serie dell'Antico Testamento (S. Maria Maggiore a Roma, sec. V), oppure soltanto la serie del Nuovo (S. Apollinare Nuovo a Ravenna, sec. VI). Spesso dei tituli metrici spiegavano al popolo il senso delle singole scene (a tale scopo mirarono i versi raccolti nel Dittocheo di Prudenzio). Non mancano poi figurazioni di santi, profeti, arcangeli.

In alcune basiliche si svolgeva sulle mura della navata centrale la serie dei ritratti dei vescovi. Si rammenta la celebratissima serie di San Paolo in Roma. Sulla parete d'ingresso appariva, in alcune basiliche, la dedica solenne (in S. Sabina la dedica del tempo di Celestino I; sec. V).

Un esempio di basilica interamente coperta di affreschi con figure di santi, scene dell'Antico e Nuovo Testamento, storie di martiri, ecc., è S. Maria Antiqua in Roma (pitture eseguite a più riprese dal sec. VI al X). Nel presbiterio si osservano più strati di queste pitture.

Il pavimento delle navate o del presbiterio era in semplici marmi o a crustae marmoree componenti determinate figurazioni geometriche, floreali, ecc. (opus alexandrinum), ovvero a musaici, taluni con belle iconografie (abbiamo citato, per tutti, l'esempio di Aquileia).

Le fronti esterne della basilica erano anche esse decorate (Parenzo, S. Maria Maggiore, ecc.).

Sculture di carattere decorativo fregiavano le mostre delle porte, gli architravi, i capitelli. Le porte avevano spesso valve bronzee, ovvero di legno intagliato.

Abbiamo sin qui trattato dello sviluppo della basilica dalle sue origini al Medioevo; e nel Medioevo solo in quanto diretta derivazione delle forme primitive, cioè limitatamente ai paesi ove non vi fu rinnovamento dell'architettura (v. tavv. LXVIII-LXXVI). Per gli svolgimenti delle forme sia a sistema longitudinale sia centrale,v. gli articoli sui singoli stili (romanico, gotico, rinascimento, barocco, ecc.) e la voce generale chiesa. Per il risorgere della forma classica della basilica nel Quattrocento, v. brunelleschi, filippo.

Bibl.: G. Giovannoni, Nuovi contributi allo studio della genesi della basilica cristiana, in Atti della Pontif. Accad. rom. di Archeologia, XV: F. Grossi-Gondi, I monumenti cristiani... dei sei primi secoli, Roma 1923, p. 402 segg.; Kaufmann, Handbuch der christlichen Archäologie, 3ª ed., Paderborn 1922, pp. 156-255; H. Leclercq, articolo Basilique, in Dictionnaire d'Archéologie chrétienne et de liturgie; R. Schultze, Basilika: Untersuchungen zur antiken und frühmittelalterlichen Baukunst (in Röm. Germ. Forschungen, II), Berlino e Lipsia 1928; per il nome, v.: A. Schiaffini, Intorno al nome e alla storia delle chiese non parrochiali nel Medio Evo, in Arch. stor. ital., 1922.

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