ATTO

Enciclopedia Italiana (1930)

ATTO

Luigi PERLA
Mario ROTONDI
Antonio CICU
Ugo FORTI
Emilio BETTI Leone BOLAFFIO

. Diritto. - Si qualifica come atto giuridico ogni manifestazione, sia dello stato o di altro ente pubblico, sia di privati, diretta ad un determinato fine preso in considerazione dal diritto. L'atto così inteso può consistere in un fatto materiale (p. es., la costruzione d'una casa, lo sfruttamento d'un fondo); può avere per contenuto una dichiarazione, espressa o tacita, di volontà, unilaterale (ordini d'autorità, testamenti, ecc.) o plurilaterale (contratti, accordi); può anche esprimere una semplice cognizione o scienza (testimonianze, certificati); o una qualche valutazione (decisioni, pareri, perizie); o un mero desiderio (voti, istanze), e così via. Nelle ulteriori qualificazioni e classificazioni degli atti giuridici talvolta prevale la natura del soggetto che lo compie (atti di diritto pubblico o di diritto privato, atti del potere legislativo, esecutivo, giudiziario); talaltra il suo fine specifico (atti conservativi, di alienazione, di commercio, di liberalità, ecc.); altre volte ancora la sua forma, che può essere quella di un documento (nel qual caso la parola atto spesso designa il documento stesso, sia pubblico sia privato), può essere orale, e, in certi casi, può mancare del tutto, come nel silenzio quando il diritto ad esso ricollega certi effetti. V. anche le voci contratto, negozio giuridico, e le altre richiamate nelle varie parti del presente articolo.

Atti dello stato civile.

Sono atti destinati a documentare pubblicamente fatti influenti sullo stato delle persone, in quanto questo interessa, sotto molteplici aspetti, tanto la generalità dei cittadini, quanto lo stato stesso e gli enti pubblici. Perciò tale documentazione viene precostituita, a cura di un funzionario pubblico, l'ufficiale di stato civile, mediante iscrizione in registri pubblici, e con l'osservanza di cautele tendenti a garantire la verità dei fatti documentati.

L'obbligo della tenuta dei registri per documentare nascite, matrimonî e morti, esistente già nei comuni italiani nei secoli XIV e XV, fu imposto ai parroci dal concilio di Trento; e della loro documentazione si avvalse anche lo stato fino a che, con la rivoluzione francese, questo compito fu dallo stato affidato ai comuni.

Nella legislazione italiana la materia è fondamentalmente regolata negli articoli 350 a 405 del cod. civ., e nel decreto per l'ordinamento dello stato civile 15 novembre 1865, n. 2062. Gli atti di stato civile sono ricevuti all'interno o all'estero. All'interno, ufficiale di stato civile è il sindaco (ora il podestà, legge 4 febbraio 1926, n. 237), o chi legalmente lo sostituisce, o persona da lui delegata a tale funzione con l'approvazione del procuratore del re (v. art. i ordinamento stato civile, e ora art. 7 legge 4 febbraio 1926 cit., e art. 1 decr. legge 9 maggio 1926, n. 818). Come ufficiale di stato civile, il podestà è funzionario del governo: dipende dal ministro di Grazia e Giustizia ed è sottoposto alla vigilanza del procuratore del re. La sua competenza è territoriale, in quanto egli non può ricevere atti se non nell'ambito della circoscrizione del comune; ma per le persone cui gli atti si riferiscono non si ha riguardo al domicilio o residenza nel comune, fatta eccezione per il matrimonio. All'estero, ufficiale di stato civile è il console, nel distretto consolare (il quale può delegare il viceconsole o agente consolare), e il viceconsole capo ufficio, nel luogo di residenza (art. 63 legge consolare e 167-168 regol. 7 giugno 1866, n. 2996); ma il cittadino italiano può anche far redigere gli atti di stato civile secondo le leggi del luogo, con l'obbligo di rimetterne entro tre mesi copia all'agente diplomatico o consolare o al competente ufficio di stato civile del regno.

Vi sono poi casi eccezionali in cui le funzioni di ufficiale di stato civile sono affidate a persone diverse: cioè al commissario di marina o a chi ne fa le veci, nelle navi della regia marina; al capitano o a chi ne fa le veci nelle navi mercantili, per le nascite o morti verificatesi durante un viaggio di mare (articoli 380, 396 cod. civ.); all'autorità marittima, per gli atti di morte nei casi di naufragio in cui si siano salvate persone che siano in grado di attestare della morte (se non vi sono superstiti, l'autorità deve provvedere a far inserire una dichiarazione autentica nei registri dei comuni, cui appartenevano le persone morte); agl'impiegati designati dai regolamenti militari, per gli atti concernenti i militari in guerra o le persone impiegate al seguito delle armate (v. regol. 19 marzo 1912; decreto legge 30 gennaio 1916, n. 109; 27 gennaio 1916, n. 108; 26 luglio 1917, n. 1350); infine al presidente del senato, assistito dal notaio della corona, per gli atti di nascita, matrimonio e morte del re e dei membri della famiglia reale.

Gli atti vengono scritti nei particolari registri destinati a riceverli. I registri sono tenuti negli uffici del comune, in doppio originale. Essi sono previamente vidimati in ciascun foglio dal presidente del tribunale o giudice a ciò delegato (per i registri dei consoli, dal console; per quelli tenuti da impiegati militari, dalle autorità indicate dall'art. 4 reg. 17 giugno 1866); e contengono l'indicazione del numero totale dei fogli. Ciascun registro è diviso in due parti: la prima composta di modelli a stampa con spazî da riempirsi a penna, l'altra di fogli in bianco; in questa seconda parte s'inseriscono gli atti che non si adattano ai modelli a stampa, e si eseguiscono le trascrizionì (p. es., articoli 53, 85, 95, 106, ordinamento stato civile). Gli atti vi devono essere scritti di seguito, senza abbreviature, né spazî in bianco. Cancellazioni eseguite in modo che possano essere lette, e postille, si devono approvare e firmare prima della chiusura degli atti, cioè delle sottoscrizioni; dopo di che nessuna variazione può esser fatta se non in base a sentenza del tribunale (procedimento di rettificazione). I registri si chiudono al 31 dicembre di ogni anno con processo verbale scritto subito dopo l'ultimo atto. Uno degli originali, entro 15 giorni, dev'essere depositato alla cancelleria del tribunale, e verificato dal procuratore del re: di tutto ciò si redige processo verbale. Scopo della verifica è quello di promuovere le rettificazioni richieste dall'interesse pubblico e di applicare le pene contro coloro che avessero violato le norme di legge. Ma altra verifica ordinaria sono tenuti a fare i pretori nei primi quindici giorni dei mesi di gennaio, maggio e settembre; mentre verifiche straordinarie si possono fare in ogni tempo dal procuratore del re, o per sua delega, dal pretore. Di ciascun registro si forma un indice annuale e decennale per cognomi, in ordine alfabetico e in doppio esemplare.

La redazione degli atti di stato civile si fa sulla base delle dichiarazioni dei comparenti, cioè di persone obbligate o autorizzate a dichiarare quei fatti e volontà, che gli atti sono destinati a documentare. Tali persone potranno anche far la dichiarazione mediante procura speciale e autentica, eccetto il caso del matrimonio; per quest'ultimo la procura è stata eccezionalmente ammessa, durante l'ultima guerra, per i militari. Le dichiarazioni devono esser fatte alla presenza di due testimoni di almeno 21 anni e residenti nel comune. Le dichiarazioni da inserirsi negli atti sono soltanto quelle che la legge richiede e permette. In ogni atto deve essere enunciato il comune, la casa (in casi eccezionali l'atto può esser ricevuto fuori degli uffici comunali), l'anno, il giorno e l'ora in cui è formato; le generalità dei dichiaranti e dei testimoni, e i documenti presentati. Redatto l'atto. deve esser letto dall'ufficiale e sottoscritto quindi dai dichiaranti, dai testimoni e dall'ufficiale; se alcuno dei primi non può sottoscrivere s'indicherà la causa dell'impedimento. I registri dello stato civile sono pubblici. Ognuno ha diritto di conoscerne il contenuto, senza esser tenuto a dichiarare l'interesse che lo spinge alla richiesta.

Vi è dissenso circa le conseguenze dell'inosservanza delle forme di legge; se cioè ne consegua inesistenza, o nullità, e quali difetti di ciò siano causa, o se l'atto debba nondimeno considerarsi esistente e valido. Va premesso che l'inosservanza delle formalità dà luogo ad applicazione di pene pecuniarie a carico dei responsabili; l'azione relativa è promossa dal pubblico ministero davanti al tribunale civile. E ciò senza pregiudizio di un'eventuale azione di risarcimento di danni e delle sanzioni previste dal codice penale in caso di dolo (art. 275 segg. cod. pen.).

Si è d'accordo nell'ammettere inesistenza, quando l'atto non sia iscritto in registri di stato civile, o sia ricevuto da persona che non ha la qualità di ufficiale di stato civile. È causa di dubbio, invece, l'incompetenza dell'ufficiale o la mancanza di data, di assistenza o fimma dei testimoni, di firma delle parti o dell'ufficiale. È opinione prevalente che in tali casi l'atto debba considerarsi esistente, e possa quindi e debba esser sottoposto al procedimento di rettificazione. Sennonché v'è molta incertezza nella dottrina su quel che si debba intendere per procedimento di rettificazione. Taluno, badando al significato della parola rettificazione, intende questa come correzione di un atto esistente ma errato, sebbene riconosca che lo stesso procedimento è applicato dalla legge anche a caso in cui non si tratta di rettificare; altri, badando alla natura particolare del procedimento, intende come tale anche quello che provvede a ricostituire o costituire un atto mancante; escludendone tuttavia i casi di mancata tenuta dei registri, loro distruzione o smarrimento totale o parziale e interruzione, in quanto l'art. 364, che li regola, non ne parla. Si può tuttavia ritenere che esso costituisca un rimedio generale; esso infatti è applicato dalla legge non solo a correggere qualsiasi indicazione errata contenuta nell'atto, ma anche a supplire all'omissione di un atto singolo, nonché a rimediare alle irregolarità (articoli 372 cod. civ., 133 e 134 ordinamento stato civile). La sentenza di rettificazione non ordinerà che l'atto sia rifatto o sia completato delle firme mancanti, ma ne dichiarerà la validità, restando nell'apprezzamento discrezionale del magistrato giudicare se il difetto di forma nasconda un difetto di sostanza, nel qual caso s'indagherà sulla verità dei fatti che risultano dall'atto. Nel caso invece in cui il procedimento sia diretto a correggere o completare dati risultanti in un atto regolarmente formato, la sentenza ordinerà la relativa correzione e il completamento, mentre nei casi di atto mancante darà facoltà all'ufficiale di riceverlo (art. 51 ordinamento stato civile), e, nei casi di cui all'art. 364, ordinerà che gli atti siano rifatti, o si supplisca alla loro mancanza mediante atti di notorietà (art. 366 cod. civ.). Diverse sono le norme da osservarsi in tale indagine. Quando i registri non furono tenuti o vi fu interruzione, o furono distrutti o smarriti, la prova dei fatti da documentare può esser data con qualsiasi mezzo (art. 364). Niente invece dice la legge per il caso di omissione di atti singoli di nascita o di morte. In particolare per gli atti di nascita sorge dubbio, in quanto l'art. 174 per l'azione di reclamo richiede, per l'ammissione della prova testimoniale, un principio di prova scritta o presunzioni gravi risultanti da fatti già certi. Invece, per l'omissione di un singolo atto di matrimonio, l'art. 121 prescrive la presentazione dell'estratto delle pubblicazioni e la prova di un conforme possesso di stato dei coniugi. Il procedimento di rettificazione si svolge davanti al tribunale del luogo in cui si trova l'atto da rettificaré, su domanda di persona interessata, o del pubblico ministero: in questo caso dovranno essere chiamate le parti interessate; nel primo, potrà il tribunale ordinarne la comparizione e disporre la convocazione del consiglio di famiglia o di tutela per il suo parere. È dubbio quando sia consentita l'azione al pubblico ministero; per l'art. 365 cod. civ., lo sarebbe nei casi in cui la rettificazione è richiesta dall'interesse pubblico; ma l'art. 134 dell'ordinamento dello stato civile autorizza il pubblico ministero ad agire senza limiti per la rettificazione delle irregolarità, pur richiamando poi il limite dell'interesse pubblico per ogni altra rettificazione, mentre l'accertamento dello stato delle persone presenta sempre un interesse pubblico. Il tribunale provvede in camera di comiglio, sentito il pubblico ministero, con sentenza, trascritta sui registri di stato civile, facendosene annotazione in margine all'atto rettificato. La sentenza non potrà essere opposta da coloro che non furono parti in giudizio. Gli atti di stato civile, come atti ricevuti da un pubblico ufficiale, fanno fede, fino a querela di falso, di ciò che l'ufficiale attesta avvenuto alla sua presenza; e, fino a prova contraria, delle dichiarazioni dei comparenti. Ma agli atti stessi è da riconoscersi un valore più ampio che non quello d'un mezzo di prova. Aivendo per scopo la documentazione pubblica dello stato delle persone, essi costituiscono titoli dello stato, sicché la persona cui si riferiscono va considerata come investita dello stato che in essi risulta, finché l'atto stesso non sia modificato con sentenza. I singoli atti di stato civile, di cui parla il codice civile, sono gli atti di nascita, di matrimonio e di morte. Altri atti interessano lo stato della persona e devono fornirne una documentazione pubblica: tali gli atti di riconoscimento di figlio naturale, di legittimazione per susseguente matrimonio, il decreto di adozione, di legittimazione, di mutamento di nome e cognome o concedentx titoli di nobiltà: sono resi pubblici, o iscrivendoli nei registri, o trascrivendoli, e facendone annotazione a margine dell'atto di nascita, o di matrimonio, o di morte. Restano tuttavia al di fuori della documentazione pubblica dei registri di stato civile altri fatti interessanti lo stato delle persone: le sentenze d'interdizione e d'inabilitazione, gli atti di emancipazione, il fallimento. Perciò è invocata una riforma dell'attuale ordinamento, diretta a rendere completa e di facile e sicuro uso la documentazione dello stato giuridico delle persone.

L'atto di nascita viene redatto su dichiarazione del padre (personalmente o per procura speciale) o del medico, della levatrice o di altra persona che abbia assistito al parto, o del capo di famiglia o ufficiale delegato dello stabilimento dove avvenne il parto: tutte persone che sono obbligate alla dichiarazione, mentre la madre può farla o personalmente o per procura speciale. La dichiarazione deve farsi entro i cinque giorni successivi al parto; dopo tale termine l'atto non può redigersi che in seguito a procedimento di rettificazione. L'atto deve indicare luogo, giorno, ora della nascita sesso, nome, e, se la nascita è da unione legittima, anche i dati relativi ai genitori; se illegittima, il nome dei genitori non può essere indicato, se essi stessi non denunzino la nascita personalmente, o per procura speciale. Nel caso di neonato abbandonato, chi lo trovi è obbligato a consegnarlo all'ufficiale di stato civile e a denunziare le circostanze di tempo e luogo in cui fu trovato, di che si farà un processo verbale iscritto sui registri. Se il neonato fu consegnato a un pubblico ospizio, la denunzia sarà fatta dal direttore. Per l'imposizione dei nomi e cognomi per i figli legittimi e illegittimi dispone la legge 8 marzo 1928 n. 383.

L'atto di matrimonio viene redatto subito dopo la celebrazione. Contiene le indicazioni necessarie a individuare gli sposi, l'attestazione del consenso degli ascendenti o consiglio di famiglia o tutela, nei casi in cui è necessario, la data delle eseguite pubblicazioni o il decreto di dispensa, l'attestazione del consenso degli sposi e della pronunzia dell'ufficiale. Per i matrimonî celebrati davanti al ministro del culto cattolico, in seguito al concordato dell'11 febbraio 1929 con la S. Sede, dispone la legge 27 maggio 1929 che l'atto di matrimonio, redatto dal ministro del culto in doppio originale, dev'essere trasmesso all'ufficio di stato civile del comune in cui il matrimonio è stato celebrato, per essere trascritto nei registri tenuti a norma del r. decr. 26 luglio 1929 n. 1361, trascrizione necessaria perché il matrimonio abbia effetti civili.

L'atto di morte viene redatto su dichiarazione di due testimoni e deve indicare il luogo, giorno e ora della morte, i dati necessari a individuare il defunto, il coniuge superstite o predefunto e i dichiaranti. Speciali norme tendono a garantire che la morte sia denunciata, che la denuncia corrisponda alla verità e che, ove la morte sia conseguenza di un reato, questo sia perseguito.

Oltre a questi atti e i relativi registri, la legge prescrive anche la tenuta di registri di cittadinanza (art. 14 ordinamento stato civile). S'iscrivono in tali registri: 1) le dichiarazioni di elezione di cittadinanza italiana (legge 13 giugno 1912, art. 2 segg.; ma v. decr. legge 25 luglio 1915 e 14 luglio 1918) o di voler riacquistare la cittadinanza perduta (artt., 9, 10, 11, 12); 2) le dichiarazioni di elezione di cittadinanza straniera (artt. 3, 8); 3) le dichiarazioni di rinuncia alla cittadinanza (art. 7); 4) le dichiarazioni di aver fissato o voler fissare il domicilio nel regno; 5) le dichiarazioni di trasferimento del domicilio da un comune a un altro del regno. Si trascrivono nei detti registri i decreti reali di concessione della cittadinanza.

Bibl.: A. Scevola, L'ordinamento dello stato civile, Torino 1884; L. Bellini, Trattato teorico-pratico in materia di stato civile, Forlì 1906; E. Fortunato, Atti dello stato civile, in Enc. giur. italiana; O. Conti, Stato civile, in Dizionario di diritto privato; E. Piola-Caselli, Degli atti dello stato civile, 2ª ed., Torino 1915. Cfr. inoltre i trattati di diritto civile.

Atto di governo.

Col nome di "atto di governo" o di "atto politico" s'intende comunemente una particolare forma di attività dello stato, che può, in modo molto generico, designarsi come rivolta a provvedere ai fini supremi della convivenza statale, cioè agl'interessi dello stato, considerato come unità. Tale concetto ha avuto lunga elaborazione nella dottrina, specialmente in quella francese; ma deve riconoscersi non riuscito il tentativo di ricavarne un tipo di attività statale che possa per la sua natura distinguersi dai tre tipi fondamentali, il cui riconoscimento sta a base della dottrina della divisione dei poteri, nella sua più moderna e ormai unica formulazione: amministrazione, legislazione, giurisdizione. Invero ciascuno dei casi che si sogliono indicare come esempio di atto di governo presenta, volta a volta, i caratteri essenziali dell'una o dell'altra di queste forme di attività dello stato. L'atto di governo non è dunque manifestazione di una quarta forma di attività dello stato, che non esiste; bensì si riscontra, come si è detto, quando l'una o l'altra di quelle tre forme si attui con riferimento agl'interessi supremi della convivenza statale. Determinare, nell'ambito di ciascuna di queste forme, quando si abbia atto di governo, ha particolare interesse pratico per ciò che concerne la funzione amministrativa: in essa si riscontrano attività siffatte nell'esercizio di molti poteri attribuiti al re in ordine alla funzione del parlamento, per regolarne l'attività (es., convocazione, chiusura della sessione), in ordine alla nomina alle cariche dello stato, per quelle aventi carattere costituzionale (nomina dei ministri e sottosegretarî di stato; nomina dei senatori), in ordine ai rapporti internazionali (es. dichiarazione di guerra, stipulazione dei trattati di pace). In questi e in altri consimili casi appar chiaro che si tratta di atti i quali per natura loro non potrebbero evidentemente definirsi se non come esercizio di funzione amministrativa, ma che con altrettanta sicurezza costituiscono, in contrapposto all'amministrazione ordinaria, una categoria a sé, distinta appunto dal riferirsi a un ordine superiore d'interessi statali. È anche da notare che nel diritto positivo italiano esistono taluni pochi casi in cui una facoltà del potere esecutivo può essere esercitata tanto per esigenze ordinarie quanto per interessi di ordine superiore, che la legge indica col riferimento a possibili "gravi motivi di ordine pubblico"; così era appunto, vigendo il sistema elettivo nell'ordinamento comunale, per lo scioglimento dei consigli (art. 323 legge comunale e provinciale testo unico 4 febbraio 1915, n. 148), e così è per lo scioglimento delle consulte municipali (art. 7 decr. legge 3 settembre 1926, n. 1910). Meno sicuro è, nel nostro diritto, se, nulla disponendo la legge, possa il potere esecutivo attribuire, in considerazione d'interessi superiori, carattere di "atto politico" all'esercizio di taluna delle sue potestà ordinarie, che normalmente non si riferisca a un superiore ordine d'interessi statali: la giurisprudenza tende a risolvere questo dubbio in senso affermativo, superando anche le difficoltà che, nei singoli casi, può presentare l'accertamento di tale carattere. Dalle caratteristiche dell'atto di governo risulta anche che esso non può competere che ad organi amministrativi statali: e, fra questi, solo ai poteri centrali, cioè alla potestà regia; eccezionalmente al ministro dell'Interno (che può dichiarare, con l'assenso del capo del governo, lo "stato di pericolo pubblico", o lo "stato di guerra" per misura di pubblica sicurezza: art. 219 segg. testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 6 novembre 1926, n. 1848), o ai prefetti, per competenza propria o per delegazione del ministro suddetto (articoli 2, 219, e 222 testo unico cit.; art. 3 testo unico della legge comunale provinciale). lnfine, la natura di atto di governo, che eventualmente rivesta un provvedimento dell'autorità amministrativa, ha conseguenze importanti per il rispetto del controllo giurisdizionale, in quanto fin dall'istituzione della IV sezione del Consiglio di stato (v. ora articolo 31 testo unico 26 giugno 1924, sul Consiglio di stato) fu escluso il ricorso contenzioso al giudice amministrativo di legittimità contro atti o provvedimenti "emanati dal governo nell'esercizio del potere politico", che sono appunto tutti gli atti di governo, anche se eccezionalmente non emanati dal potere regio. E proprio l'esegesi di questa norma ha dato occasione, anche nella dottrina italiana, alle indagini sulla categoria degli atti di governo. Nessun testo di legge esclude invece questi atti dal sindacato che ordinariamente spetta all'autorità giudiziaria in ordine agli atti e provvedimenti del potere esecutivo (artt. 2, 4 e 5 legge 20 marzo 1865, allegato E sull'abolizione del contenzioso amministrativo); ma la giurisprudenza tende ad affermare l'esclusione anche di questo sindacato.

Bibl.: F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo (litogr.), Padova 1911, nn. 5 e 422; N. Coco, L'atto di potere politico negli odierni atteggiamenti della dottrina e della giurisprudenza, in Rivista di diritto pubblico, I (1927), p. 276 segg.; T. Marchi, A proposito della distinzione tra atti politici ed atti amministrativi, Parma 1905; V. E. Orlando, La giustizia amministrativa, nel Primo trattato completo di diritto amministrativo, III, ii, p. 370 segg.; E. Presutti, Istituzioni di diritto amministrativo, I, Roma 1917, p. 18 segg.; O. Ranelletti, Principî di diritto amministrativo, I, Napoli 1912, p. 323 segg. (con ampî riferimenti bibliografici).

Atto amministrativo.

La nozione di atto amministrativo può assumere un significato meramente formale, ove si applichi a ogni sorta di attività giuridicamente rilevante che provenga dalla pubblica amministrazione, quali che siano i suoi caratteri sostanziali; in questo senso dovrebbe dirsi atto amministrativo non solo ogni attività concreta che la pubblica amministrazione pone in essere, ma anche un regolamento (che contiene una norma giuridica, ma emana dalla pubblica amministrazione), e perfino una decisione di carattere giurisdizionale emanata da organo amministrativo (p. es., dal consiglio di prefettura). Quando si usa tale nozione, meramente formale, la si estende però soltanto ai primi due casi, distinguendo poi atti amministrativi speciali e generali, e comprendendo in questa seconda categoria i regolamenti. Ciò risponde, sotto alcuni punti di vista, al sistema e alla terminologia del diritto italiano, di cui alcune norme e principî si applicano così agli atti speciali come ai regolamenti (possibilità di controlli in via amministrativa; applicabilità, con gli stessi limiti ed effetti, del controllo giurisdizionale dell'autorità giudiziaria e delle giurisdizioni amministrative). Per contro, se si ha riguardo al solo contenuto dell'attività spiegata da organi dell'autorità pubblica, ben si possono dire atti amministrativi anche quelle statuizioni del potere legislativo, dette "leggi formali", che non contengono norme, bensì provvedimenti concreti (es., legge di bilancio, determinazione della lista civile) o quelle attività che provengono da organi del potere giudiziario, ma non attuano funzioni giurisdizionali (es., provvedimenti di volontaria giurisdizione). Di atto amministrativo in senso più preciso e con contenuto più strettamente tecnico si parla tuttavia soltanto quando concorra, con l'elemento formale suddetto, anche quello sostanziale.

Anche in questa limitata accezione, il vocabolo indica, volta a volta, categorie di fenomeni giuridici diverse per ampiezza. Infatti esso può estendersi sino ad abbracciare ogni attività giuridicamente rilevante degli organi amministrativi e quindi anehe i fatti materiali (es., l'abbattimento di un muro pericolante); o restringersi a indicare le dichiarazioni o pronunce (es., un decreto di nomina, un certificato). Anche in questa seconda più ristretta categoria ben si possono poi distinguere atti giuridici in senso stretto e negozî giuridici, applicando così anche nel campo del diritto amministrativo concetti elaborati nella sistematica del diritto privato. Talune norme e principî sono comuni così ai fatti materiali come alle dichiarazioni e pronunce; in questo ampio senso si deve, p. es., intendere l'espressione atto amministrativo (negli artt. 4 e 5 legge 20 marzo 1865 allegato E sull'abolizione del contenzioso amministrativo), o parlare di responsabilità dell'amministrazione verso i cittadini per atti illeciti, lesivi di loro diritti. Le norme e i principî applicabili ai negozî giuridici valgono di regola anche per gli atti in senso stretto, con l'avvertenza che per questi ultimi l'effetto giuridico si produce anche se non vi sia rivolta l'attività dell'organo dichiarante (es., processo verbale, atto di stato civile), del che pertanto si deve tenere conto nel valutare la funzione della volontà e le conseguenze dei suoi possibili vizî.

La maggior parte dei principî, che la dottrina riferisce all'atto amministrativo, riguardano la categoria delle manifestazioni di attività, che comprende, sia gli atti giuridici in senso stretto, sia i veri e proprî negozî giuridici posti in essere dalla pubblica amministrazione. L'atto amministrativo, così inteso, risulta individuato da un elemento subiettivo e da uno obiettivo. Sotto il primo punto di vista, è da notare che l'atto deve di regola esser posto in essere dalla pubblica amministrazione (rimanendone così esclusi gli atti sostanzialmente amministrativi, posti in essere dal potere legislativo, come le leggi formali, o dal potere giudiziario, come i provvedimenti di giurisdizione volontaria); potranno tuttavia essere sottoposti allo stesso regime (ad esempio agli effetti dei ricorsi amministrativi) anche atti posti in essere da concessionarî, nell'esercizio dei poteri ad essi trasferiti mediante concessione (es., accertamento daziario compiuto dall'appaltatore del dazio consumo). Sotto il secondo punto di vista, va rilevato che l'atto deve essere esercizio di un diritto, potere o facoltà, che appartenga all'amministrazione iure publico: onde non potrebbe qualificarsi atto amministrativo la stipulazione d'un mutuo o di una locazione, ancorché v'intervenga l'amministrazione pubblica. (Ciò non esclude però che qualsiasi atto giuridico posto in essere dalla pubblica amministrazione debba sempre esser regolato dal diritto pubblico, almeno per quanto concerne la competenza, le forme della manifestazione, ecc.). Si riconnette a questo punto una distinzione tra atti d'impero e atti di gestione, un tempo largamente usata nella dottrina e nella pratica italiana, di poi abbandonata - in seguito a vivaci critiche (Mortara), rivolte a dimostrare anche l'erroneità delle applicazioni - ma sostanzialmente esatta e fondata anche sul diritto positivo (Ranelletti), purché non le si attribuisca valore diverso da quello che naturalmente può avere. Bisogna infatti tener presente che la distinzione riproduce la verità indiscutibile che talune attività dell'amministrazione pubblica sono esclusivamente governate dal diritto pubblico; ma altre sono, almeno parzialmente, regolate dal diritto privato, in quanto l'ente pubblico iure privatorum utitur.

Conseguenza del preminente interesse pubblico è il carattere di esecutorietà, per cui l'amministrazione può far valere coattivamente le sue pretese, senza che un altro organo intervenga ad imporne al privato l'adempimento (es. ordinanza di demolizione eseguita dall'autorità a spese del privato che non vi ottemperi). Per il principio di revocabilità l'atto può sempre essere revocato dall'autorità che lo emise, sia perché illegittimo, sia per motivi di opportunità (a meno che non abbia dato vita a un diritto soggettivo); nel primo caso l'annullamento ha effetto ex tunc, nel secondo ex nunc. Per ulteriori distinzioni e requisiti v. atto complesso e negozio giuridico (Diritto pubblico).

Bibl.: U. Borsi, L'esecutorietà degli atti amministrativi, Torino 1901; F. Cammeo, Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano 1911, p. 450 segg.; id., Corso di diritto amministrativo (litogr.), Padova 1911, p. 1211 segg.; A. De Valles, La validità degli atti amministrativi, Roma 1917, cap. I; L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, I, 5ª edizione, n. 140 segg.; E. Presutti, Istituzioni di diritto amministrativo, 2ª ed., Roma 1917, I, n. 71 segg.; L. Raggi, Sull'atto amministrativo, in Rivista di diritto pubblico, 1917; O. Ranelletti, Per la distinzione tra atti di impero e di gestione, in Studî in onore di Vittorio Scialoia, I; id., Lezioni di diritto amministrativo, Napoli 1921, passim; S. Romano, Principî di diritto amministrativo, 3ª ed., Milano 1913, n. 63 segg.; S. Trentin, L'atto amministrativo, Roma 1915, cap. III e IV (tutti con ampî riferimenti bibliografici anche per la dottrina straniera). V. anche la bibliografia di negozio giuridico (diritto pubblico).

Atto complesso.

La sistematica giuridica ha qualificato con questa denominazione un particolare tipo di atti giuridici che si riscontra con una certa frequenza specie nel diritto pubblico, e risulta individuato da questa caratteristica: che a porlo in vita concorrono più volontà d'individui (o di organi della stessa persona giuridica, il che dà egualmente un concorso di più volontà individuali), cooperanti non già nella forma del contratto e nemmeno in quella che qualche scrittore chiama dell'atto plurilaterale, destinato a creare vincoli giuridici reciproci tra le varie persone, sibbene in una particolar forma, contraddistinta da un'identica direzione delle varie volontà verso un unico scopo pratico, per modo che da siffatta loro giuridica collaborazione il diritto faccia scaturire un unico effetto finale.

La dottrina italiana, come quella straniera, ha in un primo tempo determinato con qualche larghezza i limiti di questa categoria, fermandosi sull'elemento della cooperazione di più volontà e ritenendolo sufficiente a individuare, nel senso già detto, la figura dell'atto complesso; donde anche la necessità di suddistinzioni, con le quali vengono contrapposti, ad es., gli atti complessi uguali a quelli inuguali (a seconda del diverso contenuto delle singole volontà), o gli atti di complessità interna a quelli di complessità esterna, a seconda della posizione dei singoli organi, riguardo alla persona giuridica alla quale l'atto complesso vien riferito. Per tal modo si è ritenuto che costituissero casi di atto complesso tutti quelli, assai numerosi, in cui l'effetto giuridico sia comunque condizionato a un atto di controllo (autorizzazione, approvazione, ecc.). A questa tendenza dottrinale ne va contrapposta un'altra, che delimita più rigorosamente la categoria, ritenendo che possa utilmente parlarsi di atto complesso là dove non solo si manifesti collaborazione di volontà individuali miranti sostanzialmente ad un unico scopo pratico e quindi con effetto giuridico finale unico, ma concorra altresì il requisito dell'omogeneità di tutte queste volontà. Tale requisito si riscontra quando le diverse volontà appaiano come esercizio d'identico potere, facoltà o diritto, operino per il soddisfacimento d'interessi uguali (sicché il medesimo e anzi unico risultato pratico le appaghi in ugual misura), e infine all'intervento di ciascuna segua effetto giuridico identico. Secondo questa più rigorosa delimitazione, non si avrebbe atto complesso là dove una dichiarazione di volontà risultasse condizionata, nei suoi effetti, all'intervento di un'attività di controllo: non si avrebbe quindi nella collaborazione che si riscontra, p. es., tra la volontà che delibera e quella che approva o autorizza la deliberazione. Per contro possono indicarsi sicuramente come esempî di atto complesso: la legge, in quanto risulta dalla collaborazione di tre organi legislativi (le due camere e il re), il decreto reale, a formare il quale concorrono la volontà regia e quella del ministro responsabile, la deliberazione della maggioranza del collegio, in quanto risulta dall'uguale volere dei singoli membri che l'hanno, caso per caso, costituito; e così via. La figura dell'atto complesso risulta anche chiarita dalla contrapposizione con quella dell'atto collettivo, che in sostanza è un atto multiplo risultante dalla occasionale giustaposizione di più volontà (ad es. quando più enti pubblici provvedano collettivamente circa un pubblico servizio che collettivamente soddisfi una loro necessità amministrativa), per cui l'invalidità di una delle manifestazioni di volontà non implica vizio e giuridica inefficacia dell'intero atto collettivo, mentre può far venir meno uno degli elementi costitutivi dell'atto complesso.

Bibl.: U. Borsi, L'atto amministrativo complesso, Torino 1903; V. Brondi, L'atto complesso nel diritto pubblico, in Scritti in onore di F. Schupfer, III; P. Calamandrei, La sentenza soggettivamente complessa, in Rivista di diritto processuale civile, 1924; F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo (litogr.), Padova 1911, n. 242; A. De Valles, L'invalidità degli atti amministrativi, Roma 1917, p. 23 segg.; D. Donati, Atto complesso, autorizzazione, approvazione, in Archivio Giuridico italiano, 1903; H. Gleitsmann, Vereinbarung und Gesammtakt, Halle 1900; O. Kuntze, Der Gesammtakt ein neuer Rechtsbegriff, in Festgabe der Leipziger Juristenfakultät für O. Muller, Lipsia 1902; E. Presutti, Istituzioni di diritto amministrativo, Roma 1917, I, n. 74; L. Raggi, Sull'atto amministrativo, in Rivista di diritto pubblico, 1917, I, p. 145 segg. e particolarm. p. 188 segg.; O. Ranelletti, Lezioni di diritto amministrativo, Napoli 1921, p. 116 segg.; S. Romano, Principî di diritto amministrativo, 3ª ed., Milano 1913, n. 40; S. Trentin, L'atto amministrativo, Roma 1915, p. 150 segg.; H. Triepel, Landesrecht und Völkerrecht, Lipsia 1899, pp. 35-45 e 49-62; C. Vitta, Nozione degli atti amministrativi e loro classificazione, in Giurisprudenza italiana, IV (1906), pag. 183 seguenti.

Atti processuali.

Si chiamano così tutti quegli atti giuridici che per legge sono destinati a promuovere o a definire il processo, o a configurarne i successivi atteggiamenti dall'inizio alla fine. Atti processuali sono propriamente soltanto quelli che hanno perfetto diretto, ancorché non immediato, l'inizio o la fine del processo, o una determinata situazione giuridica nel suo svolgimento. Pertanto quegli atti extragiudiziali che mirano a predisporre o ad escludere un possibile processo futuro o ad influire sulle vicende di un processo pendente non sono cosiderati atti processuali se non in quanto siano poi fatti valere, o anche inseriti nel processo stesso. Prima di esser fatti valere, essi non sono legati al processo che da un nesso teleologico, e non costituiscono che elementi astratti o possibili della lite cui si riferiscono: atti processuali solo in potenza. Tali, ad es., la procura alla lite, l'autorizzazione della parte a stare in giudizio, la convenzione circa la proroga del foro o la modificazione di termini non perentorî, il compromesso e la clausola compromissoria, la transazione extragiudiziale. Autori di atti processuali possono essere così le parti come il giudice, i loro ausiliarî (cancelliere, ufficiale giudiziario, procuratore), terzi chiamati in giudizio che non diventino parti. Si prescinde qui dagli atti degli organi giurisdizionali (v. giurisdizione) per considerare i soli atti processuali di parte.

Gli atti processuali di parte consistono essenzialmente in dichiarazioni rivolte al giudice o all'avversario o ad entrambi. Per la loro documentazione e comunicazione al destinatario sono di solito prefisse forme scritte determinate. Tali, per le deduzioni, la comparsa, la memoria, la nota, da raccogliere poi in apposito fascicolo. Queste forme scritte non sono altro che elementi degli atti che documentano, loro complemento e mezzo di perfezione. La comunicazione, del resto, può avvenire anche mediante discussione orale all'udienza: e ciò in misura più o meno ampia, secondo che nella struttura del procedimento prevalga la scrittura o l'oralità. Alla comunicazione di dichiarazioni o di documenti servono altresì taluni atti materiali concomitanti, che hanno per risultato un fatto o uno stato di fatto. Tale la comparizione all'udienza e l'esibizione della procura al cancelliere, per la costituzione in giudizio; la discussione orale della causa, per la comunicazione di deduzioni; il preventivo deposito in cancelleria dei documenti che s'intende produrre qual mezzo di prova; il deposito degli atti di prima istanza e della sentenza che s'intende impugnare. Sebbene l'inadempimento del solo atto materiale possa determinare un arresto o un indugio nello svolgimento del processo e persino importare la decadenza dall'impugnativa, pure è chiaro che l'atto materiale non ha, qui, il valore di atto processuale per sé stante, ma soltanto la funzione di atto-mezzo, elemento e strumento necessarío di una dichiarazione che esso significa o cui si accompagna (negli esempî addotti: costituzione in giudizio, produzione di prova, impugnativa). Anche quando sia anticipato - a scopo di comunicazione - sulla dichiarazione cui accede, esso rimane pur sempre un preannuncio e un accessorio di questa, nella quale l'atto processuale essenzialmente consiste. Essi non operano neppure in virtù della volontà che li determina, ma in virtù del fatto o dello stato di fatto che ne è il risultato. A questo soltanto la legge ricollega l'effetto giuridico, senza riguardo alcuno alla volontà dell'autore. Al contrario, negli atti processuali l'effetto giuridico è fondato sopra una valutazione, che la legge processuale fa della volontà o della coscienza manifestata con dati tipi di dichiarazione.

Per la classificazione degli atti processuali si possono adottare diversi criterî. Un criterio di carattere estrinseco si può desumere dalla funzione utile che i vari atti sono chiamati a spiegare nella complessiva economia del processo. E a tale stregua si possono distinguere gli atti d'impulso processuale da altri atti di partecipazione attiva al processo e da quelli diretti alla formazione del materiale di cognizione. Un criterio di carattere intrinseco si desume, invece, dal contenuto delle singole dichiarazioni, esaminando gli atteggiamenti della volontà o della coscienza in esse espressi, sia nella loro natura psicologica, sia in ordine alla valutazione legislativa fattane in un dato ordinamento processuale. Alla stregua di tale criterio si possono distinguere le seguenti classi di atti processuali.

1. Domande, ossia richieste di provvedimenti al giudice o di atti del loro ufficio ad altri organi ausiliarî. - Sono esse dichiarazioni di volontà, con cui le parti esprimono un dover essere e ne esigono l'adempimento: affacciano, cioè, l'esigenza d'una determinata attività del destinatario, in base al suo ufficio di organo giurisdizionale, e mirano a sollecitarne la volontà nel senso desiderato. Le domande al giudice sono gli atti processuali più importanti, congegno motore di tutto il processo di cognizione. Tali le domande concernenti il merito della causa: domanda giudiziale attrice o riconvenzionale, domanda di rigetto, domanda di ammissione di mezzi istruttorî, conclusioni di comparsa conclusionale, impugnativa di sentenza. Tali, parimenti, le domande attinenti al rito e, in genere, allo svolgimento del processo: proposizione di difese e di eccezioni processuali, ricorso per ricusazione di giudice, istanza di rimessione al giudice competente, istanza per fissazione di termini o per rinvio della causa, proposizione di qualsiasi incidente. Minor rilievo hanno le richieste dirette ad organi ausiliari: tale la richiesta di citazione, o la nota d'iscrizione della causa a ruolo. La domanda diretta a provocare una decisione di contenuto determinato viene appoggiata mediante affermazioni e deduzioni (v. § 4) che, per la loro natura logica e psicologica, vanno tenute nettamente distinte da essa in quanto atto processuale. Nell'aspirazione della parte istante, esse si presentano al giudice come un progetto o proposta di motivazione logica della decisione desiderata. Quanto all'efficacia vincolante delle domande riguardo alla parte proponente, è da dire che esse non possono essere revocate o sostanzialmente variate senza il consenso della parte avversaria, in quanto questa, con la loro proposizione, ha acquistato l'aspettativa di vederle decise così come sono state proposte.

2. Dichiarazioni di volontà comminatorie (o provocatorie), dirette all'avversario. - In questa denominazione collettiva si possono comprendere - in antitesi con le altre indicate al paragrafo 3 - quelle dichiarazioni, essenzialmente unilaterali (recettizie), che esprimono un proposito di tutela del diritto e hanno per destinataria, almeno principale, la controparte. Fra esse emergono per importanza le intimazioni, con cui una parte chiama l'altra in giudizio, o le preannunzia un determinato comportamento proprio. Tale, nelle sue svariate applicazioni (introduzione della lite, chiamata in causa d'un terzo, riproduzione della causa all'udienza, riassunzione d'istanza), la citazione, quando sia eseguita a istanza di parte. In essa infatti l'ufficiale giudiziario - autore formale dell'atto - funge da semplice ausiliare della parte che lo promuove, e che sotto questo aspetto può considerarsene l'autrice. Tali ancora la controcitazione, il precetto che avvia o prepara l'esecuzione forzata, l'interpellazione che precede la querela di falso, la risposta alla medesima. Qui rientra, inoltre, l'invito a esibire dati documenti, la loro richiesta (od offerta) in comunicazione, la dichiarazione di deferire un interrogatorio. In questa medesima classe ricade poi, sotto un certo aspetto, anche la costituzione in giudizio della parte o del suo procuratore, sia iniziale, sia rinnovata per interruzione del procedimento. Vi rientrano inoltre ricuse di domande, avvertimenti, diffide, proteste, opposizioni, in quanto non vengano formulate in apposite domande al giudice. Degna di nota è la stretta analogia di siffatte dichiarazioni con gli atti di costituzione in mora nel campo del diritto privato. Esse sono, in generale, revocabili, nel senso che è possibile non insistervi o rinunziare ai loro effetti attuali, salvi i diritti che esse abbiano, per avventura, fatti acquisire all'avversario. Dichiarazioni di tal natura abbondano specialmente nei processi primitivi, nei quali è minore l'ingerenza del giudice.

3. Dichiarazioni di volontà dispositive. - In antitesi con le precedenti (paragrafi 1 e 2), queste dichiarazioni sono dirette, anziché a far valere il diritto dedotto in lite, a disporre della tutela giuridica, modificandone i mezzi o le condizioni, sia col cambiare la rotta del processo pendente, sia col segnare quella del processo futuro. ll loro stesso contenuto, pertanto, imprime loro il carattere di dichiarazioni normative, cioè dirette a regolare per l'avvenire il comportamento delle parti contendenti in ordine alla tutela giuridica. Possono essere a) unilaterali, b) concordi, c) contrattuali. Sono, in ogni caso, irrevocabili.

a) Unilaterali (recettizie) sono le rinunzie a diritti potestativi processuali corrispondenti a determinate situazioni giuridiche della causa che si svolge: tali, la rinunzia ad eccezioni processuali e all'impugnativa di atti nulli, o l'accettazione di una sentenza da parte del soccombente, la quale può assumere, tuttavia, la forma di atto concorde. Unilaterali, altresì, la procura alla lite, la ratifica o la conferma dell'operato di un rappresentante processuale non facoltizzato o della parte incapace.

b) Concordi (atti complessi) sono la delazione, relazione e accettazione del giuramento decisorio (con le quali si costituisce una parte giudice di un punto di questione, sottraendo questo all'esame del giudice); e, in quanto richiedono per la propria efficacia l'adesione della controparte, sono pure tali la rinunzia agli atti del giudizio e il ritiro di singole domande o di singole impugnative già proposte (non esiste, invece, una rinunzia all'azione nel senso proprio della parola), e anche l'assunzione della causa da parte del chiamato in garantia, in luogo del garantito.

c) Contrattuali sono il compromesso, le convenzioni di deroga o di proroga del foro competente e quelle concernenti i termini e i modi di comparizione in giudizio o l'onere della prova, quando la legge ne ammetta un'inversione convenzionale. Così parimenti la conciliazione o il componimento amichevole: i quali atti, però, oltre a definire il processo, regolano lo stesso rapporto giuridico sostanziale in esso dedotto. Non hanno invece carattere di atto processuale i negozî relativi soltanto a quest'ultimo rapporto (impugnative; denunzie, rinunzie, ecc.), fatti in occasione del processo e contenuti in un atto processuale.

4. Affermazioni e deduzioni di fatto e di diritto, di rito e di merito. - Le affermazioni di fatto sono enunciazioni di giudizî storici, ossia percettivi, concernenti fatti rilevanti per la decisione della causa. Le affermazioni di diritto sono enunciazioni di giudizî classificatorî e normativi, coi quali si assevera l'esistenza del rapporto sostanziale dedotto in lite e si sostiene che esso ha un dato contenuto e un dato modo di essere e di operare. In quanto enunciazioni di giudizi, le affermazioni sono dichiarazioni di conoscenza. Ma (ed è questa la loro caratteristica saliente) al giudizio aderisce qui un apprezzamento, una valutazione: vi aderisce cioè, l'espressione di un dover essere, di un'esigenza che s'intende far valere, in conformità con l'imperativo di date norme di diritto sostanziale. Valutazione, codesta, per cui le affermazioni, nel processo, appaiono non isolate, ma collegate da un nesso teleologico a dichiarazioni di volontà dirette al giudice (domande, par. 1) o all'avversario (comminatorie, par. 2), alle quali esse forniscono il substrato logico, la motivazione (in questo senso i Romani vedevano nella intentio della formula un desiderium). Valutazione, inoltre, per cui le affermazioni di diritto e quelle di fatto, formulate a sostegno della domanda giudiziale, attrice o riconvenzionale (per esplicito quelle di diritto, per implicito le altre), costituiscono nel loro complesso la ragione fatta valere e discussa in giudizio: quella ragione, sotto la cui specie e nella cui misura il rapporto sostanziale viene dedotto in lite e accertato dal giudice (v. cosa giudicata). Alla ragione fatta valere l'avversario contrappone affermazioni di contenuto negativo (difese) o positivo (eccezioni) in fatto e in diritto, che si denominano contestazioni e servono a motivare la domanda di rigetto. Le deduzioni sono anch'esse enunciazioni di giudizî storici, classificatorî e normativi, concernenti il merito della causa o la regolarità del processo. Ma, a differenza dalle affermazioni, esse sono semplici dichiarazioni di conoscenza, cui non aderisce una valutazione, una espressione di dover essere. I giudizî ch'esse enunciano hanno per oggetto l'interpretazione di norme giuridiche o di massime d'esperienza, in vista della loro applicazione al caso specifico; e sono volte a dimostrare la conformità dei fatti e degli effetti giuridici affermati con le ipotesi previste o, rispettivamente, con gli effetti disposti dalle norme giuridiche invocate (in pratica, tuttavia, può riuscir difficile discriminare un'affermazione dalle deduzioni relative). Funzione delle deduzioni, pertanto, è di giustificare le affermazioni. Funzione di entrambe è di motivare le domande cui si coordinano. In connessione con queste, esse aspirano ad esser tenute in conto dal giudice e, di più, a riscuoterne l'approvazione e a fornirgli lo schema logico della decisione richiesta (par. 1). Affermazioni e deduzioni possono sempre esser lasciate cadere. Possono anche essere rettificate, purché la rettifica sia compatibile con le situazioni processuali acquisite, non importi variazione di domande e non contrasti con la buona fede.

5. Valutazioni di verità con effetto normativo. - Sono queste dichiarazioni di apprezzamento dirette a risolvere la questione della verità - ossia della fondatezza in fatto - di date affermazioni di cui si discute. Non diverse nel contenuto e nella struttura dalle affermazioni (par. 4), ne differiscono essenzialmente nell'effetto, che è normativo, in quanto consiste nel vincolare parti e giudice, creando per la decisione di merito una base, in massima non più revocabile. Aspetto, quest'ultimo, sotto il quale esse si avvicinano alle dichiarazioni di volontà dispositive (par. 3), restandone separate da questa differenza sostanziale: che in esse ha carattere normativo non già il contenuto della dichiarazione, ma soltanto l'effetto. Esse presuppongono determinate affermazioni di fatto o di diritto, cui si riferiscono, e possono essere confessorie o assertorie. Confessorie sono quelle valutazioni che hanno per termine di riferimento affermazioni dell'avversario. Tali il riconoscimento della ragione da lui fatta valere (par. 4) e la confessione di fatti da lui affermati; che, del resto, può risultare anche dall'esplicito ritiro di antecedenti contestazioni o affermazioni proprie. Non è tale la semplice ammissione del procuratore, la quale non ha altro effetto che una inversione dell'onere della prova. Assertorie sono le altre. Tale è la dichiarazione, che una parte faccia, dell'insussistenza della ragione da lei fatta valere (impropriamente chiamata rinunzia all'azione). Ma la valutazione assertoria tipica è il giuramento prestato su delazione o relazione dell'avversario, ovvero su delazione d'ufficio: giuramento decisorio e suppletorio in largo senso. La natura del giuramento è atta a gettar luce anche sull'indole delle altre dichiarazioni.

La valutazione di verità - assolutamente irrevocabile nel giuramento, revocabile solo in date ipotesi nelle altre dichiarazioni - ha questa efficacia: che, ove mai l'affermazione valutata vera non corrispondesse alla realtà, l'eventuale infondatezza della valutazione non avrebbe rilevanza giuridica ai fini della decisione, dovendo il giudice, in ogni caso, attenervisi. La ragione politico-legislativa di tale efficacia è quella medesima che giustifica le preclusioni processuali dipendenti da inattività della parte cui spettava l'interesse e l'onere dell'iniziativa. È l'idea di un'autoresponsabilità delle parti inerente al loro potere d'iniziativa; non già l'idea che le parti abbiano il potele di disporre a loro talento del materiale di cognizione, e tale potere esplichino con le dichiarazioni in parola. Normalmente l'interesse che le parti hanno a sostenere le affermazioni proprie, e il controllo che esse esercitano a vicenda l'una sulle affermazioni dell'altra, agiscono in guisa tale da assicurare che l'accertamento del giudice segua in senso conforme al vero. Ma, ove per avventura l'interesse e il controllo di parte non agiscano a dovere, è giusto che il rischio sia sopportato dalla parte, la quale deve imputare a sé stessa le conseguenze di un uso malaccorto della propria iniziativa. Per quel che concerne poi il giuramento decisorio, in particolare, la vigile diffidenza reciproca assicura normalmente che non sia messo in condizione di prestarlo se non chi è degno della fiducia in lui riposta, e d'altro canto il vincolo morale inerente all'atto garantisce che esso sia prestato secondo verità. Quando ciò non sia, la parte, che ha assunto il rischio di rendere l'avversario giudice in causa propria, deve imputare a sé stessa quel pregiudizio che in definitiva è conseguenza di un errato apprezzamento del proprio interesse. Quanto al giuramento deferito d'ufficio, la ragione della sua efficacia vincolante è un'altra: e sta nel superiore apprezzamento discrezionale del giudice, che con esso rimette alla coscienza della parte la soluzione di un determinato punto di questione.

6. Comunicazioni di fatti e produzioni di mezzi. - Sono queste dichiarazioni dirette a portare a conoscenza del giudice o dell'avversario, e così ad acquisire al processo, determinati fatti o mezzi, rilevanti gli uni come elementi in genere della causa, e gli altri come strumenti destinati a formare la convinzione del giudice circa la regolarità del procedimento (documenti di atti processuali), ovvero circa la fondatezza in fatto delle affermazioni sostenute (mezzi istruttorî, o di prova). Uno scopo di comunicazione hanno, bensì, anche le altre dichiarazioni, in particolare le domande (par. 1), le dichiarazioni comminatorie (par. 2) e le affermazioni e deduzioni (par. 4): sotto il quale aspetto si potrebbero designare le prime quali comunicazioni di volontà; le seconde quali comunicazioni di conoscenza. Ma tale designazione non è atta a caratterizzare quelle dichiarazioni nella loro natura; perché in esse la comunicazione non costituisce già il contenuto consapevole e l'obiettivo unico della dichiarazione, ma soltanto una funzione accessoria e consequenziale. Esse sono, anzitutto, espressioni di volontà e di conoscenza, e solo in quanto espressioni sono anche comunicazioni ad altri: dichiarano, cioè, una volontà o una conoscenza, non dichiarano una comunicazione. Al contrario, le comunicazioni vere e proprie sono per l'appunto dichiarazioni di comunicazione: dichiarazioni, le quali non hanno altro contenuto e altro obiettivo che la comunicazione di un fatto estraneo alla volontà e alla coscienza del dichiarante (o per lo meno non coincidente con esse); non hanno altra funzione che quella intermediaria, di render possibile ad altri - giudice o avversario - la conoscenza di un fatto di tal natura. Comunicazioni di fatti sono: la dichiarazione di residenza; la notifica di un fatto interruttivo, allorché sia necessaria per acquisirla al processo in guisa da provocarne l'interruzione; la notifica di mutamento del procuratore; la notifica della sopravvenuta perenzione della causa; e, in genere, la comunicazione al giudice, o la notifica all'avversario, di tutti quei fatti i quali non siano operativi nel processo se non in quanto vi siano fatti valere. Inoltre: la laudatio auctoris e, in senso inverso, la denunzia della lite a un terzo, in quanto crei per costui l'onere d'intervenire; l'indicazione di documenti da produrre; l'indicazione delle generalità e della dimora di un teste da citare; le dichiarazioni con cui si dà o si prende atto e tutte, in genere, le dichiarazioni di certificazione e di recezione (p. es. il visto apposto sulla comparsa avversaria).

Quanto alle produzioni, esse sono dichiarazioni, e insieme effettuazioni, di una comunicazione, la quale ha per oggetto non fatti, ma documenti di atti processuali ("atti") o mezzi di prova. Come dichiarazioni-mezzo, le produzioni sono quelle che più si accostano ai cosiddetti atti materiali. Tanto vi si accostano, che talvolta sembrano restarne assorbite. Ma anche allora, a ben guardare, l'atto materiale non è che una forma abbreviata di comunicazione, che presuppone e adempie un'offerta corrispondente, oppure sottintende e porta implicita in sé stessa una dichiarazione comunicativa. Tali l'esibizione della procura al cancelliere, il preventivo deposito di documenti in cancelleria per la loro comunicazione all'avversario, il deposito della sentenza impugnata e degli atti di prima istanza. Tutte comunicazioni, codeste, che, mentre acquisiscono documenti al processo, servono a inserire in questo altri atti (procura alla lite) o situazioni processuali (costituzione in giudizio del procuratore), o si coordinano a lor volta, mercé un nesso teleologico, ad altri scopi processuali (prova, impugnativa). Oltre alla comunicazione (con preventivo deposito o senza) di documenti, si può considerare altresì quale produzione, in ordine alla prova che mira a porre in essere, la citazione (a richiesta di parte) di testimone, in quanto acquisisce al processo l'obbligo del teste a deporre e, attraverso il suo adempimento, quel mezzo di prova che è la deposizione testimoniale. Sotto un aspetto teleologico, cioè in ordine allo scopo cui mirano, si potrebbero considerare produzioni anche il deferimento d'interrogatorio, per l'onere di rispondere che crea nel delato, e, per analoga ragione, la delazione o la relazione del giuramento, concepito quale prova legale. Ma la natura intrinseca di cotali atti è ben diversa. In sé e per sé essi sono dichiarazioni di volontà comminatorie (par. 2) o elementi di dichiarazioni dispositive (par. 3): la produzione di prove (se pure di prova legale si vuol parlare per la confessione e per il giuramento, par. 5) non è che il risultato a cui essi mettono capo.

Le sei classi di atti processuali testé esposte risultano dal criterio di classificazione adottato. Un criterio diverso da questo si può ricavare dal considerare i singoli atti processuali in rapporto al potere delle parti. Secondo questo criterio si possono distinguere due grandi categorie di atti processuali, secondo che la parte abbia, o non abbia, da sola, il potere di raggiungere lo scopo che con essi si prefigge. E cioè: a) atti processuali tendenti a sollecitare una decisione giudiziale di contenuto determinato, favorevole alla parte che li compie; b) atti processuali che sono, per virtù propria, operativi di situazioni processuali, senza mirare a sollecitare una cotal decisione. Nella prima categoria rientrano le domande di provvedimenti e gli atti processuali diretti a giustificarle: affermazioni e deduzioni, produzioni di prove; nella seconda categoria, tutti gli altri atti processuali. Vero è che atti operativi di situazioni processuali sono anche quelli della prima categoria, in quanto sono, per lo meno, idonei a creare nel giudice l'obbligo di provvedere sulla domanda o di tener conto dell'affermazione o della produzione nel senso che a lui sembrerà più conforme alla volontà della legge. Ma il punto essenziale si è che la volontà manifestata nelle domande e l'intento che sta a base delle affermazioni e produzioni non sono una volontà e un intento di tipo neutrale, ma son diretti a una decisione di contenuto conforme alla domanda o, rispettivamente, fondata sull'affermazione o produzione; sono diretti, cioè, a un risultato favorevole, che può darsi sia raggiunto, ma che può darsi anche non sia raggiunto.

Da ciò appare anche in qual senso sia legittimo applicare agli atti processuali in parola la qualifica di negozî giuridici processuali. Negozio giuridico è essenzialmente un atto di privata autonomia, con cui si dispone per l'avvenire un regolamento di privati interessi; atto che produce effetti giuridici destinati ad attuare lo scopo pratico tipico (causa), cioè normalmente perseguito (v. negozio giuridico). Orbene, alla stregua di tale concetto, le domande di provvedimenti e, in connessione con esse, le affermazioni e le produzioni di mezzi istruttorî si possono qualificare come negozî giuridici in quanto si prefiggono lo scopo pratico di provocare una decisione di contenuto favorevole circa il rapporto di diritto privato sottostante alla lite. Negozî giuridici, pertanto, da un punto di vista teleologico, esoterico al processo, cioè dal punto di vista del rapporto sostanziale dedotto in lite sotto specie di ragione fatta valere. Ma poiché tali atti, pur essendo idonei a raggiungere eventualmente lo scopo pratico prefisso, non valgono, di per sé soli, a determinare senz'altro il contenuto della decisione cui aspirano, così è da dire che, dal punto di vista formale, esoterico al processo, non si addice ad essi la qualifica di negozio giuridico. Questa si addice piuttosto ad altri atti processuali, e precisamente alle dichiarazioni di volontà dispositive (par. 3).

Dal punto di vista esoterico, e sempre in rapporto al potere delle parti, gli atti processuali si possono distinguere secondo che siano o non negozî giuridici giusta il concetto accennato. Tali sono certamente le dichiarazioni di volontà dispositive (par. 3). Esse si presentano, infatti, quali esplicazioni di una competenza normativa (autonomia), di un potere di disposizione che alla parte spetta, in limiti ben circoscritti, circa i modi e le condizioni della tutela giuridica. Si può fare questione se siano qualificabili come negozî giuridici anche le valutazioni di verità con effetto normativo (par. 5). Ma la questione è da risolvere in senso negativo. Certo, la valutazione di verità, quando sia fatta nella consapevolezza della sua intrinseca falsità, e quindi con l'intento di raggiungere l'effetto normativo che vi si ricollega, si avvicina assai a un negozio giuridico. Ma nel qualificare una dichiarazione come negozio giuridico bisogna aver riguardo alla sua destinazione legale tipica, non già a quello che può essere un effetto accidentale provocato nel caso specifico dai privati, in contrasto con quella sua destinazione. Ora, secondo questo criterio, alla qualifica di negozio giuridico osta il fatto che la valutazione di verità - ancorché consapevolmente non vera - non si presenta come una disposizione per il futuro, non è diretta a introdurre nell'attuale stato di cose una novità, un mutamento destinato a valere in avvenire. L'effetto normativo delle valutazioni di verità si spiega come effetto non già di autonomia, ma di autoresponsabilità (par. 5). Comunque, appunto per tale effetto, le valutazioni di verità presentano una certa affinità con le dichiarazioni di volontà dispositive; onde non si possono a queste contrapporre nello stesso senso in cui vi si contrappongono gli altri atti processuali. Questi hanno una natura profondamente diversa e dalle une e dalle altre. Laddove quelle sono, le une esplicazioni di autonomia, le altre attuazioni di autoresponsabilità, tutti gli altri atti processuali si presentano quali attività di tutela del diritto. Attività che consistono talvolta nell'adempimento di oneri processuali, quali le affermazioni e deduzioni (par. 4), le comunicazioni e produzioni (par. 6), che costituiscono altra volta, almeno in modo prevalente, l'esercizio di poteri d'iniziativa processuale e, in particolare, di diritti potestativi corrispondenti alle varie successive situazioni processuali. Tali le domande (par. 1) e le dichiarazioni di volontà comminatorie (par. 2).

Di altre possibili classificazioni degli atti processuali - ad es. circa la loro liceità od obbligatorietà - non è il caso di trattare.

Del resto, a qualunque classe appartengano, gli atti processuali non sono regolati da altra legge che da quella processuale. Inammissibile è un'applicazione, anche analogica, di norme specifiche del diritto privato. A differenza degli atti e negozî del diritto privato, i quali sono dotati ciascuno d'una efficacia giuridica propria e per sé stante, gli atti processuali non hanno, per loro normale destinazione, che un'efficacia circoscritta alla sfera del processo e un'influenza, mediata o immediata, sul provvedimento giurisdizionale che al processo mette fine. I vizî della volontà e della coscienza non hanno negli atti processuali quel rilievo che hanno nei negozî di diritto privato. È irrilevante che alla dichiarazione corrisponda, nel caso specifico, una volontà o una coscienza effettiva e piena. La dichiarazione sola è decisiva, nel senso che essa genera e giustifica necessariamente l'illazione che ad essa corrisponda e sottostia un contenuto di volontà e di conoscenza: precisamente quel contenuto che essa oggettivamente esprime e fa palese. Ed è esclusa in massima ogni indagine diretta a controllare se questa, che è l'illazione normale, sia in concreto, nel caso specifico, fondata o no. Salvo il limite della temerarietà, per l'ordinamento processuale è anche indifferente se alla dichiarazione di volontà della parte corrisponda effettivamente un intento e se vi corrisponda proprio quello dichiarato. Il giudice e la controparte restano gravati dell'obbligo di provvedere sulla domanda o dell'onere di agire in conseguenza, a prescindere dall'intenzione che può averla determinata.

Bibl.: Fondamentali sono: R. Pollak, System des österreichischen Zivilprozessrechts, Vienna 1903, §§ 74-93, p. 353 segg.; K. Hellwig, System des deutschen Zivilprozessrechts, Lipsia 1912, I, §§ 145-159. In questo manuale del Hellwig, alla pag. 423, è richiamata la copiosa letteratura tedesca sull'argomento; è da aggiungere: J. Goldschmidt, Der Prozess als Rechtslage, Berlino 1925, §§ 25-30, p. 464 segg. Da noi manca ancora un'elaborazione scientifica dell'argomento. Si vedano: G. Chiovenda, Principî di diritto processuale civile, 3ª ed., Napoli 1913, §§ 51bis-52, p. 766 segg.; F. Carnelutti, Lezioni di dir. proc. civ., Padova 1924, IV, n. 370-378; A. Costa, Contributo alla teoria dei negozî giurid. processuali, Bologna 1921.

Atto d'accusa.

Nella procedura ora vigente in Italia (codice di procedura penale entrato in vigore il 1° gennaio 1914) è indicato con questo termine l'atto che viene compilato dal pubblico ministero dopo la sentenza della sezione di accusa nel caso di citazione diretta dinnanzi alla Corte di assise.

Se si prescinde dalla specifica funzione dell'atto di accusa (che sarà chiarita più oltre) quale risulta dalla legislazione, possiamo dire che l'atto d'accusa sia quello col quale si porta a conoscenza dell'imputato il fatto a lui attribuito in base agli elementi raccolti nell'istruttoria. Ma, dopo aver dato questo concetto generale, occorre rilevare che le varie forme e i varî aspetti che ha assunti l'atto d'accusa, specialmente nelle legislazioni moderne, si riconnettono al carattere fondamentale che è venuto assumendo il procedimento; e appunto dal vario carattere di questo l'atto d'accusa acquista un'importanza essenziale, ovvero si riduce a una mera formalità, ristretta solamente a un genere meno frequente d'istruttoria. Nel nostro diritto processuale l'atto d'accusa, come si vedrà, costituisce appunto nulla più che una semplice formalità, la cui scomparsa definitiva sembra assai prossima.

Risalendo alle origini storiche dell'istituto, l'atto d'accusa propriamente detto ci si presenta sotto un aspetto assai diverso, con punti di contatto assai tenui con le forme attuali nelle quali l'esercizio dell'accusa si esplica. Nel diritto attico i delitti pubblici si perseguivano mediante l'accusa popolare (γραϕή) e i privati mediante l'accusa promossa dall'offeso o dai suoi parenti (δίκη). Quando i reati ponevano in pericolo la repubblica, sopraintendevano all'accusa alcuni magistrati, detti tesmoteti. L'accusatore, dopo aver promesso con giuramento di perseverare nell'accusa fino al termine del giudizio, esponeva nella piazza il fatto e le circostanze che lo avevano accompagnato. Il magistrato poneva in iscritto la dichiarazione dell'accusatore, e si formava cosi propriamente quello che può dirsi il vero atto d'accusa. Compiuta quindi l'istruttoria a cura dell'accusatore, si dava corso al dibattimento, che s'iniziava con la lettura dell'atto d'accusa costituente il perno del giudizio.

Anche nel diritto romano l'accusa era esercitata da privati cittadini: essi, trattandosi di delitti pubblici, prendevano la rappresentanza della comunità offesa dal delitto. Il diritto d'accusa apparteneva in origine a tutti i cittadini, tranne che vi fosse legale incapacità o incompatibilità o indegnità: i varî casi erano previsti con particolari disposizioni. L'esercizio dell'accusa veniva volontariamente assunto e costituiva una funzione pubblica assai ricercata e vantaggiosa, che spesso apriva la strada alla conquista delle cariche pubbliche; tuttavia erano comminate determinate pene a coloro che trascuravano questa funzione e assicurate particolari ricompense a coloro che l'esercitavano. Nel caso che nessuno si fosse presentato a denunziare il delitto e a sostenere l'accusa, il delitto restava impunito (Si quis accusatorem non habet, non debet honoribus prohiberi, quemadmodum non debet is, cuius accusator destiterit, Ulp., Dig. L, 4, de muneribus et honoribus, 6, 2); solo in via eccezionale al posto della funzione esercitata dal privato poteva subentrate quella esercitata dal magistrato per via di cognitio, che era la forma più antica e originariamente esclusiva per il promovimento dell'accusa. Poiché assai spesso, specialmente nei processi politici, accadeva che varî fossero gli accusatori, interveniva il magistrato per scegliere tra essi il principale per mezzo della divinatio: gli altri assumevano la figura di accusatori aggiunti (subscriptores). L'accusatore cominciava col domandare al magistrato l'autorizzazione ad accusare (petitio, postulatio); il magistrato esaminava sommariamente la natura del fatto, e quindi accettava o ricusava l'istanza. Se l'istanza era accettata, si formulava quello che possiamo dire l'atto d'accusa (nominis delatio). L'atto doveva contenere: l'accusa propriamente detta che racchiudeva il nome del delitto, le sue circostanze essenziali, il luogo e il mese in cui era stato commesso, la pena comminata dalla legge all'accusato, e infine l'obbligo dell'accusatore di mantenere l'accusa. L'atto era sottoscritto dall'accusatore o da altri, se questi non sapeva scrivere, e quindi dagli accusatori aggiunti (Paul., Dig., XLVIII, 2, de accusationibus, 3, 2). Prima e dopo la nominis delatio l'accusatore doveva giurare di non accusare calunniosamente, obbligandosi di sottostare alla pena minacciata nel caso che l'accusa fosse per risultare calunniosa. Ciò fatto, il pretore scriveva l'accusa nei suoi registri (inscriptio) e l'accusato veniva quindi ad assumere la figura di reus. Dopo l'interrogatorio del reus veniva accordato all'accusatore un congruo termine per procedere alla raccolta delle prove, e a tal uopo il pretore emanava una lex che autorizzava l'accusatore a procedere a tutti gli atti istruttorî e a costringere i cittadini a ubbidirgli. Compiuta l'istruzione, s'iniziava il dibattimento con la lettura dell'atto d'accusa, che frattanto era rimasto esposto nel foro, trascritto su una tavola.

Il sistema dell'accusa finora descritto venne profondamente a modificarsi durante l'epoca imperiale. Mentre il giudizio popolare, al quale si riconnetteva l'antico sistema accusatorio, andava in decadenza, anche l'esercizio dell'accusa si trasferiva dal privato al funzionario dello stato e precisamente ai cosiddetti irenarchi. Costoro assumevano dinnanzi al preside della provincia la veste di accusatori. A questi si aggiunse più tardi, istituito da Adriano, l'avvocato del fisco, che esercitava l'accusa per i delitti pubblici.

Nell'antico diritto germanico non furono distinte le forme del procedimento criminale da quelle del procedimento civile: la stessa indistinzione seguitò a mantenersi nella legislazione statutaria durante il Medioevo. L'accusa era sostenuta o dal privato, che figurava come l'attore nel giudizio civile, o da un pubblico funzionario (es., avvocato fiscale). Dopo il giuramento dell'accusatore, il reo veniva citato con cedola contenente il nome dell'accusatore o dell'inquirente e l'indicazione del fatto attribuito all'intimato; ed era appunto questa cedola di citazione che, come si vede, assumeva il carattere di atto d'accusa.

Al sistema dell'accusa diretta che costituiva il nucleo essenziale dei procedimenti detti appunto accusatorî, venne d'altra parte contrapponendosi, dapprima nei tribunali ecclesiastici, il sistema della denunzia. Attraverso questo nuovo sistema si passò dalla procedura accusatoria a quella inquisitoria, che guadagnò terreno anche fuori del campo ecclesiastico. La procedura inquisitoria veniva espletata in segreto dal giudice, il quale, dopo aver compiute le preliminari investigazioni (informatio), procedeva all'interrogatorio dei testi e redigeva quindi la charta inquisitionis o libellus criminalis, cioè una specie di atto d'accusa che serviva di base al procedimento ulteriore.

Nel diritto moderno si fondono insieme i due tipi storici del procedimento accusatorio e di quello inquisitorio: il sistema che risulta da questa fusione viene appunto denominato misto: a esso si è ispirata anche la legislazione italiana.

Per quanto riguarda l'esercizio dell'accusa - particolarmente in rapporto alla funzione specifica che può essere attribuita al vero e proprio atto d'accusa, nella forma in cui esso è presentato dai codici moderni - possiamo distinguere tre sistemi diversi. Il primo sistema, detto della libera accusa, che fu accolto nella Scozia e nella Norvegia, s'ispira al concetto fondamentale dell'assoluta distinzione tra la funzione dell'accusa e quella del giudizio, e conseguentemente tra le attribuzioni del pubblico ministero e quelle del giudice. Il criterio della presunzione d'innocenza che dovrebbe accompagnare l'imputato fino al giudizio, criterio accolto un tempo come dogma indiscutibile da molti proceduristi, costituisce il fondamento della libera accusa, e appunto in vista di quel fondamento la libera accusa ha trovato in passato, anche tra noi, fautori convinti (v., tra gli altri, G. Vacca, Il moderno indirizzo della posizione in accusa, in Riv. penale, XIX, 1884; F. Benevolo, Il pubblico ministero e il giudizio istruttorio, in Riv. penale, XXXI, 1890). Ma questi voti rimasero isolati, non avendo la distinzione assoluta tra la funzione dell'accusa e quella del giudizio incontrato soverchio favore nelle legislazioni moderne. In realtà, divenuta assai complessa l'istruttoria, si è dovuto circondarla di opportune garanzie, e perciò essa è stata normalmente affidata all'organo giurisdizionale, cioè al giudice. Questa istruzione, detta appunto formale per distinguerla dall'altra, adottata per i delitti meno gravi, detta diretta, deve chiudersi con un giudizio preliminare, cioè col giudizio d'accusa, in seguito al quale l'imputato è rinviato o meno al giudizio. A quella serie di congegni che costituiscono la procedura intermedia, la quale segue la sentenza di rinvio dell'accusato avanti la Corte d'assise e la ricongiunge al periodo del giudizio, appartiene, nell'istruzione formale, l'atto d'accusa. Circa la convenienza o meno di mantenere in ogni caso il giudizio d'accusa si è discusso assai tra i proceduristi: alcuni, a cominciare dal Romagnosi fino al Carrara e all'Alimena, si sono dichiarati fautori del sistema del giudizio d'accusa facoltativo, secondo il quale il giudizio d'accusa si viene a sperimentare solo quando l'accusato faccia opposizione contro l'atto d'accusa. In tal caso l'atto d'accusa, anziché seguire, viene a precedere la sentenza di rinvio. A questo sistema si accostò il legislatore italiano col progetto di riforma del procedimento penale presentato nel 1880 dal ministro Villa, che stabiliva il giudizio facoltativo per i crimini flagranti o seguiti da confessione dell'imputato, per i quali si sarebbe proceduto con citazione diretta. Era, come si vede, un'applicazione assai limitata del giudizio facoltativo, concepito come una garanzia dell'imputato nei confronti del pubblico ministero (v. in proposito. B. Alimena, Il giudizio di accusa nella legislazione inglese, in Rivista penale, XXXII, 1890; id., La riforma del giudizio di accusa: relazione al terzo congresso giuridico nazionale, Firenze 1891). In seguito, la tendenza ad accogliere il criterio del giudizio facoltativo fu completamente abbandonata. Nel codice di procedura penale approvato il 27 febbraio 1913 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1914 fu mantenuto il sistema del giudizio d'accusa obbligatorio già accolto dal precedente codice del 1865, per i procedimenti istruiti con istruzione formale di competenza della Corte d'assisc. Nei casi, invece, di citazione diretta non fu ravvisata l'opportunità del giudizio preliminare, nemmeno come facoltà dell'imputato. L'intervento della sezione d'accusa fu richiesto solamente nel caso che il procuratore generale ritenga che non si debba procedere e limitato solamente all'analoga pronunzia. Sennonché, rimanendo ferma nel rito formale l'obbligatorietà del giudizio preliminare, si presentava l'altra questione relativa al mantenimento o meno dell'atto d'accusa. Secondo il codice del 1865, l'atto d'accusa veniva compilato dal procuratore generale dopo l'emanazione della sentenza della sezione d'accusa. In teoria esso era concepito come una narrazione obiettiva nella quale avrebbero dovuto essere esposti tutti gli argomenti a favore o contro l'accusa come semplici indizî o presunzioni; ma in pratica accadeva che l'atto d'accusa si convertiva, come ha notato tra gli altri il Longhi, "in una vera e propria accusa aggressiva, ma spesso enfatica, per difetto appunto di un contenuto proprio, e quasi mutata in componimento letterario". L'atto d'accusa si limitava infatti a essere un'amplificazione dannosa o una copia inutile della sentenza di rinvio; né, dal punto di vista strettamente giuridico, riusciva ad assumere alcun valore autonomo, poiché, nel caso di difformità dalla sentenza di rinvio, era questa che doveva prevalere nel dibattimento. Per queste e per molte altre ragioni ampiamente svolte, la maggior parte dei criminalisti richiedeva l'abolizione dell'atto d'accusa; e la richiesta fu quindi accolta dal legislatore italiano nel codice di procedura del 1914 attualmente in vigore. Tuttavia, soppresso l'atto d'accusa nel caso d'istruzione formale, la vecchia denominazione è rimasta nel codice per indicare l'atto che redige il procuratore generale dopo aver proceduto all'istruzione sommaria, nei casi indicati dalla legge, per i reati di competenza della corte d'assise.

Secondo il diritto vigente l'atto d'accusa deve contenere: 1°, il nome, cognome, età e altre qualità personali dell'imputato e della parte civilmente responsabile, tutte le indicazioni che valgano a identificarli; 2°, l'enunciazione del fatto e del titolo del reato con l'indicazione delle circostanze aggravanti e degli articoli di legge applicabili; 3°, la data e la sottoscrizione (art. 288 cod. proc. pen.). Queste disposizioni positive del codice, che indicano il contenuto dell'atto, messe in confronto con le disposizioni dettate dall'art. 282 dello stesso codice, inducono a ritenere che nel diritto vigente l'atto d'accusa altro in sostanza non sia che il decreto di citazione, al quale si è voluto riservare, forse a ricordo delle antiche forme, una denominazione più solenne.

Il progetto del nuovo codice di procedura penale porta profonde innovazioni in tutto l'ordinamento dell'istruzione formale e sommaria. Nell'istruzione formale per i reati di competenza di Corte d'assise è stato soppresso il giudizio della sezione d'accusa, rimanendo attribuita al giudice istruttore la funzione di rinviare al giudizio della corte o di prosciogliere l'imputato. Nell'istruzione sommaria è, d'altra parte, scomparsa la reminiscenza del vecchio atto d'accusa. L'art. 399 (corrispondente all'art. 282 del codice in vigore) e l'art. 400 del progetto stabiliscono, anche per i reati di competenza della Corte d'assise, che il procuratore del re, se ritiene che si abbia a procedere contro l'imputato, debba richiedere il decreto di citazione. Questa richiesta, quando si tratti di reato di competenza della Corte d'assise, è trasmessa immediatamente alla cancelleria della Corte d'appello.

Bibl.: A. W. Zumpt, Der Criminalprocess der röm. Republik, Lipsia 1871; Th. Mommsen, Das röm. Strafrecht, Lipsia 1901; G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto italiano sotto la direzione di P. Del Giudice, III, i e ii, Milano 1925-26; G. Vacca, Atto di accusa, in Digesto italiano, II, ii, Torino 1893-99; S. Longhi, Dell'Istruzione, in Commentario al codice di procedura penale, Torino 1923.

Atto conservativo.

S'intende per atto conservativo l'attività che è diretta ad evitare di fatto il perimento o il deterioramento di una cosa, ma particolarmente quell'attività giuridica che mira a conservare un diritto attuale o ad assicurare in futuro l'esercizio di un diritto. La denominazione unitaria di queste svariate attività, proprie di tutti gli ordinamenti giuridici, anche anteriori, risale però solo al codice napoleonico e alla dottrina che si sviluppò intorno ad esso. Tale denominazione comprende pertanto, accanto ad attività di fatto (quali: riparazioni, coltura, raccolte di frutti pendenti), attività giuridiche svariatissime atte a conservare un diritto, né - contro una affermazione che ebbe corso nella meno recente dottrina francese - i soli diritti di credito. Attività giuridiche di questa natura sono: l'interruzione della prescrizione (v. prescrizione), la costituzione in mora (v. obbligazione), l'iscrizione e il rinnovo d'ipoteche (v. ipoteca), le domande di separazione del patrimonio del defunto da quello dell'erede (v. successione), le azioni possessorie (v. possesso), e il sequestro conservativo (v. sequestro conservativo). Per quel che concerne le modalità dell'esercizio, variano le condizioni a seconda dei casi, richiedendosi per talune previo provvedimento dell'autorità giudiziaria, come è detto alle singole voci.

Quanto alla possibilità di esercitare o promuovere provvedimenti conservativi; oltre al proprietario, ne hanno possibilità giuridica l'usufruttuario, il creditore (anche se il credito è sottoposto a termine o a condizione, art. 1171 cod. civ.), il legatario (art. 856 cod. civ.). L'obbligo di esercitare tali attività è poi attribuito più o meno espressamente dalla legge anche al depositario (art. 1843), benché le spese siano a carico del deponente (art. 1862 cod. civ.), al mandatario (articoli 1745, 1746 cod. civ.), al gestore di negozio (art. 1143 cod. civ.), al tutore (articoli 296, 2002 cod. civ.), al curatore dell'eredità giacente (art. 982 cod. civ.), al curatore del fallimento (art. 713 cod. commercio).

L'esercizio di queste attività conservative ha, rispetto alla possibilità del godimento del diritto da parte di terzi, conseguenze ben differenti a seconda che si tratti di beni mobili o immobili, perché, mentre per questi il godimento del terzo può continuare indisturbato, per i primi effetto normale dell'atto conservativo è la privazione della disponibilità della cosa da parte del terzo contro il quale l'atto conservativo è diretto.

È da ricordare da ultimo che, non importando l'esercizio di un atto conservativo l'attualità della titolarietà del diritto, che si mira a conservare, o il cui sorgere si vuol rendere possibile, l'esercizio di atti conservativi da parte dell'erede non importa accettazione di eredità, se con esso non si sia assunto titolo o qualità di erede (art. 985 cod. civile).

Atti di commercio.

Atto di commercio è la manifestazione giuridica di ogni attività economica produttiva, sia industriale sia commerciale. Il riferimento al solo commercio si giustifica perché è la complessa legislazione commerciale, Lontrapposta alla civile, quella che disciplina, per origine storica, quell'attività (esclusa l'agricola), senza riguardo allo specifico ramo economico in cui si svolge. Le classi più utilmente operose nella creazione e circolazione della ricchezza sociale si svincolarono dalle opprimenti restrizioni poste dal diritto comune, e più ancora dal diritto canonico, alla loro libertà professionale, e plasmarono il proprio sullo stampo e secondo le esigenze delle loro rispettive speculazioni. Trassero dalla loro esperienza, dai modi consueti di agire (dagli "usi"), le norme più adatte a regolarle.

Se uno stato non ebbe, o non ha, due distinte discipline del diritto privato, l'una regolante la materia civile, l'altra la materia commerciale; se, insomma, il suo diritto privato è regolato con norme uniformi da un codice unico delle obbligazioni, l'atto di commercio legalmente non esiste. Il che significa che la perfezione o la bontà, sia pur relativa, del diritto comune, frutto della cooperazione legislativa di tutte le classi con prevalenza della commerciale (Genuensis ergo mercator), non provocò la creazione di un diritto separato, antitetico al comune; oppure che le classi industriali o commerciali non ebbero potenza economica o iniziativa giuridica sufficiente per crearselo.

Sennonché la maggioranza degli stati ha il diritto privato bipartito: cioè due codici, quello civile e quello commerciale. L'Italia è fra questi. Donde la necessità di avere la nozione sintetica dell'atto di commercio, oggetto della legislazione commerciale.

Come si orienta il legislatore nel fissare la commercialità degli atti per riconoscerla o escluderla? Problema sottile e punto tranquillante nelle sue anche più recenti soluzioni. Come abbiamo già rilevato, per giungere ad una soluzione di esso bisogna prescindere dalla denominazione di atto di commercio, che non coincide con il significato specifico economico dello scambio per lo scambio, sebbene lo includa, e anzi, per lo scopo di ogni attività economica, vi prevalga. Non è però questione di nomenclatura bensì di sostanza. L'attività economica di ogni popolo si amplifica progredendo la sua civiltà, aumentando i suoi bisogni materiali e intellettuali, acuendosi con l'indagine i mezzi di soddisfarli. Il diritto, astratto e positivo, accompagna questo svolgimento, acquista snellezza, elasticità, si spoglia di ogni ozioso formalismo per seguirne le vicende e garantirne i risultati con sicura e rapida tutela. È dinamico, come i fenomeni economici che lo determinano. Non però senza ostinate resistenze - per noi, anzi, non ancora sopite - prima che la legge economica del minor sforzo pel maggior risultato trovi riscontro e appoggio nella sanzione legale. Così, p. es., l'agricoltura, anche modernamente concepita, è restia a riconoscere il proprio carattere industriale di fronte al diritto, e quindi a subirne il regolamento, fino a sottostare al fallimento in caso d'insolvenza di chi la esercita. Sgomenta il coltivatore delle proprie terre l'esser considerato commerciante fino a questo estremo, pur richiesto dal pareggiamento dei creditori, privi di diritti di preferenza nel dissesto del debitore comune. Così i beni immobili, anche se oggetto di speculazione commerciale, mantengono il regolamento esclusivo del codice civile, non ravvisandosi nel codice di commercio una sufficiente protezione alla loro cauta circolazione. Questi e altri preconcetti o pregiudizî ci allontanano tuttavia dall'unificazione del diritto privato, cui sono pervenuti altri stati, sebbene il movimento dottrinale in proposito abbia avuto il più ampio sviluppo in Italia.

Nel tracciare l'ambito della materia di commercio (art. 1 codice di commercio) - e cioè degli atti che per designazione del codice di commercio (indice precettivo fondamentale) sono sottoposti alle leggi commerciali, sostanziali e formali - il legislatore usa un criterio discrezionale; ma, fin dove è possibile, storico e razionale. In altre parole, egli fondamentalmente riconosce la commercialità oggettiva degli atti che sono il prodotto naturale e tradizionale dell'attività intermediaria nello scambio; e procura di seguire quel movimento, lasciando viva e vitale la fecondità degli usi a integrare ed accrescere il diritto formalmente sancito. Sennonché, accorgimenti politico-sociali e opportunità legislative lo consigliano o a mantenere come istituti tuttora commerciali quelli che tali erano in origine, ma che si trasformarono poi in negozî giuridici civili, data la fusione sempre maggiore delle classi e degli interessi sociali nel crogiuolo economico; oppure ad imprimere il marchio della commercialità oggettiva a rapporti civili di più recente formazione, per sollecitarne e tutelarne l'esistenza giuridica e l'espansione, attraverso le norme commerciali più adatte allo scopo. La ricerca pertanto dei moventi legislativi nella commercializzazione dei rapporti sociali manca di sicuri punti d'appoggio e minaccia di sostituire all'empirismo nella scelta da parte del legislatore la tendenza dommatica, sia pure fine e sagace, dell'interprete. Un atto è pertanto essenzialmente commerciale perché tale lo ha voluto il legislatore: stat pro ratione legislatoris voluntas. Ogni contestazione in proposito è esclusa: l'atto è oggettivamente commerciale con presunzione assoluta: iuris et de iure.

L'art. 3 del codice di commercio oggi in vigore fissa 24 categorie di tali atti. Le categorie non possono aumentarsi: sono dunque tassative, quali confini legali imperiosamente fissati. Ma gli atti compendiosamente designati in talune categorie possono estendersi ad atti che con gl'indicati abbiano caratteri di analogia o di equipollenza. Dal contenuto palese si desume quello latente. Così, p. es., sebbene il n. 10 indichi le sole imprese tipografiche, quelle litografiche saranno pure ritenute essenzialmente commerciali, avendo la stessa struttura tecnica e il medesimo intento economico: la riproduzione materiale per la diffusione degli esemplari riprodotti. I trasporti aerei saranno ritenuti oggettivamente commerciali perché lo scopo del trasferimento per aria è identico alla locomozione "per terra o per acqua" (n. 14). Saranno bilateralmente commerciali le operazioni dei punti franchi, come lo sono quelle compiute a mezzo dei magazzini generali; essendo gli uni e gli altri emporî di depositi mercantili per lo spaccio (n. 24). Sarà atto oggettivo di commercio la locazione di mobili per sublocarli, p. es. l'affitto di pagine o colonne di giornali per subaffittare gli spazî frazionati, atto equipollente alla compera per rivendere la cosa mobile acquistata (nn. 1 e 2), trasferendosene l'uso in luogo della proprietà.

La legislazione commerciale italiana è dunque fondata sugli atti oggettivamente commerciali: chiunque compie taluno di quegli atti vi si sottopone ratione materiae; e se per professione li esercita, e cioè per abituale intermediazione lucrativa, diventa commerciante (art. 8). La commercialità degli atti compiuti, per lo più omogenei, risale all'agente e gli attribuisce la qualità di commerciante. Con questa ulteriore conseguenza: che tale qualità fa presumere commerciale ogni sua obbligazione, la quale non contraddica la presunzione per cui nel commerciante prevale lo svolgimento della sua operosità nell'ambito del commercio in genere, e non del loro ramo economico che gli è proprio (art. 4). Cosicché, mentre gli atti oggettivamente commerciali sono tali perché tali il legislatore li ha voluti, gli atti soggettivamente commerciali sono presunti commerciali per la professione di commerciante di chi li effettua. Nei primi la commercialità è essenziale, quindi incontestabile; nei secondi la commercialità, perché presunta, può eliminarsi provando che l'atto è essenzialmente civile, quindi ribelle a ogni relazione con atti d'intermediazione speculativa (la dote, una donazione, il testamento); oppure che la presunzione di commercialità è esclusa dalla consapevolezza coeva dei contraenti che l'atto fra essi concluso (l'id quod actum est) è civile (un mutuo contratto dal commerciante per costituire la dote alla figlia).

Concludendo: il nostro sistema legislativo sugli atti di commercio è fondamentalmente oggettivo. È la disciplina giuridica degli atti economici produttivi, riconosciuti dal legislatore e dichiarati essenzialmente commerciali. Lateralmente: è un sistema commerciale soggettivo; perché, creato il commerciante in seguito all'esercizio professionale di quegli atti, presume che tutta la sua attività si svolga nell'ambito del commercio, a meno che l'atto compiuto non contraddica di per sé tale presunzione.

Le primitive legislazioni commerciali furono soggettive. Regolavano l'attività professionale del commerciante, la quale, di regola, risultava dall'iscrizione nel registro (matricola) della comunità commerciale a cui apparteneva (arte, corporazione, fraternita, lega, scuola, ecc.). La qualità della persona imprimeva il carattere commerciale agli atti professionali da essa compiuti. Era il diritto di una categoria di produttori (ius mercatorum). Il vigente codice di commercio germanico (1897) è ritornato all'antico. Soltanto - il che aggrava (secondo noi) la resipiscenza - fa dell'"impresa esercitata nell'ambito e con le forme commerciali" il soggetto attivo dei rapporti disciplinati dal codice di commercio. Criterio di politica economica, non di diritto commerciale. Questo riconosce nel commerciante, persona singola o collettiva (società), il solo possibile soggetto di un'attività economico-giuridica; non attribuisce dunque personalità giuridica al coordinamento dei fattori produttivi (impresa o azienda, secondo la diversa concezione) effettuato per raggiungere, a proprio rischio e a proprio profitto, un risultato economico produttivo.

Gli atti di commercio oggettivi e soggettivi, fin qui illustrati, non esauriscono la classificazione degli atti oggettivamente commerciali; mentre, per gli atti soggettivamente commerciali, la fonte della loro presunta commercialità è illimitata, desumendosi, entro ben circoscritti confini (v. sopra) dalla qualità di commerciante in chi li compie. Vi sono dunque atii, non inclusi, né esplicitamente, né implicitamente, nelle 24 categorie enumerate tassativamente nell'art. 3, ma da potersi ritenere, caso per caso, essi pure oggettivamente commerciali sul fondamento del principio dell'accessorio: accessorium sequitur naturam sui principalis. L'accessorio impronta il suo carattere commerciale dall'atto principale cui accede, perché lo rende possibile, oppure lo agevola o garantisce. Già l'art. 3 del nostro codice di commercio include due atti accessorî fra gli atti principali essenzialmente commerciali: la "mediazione in affari commerciali (n. 21)" e i "depositi per causa di commercio (n. 23)". La mediazione può spiegarsi indifferentemente in ogni affare, ma è la commercialità oggettiva dell'affare da conchiudere quella che dà alla mediazione l'impronta della stessa commercialità oggettiva. Altrettanto si dica del deposito, attuabile per ogni causa; ed è la commercialità dell'atto, per cui il deposito si effettua, quella che fa ritenere il medesimo atto di commercio. Non sono pero soltanto queste due operazioni, alternativamente e indifferentemente civili o commerciali, che divengono oggettivamente commerciali per la teoria dell'accessorio. Lo diviene il mandato per compiere un affare oggettivamente commerciale; il pegno o la fideiussione per garantire un atto simile; il mutuo, contratto dal non commerciante per compiere un atto oggettivamente commerciale, ecc. Sono, in una parola, atti per sé stessi neutrali; ma, perché ausiliarî di un atto principale oggettivamente commerciale, ne assumono di ripercussione il carattere; quindi non potrebbero essere il fondamento di un'attività autonoma commerciale così da imprimere al loro abituale esercente la qualità di commerciante.

Ogni impegno derivante da atto di commercio è sottoposto alla competenza, sostanziale e formale, della legge commerciale. L'atto di commercio imprime il marchio della commercialità all'intero negozio giuridico che determina, sia questo bilaterale o unilaterale (articoli 1099 e 1100); abbia carattere commerciale per tutti gl'intervenuti in esso o soltanto per taluno (artt. 54 e 869 n. 1); siano essi, o non siano, commercianti. La legge considera l'operazione commerciale nel suo complesso, non nei suoi elementi costitutivi (prestazioni e controprestazioni); considera la materia commerciale (art. 1), cioè il contratto, l'affare, l'operazione, il negozio giuridico, sottoposto all'unica disciplina commerciale; non le singole obbligazioni dei contraenti o degl'intervenuti nell'atto. Le quali, se sono civili, manterranno a favore del civilmente obbligato le prerogative della sua legge personale, qualora la legge commerciale, applicabile all'unico negozio, gliela riservi. Questa unicità legislativa ratione actus s'impone. Nella moderna concezione del negozio giuridico appare assurdo scindere gli elementi che lo costituiscono per applicarvi due distinte legislazioni; e così, p. es., ritenere valida la vendita della cosa altrui per il venditore (art. 59 cod. comm.) e nulla pel consumatore, contraente obbligo civile (art. 1459 cod. civ.); ammissibile per un contraente, e non per l'altro, la prova testimoniale (art. 44, n. 8, cod. comm.; art. 1341 cod. civ.); vario il periodo prescrizionale ordinario degli obblighi assunti col medesimo contratto, secondo che si prospetta l'obbligo commerciale oppure il civile, il primo di più rapida estinzione del secondo nel caso d'inerzia ad agire da parte del creditore (art. 917 cod. comm.; art. 2135 cod. civ.).

Bibl.: L. Bolaffio, Codice di commercio commentato, 5ª edizione, I, Torino 1922, con le più importanti indicazioni bibliografiche; C. Vivante, Trattato di dir. comm., 5ª ed., I, Milano 1922; A. Rocco, Principî di diritto comm. Parte generale, I, cap. II, Torino 1928; L. Goldschmidt, Handbuch des Handelsrechts, 2ª ed., Erlangen 1874; C. Lyon-Caen e L. Renault, Traité de droit commercial, 4ª ed., I, Parigi 1906.

CATEGORIE
TAG

Amministrazione pubblica

Diritto amministrativo

Giudice amministrativo

Autorità giudiziaria

Autorità giudiziaria