GUERRA, arte della

Enciclopedia Italiana (1933)

GUERRA, arte della

George MONTANDON
Alberto BALDINI * Romeo BERNOTTI ltalo BALBO

La lotta - antica come l'uomo in quanto manifestazione di forza intesa a facilitare il soddisfacimento di desiderî o ad assicurare il necessario alla vita - assurge ad arte di guerra propriamente detta, soltanto quando si determinano condizioni di vita sociale che comportino funzioni complesse e coordinate. In tali aggregati l'apparato difensivo-offensivo presenta caratteristiche peculiari, pur mantenendosi collegato con gli organi che assolvono le altre principali funzioni della vita collettiva; e quanto più l'aggregato si fa numeroso e complesso, tanto più s'accrescono gli elementi costitutivi e i modi d'impiego dell'apparato medesimo.

L'arte militare appare in embrione quando - con la seconda età del ferro - le associazioni umane si estendono oltre la tribù o il gruppo di tribù. Il combattimento è ancora una somma di singole tenzoni piuttosto che risultante di atti coordinati da una volontà superiore; pur tuttavia anche in questa fase infantile un aspetto dell'arte militare ha più larghe manifestazioni: quello che intende a conferire metodo alla provvista dei mezzi di sussistenza, così per gli armati come per gl'inermi. È anche fissata qualche norma con intento organizzativo per raccogliere, a tempo debito, gruppi di uomini intorno a capi designati; ma tutto questo in forma rudimentale.

Nella sua significazione più lata, l'arte della guerra - giuoco di forze spirituali non meno che fisiche - comprende i principî e la loro applicazione, le previdenze e gli adattamenti ai casi concreti, il pensiero e le opere. I suoi postulati sono la risultante di due componenti: l'esperienza propria e l'esperienza altrui. Dalle prime prove si traggono alcune indicazioni fondamentali di carattere generale; queste indicazioni vengono passate al vaglio di nuovi fatti e affinate con un processo di elaborazione che scende dalla teoria alla pratica e poi dalla pratica risale alla teoria.

L'uso della forza da parte di una società umana è collegato - si è detto - alle altre espressioni della vita collettiva nel campo politico, sociale ed economico. Così la grande politica promuove lo sviluppo della grande arte bellica, e inversamente un organismo bellico ad alto rendimento rende possibile la grande politica.

Dell'arte della guerra si sogliono considerare tre branche, che corrispondono alle tre principali fasi attraverso le quali passa il fatto bellico. La prima fase è quella della formazione dello strumento di lotta (animi e armi) e costituisce quella che si chiama organica militare (v.); la seconda fase è quella delle operazioni che si compiono per mettersi in grado di affrontare il nemico nelle migliori condizioni possibili e si chiama strategia (v.); la terza fase è quella degli atti che mirano a sopraffare il nemico quando si è giunti al suo immediato contatto e si chiama tattica (v.). Secondo la ripartizione scolastica adottata in Italia, si suol considerare a sé quella parte dell'arte strategica che studia il meccanismo delle marce e dei rifornimenti e si dà ad essa il nome di logistica (v.). È però chiaro che tali ripartizioni - se sono giustificate soprattutto da opportunità didattiche - non escludono affatto legami d' interdipendenza; e anzi, per uno sguardo sintetico all'evoluzione dell'arte bellica, conviene aver presente il fenomeno nelle sue caratteristiche unitarie. Questo il criterio che sarà qui seguito.

L'arte della guerra terrestre.

Antichità. - Precisazioni relative all'antichissima arte della guerra ci sono state tramandate nell'Iliade che descrive la guerra di Troia con grande abbondanza di particolari. Nei numerosi piccoli stati in cui la Grecia era suddivisa al tempo della guerra di Troia, il supremo reggitore era, a un tempo, capo politico e militare. È una caratteristica dell'antichità questa unificazione dell'arte di governare gli uomini in pace e di comandarli in guerra. Gli staterelli della Grecia differivano nelle leggi costituzionali e nelle regole militari; ma nelle une e nelle altre si potevano rilevare elementi comuni che - per quel che riguarda l'arte della guerra - si possono riassumere in questi punti: si educano gli uomini al coraggio personale e al combattimento corpo a corpo; si considera l'offensiva come un mezzo per infliggere all'avversario maggiori perdite e atta, perciò, a conseguire la superiorità quando manchi quella del numero, ad accrescerla quando già si abbia la prevalenza quantitativa; si cerca, nel tempo stesso, con le armi difensive di salvaguardare al massimo il capitale umano di cui ciascuno staterello dispone.

Oltre ai combattenti veri e proprî, costituiti dalle classi elevate (che dànno uomini alla cavalleria e ai carri da guerra) e dalle classi medie (che dànno uomini alla fanteria), vi sono gli ausiliarî tratti dagli strati inferiori; sono i rematori delle navi i quali a terra sono usati come fanti leggieri, muniti di armi da getto lontano e senza difesa di scudo o d'altro. La costituzione organica degli eserciti riproduce la costituzione sociale. Nei cittadini il diritto e il dovere di difendere lo stato si confondono.

Nelle formazioni tattiche si tiene conto dello spirito dei combattenti; è il caso di Nestore, che si prepara all'attacco mettendo in testa i carri e i cavalieri, cui raccomanda di frenare l'ardore per non perdere l'effetto d'insieme, e mettendo in coda i fanti; in mezzo i tentennanti, perché non sfuggano al combattimento. Cercare di sorprendere ed evitare di essere sorpresi è un altro principio che emerge dall'Iliade. Omero mette in rilievo la necessità di coprire l'esercito con una linea di avamposti; mostra l'utilità di linee fortificate - quelle che descrive hanno tracciato a bastioni - e, per confermare quell'utilità, ci fa assistere alla grave fatica di superarle con attacchi di viva forza.

Le organizzazioni militari più antiche, prescindendo dalle omeriche, sembrano essere state quelle egiziane e assiro-babilonesi.

L'Egitto, fin dal tempo di Sesostri, era diviso in provincie militari (trentasei) e gli uomini validi erano ripartiti in due categorie press'a poco come oggi la forza alle armi e quella in congedo.

I guerrieri costituivano la classe sociale più elevata - dopo quella dei sacerdoti - e possedevano terre donate loro dai faraoni. L'esercito era essenzialmente costituito di fanti, riuniti in specialità diverse, secondo l'armamento. Erodoto afferma che la classe dei guerrieri era numerosissima, giungendo fino a 400.000 uomini. Più tardi furono introdotti i carri armati, che vennero riuniti in corpi speciali. Sotto gli ultimi faraoni si ricorse a mercenarî stranieri; il che è generalmente segno di decadenza dello spirito guerriero del popolo, quando non dipenda - e in questo caso non dipendeva - da deficienza demografica. I grandi faraoni delle dinastie guerriere (Tutmosi III e Ramesse II), portarono le armi egiziane con vittoriose campagne in Siria, Palestina e sino in Mesopotamia.

D'istinto più aggressivo furono gli Assiri per i quali era norma partire in guerra la primavera di ogni anno, sotto il comando del re.

Gli Assiri avevano un'organizzazione militare assai complessa. Tutti i cittadini erano obbligati al servizio militare. L'esercito era organizzato in corpi di fanteria, cavalleria e carri armati, e fornito di macchine ossidionali. Le guerre dovendosi svolgere su terreni cosparsi di corsi d'acqua, ogni uomo portava con sè un otre di cuoio che - rigonfio d'aria - serviva da galleggiante. La numerosa cavalleria era divisa in due specialità, lancieri e arcieri. I carri armati erano montati ciascuno da tre arcieri; intervenivano nel combattimento caricando in massa. Si ha anche notizia che gli eserciti assiri ebbero guastatori per la costruzione di trinceramenti. Nella guerra di mina e contromina, nell'uso delle armi ossidionali, delle torri e di quant'altro poté agevolare la conquista dei luoghi fortificati, gli Assiri furono assai esperti.

Il loro temperamento e gli scopi della loro politica, li portarono a una strategia movimentata; usarono larghe manovre per aggirare il nemico e per prevenirlo nei luoghi più importanti; della cavalleria si valsero per l'esplorazione lontana e per scorrerie a grande distanza, per le quali costituirono anche corpi misti di cavalleria e fanteria leggiera, ogni cavaliere caricandosi in groppa un fante per il più rapido trasporto. La storia delle guerre degli Assiri è storia di prepotenze spesso feroci, ma è certo che tutta l'attività guerriera degli Assiri fu di stimolo a perfezionamenti nell'arte militare.

Più recente e più nota è l'arte militare dei Persiani che sotto Ciro raggiunse un alto grado di perfezionamento. Anche presso questo popolo gli ordinamenti militari mantennero una struttura vigorosa, finché la grande estensione del territorio, le sempre crescenti ricchezze e il contatto con popoli dediti più al commercio che alle armi, agirono da deprimenti delle qualità combattive.

I Persiani limitarono a un piccolo nucleo di soldati (circa 10.000) l'esercito permanente, soltanto in caso di guerra tutti i cittadini essendo obbligatí a servire con le armi dai 17 ai 50 anni; quelli compresi fra i 17 e i 26 anni erano chiamati periodicamente, durante la pace, a brevi esercitazioni; l'addestramento fisico e premilitare era imposto ai giovani dal 5° al 17° anno. Gli ufficiali dovevano avere un min1mo di 26 anni d'età e un massimo di 50, e si sceglievano fra i migliori elementi di truppa. L'unità tattica era costituita da un blocco rettangolare compatto e profondo. Nelle colonne in marcia si aveva gran cura di proteggere i mezzi di vettovagliamento; precedeva la cavalleria, seguivano i carri armati, poi le salmerie, infine la fanteria. Il comando supremo era tenuto dal re, che aveva ai suoi ordini diretti i satrapi delle provincie. La solidità iniziale di questo ordinamento e la sua debolezza successiva (fattasi manifesta di fronte ai Macedoni) furono deteminate dal diverso livello spirituale dei combattenti.

Quantunque le istituzioni militari dei Greci e dei Macedoni prendessero a svilupparsi quando gli eserciti egiziani e asiatici erano già molto progrediti, tuttavia ben presto prevalsero.

Atene e Sparta avevano un profondo culto delle tradizioni e dell'onore militare, ma mentre nella prima il servizio alle armi era una delle manifestazioni dell'attività del cittadino definita da apposite leggi, a Sparta tutta la vita dei cittadini era imperniata, dall'adolescenza alla vecchiaia, sul servizio militare, sicché quella città poteva considerarsi perennemente mobilitata. È altresì da notare che a Sparta anche i perieci e gl'iloti erano astretti agli obblighi della milizia, e ciò per utilizzare il loro numero stragrande in confronto a quello dei liberi. Sta, comunque, di fatto che le istituzioni militari dei Greci ebbero carattere nazionale. Esistevano quasi ovunque i ginnasî dove l'educazione fisica era oggetto principale di cure. Importanza grande era data inoltre alla pratica dell'uso delle armi e alle esercitazioni tattiche. Non esisteva un corpo di dottrine militari, ma si cercava di trarre dalle guerre precedenti l'indicazione di quello che fosse da evitare o da imitare.

Base dell'organizzazione militare dei Greci fu la falange (v.), cioè il complesso dei soldati di grave armatura, che marciavano nella battaglia su un solo gruppo compatto, per quanto snodato in parti minori.

Infatti nel periodo classico (sec. V-IV) gli eserciti dei singoli stati greci erano frazionati di solito in reggimenti, che corrispondevano alle ripartizioni territoriali di ciascuno stato: le γάξεις ateniesi, ad es., corrispondevano alle tribù locali, e così pure si può dire in linea di massima per i λοχοι spartani. Ognuno di questi reggimenti aveva naturalmente suddivisioni minori. Anche la falange per eccellenza - quella di Filippo il Macedone - era l'insieme organico di sei táxeis a loro volta suddivise.

Il supremo comando dell'esercito, mentre a Sparta era devoluto al re, negli altri stati greci spettava a generali eletti con vario criterio e spesso identici con i capi di governo, che formavano un collegio e si alternavano in modi stabiliti nella direzione delle ostilità. Solo assai di rado il collegio dei generali fu sostituito con un solo autocrate. I Greci avevano leggi durissime di disciplina militare, a fondo spirituale, atte cioè a eccitare nei soldati l'emulazione. Rare le ricompense e perciò pregiatissime.

Circa la tattica dei Greci, si sa da Senofonte che i lóchoi della falange potevano assumere molteplici formazioni. La marcia si compiva talvolta in fila indiana, come oggi si direbbe, o anche, più spesso, con due uomini di fronte; la formazione più abituale di marcia era quella delle enomotie spartane composte di 32 uomini, 4 di fronte e 8 di profondità. Poiché nella falange i lóchoi erano disposti l'uno a fianco dell'altro, la falange aveva altrettante formazioni quante le formazioni dei lóchoi, e in ciascuna formazione le stesse profondità dei lóchoi. La cavalleria, dopo essere stata usata largamente nel periodo arcaico dalle aristocrazie, non ebbe più importanza nell'età classica, eccetto che in Tessaglia. Solo al tempo di Filippo il Macedone la cavalleria torna ad avere una funzione essenziale e ad essa è data una formazione tattica simile a quella della fanteria. Quantunque non vi fossero ordinanze rigidamente prestabilite per le grandi unità miste di fanteria e cavalleria, si può ritenere che, nello spiegamento tattico, la fanteria gravemente armata costituisse il centro di battaglia, che ai fianchi di essa e sulla fronte prendesse posto la fanteria leggiera, ed esternamente a questa, sulle due ali, la cavalleria. Quando il terreno e la situazione consentirono di escludere qualsiasi minaccia contro una delle ali, la cavalleria fu tutta raccolta verso l'ala meno protetta. Dai Persiani i Greci appresero forse anche lo schieramento tattico su più linee, il quale rese possibile manovre più complesse, le linee retrostanti funzionando oltre che da rincalzi, da riserve; ma certo non se ne servirono usualmente. Le loro forze non raggiungevano mai numericamente quelle del nemico; forse fu appunto l'inferiorità numerica a consigliare in qualche caso questa maggiore manovrabilità.

Gli antichi fecero uso abbondante di macchine da guerra. Nell'ordinanza tattica di Ciro, su sei linee, le macchine erano messe nella prima (carri falcati) e nell'ultima linea (torri mobili con arcieri); nelle linee intermedie erano successivamente disposte la fanteria pesante (con la cavalleria alle ali), la fanteria leggiera, gli arcieri, e una linea di fanti scelti per costituire la riserva.

Per la sua forza d'urto e per l'alto spirito dei suoi uomini, la falange prevalse sugli eserciti asiatici molto numerosi, ma costituiti di elementi scarsi di coesione. Di fronte però a ordinanze tattiche che realizzarono insieme potenza e agilità, come la legione romana, la falange si trovò impacciata nei movimenti, poco manovriera negli attacchi, troppo lenta a ricomporsi quando nell'urto le sue prime linee fossero rovesciate.

Intanto per naturale reazione ai procedimenti tattici della falange (che si riassumono in duri colpi portati o contro il centro o contro le ali della formazione avversaria) si andarono affinando formazioni e manovre di neutralizzazione, come l'assegnazione di una maggior forza alle ali rispetto al centro (quasi ad agevolare alla falange il suo compito di sfondamento per poterla poi con vantaggio contrattaccare e schiacciare in una morsa) o come il ripiegamento dell'ala minacciata in modo che la falange vibrasse il suo colpo a vuoto e fosse poi costretta a combattere su terreno meno favorevole.

È in questo accorgimento di ritrarre l'ala minacciata che si può vedere l'origine dell'ordine obliquo usato da Epaminonda e perfezionato poi da Filippo. Così si moltiplicarono, via via, le possibilità e le forme della manovra sul campo tattico; e capi geniali poterono trovare nell'addensamento non uniforme della massa lungo i diversi tratti della fronte, nello scaglionamento in profondità (impiego non simultaneo e non uniforme dei mezzi, ossia economia delle forze) e nel giuoco delle finte, quelle molteplici combinazioni con le quali è possibile determinare la sorpresa, aspirazione massima di chi lotta con armi o senza.

Accanto alle operazioni campali, ebbe grande sviluppo nell'arte bellica antica la difesa e l'attacco delle città fortificate. Presso tutti i popoli i principali centri di vita dello stato furono protetti con costruzioni ad alto grado di resistenza, contro le quali si dovettero impiegare - specialmente dal tempo di Filippo in poi - macchine di grande potenza, da urto (arieti) e da lancio (baliste e catapulte) e una quantità di mezzi ausiliarî di attacco (torri smontabili, materie incendiarie, gallerie sotterranee, mine, ecc.) ai quali la difesa contrappose non meno ingegnosi mezzi di neutralizzazione (v. fortificazione). Così gli assedî delle più importanti città durarono spesso lunghi anni. Anche quella che noi chiamiamo oggi la fortificazione campale era praticata fin dai più lontani tempi, e soltanto è diventato sempre più esteso il suo uso col progressivo accrescimento della potenza del fuoco e dei mezzi offensivi in genere usati sul campo di battaglia. In antico i trinceramenti campali miravano soprattutto a proteggere gli accampamenti durante le soste e ad accrescere le qualità difensive del terreno con fossi, buche, alberi abbattuti, ecc.

Quanto alla strategia degli antichi, le sue origini si possono rintracciare nelle trasmigrazioni dei popoli da terre meno redditizie verso altre più ricche. Da un lato l'invasore era portato a percorrere le vie più brevi, meno disagevoli e meno pericolose, e dall'altro i popoli autoctoni cercavano di rendere difficile la marcia d'avvicinamento del nemico sorprendendolo nei passi difficili o affrontandolo dove maggiori si offrivano le possibilità del successo. Troviamo dunque l'elemento geografico, fin dall'inizio, alla base della strategia. E troviamo altresì, come determinanti della strategia, le mire della politica e le caratteristiche psicologiche delle collettività belligeranti; soprattutto troviamo le qualità di mente e di cuore del capo.

L'arte della guerra nell'età romana. - Sulle primissime istituzioni militari romane mancano dati certi. È sicuro però che molte istituzioni civili erano in immediata relazione con quelle militari; che ogni romano libero poteva perdere la libertà per reati militari e che il romano fatto prigioniero di guerra perdeva per ciò stesso tutti i diritti civici. Ciò dimostra che l'obbligo di portare le armi e l'onore di portarle erano posti al disopra di tutto e di tutti e che costante era il rapporto fra l'obbligo militare e i diritti civili.

Nel periodo dei re, l'esercito era costituito dai contingenti delle tre tribù (di dieci curie ciascuna). In tempi antichissimi ogni tribù dava una milleria (1000 fanti e 100 cavalieri). La milleria di fanteria era ripartita in 10 centurie, ciascuna di 10 decurie. In epoca meno remota scomparve la milleria e tutto il contingente delle tribù fu riunito in legione; delle 3 centurie di cavalleria si fecero 10 turmae.

Con la riforma attribuita a Servio Tullio (a sfondo più politico che militare) fu introdotto il criterio del censo. I cittadini di ognuna delle cinque classi in cui i possidenti furono divisi, furono obbligati al servizio dai 17 ai 60 anni (iuniores dai 17 ai 45, seniores dai 46 ai 60). Se ne formarono 85 centurie di iuniores e 85 di seniores. La prima classe forniva da sola quasi la metà delle centurie (40) in ciascuna categoria. Della cavalleria si costituirono 18 centurie. Infine si formarono, con elementi varî, 5 centurie di complemento. Era ammessa, in casi speciali, l'esenzione dal servizio.

In tempo di pace, soltanto la cavalleria era tenuta alle armi; la fanteria era in congedo. La mobilitazione si faceva o con bando regolare (dilectus) o con levata in massa (tumultus); la seconda forma annullava le esenzioni per qualsiasi ragione concesse.

L'ordinanza di combattimento è - in sostanza - una falange su sei righe, con gli elementi migliori nelle prime due righe (principes), cui succedevano due righe di hastati e poi due di triarii; finalmente vi erano truppe leggiere fuori dell'ordinanza. La successione era rappresentata dall'importanza del censo che traeva con sé una diversità nella consistenza dell'armatura. Ma con l'andar del tempo, di pari passo coi mutamenti politici, si ebbero progressivi mutamenti militari suggeriti in specie dalle lotte con i Sanniti. Di data discussa è la costituzione dell'ordinamento manipolare e quindi della legione romana vera e propria, derivata da un frazionamento di quella serviana, troppo rigida e poco manovriera.

Cominciò d'altra parte a prevalere il concetto che il peso maggiore del combattimento dovesse incombere sugli ultimi e non sui primi, carattere questo fondamentale della tattica manipolare.

Sul campo di battaglia l'ordinanza manipolare aveva i seguenti vantaggi: gl'intervalli e le distanze che separavano manipolo da manipolo davano a queste unità tattiche della fanteria quel tanto d'indipendenza che serviva ad adattarle al terreno, e inoltre rendevano meno facile il propagarsi agli altri manipoli del disordine che si fosse manifestato in un manipolo; consentivano egualmente bene l'azione offensiva e quella difensiva, l'azione lontana (armi da getto) e quella vicina (armi da mano); rendevano possibile alla cavalleria di concorrere all'azione tattica offensiva in intima unione coi fanti, le turmae potendo agire nell'intervallo fra i manipoli; con la disposizione su tre linee di valore crescente, l'azione poteva essere alimentata con progressione geometrica. Questo sistema portò con sé la necessità di non basarsi più sul criterio del censo nel disporre i soldati nei ranghi, ma su criterî di anzianità, dovendosi presumere che i soldati più sperimentati fossero i più atti a portare al nemico già provato nella lotta con i più giovani, il colpo di grazia.

Il comando delle truppe spettava ai consoli (o al dittatore coadiuvato dal magister equitum, quando si fosse sentita la necessità di sovrapporre ai consoli questa magistratura straordinaria). Il corpo degli ufficiali superiori di ogni legione era costituito da sei tribuni eletti dai consoli e più tardi anche dai comizî. Funzioni analoghe ai tribuni avevano i tre decurioni per ogni turma di cavalleria. Simbolo del comando supremo, o imperium, erano i fasci littorî che precedevano il comandante; ed erano: 6 fasci per il pretore; 12 per il console; 24 per il dittatore. Per l'imperium il potere del popolo viveva nella persona del designato. Il Senato - pur decidendo la ripartizione delle truppe fra i consoli a seconda del teatro delle operazioni - non aveva nessuna diretta ingerenza sulla condotta della guerra, e solo una volta intervenne, quando Annibale giunse alle porte di Roma. Quanto agli ufficiali inferiori, Roma aveva i centurioni eletti dai consoli o, per delega, dai tribuni. Non esisteva una carriera militare vera e propria (o, come oggi si direbbe, uno stato giuridico degli ufficiali). Per quanto concerne la truppa le liste di leva (iuniores e seniores) erano rivedute ogni anno sia per l'ammissione dei nuovi, sia per rettifiche. Gli uomini venivano poi divisi in legionarî veliti. I primi venivano armati di daga e picca (pilum agli astati e ai principi, hasta ai triarî) e tutti avevano elmo, scudo, lorica e gambiere ed erano ripartiti in manipoli di due centurie (epoca repubblicana) a effettivi numerici variabili. I veliti (fanti leggieri che operavano fuori dell'ordinanza legionare) avevano, invece del lungo pilo, alcuni piccoli pili (da 5 a 7) esclusivamente da lancio.

La legione classica è quella della metà del sec. II a. C., cioè della fine delle guerre puniche. Comprendeva: 3000 legionarî e 1200 veliti, divisi in 30 manipoli, 10 di astati, 10 di principi e 10 di triarî. La disposizione dei singoli uomini nei manipoli fu uniforme per le tre specialità di legionarî; nell'ordine chiuso, ciascun uomo occupava tre piedi nel senso della fronte (circa m. 0,90) e altrettanti nel senso della profondità; nell'ordine aperto il doppio. Ogni manipolo presentava 20 uomini di fronte, ossia aveva una fronte di circa 18 metri se in ordine chiuso, di 36 se in ordine aperto. La legione era normalmente schierata su tre linee: la prima costituita dai 10 manipoli degli astati, la seconda dai 10 manipoli di principi, la terza dai 10 manipoli di triarî; nel senso della fronte l'intervallo fra i manipoli era almeno eguale alla fronte di un manipolo. Così la legione in ordine chiuso aveva normalmente una fronte di circa 350 metri e una densità complessiva di circa 10 uomini per metro lineare di fronte. I veliti stormeggiavano negl'intervalli fra i manipoli o sul dinnanzi o sui fianchi della legione. I legionarî della prima linea che combattevano innanzi al vessillo (signum) del manipolo (detti perciò antesignani), indicavano l'andamento della pugna. Se essi ripiegavano sul signum, la prima linea doveva intervenire a sostenerli.

Sembra che anche la cavalleria usasse le due ordinanze: chiusa e aperta. La formazione per la carica doveva essere la più serrata. Più tardi (verso la fine del III sec. a. C.) alla cavalleria furono uniti fanti leggieri che combattevano fra le turmae e in caso di rapido spostamento in avanti o indietro venivano trasportati sulla groppa dei cavalli.

Oltre ai contingenti cittadini l'esercito romano si valeva delle truppe dei socii, cioè dei popoli italici entrati a far parte della confederazione romana, i quali erano obbligati a fornire determinate quantità di truppe. I contingenti dei socii avevano amministrazione autonoma; gli ufficiali superiori erano romani. Addestrati al combattimento alla maniera dei Romani, i socii costituivano le due ali dell'ordinanza di battaglia.

Diverse dai socii erano gli auxilia, truppe non romane, alleate o mercenarie. Se ne hanno scarse notizie; ma è certo che col crescere del dominio romano si dovette aumentarle finché divennero una parte veramente notevole dell'esercito. Nell'esercito romano repubblicano era anche una truppa scelta a guardia personale del comandante (praetor) che stava al praetorium, di forza numerica non precisata. Per sostituirlo nelle assenze o per guidare grossi distaccamenti, il comandante nominava un legatus.

Nella marcia in lontananza del nemico precedeva un'ala dei socii; seguivano le due legioni: in coda era l'altra ala dei socii. La cavalleria - meno quella parte (extraordinarii) che non era inquadrata nell'ordinanza legionare e che precedeva la colonna - era riunita in coda. Quando il nemico era vicino, l'esercito romano procedeva schierato su tre linee (astati, principi e triarî) di fronte o di fianco. Spesso si formava anche un quadrato di legionarî, con cavalleria e veliti all'esterno. Sotto il tiro intenso del nemico la legione formava la testuggine (testudo) serrandosi i soldati delle righe antistanti l'uno contro l'altro con gli scudi tenuti verticalmente e quelli delle righe seguenti (che pure si serravano l'un contro l'altro) tenendo gli scudi orizzontalmente sulla testa.

Secondo Vegezio, l'esercito romano usava svariate forme di ordinanze e manovre tattiche: la formazione a fronte larga per azione frontale; la disposizione obliqua, mercé l'avanzata, a seconda della convenienza, dell'una o dell'altra ala; l'azione a tenaglia, ottenuta tenendo fermo il centro e avanzando contemporaneamente le ali; l'azione per avviluppare le schiere nemiche, ottenuta appoggiando una delle ali a un ostacolo e facendo avanzare l'altra contro il fianco dell'avversario; l'azione a cuneo, mercé l'ordinanza triangolare, intesa a rompere in due parti la fronte nemica. Questa azione di sfondamento fu meno frequentemente applicata delle manovre di avviluppamento.

I profondi mutamenti determinati in tutti i campi dall'accrescersi della potenza romana, rendevano necessaria anche una riforma degl'istituti militari.

Mario abolì il privilegio dei possidenti ammettendo i proletarî nelle legioni. Abbandonato il criterio del censo, scomparve pure la differenza fra legionarî e veliti. La forza delle legioni fu portata a 6000 uomini con io coorti (600 uomini), ciascuna coorte di 3 manipoli. L'istituzione della coorte valse a dare maggior compattezza all'ordinanza, essendosi soppressi gl'intervalli fra i manipoli d'una stessa coorte. Altra grande innovazione attribuita a Mario fu la completa abolizione della cavalleria romana. Fu un omaggio al principio antiaristocratico, ma fu altresì un modo di evitare le contese cui dava luogo l'iscrizione nella classe privilegiata dei cavalieri. In tal modo Roma si avviava sempre di più ad affidare la propria difesa a elementi esterni.

Più ancora di quelle di Mario, le riforme militari di Silla ebbero un movente politico. Silla si curò soprattutto di distribuire terre a soldati e di togliere ai consoli il potere militare. La nuova legge prescrisse che i consoli in carica non fossero più comandanti di diritto degli eserciti, tranne nel caso di guerre combattute in Italia. I comandanti degli eserciti furono scelti fra coloro che già avessero esercitato il consolato e avessero avuto prorogato il potere come proconsoli. Si costituì così una categoria di generali permanenti, di nomina senatoria e non più popolare.

Con la dittatura a vita di Cesare il potere militare finira con il passare definitivamente all'imperator e i consoli non saranno che semplici suoi legati. La continua necessità di tenere eserciti in armi per la protezione dei confini del vasto dominio, conferirà un carattere di permanenza agli eserciti romani, mentre se ne accentuerà sempre più il carattere mercenario.

Gaio Giulio Cesare è, fra i grandi condottieri romani, la figura più completa di uomo di guerra. L'arte militare romana, che si era andata sempre più perfezionando, raggiunse con Cesare le sue più alte manifestazioni. Le imprese militari del grande capo rimasero costantemente e intimamente legate alla sua politica; e il politico ebbe in lui spesso il sopravvento, imponendogli alle volte di non approfittare della vittoria come una strategia teorica e astratta avrebbe consigliato. Così, dopo la fulminea vittoriosa offensiva della prima guerra contro gli Elvezî, non completò il successo con la distruzione del nemico, ma di questi seppe farsi un alleato da opporre ai Germani. Tal'altra volta fu saggia strategia e saggia politica insieme perseguire fino all'estremo i frutti della vittoria. Sono prove che Cesare seppe elevarsi alle più esatte sintesi delle circostanze ambientali: la sua fulminea offensiva contro gli Elvezî seguita immediatamente da quella contro i Germani d'Ariovisto; la rapida decisione di portare nella settima campagna gallica le sue scarse forze contro il nemico, prima che questi avesse la possibilità di raccogliere le proprie; la celebre marcia verso la Senna per congiungersi, dopo l'insuccesso di Gergovia, con Labieno; il meditato ardimento che lo portò ad attaccare Pompeo mentre le legioni senatoriali erano ancora nella Spagna; l'abilità con la quale seppe sfuggire a Pompeo dopo la sconfitta di Durazzo. In tutte le guerre, costante sua preoccupazione fu quella di mantener sempre libere le comunicazioni con le basi e di ristabilirle immediatamente se tagliate. Dal canto suo egli mirò sempre a portare il colpo decisivo contro le sorgenti di vita e di resistenza del nemico.

Cesare cercò di conservare l'iniziativa delle operazioni; se circostanze di guerra lo obbligarono qualche volta ad azioni di parata, ciò fu per il tempo strettamente necessario a preparare nuovi colpi.

Da Cesare in poi crebbe di continuo il numero delle legioni; nel 23 a. C. esse erano, pare, 25 e divennero sette volte più numerose all'epoca di Diocleziano. Le legioni presero a distinguersi con nomi che si riferivano o ai centri d'origine, o alla residenza, o a capi illustri (Gallica, Scytica, Victrix, Augusta, Fulminata, Flavia, Traiana). Le legioni si permutavano nelle sedi, e gli spostamenti avvenivano o per ragioni strategiche o per necessità varie di servizio. Data la sempre maggiore estensione del diritto di cittadinanza romana (che Caracalla rese infine universale) i corpi ausiliarî - costituiti in origine da provinciali e stranieri - non differirono più sostanzialmente dalle legioni. Distinte dalle truppe regolari e ausiliarie erano le coorti pretorie o corpi personali dell'imperatore, concentrate a Roma o là dove esistessero residenze imperiali (a Roma sorse il castrum praetorium a opera di Tiberio). Il numero di queste coorti variò a seconda del momento e dell'imperatore, fino alla loro abolizione (Costantino). I pretoriani furono spesso i veri padroni di Roma, e la loro attività fu piuttosto politica che militare.

Nelle legioni imperiali fu abbandonata l'ordinanza manipolare e si ritornò al tipo falangitico, con dense formazioni precedute da cavalleggieri ed esploratori e le spalle protette da cavalleria scelta. Nello schieramento la cavalleria era posta alle ali, e le coorti si disponevano su due scaglioni (principi e astati). Dietro ai principi venivano messi gli armati alla leggiera, dietro agli astati i triarî (riserva). Le prime cinque coorti erano armate d'elmo, corazza, gambiere, scudo, spada, e lanciotti da tiro di vario genere. Questa prima schiera era perciò poco mobile. Le coorti della seconda schiera erano armate più leggermente.

Gli eserciti romani fecero uso di numerose macchine da guerra. Principali le catapulte e le baliste, secondarie gli onagri e gli scorpioni. La potenza delle macchine si distingueva ordinariamente dal diametro del fascio elastico destinato a produrre l'impulsione. Ai tempi di Cesare pare che vi fosse una balista per centuria e un onagro per coorte, vale a dire 65 macchine per legione. E Vegezio afferma che undici uomini provvedevano al servizio d'ognuna di esse. Naturalmente nella guerra d'assedio il numero delle macchine aumentava. A fianco delle truppe d'artiglieria si notano truppe tecniche dette in origine fabri, che si dividevano per specialità; vi erano gli acutiatores (affilatori di punte), i cotarii (arrotatori di lance), i samiatores (smerigliatori), e così via. Gli operai addetti alla fabbricazione delle armi venivanoo chiamati fabricenses e formavano una corporazione a sé, gelosissima delle proprie maestranze e dei proprî segreti di fabbricazione.

Notevole fra i Romani il corpo dei pontieri, che seguivano le armate coi materiali necessarî al gittamento di grandi e piccoli ponti.

Per gli attacchi alle fortezze si usarono i soliti metodi: o scalando le mura, o squarciandole con arieti, o facendole crollare con scavi sotterranei. Il procedimento più frequente fu però quello di scavalcare il muro con le torri o con l'agger (rampa di terra costruita perpendicolarmente alle mura e che giungeva fino alla sommità di queste). Sull'aggere venivano poi spinte innanzi le torri oppugnatorie (meno alte delle torri ordinarie) con macchine da lancio e truppe. L'assediato cercava d'incendiare quelle torri. Il procedimento era quello già in uso presso i Greci.

Con l'impero i gradi di ufficiale furono concessi dall'imperatore agli appartenenti all'ordine equestre. Il primo grado (che era normalmente accessibile anche ai non cavalieri) fu quello di centurione; seguivano il praefectus cohortis, il tribunus legionis, il praefectus equitum e il legatus. Quest'ultimo grado non era raggiungibile per promozione, ma era concesso agli appartenenti agli ordini senatorî. In linea di principio, per ottenere un grado non era necessaria la permanenza nel grado inferiore; con ciò l'imperatore abbreviava la carriera a chi dimostrasse di avere capacità di coprire altri gradi militari o civili, ed eliminava coloro che erano, a suo giudizio, incapaci. È probabile che i gradi inferiori a quello di centurione fossero riservati ai vecchi soldati non nobili. In complesso si può ammettere l'esistenza di quadri così raggruppati: un'alta gerarchia di generali, provenienti dall'ordine senatorio; gradi intermedî occupati dagli appartenenti all'ordine equestre; gradi inferiori al centurione, occupati da vecchi soldati. Al grado di centurione si arrivò o per anzianità di servizio o per merito speciale. Siccome però l'imperatore aveva anche facoltà di concedere l'appartenenza all'ordine equestre, con l'andar del tempo finirono con l'entrare fra gli ufficiali plebei nobilitati per ragione politica o venale. Gradi e cariche speciali furono: il praefectus castrorum, con incarichi d'ogni genere (servizî) ma che non prendeva parte ai combattimenti, e il praefectus fabrum (comandante del genio).

In tempo di pace l'esercito romano fu addestrato in esercitazioni di combattimento (concursio) e campi mobili, o altrimenti mantenuto attivo con esecuzioni di lavori per uso militare o civile (fortificazioni confinarie in molte parti d'Europa, Africa e Asia; grandi strade militari; canali, ecc). Rigidissima la disciplina e severe le pene specialmente contro i fuggiaschi (decimazione per le fughe collettive). Nel regime disciplinare i Romani fecero calcolo più che sull'intimidazione dei mezzi punitivi, sull'incoraggiamento dei premî, che furono numerosi e svariati (promozioni, donativi in danaro, armi onorifiche, distintivi di benemerenza). Le coronae - ricompense al valore - furono di molte specie, per differenziare fra loro gli atti eroici. Per i condottieri vi era anche il trionfo concesso dal senato, nel tempo classico della repubblica. Durante l'impero il trionfo finì con l'essere un'esclusività del monarca, il quale concesse ai grandi generali, in luogo del trionfo, ornamenti trionfali e, a volte, anche una statua.

L'arte della guerra nel Medioevo. - Sguardo d'insieme. Con lo smembramento dell'Impero romano d'Occidente e la costituzione dei regni romano-barbarici, l'arte della guerra nell'occidente europeo entra in una nuova fase, che può essere caratterizzata dalla mancanza di un vero e proprio corpo combattente, organicamente costituito nelle sue parti, e, per contrapposto, dall'affermarsi delle qualità individuali dei combattenti. I Germani avevano avuto anche essi, nei primi tempi, un loro organismo militare, un corpo tattico, creato non dalla disciplina e dall'esperienza bellica, ma dalla stessa struttura sociale loro propria: cioè dalla naturale riunione in "famiglie" forti generalmente di 100 e più uomini atti alle armi, che costituivano di per sé il corpo tattico elementare (la centena o hunderschaft) sotto la guida dello hunno.

Ma stabilitisi i Germani nell'impero e andata dispersa, per effetto delle nuove condizioni di vita, la primitiva grande famiglia unitaria, che si spezzettò in varie piccole famiglie; mancando d'altro lato una forza del potere centrale e un'inquadratura statale come quella delle grandi collettività del mondo antico, venne meno la coesione tattica d'un tempo, né altra la sostituì. Le azioni militari s' imperniarono dunque più sul valore del singolo che non sulla manovra di un complesso tattico; e a ciò contribuì un altro fatto, che è caratteristico dello svolgimento nell'organizzazione militare dei popoli germanici, a partire dal sec. V e VI, cioè il progressivo prevalere della cavalleria sulla fanteria. Non che per l'innanzi i Germani non fossero anche cavalieri: certe tribù anzi erano note, fin dal sec. II d. C., per la loro valentia nel guerreggiare a cavallo (v. cavalleria). Ma ora si tratta di un processo generale, accelerato appunto dal venir meno di unità tattiche organiche che, sole, potevano conferire al combattente a piedi efficacia di resistenza. Il fante, inquadrato in unità tattica, parte di un tutto saldo, è una forza; abbandonato a sé, disperso, senza coesione continua con altri combattenti, si trova (date le armi del tempo) in immediata condizione d'inferiorità di fronte all'uomo che combatte a cavallo.

Sul fatto fondamentale, dunque, della rovina dei vecchi corpi tattici (legioni romane), non sostituite da nuovi ordinamenti di pari efficacia, si basa quello che è il carattere più saliente e più evidente dell'arte della guerra per tutto il Medioevo, cioè per circa 10 secoli: il prevalere assoluto della cavalleria e l'arretramento della fanteria alla condizione di semplice arma ausiliaria. Col tempo, la differenza diverrà ancora più schiacciante, per l'accrescersi delle armi a protezione del cavaliere e del cavallo, ridotti infine a una specie di vera tank umana di fronte a cui i fanti, combattenti alla spicciolata, non possono opporre apprezzabile resistenza.

È il trionfo della personalità singola sull'ordinamento d'insieme: e come tale la nuova arte della guerra rispecchia fedelmente le condizioni politiche e sociali dei tempi: mancanza di saldi organismi statali, trionfo del particolarismo politico, ecc.

Diversamente, infatti, procedono le cose nell'impero bizantino dove, nonostante la cavalleria acquisti anche qui una nettissima prevalenza (anche per la necessità di controbattere efficacemente i grandi nemici dell'impero, gli Arabi, cavalieri), l'esercito mantiene nel suo complesso un saldo ordinamento della fanteria, che si rafforza nei periodi di consolidamento del potere centrale, p. es., sotto la dinastia macedone (v. bizantina, civiltà). Anche nell'occidente europeo all'incremento della cavalleria molto contribuirono le invasioni arabe. La necessità di far fronte a quei temibilissimi cavalieri costrinse i maggiordomi e re franchi, da Carlo Martello in poi, a rafforzare la propria cavalleria; e poiché non v'era un tesoro statale di guerra che potesse far fronte alle spese necessarie per l'acquisto, il mantenimento del cavallo, ecc., fu necessario trovare il compenso alla prestazione del servizio a cavallo nella concessione di terre in benefizio. Il che fu fatto su sempre più larga scala, togliendosi anzi i benefizî molte volte a chiese e monasteri che n'erano stati prima investiti, sollevando le proteste del clero. E così, in ultima analisi, questo grandioso fenomeno storico costituì una spinta decisiva alla formazione della società feudale: legandosi ora strettamente concessione beneficiaria da parte del signore e assunzione di obblighi precisi, soprattutto militarii da parte del beneficiario, cioè legandosi beneficio e vassallaggio, e, lentamente, ottenendosi dai beneficiarî quelle immunità che condussero infine al feudo vero e proprio. Così l'organizzazione guerriera dei popoli, determinata dalle condizioni politico-sociali dell'epoca, diveniva a sua volta fattore determinante di nuove condizioni politico-sociali.

Carlomagno. - Le continue guerre che caratterizzarono il suo regno e che portarono il monarca carolingio alla costituzione di un grande impero dell'Europa occidentale, non ebbero scopo di preda come quelle combattute sotto i Merovingi, ma finalità di grande politica a larghissimo settore. La strategia sarà conseguentemente di grande stile.

Il territorio dell'impero era diviso in contee, il cui governatore - conte- era anche il capo dell'amministrazione militare, come nelle provincie di confine era il marchese. Il sovrano aveva a propria disposizione dei missi dominici che erano incaricati di vigilare l'amministrazione della giustizia e la formazione delle liste militari, alle quali dovevano concorrere tutti i cittadini proprietarî di terre.

Non sempre, però, i disponibili erano tutti utilizzati. La chiamata alle armi per mobilitazione avveniva per bando imperiale; entro poche ore dalla pubblicazione del bando ciascuno doveva portarsi al luogo di concentramento; i proprietarî di almeno 6 ettari di terreno servivano a piedi e dovevano mobilitarsi recando con sé a proprio carico una spada (o lancia) uno scudo, un arco, due corde, dodici frecce e viveri per novanta giorni; i proprietarî di meno di 6 ettari si riunivano nel numero necessario per raggiungere quella estensione; l'uno di essi prendeva posto nell'esercito, gli altri gli fornivano le armi e i viveri; i grossi proprietarî servivano nella cavalleria con cavallo proprio, lancia, scudo e tunica di cuoio ricoperta di squame metalliche. I governatori mobilitavano un certo numero di carri con gli arnesi da guastatore e suppellettili per gli accampamenti; a cura dell'imperatore era mobilitato il carreggio necessario per il vettovagliamento. Ai refrattarî erano applicate forti ammende, senza così evitare la renitenza, l'autorità del sovrano trovandosi spesso impacciata quando si trattava di procedere a rigorose sanzioni, che molte volte avrebbero colpito gli stessi proprietarî maggiori. L'esempio dell'indisciplina veniva molto spesso dall'alto. Carlomagno ebbe anche un nucleo di truppe permanenti.

Le notizie particolari sulle imprese militari di Carlomagno sono alquanto scarse. Fra le sue concezioni strategiche più notevoli è da segnalare il passaggio delle Alpi nell'inverno 773-774. L'imperatore divise le truppe in due corpi e inviò l'uno per il Vallese, il Gran San Bernardo e la Valle d'Aosta, e l'altro ai suoi ordini diretti per la Savoia, il Moncenisio e la Val di Susa, affrontando il pericolo di vedere battute separatamente le due frazioni allo sbocco in piano. Il passaggio del Cenisio allora poco praticato, richiese grandi lavori. L'imperatore informato che un esercito longobardo aveva preso posizione allo sbocco della Val di Susa (Chiusa di San Michele) scese nelle valli della Stura e del Sangone, sicché i nemici - vistisi aggirati - abbandonarono le posizioni; ma non tanto in tempo da evitare di essere presi in mezzo fra la frazione d'esercito dell'imperatore e quella scesa per Ivrea. Fu, da parte degl'invasori, pronta e abile manovra. Sconfitti i Longobardi, e rifugiatisi in Pavia, Carlomagno punta contro questa città. In linea generale lo Jomini osserva che Carlomagno usò la manovra centrale con le forze riunite quando ebbe notizia che le truppe avversarie erano disgregate, oppure il doppio avvolgimento quando queste erano ammassate, il che dimostra quanto egli fidasse nella propria superiorità, essendo sicuramente rischioso il separare le forze dinnanzi al nemico, riunito in posizione centrale. Talvolta Carlomagno - sempre secondo lo Jomini - compì manovre aggiranti per intercettare al nemico le comunicazioni, dopo aver adottate le necessarie provvidenze difensive per evitare di essere aggirato dal nemico. Per poter compiere con la dovuta rapidità queste manovre audaci, gli eserciti di Carlomagno furono allenati a marce celeri. I servizî logistici furono organizzati in modo da funzionare tempestivamente e con ordine, come provano indirettamente le rigorose disposizioni che vietarono alle truppe di prelevare dagli abitanti alcunché, all'infuori dell'erba e dell'acqua. Il resto dovette essere accumulato in magazzini e trasportato con mezzi adeguati fino alle truppe in movimento.

Il feudalismo. - Nell'età feudale vera e propria (cioè dal sec. X in poi) sono evidenti al massimo grado le caratteristiche, sopra accennate, dell'arte della guerra medievale.

Duchi, marchesi, conti, visconti, baroni e cavalieri, costituirono altrettanti gradi sociali in dipendenza della vastità dei rispettivi possessi terrieri e nel tempo stesso costituirono una gerarchia militare, commisurandosi l'importanza di ciascuno di essi dal numero d'uomini che potevano trarre al loro seguito per imprese di guerra. Ma poiché nel regime feudale la sovranità era sminuzzata fra i "signori" di diverso ordine, in modo che ciascuno conservava nelle proprie terre il diritto di levare imposte, batter moneta, render giustizia ed eseguire le sentenze (oltre al diritto di levare milizie) ne conseguì una gara di particolarismi.

Quantunque la cavalleria, massima espressione sociale e militare del feudalismo, non mancasse di nobiltà di sentimenti nei singoli, tuttavia considerata nel suo insieme, come massa operante, essa non fu atta ad imprese di qualche entità e l'arte militare decadde per mancanza di elemento vitale. La cavalleria raggiunse il suo maggior splendore al tempo delle crociate, che rappresentano il massimo sforzo della spezzettata società, per operazioni militari d'insieme. Giova notare che l'esagerazione del valore personale, la smania che ciascun cavaliere ebbe di sopravanzare con gloriose gesta gli altri cavalieri, spinsero all'estremo il difetto dell'individualismo; e ciò accrebbe la disgregazione delle grandi masse armate e rese estremamente difficile l'esercizio del comando. Ora, senza comando non esiste arte strategica. Quanto alla tattica, basti considerare che la fanteria, costituita da villani e scarsa di numero, fu considerata spregevole, sicché tutta l'azione sul campo di battaglia si ridusse a scontri fra cavalieri, quasi imprigionati - essi e le loro cavalcature - in un rivestimento di pesante acciaio che impediva ogni elasticità di movimenti, e costretti perciò a correre l'uno addosso all'altro in linea retta, ponendo ogni arte nello scavalcare l'avversario e nell'evitare di essere scavalcati. La battaglia altro non fu che una somma di duelli singoli, senza concepimenti di manovra, senza tentativi di sorpresa, senza uso di riserve. Si aggiunga che l'uomo a cavallo è in modo tipico inadatto per l'arte degli assedî: mentre proprio allora, per il fatto che i maggiori feudatarî ponevano le loro sedi in luoghi naturalmente forti e rafforzati ancora dall'arte, le imprese belliche si polarizzavano intorno ai castelli, trascinandosi così, per difetto di mezzi di attacco, assai a lungo.

Il grande tentativo compiuto dalla feudalità di condurre, con le crociate, imprese a massa, doveva inevitabilmente fallire.

Anche riferendosi alle due ultime crociate (sesta e settima) che appariscono le meglio preparate e che furono personalmente guidate da S. Luigi IX re di Francia, emergono chiari i gravi difetti organici e strategici di quelle spedizioni. Nella sesta crociata (1248-1254) è posto giudiziosamente a base del disegno operativo il possesso dell'Egitto ed è del pari giudizioso l'avere scelto come centro di radunata degli uomini e dei rifornimenti per l'attacco dell'Egitto, l'isola di Cipro. Ma, nell'esecuzione, sembra che il capo supremo dell'impresa disconosca ogni importanza al fattore sorpresa: sbarcato il 17 settembre del 1248 a Cipro, attende più di otto mesi prima di attaccare le coste egiziane e dà tempo ai Saraceni di prepararsi alla difesa dell'Egitto, mentre impoverisce i proprî magazzini. Quando finalmente sbarca a Damietta al principio di giugno del 1249, invece di procedere rapidamente verso la Siria, segna un altro lungo tempo d'arresto. Soltanto sei mesi dopo si accinge a passare il braccio del Nilo, ma non avendo tenuto conto delle piene periodiche del fiume e non avendo con sé sufficienti equipaggi da ponte, è costretto a fermarsi sulla riva sinistra. Quando finalmente, nel febbraio del 1250, è tentato il passaggio del canale in presenza del nemico, inopportune iniziative individuali provocano un incontro senza coesione, e se i cavalieri crociati restano materialmente padroni del terreno di combattimento, la spedizione si avvia fin da allora a una soluzione disastrosa. Nella crociata successiva (1270) mancò anche una base razionale al piano della spedizione, in quanto la scelta di Tunisi come luogo di sbarco in Africa avrebbe preparato alla spedizione difficoltà strategico-logistiche pressoché insuperabili anche se la pestilenza manifestatasi fra i crociati non avesse stroncato l'impresa fin dal suo inizio.

Le crociate hanno valore di prova negativa nel campo dell'arte della guerra. Esse dimostrano l'impossibilità di condurre a buon termine imprese di guerra con elementi eterogenei, nei quali il buon volere e l'eroismo personale manchino del cemento della disciplina collettiva, e di norme atte a coordinare nel tempo e nello spazio le diverse schiere sul campo di battaglia, e che abbiano poi alla testa comandanti in disaccordo fra loro, per di più noncuranti del fattore geografico e dell'organizzazionc dei rifornimenti.

Ordinamenti feudali. - La cavalleria feudale si divideva in due ordini: i banderali e cioè i baroni o signori di vario grado che godevano il diritto di riunire drappelli di armati sotto la propria insegna; i baccellieri o pennonieri e cioè i cavalieri che facevano seguito al re o ai banderali. Ogni cavaliere era seguito da uno scudiero e da un numero variabile di paggi, valletti e servi tutti a cavallo. In Italia furono chiamati militi maggiori gli uomini liberi che, pur non essendo nobili, militavano al seguito dei re o di un banderale. Dopo il sec. XII furono chiamate lance fornite o semplicemente lance i cavalieri che avevano al seguito cinque o sei uomini, e lance spezzate i cavalieri seguiti da un solo scudiero o servo; e bandiera o banda si chiamò l'unione di cinque o sei lance.

La formazione usata normalmente era su una sola riga con i banderali avanti; dietro gli scudieri; e dopo questi il resto del seguito. In casi speciali gli scudieri si mettevano in riga con i banderali; così pure alle volte si riunivano gli uomini del seguito in drappelli, che venivano impiegati come cavalleggieri; quest'uso si generalizzò poi in Germania, dove diede origine ai famosi raitri (da Reuters o Reiters, gente a cavallo). Dovendo dar l'assalto a una fortezza, i cavalieri appiedavano.

La fanteria feudale era costituita, come si è detto, da turbe di contadini e cittadini che prendevano parte alla guerra, senz'ordine e senza disciplina, al seguito dei feudatarî, degli ufficiali regi, o degli avvocati dei conventi. Le bande presero il nome di masnade, e masnadieri o ribaldi ne furono chiamati i componenti; il loro armamento andava dall'arco e dalla balestra, alle picche, alle lance, alle alabarde, agli spiedi o ai semplici bastoni. Più disciplinate furono, in seguito, le fanterie comunali.

Nell'organizzazione degli eserciti regi, le milizie feudali entrarono insieme con le milizie della corona, fornite dalle città e dalle terre costituenti patrimonio personale del monarca, con le milizie dei conventi e con le milizie mercenarie. In caso di guerra, un bando regio convocava le milizie. I grandi vassalli convocavano, a loro volta, i feudatarî minori, e gli avvocati dei conventi riunivano i loro uomini. Di regola tutti gli idonei alle armi erano obbligati al servizio militare eccetto i servi, gli Ebrei e gl'infami; in seguito però furono concesse franchige a città e conventi e si limitò il numero degli armati che doveva fornire ogni vassallo, aumentando contemporaneamente il numero dei mercenarî. Così costituito, l'esercito non era che la riunione di drappelli, d'insegne e di compagnie, diverse di numero e di armi.

L'esercito, per l'impiego in guerra, veniva generalmente suddiviso in tre parti: avanguardia, corpo di battaglia e retroguardia. L'ordine normale di combattimento per il grosso dell'esercito era su una sola linea, divisa in un centro e due ali. Alla destra si spiegava l'avanguardia, a sinistra la retroguardia. Si poneva di norma la cavalleria al centro e la fanteria alle ali o dietro, per quanto alle volte (specialmente all'inizio del combattimento) si mettessero avanti gli arcieri e i balestrieri. La seconda e la terza linea erano costituite da sola cavalleria. In battaglia ogni frazione era autonoma e il combattimento si riduceva a una mischia disordinata. Ben di rado si cercò di supplire alla deficienza del numero con la scelta di una posizione opportuna o con più acconce formazioni.

Non mancarono agli eserciti feudali macchine guerresche, ma il loro uso, data l'accennata forma di combattimento, fu limitato all'attacco e difesa di fortezze. Le macchine furono le stesse usate dai Romani, e cioè il trabocco, il mangano, la briccola, il montone o cozzone (l'antico ariete), il gatto, il graffio, ecc. Dopo l'invenzione della polvere si fece anche uso di artiglieria, i cui modelli primitivi consistevano in una specie di mezza botte di legno o lamiera, cerchiata di ferro che lanciava palle di pietra. Con un successivo perfezionamento queste primitive artiglierie vennero costruite in ferro o in bronzo e collocate su affusti in modo da poterne variare l'inclinazione. Presero nomi differenti, desunti o da antiche macchine o dalla loro forma o dai loro effetti; si ebbero così le bombarde, le colubrine, le serpentine, i falconetti, i cannoni, ecc. È incerta l'epoca del primo uso delle artiglierie; sicuramente esse furono adoperate nelle operazioni d'assedio della seconda metà del sec. XIV. In Italia si usarono per la prima volta verso il 1330 (v. artiglieria).

Quanto alla fortificazione, essa rimase sostanzialmente, nel Medioevo, quella romana. Le città fortificate conservarono le loro cerchie turrite, le rocche, gli antemurali o il semplice vallo dell'epoca romana. Le sole fortificazioni prettamente medievali sono i castelli feudali e le bastie o bastite. I castelli feudali, eretti generalmente in località dominanti, erano costituiti di una cintura di alte e robuste mura merlate e turrite, con bertesche a piombatoi, dominate da un torrione o mastio quadrato e cinte di fossati profondi. Le bastie costruite invece sui passaggi dei fiumi o presso le città o sulle principali strade per porvi dei presidî, erano specie di rocche quadrate, rafforzate da torri agli angoli e cinte da fossati o da steccati. Col progresso delle armi da fuoco furono apportate modifiche alle fortificazioni, si sentì cioè la necessità di abbassare e allargare le torri (bastioni), e ingrossare le mura con terrapieni.

Le milizie dei comuni italiani, le compagnie di ventura e l'arte della guerra nel Rinascimento. - I comuni italiani contribuirono a ridonare alla fanteria importanza preminente nelle battaglie. Ovvie le ragioni: se si eccettuino i pochi elementi feudali trasferitisi nelle città, dalla popolazione cittadina non era possibile trarre in copia cavalieri, sia per ragioni economiche, sia anche perché il militare a cavallo comportava tutto un lungo addestramento tecnico impossibile a ottenere da uomini che non facevano della guerra un'occupazione continuativa. Una cavalleria cittadina sarebbe stata sempre in condizione di netta inferiorità di fronte ai cavalieri feudali, che nelle armi trascorrevano la vita.

Per questo i fanti furono il nerbo delle milizie comunali; e il coordinamento tattico fu trovato grazie al carroccio che costituisce nei momenti decisivi come il punto di appoggio attorno a cui si serrano le milizie del comune, formando così una massa contro cui s'infrange l'urto dei cavalieri. È, sotto una speciale forma, il primo esempio del quadrato di fanteria, la cui efficacia riesce tanto maggiore in quanto la cavalleria d'allora non caricava a squadroni, cioè anche essa a massa, ma si frantumava in un'azione molecolare. È significativo che agli albori del comune si trovi già il carroccio, con il bellicoso vescovo di Milano, Ariberto; significativo che l'episodio centrale della battaglia di Legnano si svolga intorno al carroccio.

Sennonché il tentativo dei comuni italiani non doveva aver lunga fortuna; e col sec. XIV gli eserciti della penisola, da eserciti di cittadini diventano eserciti di mercenarî, e da eserciti di fanti ritornano ad essere eserciti di cavalieri.

Le cause dell'avvento del mercenarismo sono molteplici: non ultima, la riluttanza dei borghesi delle città, dei mercanti, ecc., ad abbandonare le loro occupazioni, il traffico lucroso per muovere a oste. E non meno influì il fatto che le grandi lotte fra papato e impero, e la conquista angioina avevano condotto in Italia gran numero di uomini di guerra d'altri paesi; i quali, sciolto l'esercito in cui si trovavano o crollata la dinastia al cui servizio erano venuti (p. es., quella sveva) cercarono lavoro offrendosi a città e signori. Poiché le loro cognizioni tecniche ne raccomandavano l'impiego, questo a poco a poco doveva generalizzarsi, per la necessità di opporre a esperti soldati, soldati non meno esperti. Ma influì soprattutto il generale svolgimento politico della vita italiana: il sorgere cioè dei governi signorili, evidentemente interessati a togliere le armi di mano ai sostenitori dell'antico regime repubblicano - ai cittadini - e a disporre invece di una milizia che dipendesse solo dall'arbitrio e dalla borsa.

E che realmente questa necessità politica stia a base dell'evoluzione verso il mercenarismo, dimostra il fatto che la stessa tendenza a eserciti professionali si verifica anche in quegli altri stati del continente in cui si attua pure il rafforzamento del potere supremo e, gradualmente, la centralizzazione della vita nazionale attorno a un punto fermo, la monarchia. Francia e Spagna, le due grandi unità statali del continente europeo che s'irrobustiscono e divengono veramente stati nazionali proprio nei secoli XIV e XV, si troveranno anch'esse alla fine del Quattrocento con armi mercenarie, non diversamente dai principi italiani.

C'è tuttavia una differenza sostanziale fra gli stati italiani e Francia e Spagna a questo riguardo. E cioè, mentre in questi ultimi due paesi l'esercito, sia pur mercenario, è alla diretta dipendenza del sovrano, di guisa che potere politico e potere militare si trovano raccolti nelle mani di una sola persona, in Italia s'instaura un sistema diverso, quello dei capitani di ventura, che offrono i loro servizî ora a questo ora a quel principe, costituendo essi l'unica forza militare regolarmente organizzata, mentre il governo, cioè il potere politico, sia nelle repubbliche (Firenze e, per la terra ferma, anche Venezia), sia nei principati è disarmato. Si giunge con ciò a una pericolosissima separazione fra potere politico e potere militare, che non solo torna a danno della strategia (la strategia altro non essendo che un aspetto della politica), ma altresì invoglia i condottieri a crearsi uno stato in proprio, ciò che sta alla base di gran parte della storia italiana del sec. XV. Naturalmente poi i condottieri dovevano essere tratti ad anteporre la cavalleria alla fanteria: perché proprio nel trionfo della prima arma, più difficile e richiedente lunga abitudine, stavano le ragioni tecniche che potevano assicurare il lavoro ai professionisti della guerra.

La fanteria comunale adeguandosi all'ordinamento interno delle città era divisa per quartieri o per porte; ogni quartiere aveva consoli, capitani e insegne proprie. La gente del contado era anch'essa divisa per quartieri porte o faggie. Più tardi, quando si affermò il sistema corporativo, sorsero le compagnie delle armi, istituite o per iniziativa privata di chi, escluso dalle altre corporazioni, cercava in un'associazione la propria sicurezza, ovvero per ragioni di pubblico interesse quando necessitarono reparti composti di cittadini più fedeli e meglio preparati alla guerra. In caso di necessitâ, al suono della martinella, le varie schiere si riunivano attorno al carroccio.

Come la fanteria anche la cavalleria subì notevoli trasformazioni. La sottomissione dei nobili ai comuni cominciata prima del grande conflitto col Barbarossa, continuò durante la lotta, col giuramento di fedeltà ai consoli e ai podestà. Molti nobili, abbandonati i loro castelli, dovettero prendere dimora in città. Di questi vassalli incittadinati si compose specialmente il nocciolo della cavalleria dei comuni. Si chiamava cavalleria, cavallata o milizia l'obbligo di servire a cavallo, obbligo che, secondo gli averi di ogni singolo, poteva essere intero, di metà o d'un quarto. Le cavallate si componevano di solito ogni anno con i cittadini che possedevano oltre 500 fiorini.

In tre modi i comuni facevano la guerra: la gualdana, la cavalcata, l'oste o esercito generale. La prima era un'improvvisa scorreria nelle terre nemiche al solo scopo di predare o di distruggere; la seconda era una rapida operazione d'assalto eseguita da cavalleria, arcieri e balestrieri senza carroccio; la terza consisteva nel chiamare tutta la popolazione alle armi, a cavallo e a piedi, in caso di grave pericolo comune.

Mercenarî e compagnie di ventura. - Per quanto il ricorrere all'aiuto dei mercenarî non fosse un fatto nuovo (v. mercenari), i primi ordinamenti noti delle milizie mercenarie nel Medioevo italiano sono quelli che Firenze emanò nel 1351 e successivamente nel 1369, dai quali si può aver chiara un'idea degli ordinamenti mercenarî in Italia nel sec. XIV.

Allorché doveva assoldar gente, lo stato incaricava alcuni cittadini, in qualità di ambasciatori e compratori, di radunar venturieri, e questi prima d'iniziare il servizio prestavano giuramento di fedeltà al principe, impegnandosi di andare a combattere ovunque fosse loro comandato, di osservare i patti e di ubbidire al capitano generale. Le milizie venivano assoldate in varî modi: o a massa, o a forma di società, o a bandiere, o a drappelli; si aveva però cura di non accettare mai fra gli stipendiati nessun suddito o cittadino, specie se fuoruscito.

Verso il 1380 le bande mercenarie, generalmente a cavallo, si distinguevano in militi, in arcieri da uno o due cavalli, in ungheri, in inglesi e in lance. La lancia era la più pesantemente armata ed era composta di tre uomini e cioè di un capo di lancia, un piatto e un paggio con due cavalli e un ronzino. Per ogni dieci lance era stabilito un caporale; per ogni insegna un trombettiere e un piffero o un suonatore di nacchere o, cornamusa. L'armatura dei militi comprendeva speroni, gamberuoli, cosciali, corazza, maniche e guanti di ferro, soprasberga, gorgiera, bacinetto o elmo, scudo, lancia con pennoncello, coltello e spada. Minor peso d'armi portavano gl'inglesi; ancor meno gli ungheresi e gli arcieri a cavallo. I balestrieri a piedi portavano corazzina, cervelliera, coltello, balestra, verrettoni o turcasso; gli altri fanti non avevano che zuccotto, spada, coltello, palvese e lancia.

Il contestabile o caposquadra, aggiungeva alle altre armi la corazzina e i bracciali o maniche di maglia. I contestabili e i capitani di cavalleria dovevano essere forniti di un destriero di almeno 50 fiorini e un palafreno di 20; per i soldati era sufficiente un cavallo di 30 fiorini, si tollerava però anche di un più basso prezzo, ma in questo caso veniva tolto un fiorino al mese sulla paga. Dopo passata una rivista ai mercenarî, o come si diceva allora, dopo aver scritto, il condottiero riceveva la prima mesata e iniziava il servizio.

Chi comandava a 25 cavalli aveva cinque poste o paghe; chi comandava 20 cavalli ne aveva quattro, e 2 solamente quello che ne comandava un minor numero. Oltre alla paga, al capo compagnia era corrisposta una somma a titolo di piatto, di preminenza o provvisione. Si chiamava ferma l'obbligazione contratta dal capitano di ventura verso il principe; finita la ferma, cominciava l'aspetto, cioè il periodo che si era riservato il principe per decidere se rinnovare o no il contratto.

Il governo disciplinare delle truppe era affidato, se in città, al podestà o al capitano del popolo, o al capitano della guardia; se al campo, al capitano generale o agli ufficiali di condotta. Le mesate da corrispondere alle soldatesche venivano divise in quattro o cinque paghe, secondo le bollette predisposte dai magistrati cittadini; da ogni paga i tesorieri o esattori della città in cui la truppa era di guarnigione, detraevano una piccola somma a titolo di gabella o dirittura. Dall'ultima paga di ogni mese gli ufficiali sopra i difetti toglievano le multe e le mende. Agli ufficiali di condotta era devoluto il compito di radiare gli uomini e i cavalli non ritenuti più idonei al servizio. Come le pene, anche le ricompense erano in denaro; così quando sconfiggevano più di 200 cavalli e rimanevano padroni del campo avversario, i venturieri percepivano una doppia mesata e si lasciavano loro le armi dei vinti; il prezzo pagato dall'avversario per il riscatto dei prigionieri era invece devoluto al principe. Le ricchezze mobili e gli abitanti delle terre conquistate d'assalto rimanevano di proprietà dei mercenarî. Al comando dell'esercito si poneva un capitano generale, italiano preferibilmente, assoldati con un seguito più o meno numeroso di fanti e cavalli. Ai condottieri veniva normalmente concessa l'autorizzazione d'innalzare una propria insegna e di nominare i proprî marescialli.

Le prime compagnie di ventura si costituirono in Italia al principio del sec. XIV; vennero formate dapprima - come già s'è accennato - quasi completamente con mercenarî scesi in Italia al seguito degl'imperatori tedeschi o degli Angioini, e che poi erano rimasti in Italia al soldo dei comuni e dei signori. Licenziati poi da questi perché incapaci a proficuo lavoro di pace, pressati dalla miseria e dalla fame, consci della loro forza, cresciuti di numero e di baldanza si riunirono in bande ed elettisi dei capi, scelti fra i più capaci o i più violenti, si diedero a guerreggiare o per proprio conto o per conto di altri. In quasi tutte le guerre combattutesi in Italia fin verso la metà del sec. XIV, si videro in azione siffatte compagnie, composte generalmente di poche migliaia di armati, quasi tutti a cavallo (barbute).

I lauti bottini che in breve tempo arricchirono queste compagnie, indussero poi molti Italiani a intraprendere il mestiere delle armi, militando dapprima frammischiati tra le barbute tedesche o le lance inglesi, e poi raggruppati in piccole bande nazionali. Vere e proprie compagnie di ventura completamente composte d' Italiani si ebbero solamente alla fine del sec. XIV; ma pur sorte in un secondo tempo, seppero ben presto imporsi alle straniere (v. compagnie di ventura).

Nelle compagnie di ventura straniere era generalmente il caso che riuniva le varie soldatesche; il voto di tutti i gregarî designava poi il comandante. In tal modo l'autorità del comandante era ben scarsa, dipendendo essa dal beneplacito dei subordinati. Inoltre ogni decisione sulle operazioni da intraprendere era devoluta a un consiglio eletto da tutti i componenti della compagnia, in modo che questa poteva rassomigliarsi più che a un'organizzazione militare, a un'associazione commerciale, pronta a sbandarsi al più piccolo incidente, dato che nessun vincolo, tranne il tornaconto personale, legava tra loro capi e gregarî. Molto più salde erano invece le compagnie di ventura italiane. Anzitutto esse erano formate direttamente dal condottiero. A differenza delle compagnie straniere, ove i gregarî venivano pagati con la divisione dei bottini, in quelle italiane era il capitano che armava e pagava i militi, e quindi egli era il capo esclusivo e assoluto; questa maggior forza di comando si risolvette in una maggiore stabilità della compagnia e, per conseguenza, in un migliore rendimento.

Le compagnie potevano essere ingaggiate in tre modi: a soldo disteso, quando il capitano s'impegnava a servire attivamente con un determinato numero di cavalli, in sott'ordine al capitano generale; a mezzo soldo, quando il condottiero, senza passare la mostra, guerreggiava direttamente sulle terre nelle quali era inviato; in aspetto (forma già accennata), quando per una piccola paga il capitano s'impegnava di rimanere a disposizione per un eventuale impiego. Quest'uluma forma poteva cambiarsi in raccomandigia quando si concordavano due paghe, una più piccola per il periodo di pace, durante il quale il compito del capitano si riduceva alla protezione dei dominî del signore, e una più grossa in caso di guerra.

Non solo la maggiore stabilità delle compagnie di ventura italiane consentì un più completo addestramento, un affiatamento più intimo, una pratica più costante ed efficace della disciplina, ma s'istituì fra le diverse compagnie italiane - vere scuole d'armi - una gara di prevalenza cui non era estraneo lo spirito di concorrenza commerciale (la miglior fama aprendo la via a collocamenti più redditizî) ma che aveva per principale fondamento l'emulazione. Ciascuno cercò di perfezionare l'armamento, l'addestramento, le ordinanze delle battaglie offensive e difensive, gli accorgimenti per generare le sorprese; né mancarono barlumi di concepimenti strategici quando molte compagnie riunite per una medesima impresa si trovarono sotto il comando di un solo capitano, come avvenne - ad esempio - quando il Visconti mosse guerra a Bologna per aprirsi la via verso Firenze. Nasce così da queste compagnie di ventura italiane il fenomeno caratteristico del cosiddetto condottierismo (v. condottieri).

Verso la metà del sec. XV le compagnie di ventura cominciarono a essere sopraffatte da nuovi ordinamenti militari imposti dalle mutate condizioni politiche. I condottieri italiani, oltre che capi audaci e autorevoli, furono buoni organizzatori. Mostrarono mente direttiva, sicurezza di accorgimenti preventivi, sane idee sull'essenza della lotta, che non può essere ridotta alla forma primitiva dell'urto frontale, ma richiede disposizioni complesse, suggerite dalle circostanze più che da formule preconcette, nel che appunto consiste l'arte.

La rinascita della fanteria, le armi da fuoco e gl'inizi dell'arte bellica moderna. - Il mutamento decisivo, che segna il trapasso dall'arte della guerra medievale a quella moderna, fu dovuto principalmente agli Svizzeri. E il mutamento consistette precisamente nella supremazia, rinnovata dopo 10 secoli, della fanteria. La stessa natura del suolo e la particolare costituzione politico sociale di quello stato, facevano sì che non su cavalieri armati come quelli feudali potessero contare gli Svizzeri per la difesa del loro territorio, bensì soltanto sull'uomo a piedi; ma la grande innovazione, destinata a rivoluzionare l'arte della guerra, consistette appunto nell'inquadrare i fanti in un corpo saldamente costituito nelle sue parti (il battaglione svizzero), il primo corpo tattico veramente organico dopo le legioni romane.

Gli Svizzeri si ordinarono, per combattere, in grosse formazioni quadrate. Né la configurazione montuosa della loro patria fu di ostacol0 a questa massiccia compattezza, dato che il nemico che ebbero dapprima a combattere, costituito da sola cavalleria, non poteva essere incontrato che nelle vallate sufficientemente spaziose. Il battaglione svizzero presentava una profondità di una ventina di uomini e una forza variabile che giunse alcune volte ai 10.000 armati. Tra uomo e uomo vi erano distanze sufficienti perché gli spadieri e i picchieri potessero uscire dalla formazione; per resistere all'urto della cavalleria, gl'intervalli venivano serrati in modo che il battaglione si presentava come una muraglia di picche. I balestrieri si disponevano normalmente sui fianchi, costituendo le ali o le maniche dell'ordinanza; più tardi, con l'adozione delle armi da fuoco, vennero sostituiti con colubrinieri e moschettieri.

L'esercito svizzero si formava ordinariamente in battaglia su tre battaglioni; di questi, il centrale iniziava per primo la lotta, mentre gli altri due entravano in azione in un secondo tempo, o a sostegno del primo, o agendo sui fianchi del nemico. Eccezionalmente il combattimento era iniziato da uno dei battaglioni d'ala, o da tutti e due contemporaneamente, rimanendo quello centrale in riserva. Durante le marce il primo battaglione costituiva avanguardia, il secondo corpo di battaglia e il terzo retroguardia. Gli Svizzeri furono tra i primi ad adottare le artiglierie: caratteristiche alcune carrette armate (hagel buchse) i cui cannoni, in numero di nove o più, lanciavano palle di piombo. Con l'accennato ordinamento, i montanari svizzeri poterono prima, nel sec. XIV, liberarsi dalla dominazione asburgica; di poi, nella seconda metà del sec. XV, fiaccare la potenza di Carlo il Temerario duca di Borgogna; le battaglie di Morgarten, Sempach, Grandson e Morat, sono le tappe gloriose della fanteria svizzera; specialmente significative le ultime due, perché ottenute contro un esercito come quello borgognone, ch'era un tipico esempio di esercito di cavalieri, e per rafforzare il quale Carlo il Temerario aveva anche chiamato presso di sé condottieri italiani, maestri della cavalleria. Poco dopo, nelle guerre d'Italia, specie tra il 1500 e il 1515, le fanterie svizzere si acquistarono definitivamente una fama europea; e sul loro modello sorsero i lanzichenecchi, a loro volta celebri e ricercati dai varî principi europei.

L'esempio della Svizzera era stato seguito in Germania, e già al principio del sec. XV la fanteria aveva parte importante nell'esercito. Meglio organizzata poi dall'imperatore Massimiliano I, la fanteria tedesca prese il nome di lands-knecht o lanz-knecht (fanti del paese o paesani lancieri) dal quale poi derivò il vocabolo francese lansquenet e quello italiano di lanzichenecchi o lanzi. I fanti tedeschi, come gli svizzeri, combatterono in grossi squadroni o battaglioni variamente costituiti.

Anche in Francia con le riforme di Carlo VII vennero costituite verso la metà del sec. XV le truppe a piedi. Già nel 1445 il re, desideroso di sostituire le milizie feudali e comunali e di porre termine alle prepotenze delle compagnie di ventura, aveva voluto organizzare una milizia stabile dandone incarico a quindici dei più rinomati condottieri. Questi scegliendo fra gli uomini delle loro masnade i migliori, costituirono 15 ordinanze di uomini d'arme (gendarmes) composta ciascuna di 100 lance fornite (un gendarme o cavaliere, un paggio o valletto, un coltelliere e tre arcieri), in tutto 600 uomini per ordinanza, con un capitano, un luogotenente, un guidone e un'insegna. Successivamente il numero delle ordinanze fu aumentato, venendo però diminuito il numero delle lance fornite di ognuna di esse. Tre anni dopo, e cioè nel 1448, vennero istituiti i reparti a piedi dei franchi arcieri, armati e pagati dalle parrocchie in ragione di un uomo ogni cinquanta fuochi. Il fante riceveva una paga mensile di 4 franchi ed era esentato dalle tasse; aveva l'obbligo d'esercitarsi tutte le feste all'uso delle armi e tenersi prontti a prestare servizio a ogni richiesta. Era armato di arco o balestra, spada, celata e giacca di cuoio. Furono così ingaggiati 16.000 uomini divisi in quattro capitanerie generali, composta ognuna di otto bande di 500 uomini; ogni banda si suddivideva, a sua volta, in quattro drappelli o quartieri. Al comando di ogni drappello era preposto un luogotenente, e le quattro capitanerie erano alla dipendenza di un comandante generale. Anche queste truppe combattevano in formazioni a massa precedute e fiancheggiate da fanti armati d'archibugio (enfants perdus). Le ordinanze di uomini d'arme e le milizie dei franchi arcieri vennero poi sciolte da Luigi XI che preferì le agguerrite fanterie svizzere.

È di questo periodo l'introduzione delle prime armi da fuoco; le prime notizie che si hanno in proposito risalgono a documenti fiorentini del 1325. È certo che nel 1346 gl'Inglesi a Crécy usarono 6 bombarde. Per qualche tempo le armi da fuoco furono adoperate come armi di posizione e solamente nel 1530 come armi portatili. La loro imperfezione però non influì sensibilmente sugli organismi e sulla tattica delle fanterie, che continuarono a impiegare le formazioni a massa introdotte per primi dagli Svizzeri; unico risultato fu quello di far iniziare il combattimento da maggior distanza col fuoco dei moschettieri, restando ai picchieri la risoluzione del combattimento con l'urto. Maggiore influenza invece ebbero le armi da fuocti sull'azione della cavalleria: questa dapprima cercò un appoggio nei moschettieri con i quali combatté frammischiata, e un riparo con l'uso di corazze a prova di proiettili; ma successivamente si armò di moschetto e di pistola combattendo anch'essa col fuoco.

Le milizie nazionali. - In quegli stessi secoli XV e XVI, che vedono il riaffemmarsi della fanteria, si hanno pure nell'Europa occidentale i primi tentativi di dar vita a un'organizzazione di eserciti nazionali. In Francia se n'ebbe un primo segno nel sec. xV da parte di Carlo VII con l'istituzione accennata dei franchi arcieri; in Germania con l'organizzazione, per opera di Massimiliano I, di milizie paesane. Più decise affermazioni in questo senso si hanno con Luigi XI, la cui politica è volta all'interno ad appoggiare la monarchia al popolo, solo mezzo per aver ragione dei feudatarî. Traendo esempio dalle più celebri milizie svizzere, egli sposta il centro di gravità delle forze armate dalla cavalleria alla fanteria. Fonda un campo d'istruzione a Pont de l'Arche e affida i fanti a istruttori elvetici, costituendo "bande" di circa 800 uomini - come i battaglioni moderni - che invia di guarnigione ai confini settentrionali del regno (Piccardia). Ogni banda ha 4 insegne, corrispondenti alle attuali compagnie. Nel secolo seguente, sotto Francesco I si avranno le legioni; e poi ancora il duca di Guisa provocherà da Carlo IX, poco dopo la metà del Cinquecento, la riunione di tre bande per formare il reggimento. Al principio del Seicento, sotto Enrico IV, si contano già 13 reggimenti di milizie nazionali.

In Italia tentativi simili furono compiuti verso la metà del sec. XV dalla repubblica veneta e da Ercole d'Este. Tentativi tutti falliti, ché da troppo tempo le popolazioni erano disavvezze all'uso delle armi e troppo debole ancora era in esse il sentimento di disciplina e l'amor di patria. La prova fu ritentata, e questa volta con maggior foituna, nel 1506 da Firenze durante la guerra contro Pisa. Per suggerimento del Machiavelli si decretò l'arruolamento di 10.000 fanti, scelti fra i giovani atti alle armi della città e del contado. Nel 1512 furono arruolati 500 cavalleggieri divisi in bandiere di 50 uomini ciascuna. Altri stati d'Italia seguirono l'esempio di Firenze, tanto che verso la fine del Cinquecento quasi tutti avevano milizie bene organizzate. Eccellenti quelle piemontesi di Emanuele Filiberto.

Tuttavia bisogna riconoscere che i risultati pratici furono in un primo tempo assai scarsi. I franchi arcieri diedero di sé pessima prova (Guinegate, agosto 1479); la milizia del Machiavelli a Prato, nel 1512, si sbandò subito; le legioni di Francesco I, anch'esse, fallirono alla prova. In definitiva, alle milizie nazionali potevano allora essere affidati i compiti dell'odierna milizia territoriale; ma l'elemento decisivo dal punto di vista bellico rimase ancora costituito dai professionisti, dai mercenarî. Sempre più invece s'impose la fanteria, anche per il progresso delle armi da fuoco. Diviene sempre più evidente la convenienza di sopraffare il nemico con la quantità dei proiettili, il che può solo ottenersi coi fanti. Ne conseguono ordini tattici e procedimenti di manovra intesi a diminuire nelle proprie schiere le perdite dovute al fuoco e ad accrescere l'effetto del proprio fuoco sulle schiere avversarie.

A Maurizio di Nassau deve attribuirsi il merito di avere per primo evitate sul campo di battaglia le grosse e pesanti masse di fanteria sino allora usate, e di avere in loro vece adottato un ordine di battaglia che aveva molte analogie con la legione manipolare romana. L'unità tattica della fanteria olandese fu il battaglione, che non sorpassò mai i 500 uomini di forza, costituito da compagnie di 100 uomini ciascuna. I battaglioni furono di costituzione omogenea: di soli moschettieri o soli picchieri. L'esercito veniva disposto normalmente su tre linee in ognuna delle quali i battaglioni di picchieri erano alternati a quelli di moschettieri. La distanza fra 1ª e 2ª linea era di 300 passi, fra 2ª e 3ª di 500. In ciascuna linea i battaglioni erano disposti in corrispondenza degl'intervalli della linea antistante. Tuttavia, le precedenti forme tattiche non potevano di colpo essere annullate. Il periodo di trapasso durerà fino alla metà del Settecento, quando l'azione col fuoco dominerà decisamente il campo di battaglia.

Primeggiarono in quest'epoca le istituzioni militari spagnole, tanto per la bontà delle loro fanterie (che spesso poterono avere il sopravvento su quelle svizzere e tedesche), quanto per i procedimenti tattici e l'ordinamento amministrativo che furono ben presto imitati.

Lo schema tipico degli eserciti completi o reali, come allora si chiamarono, fu sulla base di 40.000 fanti, 6000 cavalleggieri, 4000 stradioti, 4000 archibugieri a cavallo e 2000 uomini d'arme. Più tardi s'introdussero anche i dragoni, istruiti per combattere a piedi col fuoco e a cavallo con l'urto.

A capo dell'esercito era il capitano generale dal quale dipendevano, per l'amministrazione un castaldo generale, un pagatore generale, un commissario generale dei viveri e un venditore generale incaricato di riscontrare i ruoli, di sorvegliare le compere e le rassegne. Per l'addestramento e la condotta delle operazioni, il capitano generale aveva alla propria dipendenza diretta un maestro di campo generale, un capitano generale della cavalleria e un generale dell'artiglieria; a ognuno di questi ultimi due erano sottoposti un auditore, un foriere maggiore e un capitano di compagnia. Il-generale di artiglieria era a sua volta coadiuvato da due luogotenenti, mentre dipendevano dal capitano generale della cavalleria un luogotenente generale e un commissario generale che avevano ai loro ordini rispettivamente una compagnia d'uomini d'arme e una di artiglieria a cavallo. Al commissario generale era particolarmente affidato il compito di sorvegliare i posti avanzati, di eseguire le perlustrazioni e le scorte; a lui spettava anche il comando di tutta la cavalleria in assenza del capitano generale della cavalleria e del suo luogotenente. Dal maestro di campo generale dipendevano due luogotenenti e un sergente maggiore generale incaricato del governo delle schiere, mentre un quartiermastro con due aiutanti avevano il compito di predisporre e sorvegliare gli alloggiamenti, Dipendevano inoltre dal maestro di campo generale il capitano delle guide, il prevosto generale e, in parte, anche l'auditore generale che presiedeva alla giustizia criminale per tutto l'esercito. In sostanza, nelle mani del maestro di campo si concentrava la direzione dell'esercito e la sua azione era tanto più importante, in quanto non esisteva una codificazione delle norme tattiche e strategiche, ossia mancava quella che oggi si chiamerebbe una dottrina delle grandi unità.

L'introduzione delle nuove armi da fuoco, per quanto quelle da getto non fossero state del tutto abolite, aveva creato un'enorme confusione; alla mancanza di sicura esperienza si era voluto rimediare con l'adottare antiche regole alle nuove esigenze. Così, proprio in quel periodo, si ricorse a viete forme geometriche per le evoluzioni delle schiere e a molteplici denominazioni, chiara espressione di formalismo (forbice, cuneo, scorpione, girandola, rombo, torrione, ecc.), mentre per le formazioni di combattimento si rimisero in auge il naspo, la croce, la dentata, la quadrodentata, il gambero, il gamberello, il ventolo, il molinello, la battaglia quadra (sbarrata, crociata, cornuta), la luna scema, il cun-o concavo, la forma ovata, la circolare, la bislunga.

La fanteria venne divisa in corpi di due o tremila uomini ciascuno, chiamati dapprima reggimenti (al comando di un colonnello) e poi terzi (al comando di un maestro di campo). Ogni terzo si suddivideva in 10, 15 o 20 compagnie di circa 100 uomini ciascuna; successivamente la forza della compagnia venne elevata a 250, 300 e anche a 500 uomini. La compagnia si componeva generalmente di due terzi di archibugi e moschetti e di un terzo di picche. Nelle evoluzioni della compagnia precedeva il primo terzo di archibugieri guidati dal luogotenente; due o tre tamburini tra la seconda e la terza riga marcavano il passo. Veniva quindi il capitano seguito dai picchieri, alcuni tamburini, l'insegna e poi il secondo terzo di archibugieri comandato dal sergente.

L'arte della guerra degli Ottomani. - Mentre nell'Europa centrale e occidentale si andavano in tal modo costituendo con fatica gli eserciti delle monarchie nazionali, nell'Oriente un popolo vigoroso e unito, guidato da sovrani audaci e di larghe vedute, si avanzava - con la forza di ordinamenti sociali e guerreschi fusi insieme - alla conquista della vecchia Europa. Gli ordinamenti militari degli Osmanli nel Cinquecento e nel Seicento sono una manifestazione di primaria importanza, considerati sia intrinsecamente, sia alla stregua dei risultati conseguiti; e mal si comprende il silenzio della quasi totalità dei trattatisti di storia dell'arte guerresca.

Alla fine del regno di Solimano il Grande, il territorio era ripartito in 19 luogotenenze i cui reggitori (beilerbef) avevano funzioni analoghe a quelle dei proconsoli romani. Ogni luogotenenza comportava vario numero di sangiaccati (in tutto 250), con successivi feudi maggiori (siyāmet) e feudi minori (tīmār). Il feudatario forniva, per la guerra, uomini e cavalli a seconda delle rendite. Una parte dell'esercito era permanentemente alle armi. Nocciolo della fanteria erano i giannizzeri (v.). A fianco della fanteria era l'artiglieria con abbondante e buon materiale, con un comandante (generale o ispettore), un capo del servizio tecnico e uno del servizio amministrativo, e numerosi arsenali. Verso la seconda metà del '600 l'artiglieria leggiera fu cammellata. Numerosissima la cavalleria. In essa notevole la specialità dei ciāush, cavalleria di collegamento o di trasmissione. Inesorabile la disciplina, severe le pene, largamente concesse le ricompense.

Strategicamente fu praticato il concetto della manovra centrale, con protezioni laterali di distaccamenti e massa principale riunita. Si evitava il più possibile la guerra di posizione, e si cercava la battaglia in campagna aperta: segno caratteristico della buona arte.

Per la mobilitazione delle forze che non erano alle armi in permanenza, bastava l'ordine del gran visir (capo del governo e comandante supremo dop0 il sultano) trasmesso via via lungo la scala della gerarchia feudale, ciascuno aggiungendovi l'indicazione del giorno e del luogo dell'adunata per i proprî dipendenti. L'adunata generale veniva compiuta nella zona strategicamente più favorevole, per il buon inizio delle operazioni.

Quanto ai procedimenti tattici, essi traevano ragion d'essere dalle doti aggressive dei soldati, benché le formazioni (a carattere falangitico per il prevalere del concetto della massa) mancassero di elasticità e leggerezza. Tuttavia, mentre si cercava di ottenere fin dal principio della battaglia la superiorità sul fronte d'attacco, non erano trascurati né lo scaglionamento in profondità né la costituzione di riserve generali. Un dispositivo di attacco preferito dai Turchi era quello ad arco concavo, con fanti e cannoni al centro, cavalleria alle ali. La marcia d'avvicinamento era in colonna con cavalleria all'avanguardia, seguita dai fanti, dall'artiglieria e, successivamente, dai parchi per rifornimento delle munizioni, dalla fanteria ausiliaria, dal carreggio e dalla retroguardia. Accurati i servizî logistici e ricche le dotazioni tecniche. I servizî al seguito delle colonne marcianti furono in parte carreggiati, in parte someggiati. Nelle soste non si trincerava il campo principale, ma lo si proteggeva con campi minori, avanzati, costituiti dalle avanguardie che si mutavano in avamposti, quasi sistema di fortini staccati.

Riassumendo: organismo solido e compatto; autorità di comando esercitata su truppe che disprezzavano la morte, considerata premio divino; procedimenti strategico-logistici appropriati al movimento di grandi masse e adeguati al terreno; formazioni tattiche non molto pieghevoli, con prevalenza della cavalleria sulla fanteria, ciò che portò a un grave consumo di forze contro eserciti più consci delle nuove esigenze del campo di battaglia e delle forme imposte dall'uso efficace del fuoco; ma, in complesso, ordinamenti e procedimenti di azione che assicurarono all'impero ottomano oltre un secolo di grandezza militare e politica.

L'arte di Gustavo Adolfo. - Notevoli progressi nell'arte della guerra sono dovuti nel Seicento a Gustavo Adolfo II (v.) re di Svezia, innovatore audace, cui solo la morte prematura impedì di perfezionare il sistema di guerra.

Le guerre di religione conferiscono ai procedimenti tattici un nuovo carattere: le qualità topografiche del suolo sono meglio utilizzate, si cerca il massimo rendimento nella fusione della fanteria, della cavalleria e dell'artiglieria, in modo che ciascuna di esse dia il massimo sforzo che le è possibile senza inceppare l'azione delle altre, anzi favorendola; infine s'impongono, per bilanciare l'inferiorità del numero, gli strattagemmi, le manovre, le sorprese e conseguentemente l'uso di riserve le quali soltanto permettono di moltiplicare le combinazioni del giuoco tattico, come di quello strategico. La caratteristica dell'arte bellica di Gustavo Adolfo si riassume nell'accresciuta mobilità, tanto più appariscente in quanto gli eserciti cattolici - abbarbicati a metodi inveterati - vollero conservare organismi pesanti, inadatti alle manovre in terreno vario, e perciò inclini ad appoggiarsi al terreno (guerra di posizioni) e a rimanervi aggrappati (tendenze difensive). Gustavo Adolfo attuò un complesso di riforme che dovevano portarlo a rapide manovre nel campo strategico e sul terreno tattico e conseguentemente alla sorpresa, primo fattore di vittoria.

La strategia di Gustavo Adolfo si svela in tutta la sua potenza nella guerra contro l'Impero per l'egemonia nell'Europa centrale. All'inizio della guerra la prudenza gli è comandata così dalla necessità di assicurarsi una base di rifornimento sulle coste baltiche, come dalla convenienza di attrarre a sé una parte dei principi germanici. Poi la sua strategia prende il ritmo deciso delle operazioni dei grandi capitani. Napoleone scriverà essere stato Gustavo Adolfo esempio di ardimento e di celerità, secondo i principî di Alessandro, di Annibale, di Cesare. La sua guerra offensiva si spinse molto lontano dalle basi, e questo - date le scarse comunicazioni di quei tempi - lo obbligò ad assediare le fortezze che sbarravano le principali arterie stradali e fluviali. Sul campo di battaglia furono caratteristiche dell'arte di Gustavo Adolfo il conseguito ordinamento fra l'azione delle varie armi e l'uso tempestivo delle riserve. Ma l'eccellenza del suo comando derivò soprattutto dall'ascendente ch'egli acquistò sui suoi uomini, innanzi ai quali si mostrò sempre primo al pericolo.

L'Arte di Federico II. - Aumento della proporzione di mercenarî nell'esercito rispetto al numero degli obbligati di leva; grande importanza assegnata all'assalto con la baionetta (pur senza disconoscere l'efficacia dell'azione di fuoco); nuovo ordinamento organico e tattico della cavalleria, sono, come più diffusamente si è visto altrove (v. federico 11, XIV, p. 956), i cardini delle riforme adottate da Federico II per l'esercito prussiano. Basterà, a quanto si è già detto, aggiungere qui pochi dati.

Fu cura precipua di Federico II di consolidare l'inquadramento dell'esercito. Pur mantenendo come base normale di reclutament0 degli ufficiali (accademia di Berlino) la provenienza da famiglie nobili, aprì largamente le porte alla borghesia per la quale istituì la scuola dei cadetti; costoro, raggiunto il grado di sottufficiale, erano inviati ai reggimenti. dove - dopo un certo tempo di tirocinio alle truppe - conseguivano, se meritevoli, le spalline. Per l'avanzamento adottò largamente il criterio della scelta che le frequenti guerre gli consentirono di applicare a ragion veduta. Federico II aveva fatto suo il detto del principe Maurizio di Sassonia che "un mulo, anche se ha fatto venti campagne sotto il principe Eugenio non diventa miglior tattico per questo e resta sempre un mulo". L'anzianità non può costituire, a sé, titolo a comando superiore. Specialmente Federico II ebbe cura di avere ottimi capitani comandanti delle compagnie. Sollevò il morale dei gregarî, evitando loro le inutili compressioni di una disciplina che sotto Federico Guglielmo I era eccessivamente rigida nella parte formale, e limitò gl'insegnamenti da impartire agli uomini di truppa al solo necessario, purché quel poco sapessero bene.

Alla maggiore celerità di tiro, all'aggressività come norma per l'atto conclusivo della lotta, la fanteria di Federico II accoppiò una maggiore scioltezza di formazioni: linea normale di combattimento su tre righe, intervalli fra i reparti in modo da poter formare la linea di battaglia in qualsiasi direzione con semplici movimenti di conversione e impiegando anche talvolta le colonne in formazioni serrate ottenendone, nella marcia al nemico, un più rapido spiegamento sulla testa. Tutte codeste evoluzioni per riuscire senza sovrapposizioni o senza lacune, richiedevano un rigoroso rispetto delle distanze e degl'intervalli, e la fanteria prussiana riuscì anche in questo eccellente. In verità queste riforme relative alla fanteria erano già iniziate all'avvento al trono di Federico II, il quale ebbe soltanto a perfezionarle. I frutti delle nuove regole si videro in tutta la loro pienezza durante la guerra dei Sette anni, dove le brillanti audacissime cariche a massa, condotte da capi che avevano l'improvvisa intuizione del momento psicologico più opportuno, furono spesso il fattore determinante della vittoria.

Un'innovazione che aumentò il rendimento dell'artiglieria fu l'abbandono dell'uso, secondo il quale i cavalli delle batterie erano lasciati in tempo di pace a servizio dell'agricoltura, sicché al momento di usarli in guerra erano quasi sempre in condizioni depresse. Tenendoli permanentemente alle batteria, si ebbe, oltre al vantaggio di una migliore conservazione e di un miglior allenamento dei quadrupedi allo speciale servizio, anche quello di preparare contemporaneamente i conducenti, che prima s'improvvisavano con ingaggio di elementi di poco o nessun valore.

Nel campo dei servizî, il sistema allora in atto di rifornire le truppe (munizioni da bocca e da fuoco) mediante la costituzione di magazzini fissi, collegati ai corpi operanti mediante colonne di carriaggi, vincolava le mosse alle principali comunicazioni stradali e fluviali, con l'aggravante che i magazzini, con la loro ubicazione necessariamente disposta con qualche anticipo di tempo, rivelavano all'avversario che avesse potuto individuarli (e la cosa non era difficile) la direzione delle manovre strategiche e conseguentemente il progetto operativo. Federico II diminuì la consistenza dei magazzini riducendoli a soli depositi di farina e cercò anche di nasconderne il più possibile l'esistenza; prescrisse che il rifornimento dei magazzini stessi fosse fatto preferibilmente con incette nelle località circostanti anziché con invii dall'interno del paese. I magazzini rifornivano i forni di campagna, dai quali le truppe prelevavano il pane. Il soldato portava con sé tre giornate di pane e altre 6 ne portavano i carri dei reggimenti; nove in totale. Ne veniva che quando le truppe dovevano scostarsi più di cinque giornate di marcia dai forni (5 giorni di andata e 4 di ritorno) questi dovevano essere portati innanzi. Il sistema fu chiamato "delle cinque marce", rappresentando queste il grado di autonomia delle truppe rispetto ai magazzini e ai forni.

Come stratega Federico II si è perfezionato durante le guerre da lui stesso condotte: Nella prima campagna di Slesia (1741) la sua direzione strategica non è scevra di difetti tecnici di rilievo (come egli stesso francamente ammise). E nella seconda campagna (1744) è costretto dalla maggior perizia dello stratega avversario, il maresciallo austriaco Daun, a sgombrare la Boemia. Per l'insufficienza del sistema di sicurezza, i campi prussiani furono più volte sorpresi e le comunicazioni coi magazzini minacciate o intercettate; né Federico seppe provocare l'avversario a battaglia decisiva, praticando, invece, la vecchia schermaglia delle manovre al largo. Nel 1745 s'inizia il successo della tattica federiciana, più svelta in tutte le sue parti, sulla pesante tattica avversaria; e anche gli accorgimenti nella condotta strategica evitano le principali lacune dell'anno precedente, senza essere ancora la brillante geniale condotta che si manifesterà durante la guerra dei Sette anni, cominciata nel 1756.

La seconda campagna di questa guerra (1757) è tipica nella strategia e nella tattica federiciana: essa ci mostra Federico nell'attuazione di successive manovre per linee interne. I suoi numerosi nemici, che hanno forze più che doppie delle sue, sono però largamente distanziati, né sono in grado d'iniziare contemporaneamente la guerra. Allora Federico attacca l'Austria e invade la Boemia per due linee di operazione che confluiscono a Praga. Battuto il principe di Lorena e bloccata la piazza, si volge contro l'armata di soccorso, l'attacca, ma è battuto a Kolin. Rifattosi delle perdite subite, si getta di nuovo contro il principe di Lorena, ma lo trova in così forte posizione, che rinunzia alla battaglía, dopo di che ritorna verso nord e attacca l'esercito francese, rafforzato dagl'imperiali, cui infligge la sconfitta di Rossbach e finalmeute si volge contro gli Austriaci della Slesia e li batte a Leuthen. Strategia movimentata, anche se non sempre fortunata, che fu a Federico possibile per il grado di preparazione tecnica e di agilità cui aveva portato le unità di truppa. Questi e altri perfezionamenti formali sussidiarono gli elementi fondamentali del successo: le qualità di tenacia e prontezza del capo e il suo ascendente sui sottoposti.

L'esercito regio in Francia allo scoppio della Rivoluzione. - In Francia le istituzioni militari avevano subito l'immediata influenza della Prussia dopo le vittorie di Federico il Grande, la cui arte militare fatta di decisione e di movimento - risultato di alte energie spirituali e di conoscenze tecniche - non poteva a meno d'imporsi. Tanta fu l'ammirazione per Federico che non si scorsero neppure alcuni difetti del suo metodo di guerra, fra i quali, notevole, quello della scarsa elasticità nelle formazioni di combattimento. Parve che la costante applicazione dei principî federiciani nella medesima forma in ogni azione, contenesse il segreto del successo prussiano. Insomma s'inclinò a credere nell'esistenza di formule fisse buone per qualsiasi caso e che l'essenza della strategia e della tattica fosse nel processo organizzativo, nel minuto addestramento delle truppe e nelle sagge ordinanze di battaglia. Questo conferire gran peso alla parte formale dell'arte dei grandi capitani, si ripeterà - come vedremo - dopo Napoleone.

Nella Francia di Luigi XVI, gli uomini che più attivamente si dedicarono all'impresa di dare all'esercito un'organizzazione rispondente ai tempi, quasi interamente deducendola dai metodi prussiani, furono soprattutto il D'Argenson, il Choiseul, e il Saint-Germain, quest'ultimo in particolar modo applicatosi a copiare il sistema di Federico II. D'Argenson e Choiseul riorganizzarono i varî servizî tecnici e amministrativi e migliorarono notevolmente la condizione materiale e morale del soldato; più particolarmente si deve al D'Argenson il riordinamento del servizio sanitario, l'unione della direzione delle fortificazioni al Ministero della guerra, la fondazione della scuola reale militare di Parigi e di quella del genio di Mézières, l'organizzazione dei granatieri (su quattro brigate) e l'istituzione delle legioni di truppa leggiera. Choiseul determinò il numero delle unità nella composizione dei corpi (fino allora variabile), avocò allo stato il reclutamento e il mantenimento delle compagnie, regolò con norme fisse gli avanzamenti, determinò le pensioni dei soldati, fondò la scuola veterinaria d'Alfort e 6 scuole di cavalleria. Al Saint-Germain si deve l'istituzione di 10 collegi militari per l'istruzione preparatoria, la creazione di un supremo comitato consultivo (Consiglio della guerra) che ebbe, fra gli altri, il compito di determinare i contingenti permanenti (tabelle organiche) delle grandi unità, e anche l'istituzione dei consigli d'amministrazione; inoltre il Saint-Germain soppresse definitivamente l'assegnazione delle compagnie come proprietà ad personam e proibì la vendita dei gradi inferiori. Ma questo riformatore, introducendo le punizioni corporali, alienò agli ufficiali l'affetto dei soldati, cosa che nocque all'affiatamento fra capi e gregarî in un momento particolarmente difficile per il regime. Tale stato d'animo si aggravò quando Luigi XVI escluse i non nobili dalla classe degli ufficiali.

In seguito alle accennate riforme degli ultimi anni del regno di Luigi XVI, allorché nel 1789 ebbe inizio la Rivoluzione, l'esercito francese comprendeva un totale di 260.500 uomini così ripartiti: milizie provinciali (77.000), 29 reggimenti e 78 battaglioni di guarnigione; guardie del corpo del re (10.000), 2 reggimenti; esercito attivo (173.500), composto di 102 reggimenti di fanteria (oltre a 12 battaglioni di fanteria leggiera e 7 reggimenti delle colonie), 61 reggimenti di cavalleria, 7 reggimenti di artiglieria (oltre a 19 compagnie minatori e operai). Caratteristiche tecniche di rilievo: tutte le truppe di fanteria con armi dello stesso calibro; un materiale di artiglieria bene adatto al servizio di campagna, in quanto conciliava potenza e mobilità. La formazione dei fanti era su 3 ranghi e quella della cavalleria su due; il fuoco si eseguiva per plotone o a volontà; le manovre soddisfacevano alle necessarie condizioni di rapidità e semplicità. Ma l'innovazione organica di maggior interesse compiuta dal SaintGermain nel 1776, era stata la creazione di 16 divisioni, allo scopo di evitare l'improvvisazione delle maggiori unità tattiche all'inizio della guerra. Il Consiglio di guerra nel 1788 aveva poi riorganizzato quelle divisioni e le aveva portate a 21, separandole per arma; infine, aveva diviso anche il territorio in altrettanti dipartimenti militari con reclutamento regionale, sì che ogni divisione ebbe truppe del territorio di sua residenza.

Particolarmente sensibile fu l'influenza prussiana sui procedimenti tattici, i cui principî furono consacrati in un regolamento edito nel 1791 (e cioè durante la prima fase della Rivoluzione), il quale deve considerarsi opera del vecchio regime, perché risultato di una lunga serie di discussioni durate tutto il ventennio precedente, quando una parte degli scrittori e dei capi militari propendeva per l'integrale applicazione dei metodi prussiani con i relativi ordini (sottile, lineare e obliquo), e un'altra sosteneva per bocca del suo miglior rappresentante, il generale Ménil-Durand, la necessità d'introdurre l'ordine profondo o perpendicolare, che comportava l'urto finale alla baionetta ed escludeva lo spiegamento dei battaglioni se non in casi eccezionali e solo per esecuzione di fuoco. Per venirne a capo il re aveva ordinato nel 1787 l'esecuzione di esperimenti su vasta scala, e si era concluso con una soluzione di compromesso, nella quale però i principî prussiani ebbero la prevalenza. In definitiva il regolamento del 1791 comportava: formazione di combattimento su due linee spiegate; cavalleria di sostegno sulle ali della fanteria; manovra per linee spiegate o per linee di colonne a distanza intera; ammesse le formazioni in quadrato di varî battaglioni riuniti; assenza di riserve tattiche. Manca, cioè, il concetto dello scaglionamento in profondità, al quale però si finirà con il ricorrere frequentemente, sotto l'impero della realtà del combattimento. Dal lato morale, il più grave dei difetti era quello, accennato, del distacco tra ufficiali e gregarî; ma fra gli stessi ufficiali - tutti nobili - l'armonia non era completa, specie perché i gradi elevati venivano concessi solo per favore di corte. Le diserzioni nei corpi di truppa erano frequenti. Infine mancava un'autorità superiore energica e fattiva. Da queste condizioni di cose non si poteva uscire per la via dei perfezionamenti della regolamentazione e delle ben combinate manovre; le quali richiedono sempre l'animosa partecipazione dell'uomo, che solo può tradurre in opere i principî.

La Rivoluzione. - La Rivoluzione francese immise nell'esercito quello stesso popolo che aveva chiamato a partecipare al governo della cosa pubblica. Si costituirono organismi di tipo nuovo accanto a ciò che rimaneva dell'esercito regio, subito caduto in grave crisi. Furono infatti numerose le rivolte dei soldati e molti ufficiali furono trucidati; molti altri si salvarono con l'emigrazione. Ma l'imminenza della guerra con l'Austria costrinse ben presto l'Assemblea costituente a dare alla Francia un organismo armato che potesse difenderla.

In seguito ai provvedimenti adottati l'esercito si trovò nel 1791 ad avere 150.000 uomini di linea, 100.000 dell'esercito ausiliario volontario e la guardia nazionale. I 150.000 uomini dell'esercito di linea erano ripartiti in 110.000 di fanteria, 30.000 di cavalleria, il resto fra artiglieria e genio. Si stabilì che le promozioni si facessero per anzianità fino a capitano; poi in modo misto, ad anzianità e a scelta. I sottufficiali venivano designati dai camerati.

Le prime masse mandate alla guerra dalla Rivoluzione sorpresero, con l'impeto e con le forme inusitate del combattere, i nemici della Francia accorsi in armi per sostenere il principio della monarchia di diritto divino; e furono le vittorie di Dumouriez nel 1792. Ma l'aggravata situazione internazionale, conseguente all'esecuzione di Luigi XVI, addensando sulla Francia nuovi pericoli, impose una migliore organizzazione delle forze armate come delle complesse attività dello stato. Si dovette addivenire alla leva in massa, stabilendosi il principio (23 agosto 1793) che tutti i Francesi dovessero considerarsi in stato di requisizione permanente.

Furono improvvisate fabbriche d'armi nelle aree dei pubblici passeggi e negli edifici privati di maggiore ampiezza; si moltiplicarono le fonderie; si accrebbe la disponibilità del nitro cercandone dovunque nei sotterranei (la disponibilità di questo sale poté essere più che decuplicata); si costituirono le maestranze mobilitando meccanici, fonditori, operai di precisione, orologiai. Ai viveri, all'alloggio e al vestiario si provvide mediante requisizioni. I più noti scienziati furono chiamati a contributo della tecnica militare. Chimici come Chaptal e Berthollet ricercarono surrogati per supplire alla mancata importazione di alcune materie prime; medici come Cabanis e Larrey organizzarono ospedali e ambulanze di campagna; Monge istituì la scuola politecnica; i fratelli Chappe immaginarono un nuovo sistema di telegrafia ottica che segnò un notevole progresso sui metodi fin allora seguiti per la trasmissione a distanza. Queste pratiche - che possono considerarsi la più antica parziale manifestazione di ciò che oggi si chiama mobilitazione della nazione per la guerra - seguite con rigore e sanzionate con procedimenti punitivi di una spietata efferatezza, salvarono effettivamente la Rivoluzione, che alla fine di questo primo periodo (1795) portò i confini dello stato alla riva sinistra del Reno e ottenne il riconoscimento della repubblica da parte di molte potenze.

Compiuti i primi e più duri passi in modo alquanto tumultuario, il regime repubblicano passò alla fase di stabilizzazione in tutte le branche della pubblica amministrazione, cominciando dalle forze armate. Il reclutamento a base di coscrizione, che era stato fin allora soltanto timidamente e parzialmente attuato, divenne principio generale che applicato più o meno estesamente secondo la necessità, poté mettere a disposizione della strategia masse di uomini non mai vedute dopo l'antichità.

Si adottò la ripartizione tra fanteria di linea e farneria leggiera e ciascuna fu costituita separatamente in reggimenti (mezze brigate) abbinati in brigate. Ogni mezza brigata fu ordinata su tre battaglioni di 9 piccole compagnie (circa 80 uomini per compagnia). Tanto nella fanteria di linea quanto nella fanteria leggiera, una delle nove compagnie del battaglione fu di fanti scelti (granatieri nella fanteria di linea e carabinieri nella fanteria leggiera). Anche nella cavalleria le due specialità di linea e leggiera furono ordinate separatamente in reggimenti (500 cavalli per quelli di linea, ripartiti in tre squadroni e 900 cavalli per quelli leggieri, ripartiti in quattro squadroni). Nella cavalleria di linea fu compresa la specialità carabinieri a cavallo e la cavalleria leggiera fu ripartita in usseri, dragoni e cacciatori a cavallo. I reggimenti potevano riunirsi in brigate, le brigate in divisioni. Per l'artiglieria l'ordinamento adottato si fondava su una prima suddivisione fra reparti a piedi e reparti montati, ciascuna specialità organizzata separatamente in reggimenti (ogni compagnia dovendo fornire il servizio a una batteria di 6 bocche da fuoco). All'artiglieria furono aggregati i pontieri. Quanto al traino si abbandonò il sistema degli appalti in vigore sotto la monarchia, ma non s'introdusse il traino militare, preferendosi, invece, ricorrere alla requisizione dei mezzi di trasporto; ma anche questo sistema manifestò gravi inconvenienti e fu presto abbandonato. Una parte dell'artiglieria a piedi fu organicamente assegnata ai reggimenti di fanteria (mezze brigate) in misura che variò con il tempo e fu da principio di una compagnia (6 bocche da fuoco) per ogni reggimento. Il genio fu costituito con le specialità zappatori e minatori (1794) e fu ordinato in battaglioni di 8 compagnie. Per costituire gli Stati Maggiori si lasciò ai comandanti delle grandi unità la scelta dei loro collaboratori. Ai comandi si assegnarono anche ingegneri topografi. Non vi fu corpo di commissariato e i servizî furono nelle mani di appaltatori sotto la vigilanza di agenti governativi. Un principio nuovo, introdotto nell'organismo dell'esercito della Rivoluzione, fu l'identificazione dell'unità tattica con l'unità amministrativa, il che semplificò le relazioni fra l'amministrazione e la disciplina. Fu anche adottata l'unità divisione come combinazione di più armi, in seguito a proposta del Dubois-Crancé, membro del comitato di salute pubblica per gli affari della guerra, il quale - movendo dalla decisione del comitato di guerra alla fine della monarchia circa la costituzione di una grande unità di fanteria superiore alla brigata - propose, come variante, alla Convenzione nel 1793 la formazione della divisione mista (uno Stato Maggiore, due brigate di fanteria di linea, una o due mezze brigate di fanteria leggiera, un' aliquota variabile di artiglieria); tre anni dopo, durante la campagna d'Italia, la divisione ebbe anche un'aliquota di cavalleria e divenne per ciò unità atta a iniziare, svolgere e concludere il combattimento con i proprî mezzi.

Essendosi voluto sveltire al massimo le truppe e i reparti, si diminuì l'equipaggiamento del soldato e il traino al seguito. In lontananza dal nemico si provvide al vettovagliamento e all'alloggio con requisizioni sul posto e dislocando le truppe su larga zona del paese. Questo sistema non solo consentì, ma anche impose la mobilità, come impose una maggiore risolutezza di operazioni. Infatti, allorché le armate rivoluzionarie dovettero concentrarsi per combattere, le difficoltà logistiche le sospinsero necessariamente a cercare pronta conclusione tattica per distendersi nuovamente nel paese a scopo di alimentazione.

Si potrebbe essere tratti in errore se - constatato che il regolamento del 1791 era di poco variato da quello del 1776 - se ne deducesse che il modo di combattere non era mutato da vent'anni. In realtà il regolamento del 1791 nacque antiquato e non ebbe applicazione pratica. La leva in massa dei primi tempi della repubblica fornì all'esercito francese uomini entusiasti, ma privi di addestramento militare e poco inclini alle rinunce individuali, come quasi sempre accade degli uomini che costituiscono le forze rivoluzionarie: le caratteristiche tattiche di questo esercito non potevano non rispecchiare un tale stato di fatto, poco favorevole alla compattezza, la quale è frutto di disciplina collettiva divenuta abitudine. Ne derivarono attacchi attuati con grande foga, a gruppi slegati, difficilmente rinnovabili quando il successo non fosse ottenuto di primo impeto; e nella difensiva (la quale richiede in maggior grado ponderazione, coordinamento, organizzazione) le truppe rivoluzionarie rivelarono scarse attitudini. Ma, passate le prime prove e rilevati i difetti, si cercò di attuare forme che conservassero i vantaggi dell'audacia e dello spirito di emulazione dei singoli e consentissero nel tempo stesso la necessaria compattezza. Per raggiungere tale intento, l'azione offensiva fu iniziata con truppe leggiere stormeggianti e appoggiate dal fuoco d' artiglieria, e continuata con formazioni più dense (normalmente in linee di colonne) atte sia a moltiplicare la vigoria dei primi attacchi in caso di successo, sia a raccogliere e riportare avanti le truppe leggiere quando avessero dovuto ripiegare. Le seconde linee, di sostegno, avevano anche funzione d'imbastire una prima manovra, mercé l'addensamento e la rarefazione delle colonne in corrispondenza dei varî tratti della fronte antistante, a seconda delle necessità manifestate dal combattimento. L'esperienza avendo dimostrato che una sola linea di sostegno era spesso insufficiente a ottenere il successo, fu in seguito accresciuta la profondità dell'ordinanza tattica collocando un secondo rincalzo (anch'esso in formazione di linea di colonne) dietro il primo, e poi anche una massa di riserva in ordine chiuso; e col maggiore sviluppo in profondità dell'ordinanza, si accrebbe, evidentemente, la durata dell'azione e si moltiplicarono le combinazioni possibili di manovra; di più la linea avanzata, in formazione rada, andò perdendo a poco a poco il compito d'iniziare da sé il combattimento, e acquistò quello di copertura delle linee retrostanti, le cui colonne furono disposte normalmente a intervalli di spiegamento in modo da agevolare il loro passaggio alla formazione in linea di combattimento, sempre quando si credesse necessario eseguire lo spiegamento; ché molte volte, quando la preparazione con il fuoco della truppa antistante fu giudicata sufficiente, le colonne retrostanti vennero gettate sul nemico in formazione serrata, quasi arieti umani. Questa maggiore sveltezza realizzata nella tattica della fanteria si ripercosse sulla tattica delle altre armi: la cavalleria eseguì cariche audaci e a fondo e fu altresì impiegata nel campo strategico in operazioni di scoperta anche a grande raggio; l'artiglieria non solo accrebbe la sua mobilità, ma con la manovra del fuoco accompagnò il rapido svolgersi dell'azione dei fanti, eseguendo solleciti concentramenti dei suoi tiri là dove occorreva controbattere l'artiglieria avversaria o spianare comunque la via all'offensiva dei proprî fanti.

In sostanza la tattica rivoluzionaria volle valorizzare lo spirito d'iniziativa individuale e mirò a una razionale utilizzazione del terreno. L'uso delle formazioni in cacciatori di contro a nemici rigidamente attaccati alle ordinanze serrate, consentì di diminuire l'effetto del fuoco avversario. Soppresso ogni schema di manovre complicate sul campo di battaglia, i generali della Rivoluzione fecero frequente uso, come si è detto; di attacchi in colonne affiancate, formazione che consentiva agevoli fluttuazioni e nel tempo stesso conferiva ai colpi così vibrati grande forza di penetrazione. Procedimenti prodighi di sangue umano, che nascevano dalla sicurezza che la leva in massa avrebbe fornito contingentamenti tanto numerosi da liberare i capi da qualsiasi preoccupazione per gli effettivi degli eserciti in campo. Le gravi perdite dovute all'accresciuto dinamismo furono sempre prontamente riparate durante le campagne della Rivoluzione. La crisi degli effettivi non si manifesterà in modo preoccupante che nel secondo periodo dell'impero.

Anche la strategia degli eserciti rivoluzionarî risentì l'effetto dell'accrescimento numerico delle forze armate e delle qualità caratteristiche dei gregarî e dei quadri (grande entusiasmo e imperfetta preparazione professionale) in piena rispondenza con il temperamento dei più alti generali, giovanissimi e improvvisati. Strategia offensiva, aliena dagli assedî di piazze nemiche, e anche spregiatrice dei sistemi fortificati per sicurezza propria; pronta ricerca della battaglia; movimenti a forze riunite per aver maggiore probabilità di trovarsi superiori di numero nel luogo della battaglia. Il giovane generale Hoche, nominato comandante dell'armata della Mosella nel 1793, disegna il suo piano strategico in queste poche parole: "Radere al suolo le nostre piazzeforti che non potremmo difendere senza disseminare le forze; cacciarsi in mezzo alle armate nemiche separate; con le forze riunite marciare dalla massa nemica che avremo già vinta a quella che vinceremo". È l'idea diametralmente opposta alla strategia a cordone, che tutto proponendosi di difendere o di conquistare, giunge allo sparpagliamento, nefasto quando si abbia di fronte un avversario che non segua anch'esso il medesimo sistema. Ed è in questo concetto il fondamento dell'arte napoleonica.

L'arte di Napoleone. - L'organismo che Napoleone aveva trovato come prodotto della Rivoluzione aveva in sé non pochi difetti, alcuni dei quali si erano aggravati con la stanchezza delle lunghe guerra. La creazione tumultuaria di una grande quantità di ufficiali e sottufficiali e le rapide promozioni - dovute spesso a fortuite circostanze - avevano scaglionato lungo la scala gerarchica uomini della stessa provenienza, della stessa cultura e all'incirca della stessa età. Se a ciò si aggiunge il principio dell'eguaglianza sociale portato dalla repubblica alle sue forme più estreme è facile intendere che la disciplina (l'autorità dei capi ne è la più alta e la più necessaria espressione) doveva essere a un livello alquanto basso. Ciò spiega il fenomeno della renitenza e della diserzione; fu calcolato che circa la metà dei chiamati alle armi mancasse e all'appello; in molti casi, renitenti e disertori. per opporre maggiore resistenza ai tentativi della gendarmeria, si unirono in gruppi ed esercitarono il brigantaggio. Né il fenomeno scomparve mai del tutto.

La fanteria fu ordinata in reggimenti (che sostituirono le mezze brigate) su tre o quattro battaglioni (uno dei quali tenuto normalmente ai depositi per l'istruzione delle reclute), ogni battaglione su sei a nove compagnie, e una di queste di truppe scelte. La fanteria continuò a far uso del fucile a pietra focaia 1777, calibro 17,5, con gittata utile di 250 m., velocità media di tiro due colpi al minuto, dotazione normale del soldato 50 cartucce e 5 pietre focaie di ricambio; in complesso scarsa potenza di fuoco. Anche la cavalleria e l'artiglieria erano rimaste alla formazione organica e tattica del principio della Rivoluzione; della cavalleria si costituirono brigate e divisioni a sé; l'artiglieria fu ripartita tra le divisioni (le divisioni di cavalleria ebbero artiglieria a cavallo). Nella batteria (unità tattica fondamentale dell'artiglieria) erano spesso frammisti pezzi di diversa natura e di diverso calibro; gli uomini della batteria si dividevano in due parti con funzioni organiche distinte, e cioè il personale per il servizio dei cannoni, e il personale e i mezzi per il traino. Scarso di efficacia il proiettile normalmente usato, il quale per produrre danni rilevanti doveva colpire in pieno il bersaglio; gittate utili di circa 1000 m.; celerità media di tiro, 3 colpi al minuto; dotazione per pezzo, circa 300 colpi. Il corpo del genio era numeroso di ufficiali, scarso di gregarî; esso era incaricato di lavori fortificatorî e stradali, di ricognizioni e di rilievi geografici e topografici.

In complesso, dal punto di vista dell'organizzazione, lo strumento con il quale Napoleone fece le sue meravigliose campagne era lungi dall'essere perfetto ed era sicuramente inferiore per forme disciplinari, per addestramento tecnico e per preparazione culturale dei quadri, agli eserciti di Gustavo Adolfo e di Federico II. Uno dei più interessanti aspetti della genialità napoleonica fu l'aver saputo trarre da uno strumento difettoso un rendimento eccellente.

Napoleone introdusse nell'organizzazione delle grandi unità dell'esercito il corpo d'armata. Già fin dal 1800 si erano raggruppate durante le operazioni in Germania e in Italia, da 2 a 4 divisioni sotto un comando superiore; ma solo quando fu costituito il campo di Boulogne (1803) per un'eventuale spedizione traverso la Manica, fu stabilita la costituzione organica e permanente dei corpi d'armata della forza di 2 0 3 divisioni di fanteria, 3 0 4 reggimenti di cavalleria leggiera, una riserva di artiglieria e varî elementi ausiliarî; forza complessiva variabile da 20 a 35 mila uomini. Non poche difficoltà incontrò Napoleone per dar vita a un corpo di Stato Maggiore che avesse le qualità per coadiuvarlo efficacemente. Dopo l'ascesa al trono imperiale, Napoleone costituì uno Stato Maggiore generale e Stati Maggiori per le grandi unità, oltre a una sua casa militare, alla quale furono assegnati compiti promiscui, che in parte spetterebbero oggi allo Stato Maggiore (e, tra questi, primissimo quello delle informazioni e dell'attività spionistica militare). Ma, in complesso, mancò a Napoleone il tempo di formarsi uno Stato Maggiore all'altezza della situazione; sicché egli si limitò a chiedere a questo corpo di ufficiali soltanto un' attività burocratica e archivistica negli uffici, e fuori degli uffici la raccolta di dati e notizie, il recapito di ordini, il controllo della situazione delle truppe. Quanto ai procedimenti tattici di Napoleone, essi non si scostano dal tipo fissato dal Carnot che era, a sua volta, una combinazione razionale del combattimento in cacciatori (nella rivoluzione americana applicato con dannosa esagerazione) e del combattimento a massa. La norma dell'azione tattica napoleonica (tre schiere successive, delle quali l'ultima costituente riserva; azione iniziale della prima schiera con fanteria in ordine sparso, artiglieria leggiera negli intervalli fra i battaglioni avanzanti in linea di colonna, cavalleria manovrante alle ali; azione della seconda schiera a masse d'assalto; terza schiera impiegata per il colpo decisivo nel punto più opportuno) altro non era che una derivazione perfezionata dell'ordinanza e della tattica legionare romana. Circa l'intuizione della manovra tattica, essa va considerata in rapporto con la condotta napoleonica della guerra.

Chi cerca di sintetizzare l'arte strategica di Napoleone e ridurre il suo modo di operare a schemi scheletrici, suole riconoscere in tutte le campagne di questo grande capo due forme tipiche: contro un nemico che si sia presentato sul teatro delle operazioni in una sola massa, la manovra ha mirato a far cadere le proprie forze fra questa massa e le sue basi di rifornimento; contro un nemico, o una coalizione di nemici a masse separate, la manovra ha mirato a battere una delle masse (possibilmente la più importante o la più pericolosa) prima che le altre potessero soccorrerla. Nel primo caso il fattore "tempo" è stato subordinato alla ricerca di una battaglia "a fronti rovesciate", atta cioè a determinare la più grave delle crisi nel nemico, strategicamente sorpreso e costretto a improvvisa battaglia, senza aver avuto tempo di organizzare, neppure embrionalmente, una nuova linea di rifornimento. Nel secondo caso il fattore "tempo" è primo elemento di successo, trattandosi di valorizzare una superiorità locale nei confronti della massa nemica ancora isolata e prima che sopraggiungano a rinforzo altre masse, il che significa realizzare il principio dell'economia delle forze. Quando si dice "superiorità di forze" non si vuole soltanto intendere il maggior numero (che è indubbiamente il principale fattore di forza, ma non il solo) ma si comprendono tutti gli altri elementi di potenza: materiali e tangibili; tecnici e ancora valutabili con approssimazione; spirituali e spesso imponderabili (come il valore del comando, in quanto possieda altezza e prontezza di concezioni e dominio sulle masse sottoposte). Il secondo tipo di manovra strategica (che prende nome di manovra centrale), può avere una variante in quanto - non presentandosi il nemico a masse separate - si può indurlo a separarle mediante atti dimostrativi che lo traggano in inganno, per poi agire con il grosso delle proprie forze su una delle frazioni nemiche; e questa variante comporta perciò un tempo di attesa strategica della massa principale. Il primo tipo di manovra (contro le comunicazioni dell'avversario) espone chi l'attua al rischio di compromettere le comunicazioni proprie. Ma Napoleone aveva il vantaggio di un esercito che la Rivoluzione aveva abituato a rifornirsi di vettovaglie sul luogo delle operazioni, mentre i suoi avversarî vivevano ancora con il sistema dei magazzini, sicché per Napoleone la conservazione delle linee di comunicazione perdeva il carattere della necessità. Tuttavia, anche così facilitata dalla maggior agilità dei procedimenti logistici, la manovra contro le linee di comunicazione del nemico richiedeva in sommo grado audacia spesso temeraria.

Ma gli accennati procedimenti strategici richiedono anzitutto che sia "fissata" la massa nemica oggetto della manovra. Nel tempo in cui l'operazione si svolge, il nemico, se abbandonato a sé stesso, potrebbe sottrarsi e la manovra montata contro di lui risolversi in un colpo a vuoto. Né basta sapere ciò che il nemico fa (scoperta strategica), perché potrebbe far cosa che nuoce all'andamento della propria manovra; spesso è necessario mantenerlo con finte mosse (dimostrazioni strategiche) nelle condizioni che possono agevolare la manovra stessa. Questo tener agganciato il nemico è tanto più necessario in caso di puntata contro le sue comunicazioni, perché queste operazioni hanno, come si è notato, uno sviluppo di maggior durata; e il maggior tempo dà all'avversario più larghe possibilità di utili reazioni.

Altra caratteristica della strategia napoleonica: la ricerca della sicurezza, per evitare sorprese che turbino il congegno d'attacco. Tale sicurezza fu ottenuta con l'uso delle avanguardie strategiche. Poiché per costituirle occorre distaccare elementi dal grosso dell'esercito, il principio della sicurezza appare in contrasto con il principio dell'economia delle forze; ma un generale esperto riuscirà a ricostituire la massa al momento dell'urto, quando cioè dalla manovra per giungere alla battaglia si passa alla battaglia.

È caratteristica della strategia napoleonica una stretta correlazione fra la direzione impressa all'atto tattico e l'obiettivo generale della manovra strategica. Infatti, in Napoleone la ricerca della più importante massa nemica per batterla il più presto possibile in battaglia, si mantiene immutabilmente armonica con lo scopo di sconvolgere i centri vitali del nemico, anche a costo di trascurare altri obiettivi, che avrebbero potuto sviare uno stratega di minore statura. Nelle guerre napoleoniche, salvo nella campagna del 1800 in Italia (nella quale la condotta del Primo Console si rivela incerta, contrariamente alla tecnica strategica di tutte le altre sue campagne) una serie di battaglie decisamente volute e realizzate in armonia con il disegno generale, segna le successive fasi di un procedimento strategico a logica unitaria dal principio alla fine della campagna.

Una particolarità di questa strategia di grande stile è la tecnica delle marce, alla quale Napoleone dedicò cure assidue e minuziose, in quanto la possibilità dei rapidi concentramenti di masse che erano alla base della sua arte di comando, dipendeva appunto dalla complessa meccanica ond'erano regolati gli spostamenti, a nulla servendo la genialità dell'alta direzione se al momento e nel luogo previsto dal disegno operativo non potessero giungere effettivamente determinate quantità di uomini inquadrati e armati, con il necessario di viveri e di munizioni per la durata prevista dell'azione. Questa meccanica complessa ha le sue piccole ruote (tecnica delle marce dei minori reparti), e, attraverso successivi ingranaggi ad attacchi elastici, giunge a regolare il movimento delle grandi masse. È appunto nell'elasticità che i procedimenti napoleonici si differenziano dalla tecnica delle marce militari del sec. XVIII (compresi i sistemi di Federico), tecnica che non poté svincolarsi da una rigidezza che si armonizzava con la scarsa flessibilità degli organismi, degli ordini di battaglia, dei sistemi di rifornimenti, fino a determinare, ad es., il numero fisso di colonne in cui doveva essere diviso un esercito in marcia. Secondo Napoleone la celerità degli spostamenti è necessaria per una ragione fisica (la forza d'urto essendo il prodotto della massa per la velocità) e per una ragione morale (la rapidità elevando lo spirito e accrescendo, per questa via, la possibilità del successo). In lontananza dal nemico le colonne napoleoniche sono molto numerose, dal che consegue una larga fronte di avanzata; con questa dilatazione si ha anche il vantaggio di lasciare il nemico nell'incertezza sulla direzione in cui sarà portato lo sforzo principale. Fissata questa direzione, Napoleone passa a marce con colonne addensate che richiedono provvidenze logistiche speciali, come sopra si è accennato, e domandano alle truppe non lievi sacrifici (volendo trasferire due corpi d'armata per la lunghezza stradale di una sola tappa di 25-30 chilometri, si doveva far marciare fuori strada la cavalleria dei corpi d'armata e talora anche la fanteria, si accrescevano da 4 a 6 e anche a 8 le file delle colonne, serrando le file in modo che il petto degli uomini toccasse quasi la schiena degli uomini antistanti, il che obbligava a cadenzare il passo). Dopo la battaglia è generalmente ripresa l'avanzata strategica su larga fronte. Né sono soltanto da tener presenti le necessità strategiche; occorre rispettare per quanto possibile la norma: "dividersi per vivere, riunirsi per combattere". Secondo lo Jomini "questo impiego alternato di movimenti larghi e di movimenti concentrati è la vera caratteristica di un grande capitano" naturalmente in quanto non sia procedimento che si esaurisca in sé stesso, ma risponda a un piano organico complessivo e si applichi alla realtà del momento. Con la soppressione delle tende, Napoleone ottenne di alleggerire il soldato e i carreggi, evitò le perdite di tempo e il disseminamento che si richiedono per mettersi a campo. Così il modo di alloggiamento napoleonico si ridusse all'accantonamento in lontananza dal nemico e al bivacco ogni volta che fu previsto prossimo l'incontro.

Napoleone ha applicato alla manovra tattica principî analoghi a quelli che caratterizzano la sua dinamica strategica; il primo di tali principî proclama infatti la necessità del concentramento dello sforzo per produrre sul fronte di battaglia nemico una disorganizzazione locale di tale entità da non essere prontamente riparabile e da trarre con sé, perciò, la disorganizzazione del restante tratto di fronte. La direzione di questo colpo decisivo diventa l'asse della battaglia, e ogni altra azione deve avere l'occhio e l'animo volti ad essa. Riconosciute le qualità topografiche del terreno e la distribuzione approssimativa delle forze nemiche, Napoleone decide su quale punto sia da premere a fondo; ma perché il nemico non sia in grado di parare in modo efficace, lo impegna dapprima su tutta la fronte e lo induce a proiettare sulla linea di battaglia tutte, o quasi, le sue riserve; egli, invece, manda in linea le forze strettamente necessarie per non cedere alla reazione avversaria; e, sempre allo scopo di attrarre l'attenzione del nemico lontano dal punto prescelto per l'azione decisiva, accompagna spesso l'accennato attacco frontale di preparazione con l'aggiramento di un'ala per indurre il nemico ad assottigliare in tal modo le riserve e anche a spostare forze già in linea, determinandosi in questo secondo caso una frattura, nella quale viene lanciato l'attacco decisivo (évenement) mediante una massa di manovra fin allora non impegnata. Quando non si sia prodotta una zona di rottura per effetto dell'azione tattica precedente (attacco frontale e manovra avvolgente) la massa destinata all'atto decisivo deve essa stessa assolvere il doppio compito di produrre lo squarcio e subito penetrarvi a fondo. L'azione della massa di rottura s' inizia sempre con un concentramento di fuochi di molte batterie tenute in riserva, ottenendosi in tal modo di produrre una prima rapida disorganizzazione locale. Infine, per rendere definitiva la vittoria tattica - ottenuta la rottura di un tratto della fronte avversaria - Napoleone attua un contemporaneo nuovo attacco generale con tutte le forze: i reparti già impegnati esplicano fino all'estremo le superstiti energie; si spiegano gli elementi della massa di rottura, che eventualmente non sono anancora entrati in azione nella zona dell'évenement; infine entrano in linea tutte le riserve; nessuna attività combattiva, piccola o grande, deve rimanere estranea a questa fase suprema. Ottenuta la vittoria tattica, Napoleone riprende immediatamente l'azione strategica, mediante l'inseguimento operato da masse di cavalleria con appoggio di artiglieria a cavallo e fanterie leggiere. L'inseguimemo è facilitato quando - imbastita, prima della battaglia, una manovra strategica contro le linee di comunicazione avversarie - buona parte della cavalleria può già trovarsi sulle vie naturali di ritirata del nemico.

Una strategìa a colpi fulminei come quella di Napoleone richiedeva particolari provvidenze logistiche. S'è accennato come la Rivoluzione avesse adottato per le sue armate il sistema di vivere sul paese attraversato, secondo il principio che "la guerra alimenta la guerra". Ma la necessità di continui movimenti che deriva da una tale pratica, se valse in un primo tempo a eccitare lo spirito offensivo e a determinare una condotta più vivace delle guerre, venne in definitiva a limitare la libertà d'azione del capo, in quanto non è dubbio che possano presentarsi, anche in una guerra ultradinamica, opportunità di permanere o di ripassare su zone già logisticamente impoverite. Si aggiunga - come si è accennato - la convenienza (per la stessa rapidità dei movimenti) di evitare che le grosse colonne in marcia avessero troppo frequentemente a distendersi nel territorio circostante per assicurare il vettovagliamento alla tappa. Per queste ragioni il sistema logistico di Napoleone si scostò dalla rigida massima dei primi eserciti repubblicani e seguì il principio intermedio dell'utilizzazione delle risorse del paese combinata con il sistema dei magazzini. Le linee di comunicazione degli eserciti napoleonici, talora lunghissime e molteplici (tipica la campagna di Russia, 1812) furono punteggiate di grandi depositi centrali, distanti fra lono 100-150 chilometri, e collocati in luoghi di facile difesa (fortezze o città cintate). In tali depositi non solo venivano accentrati i viverì e i panifici, ma anche si costituivano depositi di munizioni e di vestiario, e grandi ospedali di tappa; vi si organizzavano officine di riparazione per i materiali fuori servizio provenienti dalle proprie truppe o catturati al nemico, e depositi di ogni cosa esuberante o ricuperata da morti, feriti e prigionieri. Prima ancora di questi grandi depositi di tappa (i quali, naturalmente, aumentavano di numero a mano mano che le armate avanzavano), altri ne venivano costituiti preventivamente nelle zone di radunata, prima cioè che una campagna s'iniziasse. In perfetta armonia con il criterio di conservare al capo la massima libertà d'azione strategica, questi depositi-base erano per quanto possibile numerosi e disseminati su larga zona di territorio; così si lasciava anche incerto il nemico sulla probabile direzione delle operazioni principali. Le risorse del paese entravano in funzione per concorrere all'approvvigionamento dei magazzini e così si riducevano i trasporti da tergo; naturalmente concorrevano a costituire le dotazioni dei grandi depositi anche le derrate e i materiali dei depositi catturati al nemico. A mano a mano che le operazioni progredivano, tutto quanto era riunito nei depositi retrostanti veniva trasportato nei nuovi depositi più avanzati. Schema logistico razionale, che però in pratica non diede tutti i suoi frutti, sia perché mancarono organi coordinatori fra i diversi rami del servizio, e ciascun direttore di un ramo speciale (funzionario civile) lavorò per proprio conto senza curarsi degl'insopprimibili legami fra l'uno e l'altro ramo, sia per l'insufficiente organizzazione del servizio dei trasporti, affidato a grandi imprese e cioè non organizzato militarmente. L'amministrazione militare provvedeva all'impresa materiali regolamentari soltanto per il servizio delle munizioni, ma anche questi materiali in numero insufficiente; a tutti gli altri carreggi, ai cavalli e al personale conducente l'impresa provvedeva quasi sempre con requisizioni sul posto, spesso concentrando i mezzi nei grandi depositi cui si è accennato e anche costituendo piccole colonne carreggio nelle località di tappa intermedie; ma la mancata organizzazione con personale militare di questo servizio di primaria importanza trasse con sé inconvenienti funzionali di carattere tecnico e disciplinare. È da notare che per il servizio dell'artiglieria (materiali e munizioni) esisteva presso le grandi unità combattenti tutta un'organizzazione scaglionata in profondità a tergo delle truppe e a portata del campo di battaglia; e cioè parchi divisionali, parchi di corpo d'annata (o di riserva), gran parco (a disposizione del comando supremo).

Concludendo, s'intende come la ragione degli straordinarî successi del gran capitano, non tanto sia nelle massime (tutte riducibili alla formula semplicista del "preparare con cura, agire con audacia nel momento e nel punto più opportuno"), quanto nelle caratteristiche della sua genialità e del suo animo, sicché si può studiare e intendere l'arte di Napoleone con facilità, ma è difficile imitarla.

L'arte della guerra fra il 1815 e il 1914. - Al momento in cui Napoleone scomparve definitivamente dalla scena politica del mondo, tanto la Francia quanto le nazioni che si erano coalizzate contro di essa subirono gli effetti deprimenti delle cruenti guerre, durate, quasi senza interruzione, più di vent' anni, accompagnandosi così alla reazione politica l'avversione allo spirito guerriero e di conquista e la certezza che - almeno per lungo tempo - non si sarebbe più ricorso alle armi; in complesso si determinava un ambiente non favorevole allo sviluppo delle istituzioni militari e dell'arte della guerra. Gli effettivi alle armi furono dovunque ridotti; ritornarono in auge i vecchi sistemi di reclutamento a lunghe ferme; si ripristinarono nelle scuole di reclutamento i vecchi statuti e i vecchi metodi d'insegnamento; si richiamarono in servizio ufficiali che da oltre vent'anni n'erano usciti, per il solo merito di avere osteggiato il sistema francese; salvo poche eccezioni, come lo Jomini e il Clausewitz e in Italia il De Cristoforis e il Blanch, si considerò dai più come superfluo studiare le campagne di Napoleone. Gli stessi militari che avevano combattuto sotto di lui e che, pur avendo perduta ogni autorità, si sforzavano di tenerne vivo il culto in un mondo così trasformato, tendevano a mettere in vista più la parte formale che lo spirito animatore delle gesta napoleoniche; e nei loro racconti di reduci (consueto fenomeno) esaltavano soprattutto l'episodio; forse perché non avevano conoscenza di fatti più importanti e abito mentale per prospettare da un punto di vista più comprensivo l'insieme della superiore arte del grande stratega; tanto che la sua pratica guerresca appariva come una somma di audacie occasionali, mentre rimanevano in ombra quanto vi era di unitario nella sua fatica organizzativa e nella sua forza di propulsione. Da ciò venne (e il fenomeno fu chiaramente visibile in Italia durante le prove belliche dal 1848-49) che, da un lato si ebbero eserciti regolari ritornati a sistemi sorpassati, preparati non a far guerra di slancio, ma a compassate manovre di piazza d'armi, comandati da ufficiali rigidissimi nella disciplina formale, ma meno curanti della più necessaria disciplina degli animi e neppure concordi fra loro politicamente, ché le innovazioni politiche avevano lasciato traccia in taluni di essi; e, dall'altro lato, si ebbero le manifestazioni di un volontarismo armato che tutto credeva di poter improvvisare, nel subitaneo fervore vedeva il toccasana per qualsiasi contingenza di guerra, sprezzava il pedantesco sistema degli eserciti regolari, e nella vantata scienza metodica dei generali professionisti vedeva più che altro un ostacolo al successo (v. risorgimento).

Quantunque vittoriose, la guerra di Crimea (v.) e la guerra d'Italia del 1859 rivelarono agli attenti osservatori deficienze non lievi nella preparazione dell'esercito francese, che si manifestarono agli occhi di tutti nel 1870. Il Secondo Impero, nella sua cura di far risorgere le istituzioni militari del primo Napoleone, si fermò alla forma mentre il più vero culto dell'arte di Napoleone I fu celebrato dallo Stato Maggiore prussiano e dal suo capo, generale Moltke.

Giova accennare alle principali caratteristiche negative della guerra d'Oriente e della campagna del 1859 in Italia, e a quelle, tutte particolari, della guerra di secessione d'America, in quanto parvero allora dover determinare nuove forme nell'arte della guerra.

La guerra di Crimea. - Questa lunga campagna d'Oriente non dà luogo, dal punto di vista strategico, a operazioni di grande stile. Il fatto più interessante nel campo delle grandi operazioni è lo sbarco delle armate alleate (francesi, inglesi e turche) durato cinque giorni (14-18 settembre 1854) e la successiva battaglia vittoriosa dell'Alma (v.). Per lo sbarco le flotte da guerra si erano disposte su quattro linee parallele alla costa a protezione del convoglio dei 60 bastimenti-trasporto sui quali era imbarcato il corpo di spedizione, mentre 6 bastimenti da guerra leggieri perlustravano al largo. Un altro convoglio trasportante una divisione era stato distaccato alla foce del Kača, per uno sbarco simulato. Una squadriglia di navi leggiere, appoggiata da una fregata, si era messa presso la costa dalla parte di possibili attacchi russi. Ma, dopo la battaglia dell'Alma (i cui risultati favorevoli agli alleati furono più dovuti all'insufficienza delle disposizioni difensive dei Russi che all'abilità manovriera degli attaccanti) la strategia degli alleati fu veramente in difetto, in quanto mancò l'inseguimento, sicché fu lasciato ai Russi il tempo di ritirarsi tranquillamente a copertura dei loro immensi magazzini situati al centro della Crimea (nodo stradale di Sinferopoli) e delle loro principali comunicazioni con l'interno dell'impero. Preferirono gli alleati dirigersi all'attacco di Sebastopoli (con il proposito di tramutarlo poi in assedio regolare ove non si riuscisse a prendere di primo impeto la piazzaforte). Tutta la guerra essendosi polarizzata da questo momento intorno all'improvvisata fortezza, le combinazioni strategiche vennero meno; e la condotta tattica si ridusse a vibrar colpi contro le opere principali e contro i robusti trinceramenti degl'intervalli, e cioè a operazioni nelle quali la genialità del capo difficilmente ha occasione di manifestarsi e la lotta diventa una successione di sforzi di eroiche colonne d'attacco e di contrattacco urtantisi di fronte, come nel tipico caso di Inkermann, dove gli alleati riuscirono a disorganizzare le dense colonne russe con azione frontale combinata con manovre risolutive contro i fianchi. Quanto all'assedio di Sebastopoli, la lunga e gloriosa difesa dei Russi mostra quello che possa ottenersi da chi abbia volontà di resistere e come si possano moltiplicare le possibilità della difesa, fino a improvvisare un ostacolo colossale sotto gli stessi occhi di un nemico superiore, ma che non sa osare a tempo. Investita Sebastopoli, e quando sembrava che i Russi si fossero esauriti nello sforzo diuturno di riparare i guasti continuamente arrecati dall'assediante, gli alleati si videro aggrediti da un'inattesa contro-attività degli assediati e la fine della guerra fu allontanata proprio nel momento in cui la si sperava imminente. Gli alleati mostrarono non minore tenacia e affrontarono eroicamente i sacrifici inerenti a questo genere di operazioni. Ma il complesso della campagna, paragonato alle campagne del grande Napoleone, fu segno di decadenza dell'arte. In particolar modo parve segnare la decadenza della cavalleria nel campo strategico e in quello tattico. Si presenta, qui, in scala ridottissima, il quadro della guerra trincerata che fu in atto su vastissime fronti nella guerra mondiale.

La guerra del 1859. - Più gravi ancora sono i difetti apparsi durante la campagna del 1859 in Italia, così da parte austriaca come da parte degli alleati franco-sardi. Per questi ultimi il rilievo riguarda soprattutto l'esercito francese, poiché le 5 divisioni mobilitate dal Piemonte non rappresentando che un quarto circa delle forze alleate complessive ed essendo stato assunto il comando supremo della guerra da Napoleone III, lo stato Maggiore sardo non ebbe parte prevalente né sulla condotta strategica, né sui procedimenti logistici.

L'esercito austriaco commise fin dall'inizio della campagna un grave errore, non osando attaccare i Piemontesi, dislocati in largo spazio e non ancora raggiunti dai Francesi. Il Gyulai si limitò a una dimostrazione contro la capitale nemica, seguendo la direttrice Novara-Torino, ma lasciò che sul fianco fra Casale e Alessandria si compisse tranquillamente il concentramento dei due eserciti nemici; avvenuto tale concentramento, trasgredì una seconda volta le buone regole della strategia, rimanendo inattivo nella Lomellina, quantunque la ricognizione compiuta da un corpo d'armata a sud del Po all'ingresso occidentale della stretta di Stradella (Montebello, 20 maggio) gli avesse dimostrato che il nemico era in forze in quella zona. Quando Napoleone III ebbe iniziata la manovra aggirante per il nord (Casale-Vercelli-Novara-Magenta), il Gyulai che si trovava ancora nella Lomellina, invece di attaccare l'esercito nemico separato dalla Sesia e solo parzialmente in marcia fra Sesia e Ticino (il combattimento di Palestro, 30 maggio, era stato rivelatore) attuò esso stesso una ritirata attraverso il basso Ticino. Dopo Magenta (4 giugno) - battaglia che era stata fino all'ultimo incerta - il generalissimo austriaco ripeté l'errore di non attaccare i Franco-Sardi ancora separati dal Ticino e, abbandonando la Lombardia, si ritirò per Melegnano a oriente del Mincio. Esonerato il Gyulai, il feld-maresciallo Hesse, in qualità di capo di Stato Maggiore dell'imperatore-Francesco Giuseppe, che aveva personalmente assunto il comando supremo, risolse di ripassare a occidente del Mincio e cioè di assumere un atteggiamento strategicamente controffensivo; ma al primo inopinato incontro con il nemico questo atteggiamento si risolvette in una difensiva tattica, seguita da un nuovo ripiegamento strategico. Di fronte a questo cumulo di errori austriaci, quelli pur commessi dal comando supremo avversario si trovarono ad essere meno gravi.

Degli alleati, l'esercito francese si presentò alla guerra organicamente impreparato; soltanto all'atto della dichiarazione di guerra si procedette a costituire le grandi unità, facendo affluire (ma senza preventivo studio tecnico dei movimenti necessarî e senza controllo sull'esecuzione) comandanti, Stati Maggiori, truppe delle diverse armi, servizî tecnici, servizî logistici, da varie parti della Francia verso alcuni determinati centri di radunata. Inoltre, durante la campagna, il rigido sistema dei rifornimenti da tergo, combinato con la mancanza di pratica e d'iniziativa del personale preposto all'intendenza, condussero a inutili sofferenze le truppe; e basti ricordare che l'esercito, operante in maggio-giugno nelle opulente pianure lombarde, mancò spesso di foraggi. La strategia di Napoleone III fu gravemente in difetto: 1. nel piano di concentramento in una zona (Alessandria-Casale) molto vicina al nemico, e secondo due linee di confluenza (dalle Alpi e da Genova) che rimanevano fino all'ultimo momento separate, senza possibilità di mutuo appoggio durante l'esecuzione del concentramento, il che avrebbe costituito un serio pericolo di fronte a un avvversario anche solo mediocremente attivo; 2. nel piano di campagna, che Napoleorie III mutò più volte, adottandone poi uno (aggiramento per il nord) che gli aveva consigliato in precedenza il vecchio Jomini, ma senza curarsi se si adeguasse alla situazione quale si era determinata dopo la ricognizione nemica di Montebello (destra del Po) e senza intravedere l'opportunità di attaccare il grosso nemico in Lomellina dopo passata la Sesia; 3. nelle difettose disposizioni per il passaggio del Ticino, per le quali le truppe transitate (Mac-Mahon) si trovarono per lungo tempo a dover sostenere una battaglia senza essere convenientemente appoggiate e rischiarono di perderla (Magenta); 4. nella perdita di contatto dopo Magenta; 5. nella marcia al Mincio, operata nell'ipotesi che gli Austriaci fossero ancora oltre il fiume, quando già erano ripassati sulla destra; 6. nel mancato inseguimento dopo Solferino-San Martino. In entrambi i campi fece difetto l'impiego della cavalleria nella scoperta strategica, e i grandi comandi procedettero quasi-sempre disorientati.

Vedremo fra breve come di tutti questi indizî d'insufficienza farann0 tesoro lo Stato Maggiore prussiano e il suo capo.

La guerra di secessione d'America (1862-65). - Nella guerra di secessione americana, va anzitutto notata una più stabile organizzazione del comando nell'esercito del sud (dove è pieno l'affiatamento fra il governo - Jefferson Davis - e il generale Lee sua creatura) rispetto all'esercito del nord, dove il nervosismo di Lincoln e la sua smania di seguire le indicazioni dell'opinione pubblica (sempre incompetente in simili questioni) inducono a continui mutamenti di generali e ad ingerenze nefaste. È questa una prima importante ragione dei successi ottenuti dal sud malgrado le scarse forze. Una notevole caratteristica organica della guerra di secessione fu che, da ambo le parti, molti ufficiali, anche collocati al sommo della gerarchia, erano stati improvvisati. Alcuni avevano in un passato, più o meno lontano, frequentata l'Accademia di West-Point e compiuto un breve servizio alle truppe; altri erano totalmente digiuni di cose militari. Pur tuttavia, nella pluralità dei casi, essi furono in grado, dopo breve tirocinio, di assolvere utilmente il loro compito.

Grandi mezzi furono impiegati in quella lunga guerra e si diede prova da ambo le parti di un'ammirevole tenacia. Ma la vastità del teatro delle operazioni e le sue particolari caratteristiche geografiche (scarse risorse e scarse comunicazioni stradali) diedero alla condotta strategica lineamenti tutti particolari, in quanto la difesa delle vie di rifornimento e dei centri di raccolta dei materiali necessarî, divenne la più costante preoccupazione dei contendenti, così da conferire frequentemente alle operazioni i caratteri della guerra di posizione e alle colonne marcianti una particolare pesantezza di traini. I principî essenziali della strategia (principî immanenti e, del resto, di una grande semplicità) non vennero obliati. La concentrazione delle forze e la manovra sulle comunicazioni nemiche sono il fondamento delle concezioni di Jackson e di Maclellan; soltanto i tempi dell'esecuzione sono grandemente più larghi se si confrontano con il dinamismo di tipo napoleonico. Più vivace è la strategia dei sudisti - animata dallo spirito offensivo del generale Lee - e perciò più redditizia. Dove i generali improvvisati procedono a tastoni per guadagnar tempo e dove la manovra nel campo strategico e nel campo tattico è sostituita da azioni puramente frontali, i risultati, anche se favorevoli, non sono mai decisivi. Nel campo tattico si è riscontrato il difetto di collegamento fra i diversi tratti della fronte e i varî elementi in profondità e il comando supremo, in dipendenza dell'imperfetto servizio tecnico di Stato Maggiore. L'impiego tattico delle diverse armi è ispirato, più che altro, dal buon senso. Da notare che l'artiglieria leggiera fu impiegata - specie nell'ultimo periodo - con criterî che potevano allora classificarsi "futuristi", su posizioni avanzate, in grandi masse, con grande vivacità di fuoco fin dai primi momenti della battaglia; e la cavalleria (Sheridan, Stuart) che aveva reclamato un'indipendenza non sempre opportuna, ma di cui si è mostrata ben degna, è stata ammirevole di audacia, di resistenza ai lunghi raids, d' iniziative strategiche e tattiche, e non ha disdegnato di ricorrere all'appiedamento (la cavalleria nordista più frequentemente di quella del sud). Celebri gli attacchi di linee ferroviarie. Queste imprese ardite della cavalleria a grandi distanze dai corpi delle altre truppe, vanno tanto più rilevate, in quanto si hanno scarse tracce di qualcosa di simile nelle successive guerre (1866 e 1870-71) combattute in Europa. Notevole anche, che nella guerra di secessione si è fatto largo uso di trinceramenti leggieri sul campo di battaglia. Quanto ai servizî tecnici (servizio sanitario in prima linea), essi furono predisposti e funzionarono secondo la nota ampiezza che le facoltà organizzative e le disponibilità finanziarie consentono agli Americani.

L'arte militare del Moltke. - La guerra del 1866 doveva in modo inaspettato rivelare la decisa superiorità militare della Prussia. Giovò forse alla Prussia il fatto che non si ebbero colà reazioni politiche né mutamenti di persone dopo il 1815, la dinastia essendo rimasta sul trono anche durante la bufera napoleonica, salvo un breve intervallo; così poté essere utilizzata l'esperienza che i capi militari si erano formata sui campi di battaglia dal 1806 al 1815.

È noto che il Moltke - dal 1857 capo dello Stato Maggiore prussiano - aveva attentamente studiato le operazioni del 1859 nella Lombardia, soprattutto allo scopo di valutare l'efficienza dell'esercito francese, per una doppia confessata ragione: perché gli eventi avrebbero potuto imporre alla Prussia d'intervenire nel conflitto allo scopo d'impedire che un membro della confederazione germanica - l'Austria - fosse sopraffatto (è noto che al momento dell'armistizio di Villafranca era in corso la radunata di alcuni corpi d'armata prussiani al confine renano), e perché era prevedibile che in un tempo più o meno vicino, le due politiche tradizionalmente antagoniste della Prussia e della Francia avrebbero portato a un conflitto sulla frontiera del Reno. Lo studio attento di quella campagna aveva anche messo in luce altrettanto gravi difetti nell'esercito di Francesco Giuseppe. Si disse con molta ragione che Sadowa prima e Sedan dopo, mossero da Solferino. La superiorità mostrata dall'esercito prussiano sotto la guida del generale Moltke si riassume in una preparazione e un addestramento accuratissimi preordinati in tutti i particolari, e in una strategia illuminata e vivace, ispirata agli ammaestramenti napoleonici.

Per ottenere una rapida mobilitazione, e così imporre al nemico la propria volontà fin dall'inizio della campagna, furono organizzati fin dal tempo di pace, e con la medesima intelaiatura di guerra, i corpi d'armata; fu adottato un sistema di completamento all'atto della guerra, rigidamente territoriale; fu nettamente distinta la mobilitazione dalla radunata. Lo Stato Maggiore di ciascun corpo d'armata aveva incarico di studiare in precedenza ogni più minuto particolare di queste operazioni, ma, nel tempo stesso, questo decentramento delle attività era applicato in maniera da evitare intralci o lacune; la forza in congedo (gregarî e quadri) era oggetto di periodici controlli che permettevano di tenere aggiornati tutti i progetti di mobilitazione della forza; erano dedicate specialissime cure allo studio dei trasporti ferroviarî; e tutta questa complessa organizzazione consentiva di calcolare in anticipo i giorni e le ore occorrenti a ciascun corpo d'armata per assumere la formazione di guerra. In un secondo tempo si procedeva alla radunata delle forze in armonia con ìl piano di campagna, e anche per questa operazione ogni particolare era preveduto: le stazioni, i giorni e le ore d'imbarco di ciascun reparto o servizio; gli orarî dei treni carichi e di quelli vuoti di ritorno; le soste nelle stazioni di vettovagliamento, nelle quali erano costituiti in precedenza i necessarî depositi; le stazioni di scarico con il sufficiente sviluppo di piani caricatori. Presiedeva a tale preparazione un apposito organo centrale, costituito presso lo Stato Maggiore, con organi sottoposti nelle stazioni principali e nei punti di smistamento.

A questa superiorità, che potrebbe chiamarsi meccanica, il Moltke aggiunse quella d'una meticolosa e raffinata preparazione degli Stati Maggiori, cui assegnò funzioni più elevate di quelle loro attribuite nell'esercito napoleonico, in quanto gli ufficiali dello Stato Maggiore prussiaiio funzionavano non solo come intelligenti esecutori della volontà del capo, ma anche ′come consiglieri e quasi interpreti autorizzati del pensiero del generalissimo presso le grandi unità dipendenti; sistema che offre vantaggi quando, come avvenne nello Stato Maggiore prussiano, tutti erano imbevuti delle stesse massime e perfettamente orientati sulla situazione.

Nella preparazione delle varie armi, fu cura del Moltke di tener alto il prestigio della fanteria, di addestrarla in esercitazioni di campagna, di sviluppare nei gregarî e nei quadri inferiori il coraggio dell'iniziativa. La fanteria prussiana sostenne infatti, nel 1866, il maggior peso della lotta, l'artiglieria e la cavalleria non avendo ancora una tecnica che le differenziassero dalle armi corrispondenti dell'esercito austriaco. L'artiglieria da campo fu tenuta nel 1866 alquanto indietro nelle colonne, perciò il suo intervento nell'azione tattica non sempre fu tempestivo; e la cavalleria fu impiegata nella battaglia a piccole masse (non più di una brigata) e non fu affatto utilizzata nella scoperta strategica. Invece le truppe del genio ebbero carattere e compiti più operativi che non negli altri eserciti e furono assegnati reparti di "pionieri" a ciascun corpo d'armata (zappatori, minatori, pontieri e organismi embrionali per la costituzione di sezioni ferroviarie e telegrafiche).

La strategia del Moltke nella campagna del 1866 (v. austroprussiana, guerra) si riassume nell'invasione della Boemia in modo non dissimile da quanto operò il grande Federico nel 1757. Raggruppati i corpi d'armata in tre armate, queste vengono dapprima radunate lungo il confine a grandi intervalli l'una dall'altra (tanto che occorrerebbero cinque giorni per far massa sul centro) e ciò per conservare - in un terreno nel quale gli arroccamenti sono resi difficili dall'aspra natura montana - l'elasticità necessaria a puntare indifferentemente contro la Boemia o contro la Moravia; poi, visto che il nemico si raduna in Moravia, il Moltke decide di entrare risolutamente in Boemia, dove sarà al nemico necessario accorrere, abbandonando l'eventuale obiettivo della Slesia. Per non perdere tempo a serrare gl'intervalli fra le armate prima d'iniziare il movimento in avanti, il Moltke adotterà un procedimento che non sarà senza rischi per l'armata orientale più esposta (2ª) e cioè prescriverà un'avanzata su direttrici separate; però la loro convergenza permetterà di restringere sempre più, ogni giorno, quei pericolosi intervalli. Il concentramento avverrà di fatto sul campo di battaglia di Sadowa. Da notare che ciò fu fortuito, in quanto la massa austriaca si trovò casualmente presso il punto di convergenza; e non sembra perciò si possa attribuire il fatto a una particolare dottrina strategica che da alcuni si vorrebbe attribuire al Moltke e secondo la quale il concentramento dovrebbe di proposito avvenire sullo stesso campo di battaglia e non, secondo la norma napoleonica, prima della battaglia. Sarebbe infatti poco prudente elevare a dogma strategico un procedimento che, per riuscire, dovrebbe mettere preventivamente nel conto l'inattività dell'avversario fino al momento dell'attacco, o, comunque, le sue intenzioni.

Dopo Sadowa l'esercito austriaco battuto si sottrae all'inseguimento immediato non senza abilità e si avvia a ricostituirsi in Moravia sotto la protezione della fortezza di Olmutz. Dapprima incerto sulla direzione della ritirata nemica, appena ne ha sicure notizie, Moltke ordina un'avanzata con procedimento inverso a quello usato per l'invasione della Boemia, e cioè lungo direttrici divergenti; avanza con un'armata (2ª) in direzione di Olmütz (Olomouc) per contenere il Benedek e con altre due armate in direzione di Vienna. Il tutto in tempi così serrati, che un mese dopo lo sconfinamento in Boemia, Moltke è pronto alla battaglia decisiva sotto le mura della capitale nemica; ma la conclusione di un armistizio tronca le operazioni.

All'inizio della guerra del 1870 la diversità degli organismi, dei metodi e delle concezioni che si trovano di fronte è ancor più netta che nella campagna di Boemia. La Francia ha continuato a rimanere in una condizione d'insufficiente costituzione, di difettoso addestramento, d'inettitudine direttiva (Stati Maggiori e gerarchi) trascurando gl'insegnamenti del 1859. Troppi scrittori del Secondo Impero sembrano convinti che la retorica - cui dànno facile esca i grandi episodî guerrieri della Rivoluzione e del Primo Impero - basti a tener alto lo spirito militare e che l'alto spirito militare basti da solo a neutralizzare l'altrui eventuale superiorità tecnica. In alcune menti meno offuscate dal preconcetto, s'ingenerò qualche dubbio sulla solidità dell'apparecchio militare francese, dopo le vittorie prussiane del 1866; si notò che il deplorevole sistema di reclutamento a base di esoneri e rafferme metteva la Francia in condizioni d'inferiorità di fronte al sistema della coscrizione rigidamente seguito in Prussia (in Francia nel 1866 su una forza presente di 370.000 di truppa, quelli di leva erano soltanto 145.000; gli altri erano raffermati). Le conseguenze di questo sistema apparivano ai pochi attenti osservatori doppiamente dannose in quanto l'esercito di campagna veniva a essere costituito di uomini più vecchi, e in quanto il limitato numero di posti riservato agli elementi di leva restringeva la rotazione di questi elementi rarefacendo, di conseguenza, le riserve di complemento dell'esercito attivo. Le prime proposte per modificare tale stato di cose incontrarono opposizione nel paese, e nella camera (comprese le frazioni di sinistra), e ciò appare a fil di logica tanto più strano in quanto il sanzionato privilegio dell'esenzione per censo era contrario allo spirito democratico, secondo il quale si avviava a trasformarsi la costituzione interna dello stato. Ne venne fuori un compromesso che nulla risolveva, e anche il poco ottenuto rimase senza effetto, per la parte che riguarda l'istituzione della guardia nazionale mobile, dopo la morte del Niel autore del progetto. Tutto ciò aggravato dalla riduzione, per economia, del contingente annuo alle armi. Quando scoppiò la guerra (luglio 1870) il primo parlamento del regime liberale era in via di diminuire ancora i bilanci militari. In verità l'esercito si era andato distaccando dal resto della nazione; la prosperità economica attirava i giovani verso le professioni liberali, i commerci, le arti; sullo sfondo d'ideologie come la "pace perpetua" e l'"alleanza di tutti i popoli liberi", il romanzo, il teatro, il giornalismo e la stessa tribuna parlamentare si permettevano satire che tendevano a mettere l'esercito in ridicolo. Napoleone III mancava delle qualità di carattere di un gran capo e la sua autorità sull'esercito diminuiva parallelamente allo scemare della sua autorità politica; nel 1870 era già a un livello assai basso. Il suo entourage militare, convinto cho le riforme liberali sarebbero state fatali per l'impero, e consci delle non buone condizioni di salute del sovrano, cominciava a preoccuparsi della propria sorte e a intiepidire lo zelo.

Nell'esercito mancava il collegamento fra le varie armi, ciascuna delle quali viveva di vita indipendente. Salvo per il corpo della Guardia e per le guarnigioni di Parigi e di Lione, non esistevano unità costituite superiori al reggimento. Il territorio dell'impero era diviso in sette grandi circoli d'ispezione ed esistevano alcuni comandi di divisione territoriale, ma con funzioni puramente amministrative, senza ingerenza nell'addestramento tecnico-tattico dei reparti. Come nel 1859 (e in quell'anno si trattò di mobilitazione parziale), allo scoppio della guerra del 1870 i corpi delle diverse armi saranno inviati alla spicciolata in determinati luoghi, dove dovranno costituire le unità superiori e dove anche dovranno ricevere i complementi di uomini e materiali, i due fatti della mobilitazione e della radunata confondendosi e spesso intralciandosi. Preoccupato di una razionale utilizzazione dei trasporti ferroviarî, il maresciallo Niel aveva bensì abbozzato progetti che, convenientemente completati, sarebbero potuti essere di non poca utilità; ma, all'atto della guerra, si dimenticò perfino che esistessero. Simulacri di battaglia con concorso di numerose truppe si facevano ai campi di Sathonay e di Châlons, spesso alla presenza dell'imperatore; ma erano semplicemente esercizî di parata, azioni in sostanza coreografiche dalle quali nessuno apprendeva nulla.

I regolamenti formalistici e antiquati - erano per tutti come un catechismo inviolabile; la routine regolava le operazioni in ogni contingenza e le iniziative - considerate incomode - erano mal viste. I perfezionamenti nelle armi (fucile Chassepot e canon á balles, specie di grossa mitragliatrice a canne multiple) insinuavano il preconcetto che la difensiva avesse ormai prevalenza sull'offensiva e che la guerra tendesse a divenire metodica. Del servizio di Stato Maggiore si aveva una concezione ristretta, facendolo consistere specialmente in levate topografiche, in lavori burocratici e di archivio. Il sistema delle fortezze era antiquato; molte opere erano divenute inutili; ma anche quelle che conservavano un certo grado di efficienza, si lasciarono sorprendere dalla guerra senza gli effettivi e le organizzazioni occorrenti. Di piani di guerra per un eventuale conflitto con la Prussia non esisteva che un progetto difensivo del 1867, opera del generale del genio Frossard e un pian0 offensivo compilato nel 1869 d'accordo con l'arciduca Alberto di Asburgo, piano che, però, presupponeva un'alleanza franco-italoaustriaca in effetto non realizzata (v. franco-prussiana, guerra).

Di fronte a questo stato di cose doveva mostrarsi decisiva la superiorità delle istituzioni e dei metodi prussiani. Dopo il 1866 la personalità del re Guglielmo I aveva sempre più assicurata una perfetta armonia fra la preparazione politica e la preparazione militare per l'eventualità di una nuova guerra. Nell'esercito il re godeva di una meritata reputazione, in quanto egli - pur evitando indebite ingerenze o bruschi interventi - conosceva a fondo i problemi della tecnica militare, e con il suo calmo buon senso e la sua ferma volontà otteneva continuità d'indirizzo, efficacia d'addestramento, mezzi finanziarî adeguati alle necessità della preparazione. Dal suo canto il Moltke aveva ripreso con maggiore intensità gli studî per il caso di una guerra contro la Francia, formulando anche diverse ipotesi di alleanze politiche. In sostanza la dottrina manifestata dal Moltke in questi piani s'ispirava alla dottrina del Clausewitz, ed era compendiata in questi tre punti: sopraffare prontamente l'esercito francese in una o più grandi battaglie campali; occupare Parigi; ricacciare a sud della Loira le superstiti forze militari del paese. Passando da questo largo disegno generale ai particolari, il progetto del Moltke si limita a prevedere quanto potrà attuarsi fino al primo incontro con il nemico, dal quale incontro uscirà una nuova situazione a determinare la quale sarà naturalmente entrata anche la volontà dell'avversario. Il primo concentramento strategico, esattamente calcolato nel tempo e nello spazio "per evitare errori iniziali che difficilmente potrebbero poi correggersi in tutto il corso della campagna", sarà una massa unica, ma snodata, nella regione centrale del Palatinato renano. Il Moltke calcola la quantità di truppe da mettere in linea in modo da assicurarsi la "superiorità del numero", ch'egli considera primo elemento di forza; attribuendo ai Francesi 250.000 uomini, egli ne raccoglierà contro la Francia 300.000; e ciò gli permetterà d'iniziare la guerra attaccando. Il tempo necessario per il passaggio dallo schieramento strategico al concentramento delle forze sullo stesso campo di battaglia è assicurato - nella strategia moltkiana del '70 - da un calcolo di spazio; e cioè il terreno della battaglia sarà una zona che il nemico non potrà raggiungere se non nel tempo che è necessario ai Tedeschi per riunirvi le forze. Osserva F. Foch a questo proposito che Moltke non si era premunito per il caso che il nemico fosse più attivo di quello che egli supponeva; e che, comunque, la strategia moltkiana - la quale chiede la sicurezza del proprio concentramento semplicemente allo spazio - è inferiore alla strategia di Napoleone I, che quella sicurezza affida a un sistema di copertura e a un'avanguardia strategica. Il Foch conclude: "Il Moltke finisce per credere più alla matematica che alla manovra, al numero più che alla forza morale. Egli non si è giudicato capace di un giuoco più grande di quello adottato; e se, per questa concezione, egli si colloca al disotto di Napoleone, non si può non ammirare la saggezza dell'uomo che mette le sue vedute all'altezza dei suoi mezzi e che, infine, per una via meno geniale, per una conoscenza esatta e una giusta valutazione del suo avversario, sa costantemente dominarlo e conseguire risultati che non sono mai stati superati nella storia".

Moltke impiega la cavalleria per la ricognizione nel campo strategico, sostenendola con divisioni di fanteria ad alcune giornate di marcia. Quando la prima grande battaglia offensiva, ch'egli ha cercato sulla Sarre, sfuma per l'eccesso di zelo di comandanti in sottordine prematuramente attaccanti, Moltke monta subito un'altra manovra strategica a massa di armate dirette alla Mosella. Anche qui gli esecutori non rispondono appieno; ma le grandi battaglie attorno a Metz (14-18 agosto) dimostrano come una tattica vivace possa venire in soccorso di momentanee incertezze strategiche, introducendo realtà palpabili nella congerie delle ipotesi che - per quanto logiche - possono non avere rispondenza nei fatti concreti.

La guerra del 1870-71, più ancora di quella del 1866, mostra in atto i diversi tipi caratteristici di manovre strategiche che il Moltke ha adattati alle circostanze: la manovra strategica di Metz con convergenza delle forze per battere il grosso delle forze avversarie; la manovra strategica di Sedan, che è manovra centrale rispetto alle due masse francesi del Mac-Mahon e del Bazaine, ed è manovra di avvolgimento (strategico dapprima, tattico poi) rispetto all'armata francese di Châlons; soprattutto mostra che, attraverso il razionale adattamento alle circostanze, lo schema generale del piano di guerra è tenuto costantemente presente e si traduce, dopo Sedan, nella marcia diretta su Parigi e nelle operazioni successive contro le armate di provincia. Come conclusione si può affermare che la strategia moltkiana non costituisce innovazione, ma applicazione razionale e accorta delle massime napoleoniche da parte di un capo che ha una meta chiara, la ferma volontà di raggiungerla e mezzi acconci.

Sul campo di battaglia i progressi dell'armamento indussero la fanteria ad abbandonare le formazione serrate e ad adottare l'ordine sparso, a utilizzare altresì i minimi ripari del terreno e anche a crearne ove non esistessero. Per la cavalleria le occasioni di eseguire proficue azioni a massa furono sempre più rare. Le cariche leggendarie della cavalleria francese contro la cavalleria tedesca a Vionville-Rezonville o della cavalleria francese contro la fanteria tedesca a Sedan, furono dimostrazione di eroismo e basterebbero da sole all'onore di un esercito; ma furono non meno un sacrificio senza corrispondenti frutti; tanto che se ne dedusse da alcuni - con precipitazione eccessiva - che la cavalleria dovesse scomparire come arma di battaglia e potesse conservare soltanto il suo compito di scoperta e di protezione strategica. Infine l'artiglieria crebbe d'importanza, anche perché i Tedeschi (che possedevano un materiale superiore a quello francese) seppero imprimere al suo impiego tattico un andamento brillante, collocandola verso la testa delle colonne in marcia, facendola entrare numerosa in azione fin dai primi momenti della lotta, regolando poi i successivi spostamenti a scaglioni, in modo da essere in ogni momento attiva e da costituire la vera ossatura del combattimento in tutte le sue fasi.

Campagne di guerra dopo il 1870-71. - Come già era avvenuto un secolo innanzi, dopo le vittorie del Grande Federico, tutte le potenze militari - la Francia in prima linea - si diedero a imitare le istituzioni prussiane e il metodo di condotta seguito dal Moltke.

La dottrina militare, salvo poche differenze di sfumatura, fu dovunque orientata sui risultati della lotta in Francia; né le guerre combattute nel quarantennio seguente apportarono nuovi elementi che potessero modificarla. Alcune di queste guerre (la turco-russa del 1877-78 e l'anglo-boera del 1899-902) parvero bensì in un primo tempo modificare la struttura della lotta; ma, considerate con maggiore ponderazione, rivelarono che i primi giudizî non avevano tenuto conto dell'azione insufficiente dei mezzi contrapposti, nel valutare l'efficacia di taluni procedimenti di attacco o di difesa.

a) La guerra russo-turca del I877-78. - In questa guerra, durante le due prime battaglie di Plevna, la resistenza delle posizioni difensive dei Turchi (dalla quale si volle in un primo tempo inferire l'assoluto prevalere della difensiva sull'offensiva nel campo tattico, in dipendenza del più perfetto armamento), fu dovuta agli errori dei Russi, che attaccarono alla cieca senza aver riconosciuto le posizioni e senza preparatorio combattimento d'avanguardie e lanciarono poi le fanterie in dense colonne, senza riserve; sicché i Turchi, che sul principio della prima e della seconda battaglia avevano ceduto terreno, lo riacquistarono con brillanti ritorni offensivi. Alla terza battaglia di Plevna la riserva generale è ancora troppo scarsa e il comando supremo russo abdica, in questo modo, all'azione direttiva; le forze sono bensì ripartite questa volta più razionalmente fra i settori di attacco, ma fra l'uno e l'altro settore manca qualsiasi collegamento; si nota in questa terza battaglia una qualche cura per lo scaglionamento in profondità, ma le ondate successive di attacco sono regolate in modo difettoso, perché in luogo di determinare un crescendo nell'azione del fuoco, si attende che l'attacco precedente abbia esaurita tutta la sua energia per fare entrare in linea lo scaglione retrostante. Certo, un'offensiva tattica così condotta era destinata all'insuccesso. L'accresciuta potenza del fuoco mostrò quale grande valore fosse da attribuire ai trinceramenti speditivi, che lo stesso fante poteva costruire da sé durante le brevi soste del fuoco, procedimento nel quale i Russi mostrarono grande abilità. Ma la dottrina tattica, pur ammettendo generalmente l'utilità, e anche la necessità, delle piccole coperture costruite dal fante (la vanghetta come arma difensiva) si orientò in definitiva sulla necessità di evitare che s'ingenerasse il concetto di un diminuito valore dello spirito offensivo.

b) La guerra anglo-boera del 1899-1902. - Durante e subito dopo la guerra anglo-boera affiorò la tesi estremista che l'accresciuta potenza del fuoco (armi portatili a piccolo calibro, a tiro rapido, facenti uso di cariche non fumogene; artiglierie da campo pesanti e a tiro curvo) dovesse condurre a risolvere le battaglie a distanza, ottenendosi così vittorie "meccaniche" con il minimo rischio dei combattenti. Era, né più né meno, disconoscere il fondamento etico e umano di ogni lotta e di ogni vittoria.

La conclusione da trarre era evidentemente diversa: e cioè che gli attacchi a fondo dovevano ormai essere preparati realizzando sul tratto di fronte da attaccare una decisa superiorità di fuoco. Anche in questa campagna si dovette riconoscere che la mancata riuscita di molti attacchi inglesi non dipese dall'inapplicabilità del principio offensivo, ma da un difettoso procedimento. D'altra parte, la stessa guerra del sud-Africa ci dà esempî di vittorie ottenute con l'urto finale, quando la preparazione del fuoco era stata bene condotta e la cooperazione tra fanteria e artiglieria non era stata in difetto (Elandslaagte, Waal-Krautz, Pieter's hill, Spion Kop, ecc.). Si deve nondimeno riconoscere che, in realtà, gl'Inglesi trovarono nella straordinaria abilità dei Boeri quali tiratori la maggiore difficoltà per realizzare la superiorità del fuoco; e questa stessa ragione spiega la grande differenza percentuale delle perdite inglesi rispetto a quelle boere. Così, considerati i fatti con maggiore ponderazione, si finì con l'escludere che la guerra anglo-boera avesse sanzionato il trionfo assoluto del fuoco e la definitiva condanna della baionetta.

c) La guerra russo-giapponese (1904-05) venne, del resto, a riconfermare in pieno che - malgrado tutti i perfezionamenti tecnici - l'uomo permane il primo strumento della lotta, con le sue forze morali e intellettuali e con il suo addestramento tecnico. Sotto questo punto di vista il soldato giapponese mostrò qualità superiori al soldato russo, dalle energie volitive poco sviluppate, formato a una disciplina collettiva di cieca obbedienza, inetto all'azione e alle iniziative individuali, incapace di intendere l'opportunità patriottica di quella lontana guerra. Il modo del comando e le stesse forme del combattimento non poterono sottrarsi all'influsso di quelle deficienze. Assai più curata presso l'esercito giapponese l'istruzíone e l'educazione dei quadri; assai più alta la fiducia reciproca fra comandanti e gregarî. Così i difetti degli uni come le qualità degli altri, in connessione con le condizioni sociali faranno sempre più sentire i loro effetti col prolungarsi della guerra quando si dovrà ricorrere a quadri inferiori e a truppe di complemento.

Nella campagna manciuriana si sono avute - forse primo esempio nella storia - battaglie durate molti giorni, senza soste notturne, richiedendo le manovre tattiche con grandi masse e su terreno di scarsa viabilità molto tempo per il loro sviluppo e occorrendo altresì lunga azione preparatoria di fuoco e l'intervento di artiglierie pesanti da campo. Quanto a manovre strategiche (quasi sempre offensive da parte giapponese e in ritirata da parte russa), se ne sono avute di vario tipo: quella frontale con aggiramento d'ala a Liao Yang; quella frontale allo Sciaò; quella per linee esterne di Mukden, che per poco non ebbe la forma e i risultati di Sedan. Ma più che al valore dell'uno o dell'altro tipo di manovra, il successo giapponese va attribuito a saggia realizzazione della sorpresa. Quanto ai grandi raids operati dalla cavalleria russa, quantunque non potessero influire sul risultato della lotta, mostrarono come masse di squadroni allenati e ben comandati avessero ancora considerevole capacità di penetrazione nell'interno del paese nemico e larga autonomia di movimento. Le difficoltà in cui si trovarono i Russi in quanto ai rifornimenti e all'invio di complementi, misero sempre meglio in chiaro che senza una buona rete ferroviaria a rendimento adeguato, un grande esercito moderno non può sperare di conservare a lungo la propria autonomia. Solo un potente sistema logistico (e il regime dei trasporti ne è la vita) può servire a dovere la strategia; quando manca, la strategia è costretta ad attardarsi regolandosi sulla potenzialità ridotta della logistica.

d) Guerre italo-turca (1911-12) e balcaniche (1912-13). - Nessuna indicazione di nuovi orientamenti della dottrina militare poteva venire dalla campagna coloniale italiana, salvo le prime interessanti constatazioni sugli utili servizî dell'aviazione militare. L' Italia fu infatti la prima a impiegare nelle operazioni per la conquista della Libia l'aviazione come mezzo di ricognizione, di bombardamento e di osservazione del tiro. Del suo esempio profittarono i belligeranti del 1912-13 e in particolar modo i Greci e i Bulgari, quantunque la lotta nei Balcani, vivacemente manovrata, rendesse difficile la sistemazione dei campi d'atterraggio, che la scarsa autonomia di volo degli apparecchi di allora richiedeva fossero spostati per stabilirli in prossimità della zona d'impiego. Per questa ragione l'attività aviatoria fu particolarmente notevole là dove la lotta si stabilizzò in operazioni d'assedio (Adrianopoli, Scutari). Comunque, sta di fatto che, dopo la guerra italo-turca e le guerre balcaniche, il fattore "arma aerea" entrò - sia pure attraverso diffidenze e resistenze passive - nel quadro prospettico della guerra futura.

La dottrina di guerra nel 1914. - Dall'esperienza del passato e dallo studio speculativo delle probabili condizioni in cui sarebbe potuta svolgersi una guerra futura, i tecnici militari avevano fissato nel 1914 - con poche varianti da uno stato all'altro - i punti fondamentali della dottrina di guerra.

Si riconosceva come premessa che tale dottrina, per quanto ponderata e collaudata attraverso la critica storica, poteva prestarsi a erronei orientamenti e a conseguenti delusioni, sia per un eccesso di generalizzazione dei fatti storici, sia per lo sforzo di fissare basi concrete con il rischio di lasciarsi andare a una concezione troppo meccanica della guerra. Per diminuire tali cause di errori si proclamava necessario riattaccare da un lato la scienza delle grandi operazioni all'ambiente extra-militare circostante; e di esaminare a fondo, dall'altro lato, le reazioni reciproche fra le concezioni strategiche e le possibilità tattiche (potenza delle armi immensamente accresciuta). Nel campo organico si constatava che il congegno di reclutamento in atto permetteva di chiamare alle armi in tempo di guerra tutti gli uomini validi. Le classi più giovani (8-10) avrebbero costituito l'esercito di campagna, con che si prevedeva di poter mettere in campo eserciti di milioni d'uomini, mai visti in passato. Si ammetteva che, più che nel passato, i caratteri psicologici e fisici dell'esercito avrebbero in avvenire rispecchiato i caratteri psicologici, fisici e sociali della nazione ormai completamente identificata con le sue forze armate. Assorbendo la guerra tutte le attività nazionali, non si ammetteva più la possibilità di lotte dinastiche o per motivi secondarî Conseguenza: guerre a fondo. Qualcuno aveva elevato il dubbio che gli stati fossero in grado di mettere in piedi i previsti grandi eserciti di guerra, soprattutto per mancanza di materiali adeguati, in dipendenza della depressione economica industriale che la guerra avrebbe comportato. Ma si convenne generalmente che questo pessimismo era esagerato e che sarehbe stato sufficiente predisporre le energie economiche, finanziarie e industriali in modo da evitare loro una troppo grave crisi di trapasso dallo stato di pace allo stato di guerra. Si ammetteva che l'aumento del numero diminuisse il valore tattico delle truppe perché le ferme più brevi (collegate con la ricerca del numero) rendevano più difficile assicurare la quantità necessaria di buoni graduati istruttori. Oltre un certo limite - molto alto però - l'accrescimento del numero non avrebbe più compensato l'inferiorità di valore tattico.

Si aggiungeva che la pesantezza delle masse aumenta la difficoltà di guidarle, il che impone di dedicare particolarissima cura alla tecnica delle marce e dei trasporti. L'attitudine manovriera delle masse moderne ne sarebbe risultata, comunque, inferiore a quella delle masse d'altri tempi. In relazione a ciò il sistema di sicurezza doveva funzionare a distanze assai maggiori e l'esplorazione doveva essere spinta anch'essa molto lontano. Però la previsione di tali necessità non portava affatto alla conclusione che si dovesse abbandonare la guerra di movimento e l'azione offensiva. Anzi si propendeva da molti a credere che l'accrescimento del numero nuocesse più alla difensiva che all'offensiva, per la difficoltà di trovare buone posizioni che dessero utile riparo a milioni di uomini; a una guerra per lunghi periodi stabilizzata e interrata non si pensava e, in questo campo, ci si fermava all'utilità universalmente ammessa di leggieri trinceramenti sul campo di battaglia.

Nessuno escludeva l'esistenza di elementi imponderabili; ma, non potendosene fissare il valore relativo, si supponevano, in linea teorica e a priori, pressoché eguali per tutti gli eserciti modernamente organizzati. Si riconosceva che il numero più alto non è sempre utilizzabile per difetto di spazio, di attitudine manovriera; ma si concludeva che se da un lato è pericoloso identificare il numero con la potenza, dall'altro lato non si può pretendere che un capitano anche di statura più che media venga a capo di una sproporzione numerica troppo forte. Soltanto a genî della guerra come Federico e Napoleone è dato - e non in ogni caso - di compensare con la grande superiorità dell'arte un'inferiorità numerica accentuata. Si riconosceva generalmente che la fanteria aveva realizzato con l'adozione delle mitragliatrici una grande potenza di fuoco; ma non mancavano coloro che temevano l'eccessivo consumo di munizioni delle nuove armi se distribuite su larga scala e altresì il loro pernicioso effetto come remora dello slancio del fante, la cui tendenza sarebbe stata quella di star fermo per servirsi il più a lungo possibile della mitragliatrice. L'artiglieria aveva anche essa accresciuto i suoi effetti di fuoco per rapidità e precisione di tiro; obici leggieri e pesanti erano pronti a intervenire nella battaglia per abbattere ostacoli e colpire bersagli dietro ripari. Già s'intravvedeva, per la lotta vicinissima, l'uso di granata a mano. Era in corso l'adozione di cannoni automatici a piccolissimo calibro, celerissimi al tiro, con gittata fino a 5000 m. e destinati in accompagnamento immediato della fanteria. Si pensava che, per neutralizzare l'effetto di questi nuovi potenti mezzi di offesa, si dovessero usare formazioni spaziate nel senso della fronte e della profondità, che i movimenti di manovra dovessero essere compiuti lontano e di notte. Cominciava a presentarsi il problema delle artiglierie controaeree, in dipendenza dei recentissimi progressi dei mezzi aerei.

In fatto di ferrovie si affermava che la grande mole degli eserciti richiedeva fin dalla pace la costruzione di linee strategiche e imponeva anche, durante la guerra, l'ausilio di trasporti motorizzati. Specialmente per la radunata si sarebbero dovute predisporre linee a doppio binario penetranti nella zona di concentramento. Si pensava all'utilità di poter costruire linee ferroviarie sussidiarie con armamento leggiero, durante le operazioni. Si era in via di moltiplicare le trasmissioni per radio; era rilevato l'inconveniente della facile captazione, cui si pensava di poter ovviare con il frequente cambiamento dei cifrarî. L'aeronautica, quantunque allo stato di infanzia, era già considerata come un fattore non trascurabile della tecnica della guerra. La preferenza della Germania per il più leggiero (di tre tipi: rigido, semirigido, pieghevole) non aveva distolto l'attenzione, neppure degli stessi Tedeschi, dal più pesante, che la Francia preferiva. L'adozione dei biposti (che aveva reso più pratico l'uso degli apparecchi dal punto di vista militare), la velocità raggiunta (fino a 140 km. orarî), l'adozione di tipi che potessero atterrare e alzarsi su terreno anche non preparato, erano progressi che non lasciavano dubbî sul rendimento che si sarebbe potuto ottenere dagli aeroplani nel campo dell'esplorazione (in aiuto alla cavalleria), per osservazione del tiro, per collegamento con distaccamenti lontani, per l'attacco contro i dirigibili e per bombardamento di località o di ammassamenti di truppe. L'impiego dell'aeronautica era, però, previsto in funzione subordinata e direttamente collegata all'azione strategica o tattica delle truppe terrestri, e cioè non si considerava nel 1914, la convenienza di masse aeree operanti in modo indipendente.

Si attribuiva molta importanza alla fortificazione permanente, non solo con compito di protezione locale, ma come copertura della radunata e come ausilio indiretto e diretto alle operazioni strategiche offensive; indiretto in quanto l'economia di forze aventi compiti difensivi (economia che le fortificazioni consentivano) permetteva di raggiungere altrove la superiorità numerica per una più energica offensiva; diretto, in quanto piazzeforti costituite ad hoc e cioè a grande capacità e grande raggio d'azione, avrebbero potuto contenere in piena sicurezza riserve generali mobili da lanciare offensivamente all'esterno al momento opportuno. Si pensava infine che le fortificazioni potessero essere utili come protezione di eserciti sconfitti, in ritirata entro i proprî confini.

Sempre maggiore importanza nel campo delle grandi operazioni si attribuiva alla cavalleria; si pensava che quest'arma avesse guadagnato nel campo strategico ciò che aveva perduto nel campo tattico, dove le occasioni per i suoi interventi decisivi con la carica si ammettevano ormai rare, deducendosene (specie in Germania) che il concorso della cavalleria nella battaglia si sarebbe più frequentemente manifestato, nella futura guerra, con il fuoco di squadroni appiedati anziché con l'impeto di una massa di cavalli. Ma nel campo strategico alla cavalleria si riconoscevano possibilità di valore preminente: con l'esplorazione lontana essa era l'occhio dei grandi comandi e in questo compito la nuovissima arma aerea poteva aiutarla (non si prevedeva che potesse sostituirla) indicandole dall'alto l'orientamento più utile dell'azione di scoperta; la presenza della cavalleria molto al dinnanzi delle fronti di schieramento, permettendo di guadagnare tempo, veniva a essere potente elemento di sicurezza; infine si attribuiva alla cavalleria la possibilità di utili azioni di sorpresa per disorganizzare le comunicazioni avversarie.

Per sostenere la cavalleria in tutte queste azioni, si cominciava a considerare la convenienza di farla accompagnare da reparti di fanteria montati su biciclette, e di tali reparti s'iniziò, infatti, la costituzione. Fu questo l'embrione degli attuali corpi celeri misti.

Dato il convincimento che la guerra dovesse e potesse essere condotta rapidamente con atti offensivi, e date le grandi masse da far intervenire nella battaglia da punti anche lontani, si era studiato con molta cura e in tutti i particolari il meccanismo del movimento. La tecnica delle marce s'ispirò fondamentalmente agl'insegnamenti napoleonici, la cui applicazione, però, si riconobbe essere divenuta più complicata. L'alterna successione dei trasferimenti e dei tempi d'arresto; l'utilizzazione al massimo delle reti stradali ordinarie e ferroviarie; il raddoppiamento delle formazioni sulle strade più larghe per accorciare le colonne; la marcia fuori delle strade l'interdipendenza fra la lunghezza delle marce e le possibilità del rifornimento da tergo (ammesso come normale, date le difficoltà, per grandi masse in movimento, di vivere sul paese); il sussidio dei trasporti per via acquea e dei convogli automobilistici; il sistema dei posti di tappa; gli accorgimenti particolari per le marce di notte (che si raccomandava di adottare di preferenza); le particolarissime difficoltà di marce in territorio nemico e ostile; tutto si studiava minuziosamente dagli Stati Maggiori.

Circa la preparazione e l'azione delle superiori gerarchie, si metteva a fondamento loro la considerazione che larghi fronti, posizioni coperte, azioni a fuoco iniziate a grandi distanze (caratteristiche della battaglia quale la si prevedeva) dovevano rendere sempre più arduo l'esercizio del comando tattico, in dipendenza anche delle difficoltà di trasmissione degli ordini ai reparti di fanteria e di artiglieria impegnati. Ne conseguiva l'esaltazione dell'iniziativa, che si affermava dovesse trovare lo spunto per razionali manifestazioni nella conoscenza delle intenzioni del capo e dello scopo dell'azione, senza un tale fondamento potendo la battaglia facilmente degenerare nel caos di azioni disordinate e slegate. In linea generale le menti dovevano essere orientate verso principî generali da tutti assimilati (unità di dottrina) nel cui quadro le iniziative si potessero manifestare e sviluppare con sufficiente larghezza, ma dal quale non si dovesse uscire (disciplina delle intelligenze).

La dottrina fu universalmente imbevuta di spirito offensivo a oltranza. Si opinava che sul campo di battaglia i grandi progressi tecnici delle armi e dei mezzi d'ogni specie consentissero una progressiva intensità di azione che poteva tornar più utile all'attaccante che al difensore. Si faceva da taluno eccezione per l'attacco frontale, per il quale si ammetteva che l'attaccante dovesse assicurarsi una preventiva superiorità (o di numero o di macchine) sul difensore, soggiungendosi comunque che l'attacco frontale sarebbe stato, in via normale, soltanto un elemento dell'attacco generale. Elevandosi poi sopra l'aspetto puramente meccanico della lotta e introducendo i fattori spirituali, si ammetteva come verità non oppugnabile, che l'attaccante moltiplica - per il solo fatto di attaccare - le energie morali, anche perché si assicura il vantaggio di scegliere il momento e la direzione del colpo. Si era unanimi nell'affermare che l'azione difensiva, anche se utile o necessaria in particolari circostanze, non potesse ottenere risultati positivi, ove non si trasformasse appena possibile in azione offensiva.

Circa l'estensione della battaglia, era opinione di alcuni che l'accennata tendenza a evitare l'urto frontale e a ricorrere agli attacchi avviluppanti, avrebbe portato ad accrescere smisuratamente la linea d'attacco; gli ammaestrameuti della guerra russo-giapponese erano per costoro decisivi su questo punto e si prevedevano fronti fino a 150 km. per battaglie di gruppi di armate contrapposti. Ma altri opponevano che la perdita di potenza negli elementi di una fronte troppo diluita avrebbe funzionato automaticamente come remora a quella tendenza. Non si prevedeva che le fronti avrebbero assunto, invece, estensione così enormi da rendere praticamente impossibile l'aggiramento e da ridurre la battaglia ad attacchi frontali con azione sfondante per determinare delle ali ai margini della rottura. Poiché si escludeva una strategia lineare, le tendenze si differenziavano sui più convenienti tipi di manovra. Ammesso da tutti che l'offensiva strategica dovesse proporsi come obiettivo non occupazioni territoriali, ma la massa principale del nemico, si potevano sperare risultati più completi dalla manovra per linee interne o da quella per linee esterne? Questione in realtà, non solubile in tesi generale. Infatti la manovra per linee interne, proponendosi di metter fuori causa successivamente più avversarî, presuppone l'esistenza di masse nemiche separate e distanti fra loro quel tanto che è necessario perché l'attaccante non resti schiacciato da una loro eventuale mossa convergente. Così la manovra per linee esterne, tendente alla convergenza delle proprie forze sulla massa principale del nemico, deve poggiarsi su dati concreti, per non correre il rischio che parte delle proprie forze siano attaccate dal nemico superiore e battute prima che soccorse.

Lo Stato Maggiore tedesco ammetteva che i diversi tipi di manovra potessero essere promiscuamente adottati, secondo le circostanze, ma prediligeva l'avanzata da larga fronte con convergenza verso una ristretta zona. Lo Stato Maggiore francese mostrava invece decisa preferenza per l'offensiva a massa concentrata, con avanguardia e riserva, ossia lo schieramento strategico a losanga, poco esteso nel senso della fronte e molto profondo e perciò in migliori condizioni di elasticità, così da poter essere - meglio di quello tedesco - orientato secondo le circostanze.

Queste - accennate per sommi capi - le massime dottrinali con le quali le principali potenze militari entrarono nella guerra mondiale. Esse furono in parte convalidate dai fatti, in parte sconvolte. E dove le constatazioni furono diverse dalle previsioni, ciò dipese essenzialmente dall'erronea supposizione fondamentale, comune pressoché a tutti, di una guerra necessariamente breve.

Durante la guerra mondiale. - Il convincimento della brevità fu la principale ragione per la quale i belligeranti si trovarono in difetto come attrezzatura industriale, fatta eccezione, in parte, per la Germania, che aveva preveduto - sia pure in misura non adeguata - una mobilitazione della produzione, ma non aveva preveduto una conveniente politica delle materie prime, non supponendo che le sarebbe stata preclusa ogni via di rifornimento. In sostanza, per una ragione o per l'altra, nessuno dei belligeranti rivelò una decisa superiorità in questo campo della produzione dei materiali bellici e dell'organizzazione industriale interna. E nella ricerca successiva di questa superiorità, nessuno prevalse decisamente. Così la guerra ebbe carattere di usura fino all'esaurimento di un gruppo di belligeranti.

Nel campo tattico la mitragliatrice impresse all'azione una caratteristica nuova. Prevista come potente mezzo ausiliario, si affermò invece come fattore principale di successo, imponendosi contro le prevenzioni di chi la osteggiava, perché ne temeva il consumo esagerato di munizioni e una diminuzione nell'ardore offensivo del fante. Ché, se la mitragliatrice fu una delle cause dell'interramento della guerra, ciò sembra piuttosto doversi attribuire alle caratteristiche offensive dell'arma, dinnanzi alla quale fu necessario coprirsi. La proporzione delle mitragliatrici assegnate alla fanteria aumentò ben presto in modo enorme durante la guerra; analogamente aumentarono i cannoncini per fanteria imposti dalla necessità di battere i blindamenti delle trincee e si generalizzò l'uso delle bombe a mano; inoltre aumentarono di numero le artiglierie pesanti da campo e le artiglierie a tiro curvo. In tutto questo non vi fu novità nell'ideazione, ma nelle proporzioni. Il consumo delle munizioni fu enormemente maggiore di quello messo in conto anche dalle più larghe previsioni e in certi momenti l'insufficienza delle dotazioni assunse caratteri minacciosi, ora nell'uno ora nell'altro campo.

Manifestazione impreveduta in fatto di armamento furono durante la guerra i carri armati (v. carro e carrozza, IX, p. 166 segg.). Essi produssero un notevole effetto morale; e nei terreni pianeggianti o lievemente collinosi nei quali furono largamente impiegati, si mostrarono un efficace mezzo di attacco, sia per la relativa facilità di superare ostacoli (fossi e reticolati) sia perché non vulnerabili dal fuoco delle mitragliatrici. I primi carri del genere furono studiati in Francia, poi subito in Inghilterra. Se ne ebbero di due tipi: leggiero o d'accompagnamento e pesante o di rottura. Fecero le loro prove più brillanti nell'offensiva della Somme nel luglio 1918 sulla fronte delle armate francesi 6ª e 10ª. Però i risultati ottenuti dai carri armati furono soprattutto dovuti alla sorpresa, sicché il loro rendimento diminuì quando i Tedeschi usarono su larga scala mezzi di neutralizzazione, come tiri di sbarramento, difese passive, armi anti-carro.

L'arma aerea, della quale - come si è accennato - era stato previsto in misura modesta l'impiego, s'impose sempre più, ogni giorno, durante la guerra. I perfezionamenti tecnici permisero di conseguire notevoli incrementi di velocità, di portata, di autonomia. La guerra interrata con trinceramenti a fronti continue avendo resa pressoché impossibile alla cavalleria la scoperta strategica, l'aviazione (che avrebbe dovuto essere soltanto ausiliaria degli squadroni esploranti) divenne l'unico occhio dei grandi comandi sul campo dell'azione. Furono possibili imprese di bombardamento lontano a scopo d'intimidire le popolazioni dell'interno, e si dovette aumentare la "caccia" per ostacolare il bombardamento avversario. Preziosi servizî rese l'aviazione all'artiglieria agevolandole la scoperta dei bersagli e la correzione del tiro. Infine i velivoli, arditamente sorvolando a bassa quota il campo di battaglia, presero parte all'azione tattica con il fuoco delle loro mitragliatrici. L'azione aerea su così vasta scala costituì uno degli elementi nuovi della guerra, pur rimanendo sempre collegata con le operazioni alla superficie.

Un'altra apparizione insospettata fu quella dei gas tossici e dei proiettili speciali che li contenevano. Li usarono per primi i Tedeschi a Ypres nel 1915 e furono di due specie: ad azione passeggera usati nelle operazioni offensive e ad azione persistente per la difensiva. Le specie di gas si moltiplicarono poi nei due campi avversarî e l'uso dei gas su grande scala (e conseguentemente delle maschere protettive) incise in modo considerevole sui procedimenti tattici dell'ultima fase della guerra.

Dal punto di vista della strategia è da notare che nessuno dei grandi piani offensivi iniziali riuscì secondo le previsioni, fatto molte volte verificatosi nella storia delle guerre. Con eccessivo entusiasmo si era da tutti seguito un principio offensivo teoricamente razionale, ma non si erano valutate al giusto le difficoltà da superare, dipendenti dalla pesantezza delle masse e dal potentissimo fuoco, tutti elementi necessariamente ritardatarî della manovra. Ben presto poi la strategia si trovò a doversi servire di una tattica sempre più impigliata nei reticolati e ostacolata da robusti trinceramenti Tuttavia ogni volta che fu possibile, si tentò di tener vivo il principio della guerra di movimento; si riuscì anche talvolta a conferire alla strategia i lineamenti classici del passato (ad esempio, le manovre dei due avversarî alla fronte orientale e degli Austro-Tedesco-Bulgari contro i Serbi e l'esercito alleato di Salonicco).

Non sarebbe dunque esatto affermare che durante la guerra la dottrina offensiva cedette il passo a una dottrina contraria. Il principio dell'offensiva rimase, ma si accrebbero le difficoltà di realizzarlo. Nella maggior parte dei casi l'offensiva dovette proporsi l'azione frontale di rottura contro un tratto di fronte avversario, allo scopo d'irrompere nella breccia e manovrare a tergo dei tronconi laterali. L'attaccato cercò normalmente d'impedire, con pronta reazione, che la rottura avvenisse; avvenuta, si dispose a contrattaccare i fianchi del nemico penetrato nella breccia, o manovrò in ritirata in modo da evitare l'avvolgimento e ricomporre più indietro la linea di resistenza. Delle manovre tattico-strategiche di rottura sono esempî, per la fronte italiana, l'attacco austro-germanico dell'ottobre 1917, con il quale fu spezzato un breve tratto della fronte difensiva, ma non fu impedito il ripiegamento e la sistemazione di una nuova linea arretrata (Grappa-Piave); e l'attacco italiano di Vittorio Veneto, con il quale - dopo determinata la rottura - si riuscì ad avvolgere completamente i due tronconi in cui l'esercito avversario era rimasto diviso e ad annientarli. La prima battaglia fu un successo tattico senza risultati decisivi; la seconda un'azione offensiva portata fino alle ultime conseguenze strategiche.

Durante la guerra i trasporti ferroviarî ebbero funzioni di primo ordine nell'attuazione dei grandi piani operativi, mentre prima della guerra essi erano considerati soprattutto da un punto di vista logistico (rifornimenti e sgombri). Sorse cioè una strategia dei trasporti. Si costruirono rapidamente linee di centinaia di chilometri per consentire spostamenti dall'uno all'altro tratto della fronte (arroccamenti) di grandi masse di uomini e materiali (Francia) o per trasportarli dall'uno all'altro scacchiere d'operazioni (Germania). Le ferrovie furono inoltre le indispensabili ausiliarie dello stratega nelle fasi offensive (guerra di movimento). L'impiego delle colonne automobilistiche fornì un rendimento molto inferiore, specie per distanze superiori ai 300 chilometri.

Aspetti nuovi e impreveduti presentò nella guerra mondiale il problema del comando unico nelle grandi coalizioni belligeranti. In linea teorica tutti gli eserciti che lottano per una medesima causa dovrebbero trovare nell'unicità del comando il più alto grado di coesione; ma in pratica (non potendosi evitare che, sul fondo delle comuni aspirazioni, s'inseriscano scopi particolari) l'auspicato comando unico non ha potuto essere realizzato in modo efficiente presso alcuno dei gruppi belligeranti, se per comando unico s'intende la facoltà concessa allo stratega di un esercito di dare ordini ai capi degli altri eserciti collegati, l'obbligo di obbedienza da parte di questi e sanzioni per i trasgressori. Né si debbono confondere gli accordi doverosi - e che presuppongono spesso la conciliazione di idee non convergenti - con il comando unico inteso come detto. Non può accogliersi senza riserve l'affermazione che presso la quadruplice centrale il comando unico si sia realizzato, lo Stato Maggiore austro-ungarico essendosi mostrato assai poco docile nei confronti con lo Stato Maggiore germanico per sua indole autoritario; e sono note le dispute fra il Falkenhayn e il Conrad, e la contrarietà di questi - giunta fino al rifiuto - ad accettare i piani tedeschi. L'Intesa parve addivenire nel 1918 al comando unico per le armate alleate operanti in Francia; ma in effetti il Foch procedette con i generalissimi inglese e americano per via di preliminari intese e non sempre riuscì ad averli consenzienti ai suoi progetti; della qual cosa - senza molta ragione - lo rimproverò Clémenceau.

L'arte della guerra nelle concezioni attuali e nelle previsioni del futuro. - Come sempre è accaduto dopo ciascuna delle grandi guerre del passato, anche dopo il 1918 si è cercato di strappare ai fatti recenti la formula per il successo del domani. Ma in argomento come questo, l'imponderabile ha tanta parte che le divinazioni rimangono spesso campate in aria. Si aggiunga che gli errori di valutazione si accrescono quando i fatti posti a fondamento delle previsioni non siano sufficientemente accertati nelle loro origini e nei loro aspetti, come capita generalmente per eventi ancora troppo recenti.

Comunque, è opinione dei più che la futura guerra sarà lotta di popoli a oltranza, così come fu quella mondiale. Questa supposizione ripete da considerazioni extramilitari, ma la tecnica guerresca deve farne uno dei capisaldi della preparazione. Nessun governo oserebbe provocare una guerra, con tutte le sue tremende conseguenze, senza cause profondamente penetranti nell'anima della nazione. Riconoscere questo equivale anche a prevedere che una nazione, una volta entrata in lotta, non desisterà finché non avrà raggiunto il suo scopo o non sarà posta in modo decisivo fuori combattimento.

Per giungere a tale estremo occorrerà molto o poco tempo? Converrebbe naturalmente a tutti conseguire risultati decisivi in tempo breve; per questo bisognerebbe procacciarsi una decisa superiorità di potenza fin dall'inizio delle ostilità, così da determinare uno squilibrio che l'avversario non potesse prontamente compensare.

Una tale superiorità di potenza dovrebbe preferibilmente manifestarsi con forme non prevedute dall'avversario, e potrebbe esser data, ad esempio, da una scoperta scientifica tenuta fino al momento di usarla nel più assoluto segreto e capace di effetti rapidamente micidiali così che riuscisse difficile improvvisare, o attuare in breve tempo, adeguati procedimenti di neutralizzazione; o potrebbe essere data dal genio di un capo di eccezione, il quale - rimanendo all'incirca equivalenti tutti gli altri mezzi di lotta messi in giuoco nei due campi avversi - sopraelevasse a tal segno la forza viva del dipendente organismo, da poter inferire colpi irreparabili fin dal principio della lotta. Vi è anche chi ritiene possa valere a determinare la cercata decisiva superiorità iniziale, una preparazione organica delle forze armate del paese, che consenta di avere una parte relativamente piccola delle forze stesse immediatamente atta a entrare in campo alla dichiarazione di guerra, ossia un piccolo esercito scelto, munitissimo di armi e di macchine, il cui addestramento fosse stato curato in modo particolare; idoneo, insomma, a condurre una guerra del tipo napoleonico, con immediata invasione del territorio nemico. A questa concezione si obiettano, dai più, varie considerazioni che possono così riassumersi: anzitutto mancherebbe a questo procedimento il carattere della sorpresa, in quanto dovendosi quegli organismi preparare fin dal tempo di pace, non sfuggirebbe ad alcuno dei probabili avversarî la loro esistenza e il loro scopo (in altri termini, non si crede possibile la "sorpresa organica"); in secondo luogo, all'esercito di élite pronto alle offese, si contrapporrebbe logicamente dagli eventuali avversarî una solida copertura dei confini costituita da sbarramenti sul terreno e da organismi tattici stanziati permanentemente sul posto, e perciò non meno pronti dell'eventuale piccolo esercito offensore; di più, anche ammettendo i primi successi, non sarebbe possibile con quelle forze relativamente esigue, renderli definitivi, di contro a successive reazioni immancabili dell'avversario, sicché per conservare i risultati ottenuti e ottenerne di maggiori si dovrebbero di necessità chiamare in azione i secondi scaglioni organici (di qualità inferiore al primo nucleo), con che si verrebbe a stabilire urla situazione analoga a quella della passata guerra e svanirebbe lo scopo di risolvere la lotta in breve tempo. Si osserva altresì che, trattandosi di guerre in cui è in giuoco l'avvenire della nazione, difficilmente le prime sconfitte eventualmente patite sotto i colpi di un piccolo esercito indurrebbero alla disperazione e alla resa lo stato attaccato; e si ricordano a questo proposito i precedenti del Belgio e della Serbia nell'ultima guerra il primo rimasto in lizza aggrappato a un minuscolo lembo del territorio nazionale, la seconda sfuggita - per l'appoggio degli alleati - a imposizioni di pace onerose e riavutasi pur dopo aver perduto l'intero territorio dello stato; e in definitiva usciti, l'uno e l'altra, vittoriosamente dalla lotta. Sicché questa idea del piccolo esercito molto attrezzato e prontissimo, da gettare subito avanti, per risolvere prontamente la guerra, ha pochi fautori, e nessuno fra quelli che hanno la responsabilità della preparazione alla guerra dei maggiori stati ha mostrato finora di volerla attuare. È invece in atto (ove non ostino le disposizioni dei trattati di pace) il principio di utilizzare al massimo - e in modo da non stabilire sensibili differenze qualitative fra le diverse unità organiche delle forze armate - tutte le possibilità demografiche, spirituali e materiali del paese, nonché di abbreviare le ferme allo scopo di accelerare il ritmo di rinnovazione dei cittadini chiamati al servizio militare e accrescere, anche per questa via, la quantità degli elementi istruiti. Certo non va dimenticato che l'accrescimento del numero deve avere un freno nella possibilità, di dotare le unità combattenti dei materiali occorrenti, una gran massa di uomini male armati e attrezzati potendo facilmente manifestare pericolose debolezze funzionali. Questo è argomento che involge anche la politica dello stato, economica, industriale, finanziaria, ecc.; e soprattutto involge la sua politica estera, chiaro essendo che nella predisposizione delle coalizioni belligeranti (si ritiene poco probabile che una guerra futura possa limitarsi a due soli avversarî) i gruppi dovranno, nel costituirsi, tener presente la necessità di completare i mezzi dell'un componente con le possibilità degli altri, così da assicurare alla coalizione, considerata nel suo complesso, uomini, armi, danaro e quant'altro occorre a determinare la prevalenza dell'insieme, soprattutto in rapporto alla probabilità di lunga durata.

È norma oggi universalmente proclamata e seguita, che a una guerra futura lo stato non possa presentarsi senza una preventiva organizzazione di tutte le energie nazionali, in modo che tutte possano convergere verso l'obiettivo della vittoria e nessuna possa divergerne; si tratta soprattutto di stabilire per legge una ferrea e chiara disciplina di guerra e di prevedere - e anche in parte predisporre - i particolari della trasformazione delle attività di pace in attività di guerra, ciò che si chiama mobilitazione civile. Nel 1914 ciò non fu preveduto e, in questo campo tutto fu improvvisato durante la lotta, fra incertezze e difficoltà di vario ordine.

Quanto alla condotta strategica della guerra si può affermare che si tende con appassionato desiderio alla forma offensiva, ad essa riconoscendosi tuttora le virtù, sanzionate dai millennî, proprie del dinamismo che agisce come moltiplicatore delle energie spirituali dell'uomo. Tuttavia l'azione offensiva cui tutti gli eventuali contendenti sembrano prepararsi con pari ardore, avrà minori occasioni di manifestarsi utilmente e dovrà alternarsi con l'azione temporeggiatrice - o difensiva che dir si voglia - da parte di chi sia, o creda di essere, momentaneamente inferiore o abbia comunque convenienza a guadagnar tempo. Al concetto che il conservare l'iniziativa debba necessariamente equivalere a un'azione di attacco, si tende a sostituire l'altro, che ha l'iniziativa chi può liberamente scegliere, secondo le circostanze, il proprio atteggiamento di offesa o di difesa. In attesa che Ginevra si pronunci definitivamente sulle varie questioni relative alla limitazione degli armamenti, certo è che si cercano febbrilmente dovunque perfezionamenti tecnici che consentano di lanciare fantastici tonnellaggi di proiettili in breve tempo (armi portatili automatiche e artiglierie a tiro rapidissimo, celerità di trasporto mediante la motorizzazione e conseguente prontezza di concentramento di mezzi di fuoco). Ed è assai discutibile l'opinione che questi perfezionamenti avvantaggino più l'attacco che la difesa.

In fatto di strategia, abbandonata ogni discussione scolastica sulla preferenza da dare alle manovre per linee interne o per linee esterne, resta, massima aspirazione, la manovra sulle comunicazioni dell'avversario per recidere alle radici tutto ciò che può alimentare la lotta del nemico. Ma perché la manovra sulle comunicazioni dell'avversario possa svolgersi, occorre che l'attaccante trovi modo di passare al di fuori di una delle ali estreme dello schieramento contrapposto. Ove il nemico riuscisse a contromanovrare in tempo utile o a estendere l'ala minacciata così da contrastare il passo all'attaccante, la strategia dell'avvolgimento dovrebbe di necessità mutarsi in una strategia frontale; e, allora, come nella guerra mondiale, si dovrebbe ricorrere alla rottura di un tratto di fronte o di più tratti, per poi penetrare nella breccia o nelle brecce e manovrare a tergo dello schieramento nemico, in tal modo spezzato in due o più parti.

Neppure in fatto di azioni tattiche le norme odierne si discostano notevolmente dagl'insegnamenti dell'ultima guerra. Alle basi della tecnica della battaglia sono posti questi tre punti fondamentali: 1. l'aeronautica assegnata all'esercito è l'occhio dei comandanti, perché può seguire dall'alto il fluttuare della lotta e segnalare gli elementi che si trovano nel raggio d'azione allo stato potenziale (movimento dei rincalzi e delle riserve); 2. debbono essere applicati tutti i mezzi della moderna tecnica per stabilire una rete di comunicazioni sicure, rapide, adattabili con immediatezza al flusso e riflusso della lotta, in modo che la volontà dei capi possa scendere in ogni circostanza agli esecutori e le constatazioni degli esecutori salire al capo; 3. deve esservi costante fusione tra fanti e cannoni, perché l'artiglieria - più che mai ausiliaria indispensabile - possa a ragion veduta e nel modo più tempestivo, preparare e accompagnare l'attacco della propria fanteria o prevenire e ostacolare l'attacco dei fanti e dei cannoni avversarî.

Poiché è doveroso prevedere il peggio, si ammette che i belligeranti - malgrado ogni limitazione tentata nei convegni internazionali del tempo di pace - s'inducano a non trascurare ogni mezzo che sia ritenuto giovevole a una pronta e fortunata conclusione della guerra e facciano uso di gas. È noto che a tranquillare le coscienze su questo punto si suol ripetere che una guerra micidiale ma breve, arreca meno perdite di vite umane di una guerra lunga. Così, ogni mezzo atto a risolvere prontamente la guerra avrebbe finalità umanitarie. Fra la chimica di offesa e la chimica di difesa (maschere protettive, gas di neutralizzazione, ecc.) s'impegnerà una lotta di supremazia, come sempre è accaduto di fronte ai perfezionamenti tecnici (cannone e corazza); e questa gara - a proposito della quale si riconosce generalmente che l'offesa ha oggi la prevalenza sui mezzi di protezione e di controffesa - accentuerà alcuni caratteri delle forme tattiche, già manifestatisi durante l'ultima guerra.

I grandi eserciti messi in azione e la tendenza alla guerra di movimento, importano un grave problema di trasporti. Come nella guerra mondiale, e più ancora, la massa dei trasporti - strategici e logistici - graverà sulle ferrovie. Le grandi colonne automobilistiche - se godono di una relativa indipendenza (anch'esse però sono legate allo sviluppo e allo stato di manutenzione delle grandi reti di strade ordinarie) - hanno un rendimento alquanto scarso rispetto al costo (consumo di motori, di gomme, di carburante) e per trasporti di alti tonnellaggi a grandi distanze non reggono al confronto con le ferrovie neppure in quanto a velocità di trasferimento. I trasporti automobilistici non rappresentano dunque, allo stato attuale delle previsioni, che un mezzo sussidiario delle ferrovie. La cosiddetta strategia dei trasporti, che ha preso sviluppo nella guerra mondiale, sembra destinata a più intense applicazioni in una eventuale guerra futura. Nelle guerre di coalizione ognuno dei gruppi belligeranti cercherà di assicurarsi la superiorità lanciando rapidamente sull'uno o l'altro dei tratti di fronte le proprie riserve strategiche o anche trasferendo in un punto forze fino allora in linea su un punto diverso; più ancora, cercherà di spostare forze da uno scacchiere all'altro, quando (e il caso sarà frequente) una stessa nazione si troverà a lottare con avversarî su fronti lontane l'una dall'altra. In quest'ultimo caso assumerà capitale importanza il sistema ferroviario esistente in ciascuno stato, tanto da indurre fin dalla pace a considerare il problema strategico delle grandi vie a binario fra tratti opposti e minacciati del confine nazionale.

Nella guerra futura interverrà con potenza grandemente accresciuta l'arma aerea (v. appresso). I perfezionamenti degli apparecchi, le alte velocità raggiunte, la grande autonomia di volo, l'accurato addestramento deí piloti e degli osservatori, e soprattutto lo spirito audace che anima l'elettissimo personale delle principali forze aeree mondiali, sono tutti elementi che dànno garanzia di grandi risultati, anche se l'azione dell'aria possa esser soggetta a limitazioni dipendenti da condizioni atmosferiche. Di più, le peculiari caratteristiche dell'arma aerea (nel diagramma della potenza il vertice può essere vicinissimo all'istante iniziale della dichiarazione di guerra), le consentono di conseguire questi risultati fin dalle prime ore del conflitto, sicché le offese dall'aria, aggravate dall'impiego eventuale dei gas di guerra, possono deprimere il morale delle popolazioni interne in modo molto serio, se non decisivo, e disturbare la mobilitazione avversaria. vero è che tutte le potenze militari essendo preparate alla lotta aerea e al suo primo impeto, cercheranno con ogni mezzo di contendere all'avversario il predominio aereo. A parte questa azione indipendente dell'arma aerea, è generalmente ammesso che (così come avviene per la ricognizione del campo di battaglia) l'arma aerea sia la più adatta per l'esplorazione strategica a vantaggio delle operazioni di superficie, la cavalleria non potendo sperare, anche nella guerra di movimento, di penetrare oltre il margine dell'occupazione nemica.

Il quadro della guerra futura si presenta con non poche incognite, in dipendenza dei misteri che la scienza può svelare all'ultimo momento. La coscienza che queste incognite esistono obbliga a una preparazione per quanto possibile elastica, così da consentire gli adattamenti che la realtà farà apparire necessarî. Per non errare in una materia in cui ogni grave fallo potrebbe essere fatale è canone fondamentale che in linea di massima si debba predisporre il massimo sforzo e che questo debba in sede applicativa orientarsi su concrete previsioni d'inimicizie e di alleanze.

Queste le principali idee prevalenti oggi circa l'arte della guerra. Inattese manifestazioni potranno, all'atto pratico, determinare nuovi criterî e nuove forme. Rimarranno in ogni caso intatti i pochi e semplici principî che hanno attraversato, immutati, i millennî. E fra questi principî, uno, l'essenziale, insegna che se sarebbe colpevole trascurare di predisporre i più acconci mezzi materiali di lotta, sarebbe d'altra parte fatale ritenere decaduta l'importanza dei fattori morali.

Alla base dell'arte della guerra - antica, nuova o futura - stanno le complesse qualità degli uomini: capo supremo, comandanti subordinati e gregarî. Masse disciplinate, coscienti della causa per la quale combattono e pronte al sacrificio, inquadrate da uomini che operino con armonia di pensiero, sotto la guida suprema di chi sappia per lunga pratica di governo di masse le meditate audacie e abbia il coraggio e il gusto delle grandi responsabilità e sia suscitatore di consensi e perduri nella fede del successo anche, e specialmente, quando la via appare più aspra, sono stati, sono e saranno i determinanti primi della vittoria, in quanto dànno anima al corpo degli eserciti e calore di vita alla scolastica della guerra.

Fonti. - Si ricordano solo quegli scritti che trattano ex professo dell'arte militare, gli scritti teorici insomma, lasciandoo da parte le innumerevoli storie, cronache, memorie, ecc., che descrivono guerre e battaglie.

Antichità classica. - Nella perdita di tanta parte delle letterature classiche sono sparite quasi tutte le fonti di maggior valore (memorie dei grandi capitani, esposizioni sistematiche) sull'arte della guerra presso Greci e Romani. Abbondantissimi, anche nelle opere superstiti, i dati degli storici che spesso però non sono veri militari e vanno quindi utilizzati con discernimento e cautela. Tra gli scritti specifici conservati ricordiamo: Senofonte, ‛Οππαρχικός, ed. P. Cerocchi, Firenze 1901; id., Περὶ ἱππικῆς, ed. v. Tommasini, Firenze 1902; Enea Tattico, Πολιορκητικά; Asclepiodoto; Onosandro (epoca di Nerone); Eliano (epoca di Traiano); Arriano, Τέχνη τακτική; Polieno, Στρατηγήματα (epoca di Marco Aurelio): tutti ed. in H. Köchly e W. Rüstow, Griech. Kriegsshriftsteller, Lipsia 1855. Tra gli scrittori romani: G. Frontino, Stratagematon (sec. I d. C.), ed. G. Gundermann, Lipsia 1888; R. Vegezio, Epitome rei militaris (sec. V), ed. C. Lang, Lipsia 1885.

Medioevo e Rinascimento. - Maurizio (autore presunto), Στρατηϕικόν, ed. da J. Scheffer, Upsala 1664; Leone IV, imperatore d'Oriente, Tactica, sive de re militari, Leida 1613; N. Machiavelli, Dell'arte della guerra, Firenze 1521.

Dal Rinascimento fino all'epoca napoleonica. - A. Dürer, Etliche underricht zu Befestigung der Stett Schloss und Flecken, Norimberga 1527; B. Della Valle, Vallo, libro contenente appartenente ad capitani, ecc., Napoli 1521; R. Valturio, De re militari, Parigi 1534; F. de Clèves, Instructions de toutes manières de guerroyer, Verona 1483; L. Fronsperger, Kriegsbuch, Francoforte sul Meno 1573; N. Tartaglia,La nova scientia delle inventioni, Venezia 1581; G. F. Castriotto e G. Maggi, Della fortificazione, Borgominiero 1583; B. de Escalante, Dialogos del arte militare, Siviglia 1583; L. Collado, Prattica manuale della artiglieria, Venezia 1586; F. de la Noue, Discours politiques et militaires, Ginevra 1587; F. De Marchi, Della Architettura militare, Brescia 1599; D. Speckle, Architectura von Vestungen, Strasburgo 1599; J. Errard, La fortification démontrée et réduite en art, Parigi 1600; L. Brancaccio, I carichi militari o fucina di Marte, Anversa 1610; J. Lipsius, De militia Romana e Poliorcetican, sive de machinis, tormentis et telis, in Opera Omnia, Anversa 1610-1629; L. Melzo, Regole militari sopra il governo e servizio particolare della cavallerìa, A11versa 1611; G. Basta, Il maestro di campo generale, Venezia 1606; id., Il governo della cavalleria leggiera, Venezia 1612; D. Ufano, Tratado de la artilleria, Bruxelles 1613; J. J. de Wallhausen, Kriegskunst zu Pferdt, Francoforte sul Meno 1616; id., Kriegskunst zu Fuss, Oppenheim 1616; id., Corpus militare vom hmtigen KrieestLesen, Hanau 1617; id., Manuale inilitare oder Kriegsmanuale, Francoforte 1616; A. Freitach, Architectura militaris, Leida 1635; H. duca di Rohan-Gié, Le parfait capitaine, Parigi 1638; B. F. de Pagan, Traité des fortifications, Parigi 1645; A. de Ville, Les fortifications contenant la manière de fortifier, Parigi 1666; P. Hay du Châtelet, Traité de guerre ou politique militaire, Parigi 1669; A. Manesson Mallet, Les travaux de Mars ou l'art de la guerre, Parigi 1671; F. Blondel, Nouvelle manière de fortifier les places, Parigi 1683; id., L'art de jeter les bombes, L'Aia 1685; W. Dillich, Kriegsbuch, voll. 2, Francoforte sul Meno 1689-1718; R. di Montecuccoli, Commentarii bellici cum iusto artis bellicae systemate, Vienna 1718; J. C. de Folard, Nouvelles découvertes sur la guerre, Parigi 1724; id., Commentaire sur Polybe, voll. 6, Parigi 1727-1730; L. F. Marsigli, Stato militare dell'Impero Ottomano, L'Aia-Amsterdam 1732; J. F. Chastenet de Puységur, L'art de la guerre, Parigi 1748; G. Leblond, Essai sur la castramentation, Parigi 1748; id., Éléments de tactique, Parigi 1758; id., Artillerie raisonnée, Parigi 1761; id., Traité de l'attaque des places, Parigi 1780; id., Traité de la défense des places, Parigi 1783; id., Eléments de fortification, Parigi 1786; Maurizio di Sassonia (ma Antonio di Ricouart marchese d'Hérouville), Traité des légions, l'Aia-Parigi 1757; id., Les Rêveries ou Mémoires sur l'art de la guerre, L'Aia-Parigi 1756; C. L. Andrev de Bilistein, Institutions militaires pour la France, Amsterdam 1762; P. G. de Maizeroy, Essais militaires, Amsterdam 1763; id., Cours de tactique théorique pratique et historique, Parigi 1766; supplemento 1767; id., Théorie de la guerre, Losanna 1777; id., La tactique discutée et réduite à ses principes, Parigi 1785; J. G. Tielke, Beyträge zur Kriegskunst und Geschichte des Krieges von 1756 bis 1763, Dresda e Lipsia 1769; L. G. G. de Heralio, Des recherches sur les principes généraux de la tactique, Parigi 1769; L. Turpin de Crissé, Commentaires sur les Mémoires de Montecuccoli, Amsterdam 1770; id., Essai sur l'art de la guerre, Parigi 1754; id., Commentaire sur les institutions militaires de Végèce, Montargis 1779; J.-C. Lerniceaud d'Arçon, Correspondance sur l'art de la guerre, Amsterdam 1773; id., Défense d'un système de guerre nationale, Amsterdam 1779; id., Considérations sur l'influence du génie de Vauban dans la balance des forces de l'État, Parigi 1786; id., De la force militaire considérée dans ses rapports conservateurs, Strasburgo 1789; id., Considérations militaires et politiques sur les fortifications, Parigi 1795; M. R. de Montalembert, Fortification perpendiculaire, ou l'art défensif supérieur à l'offensif, voll. 11, Parigi 1776-1796; J. Mauvillon, Einleitung in die sämmtlichen mlitärischen Wissenschaften, 1783; S. Le Pretre conte di Vauban, Øuvres militaires, voll. 3, Parigi 1795; C. J. de Ligne, Mélanges militaires, ecc., voll. 32, Vienna 1795-1809; G. A. de Guibert, L'Øuvres militaires, voll. 5, Parigi 1803; A. H. Jomini, Traité des grandes operations militaires, voll. 5, Parigi 1805; id., Principes de la stratégie, Parigi 1818; id., Précis de l'art de la guerre, 2 voll., Parigi 1836; L. de Cormontaigne, Mémorial pour l'attaque des places, Parigi 1806; id., Mémorial pour la défense des places, Parigi 1806; id., Mémorial pour la fortification permanente et passagère, 2ª ed., Parigi 1824; Carlo Luigi d'Asburgo arciduca d'Austria, Grundsätze der Strategie erläutert durch die Darstellung des Feldzugs von 1796 in Deutschland, Vienna 1810; M. H. Carrion-Nisas, Essai sur l'histoire generale de l'art militaire Parigi 1823; Napoleone I, Memorie, Corrispondenza, ecc. (v. napoleone); A. F. Viesse de Marmont, Esprit des institutions militaires, Parigi 1845; Federico II di Prussia, Les principes généraux de la guerre, ecc., in Øuvres, Berlino 1846-57 (v. federico 11); H. D. v. Bülow, Militärische und vermischte Schriften, Lipsia 1853.

Epoca post-napoleonica. - A. Jacquinot de Presles, Cours d'art militaire, Saumur 1829; A. Bugeaud, duca d'Isly, Aperçus sur quelques détails de la guerre, Parigi 1832; C.-G. Ternay, Esprit des institutions militaires, Parigi 1836; E.-A. Bardin, Dictionnaire de l'armée de terre ou recherches historiques sur l'art et les usages militaires des anciens et des modernes, Parigi 1841-51; N.-É. De la Barre-Duparcq, Éléments d'art et d'histoire militaire, Parigi 1858; id., Parallélisme du progrès de la civilisation et de l'art militaire, Parigi 1860;A. Briamont, Précis d'art militaire, Bruxelles 1860 A. Ricci, Dell'insegnamento dell'arte militare, Torino 1863; W. Ru̇stow. Die Lehre von Gefecht an den Elementen neu entwickelt für die Gegenwart und nächste Zukunft, Zurigo 1865; id., Die Feldhermkunst des neunzehnten Jahrhunderts, Zurigo 1867; G. Gallina, Technik der Armee-Leitung, Vienna 1866; C. Clausewitz, Hinterlassene Werke über Krieg und Kriegfürhung, 3ª ed., Berlino 1867; C. Renouard, Leitfaden zur Auffassung des Wesens der Bedeutung der Darstellungsweise und des Studiums der Kriegsgeschichte, Kassel 1868; V. Molinari, L'arte militare, Parma 1871; H. A. Leer, Positive Strategie oder kritisch-historische Analysis der Gesetze über die Kriegskunst, Vienna 1871; M. Jahns, Die Kriegskunst als Kunst, Lipsia 1874; H. Barthêlemy, Cours d'art militaire, Parigi 1876-77; G. v. Scherff, Die Lehre von der Truppen-Verwendung als Truppenführung, Berlino 1877; id., Von der Kriegführung, zugleich zweite Auflage der Lehre von der Truppenverwendung als Vorschule zur Kunst der Truppenführung, Berlino 1883; A. v. Boguslawski, Die Fechtweise aller Zeiten, Berlino 1880; id., Betrachtungen über Heerwesen und Kriegsführung, Berlino 1897; É. Pierron, Les méthodes de guerre actuelles et vers la fin du XIXe siècle, Parigi 1878-1881; Colmar barone von der Goltz, Kurze Lehre ihrer Wichigsten Grundsätze und Formen, Berlino 1895; id., Das Volk in Waffen. Ein Buch über Heerwesen und Kriegfürhung unserer Zeit, Berlino 1899; id., Krieg und Heerführung, Berlino 1901; P. Valle, Trattato d'organica, strategia, logistica e tattica, Firenze 1883; E. Hennebert, L'art militaire et la science, Parigi 1885; P. Favre, Dell'arte militare, Torino 1886; E. Barone, Arte militare, Torino 1888; C. Kessler, La guerre, Parigi 1909; F. Bernhardi, Vom Krieg der Zukunft nach den Erfahrungen, Berlino 1911; Le Marchand, L'évolution de la guerre, Parigi 1917; E. Palat, La philosophie de la guerre d'après Clausewitz, Parigi 1921.

Bibl.: L'opera fondamentale per la storia dell'arte della guerra e dell'ordinamento militare dei varî popoli dall'antichità ai giorni nostri è quella di H. Delbruck, Geschichte der Kriegskunst in Rahmen der politischen Geschichte, voll. 4, Berlino, 1900-1920 (vol. I, L'antichità; II, I Germani; III, Il Medioevo; IV, l'Età moderna). Il Delbruck è stato in questo campo di studî un insigne maestro e dalla sua scuola sono usciti, fra il 1900 e il 1915 specialmente, ottimi lavori particolari (il Delbruck studia l'attività militare in connessione strettissima con tutte le altre attività di un popolo, vedendo nella prima non il puro lato tecnico, ma l'espressione della storia di una nazione in un dato periodo. E per considerazioni di tal genere cfr. anche L. Blanch, Della scienza militare considerata nei suoi rapporti con le altre scienze e col sistema sociale, Napoli 1834). Oltre al Dalbruck, importante M. Jahns, Geschichte d. Kriegswissenschaften vornehmlich in Deutschland, voll. 3, Monaco 1889-91. Altra opera assai utile di carattere generale: W. Rüstow, Geschichte d. Infanterie, voll. 2, Gotha 1857-58. Per più copiose indicazioni bibliografiche, oltre ai rimandi in Delbruck, v. cavalleria; compagnie di ventura; condottieri; fanteria; ecc.

Guerra marittima.

Evoluzione dei caratteri della guerra marittima. - Periodo del remo. - Il personale combattente imbarcato, all'epoca in cui le navi erano mosse a mezzo di remi, era estraneo alle incombenze marinaresche, e per il modo di combattere non aveva bisogno di addestramento navale. La manovra tattica, dopo il tentativo di urto con la prora munita di rostro, portava all'abbordaggio e i combattenti cercavano d'irrompere sulla nave avversaria. Il numero dei combattenti costituiva quindi un importante fattore di successo e le navi aumentavano la loro potenzialità bellica se il numero dei combattenti veniva accresciuto da truppe di passaggio. Le flotte furono perciò largamente usate come veicolo per l'invasione, benché le truppe vi si trovassero in condizioni di grande disagio.

Le navi remiche usavano la vela soltanto come propulsore ausiliario, a cui rinunziavano quando il vento non era favorevole o all'avvistamento del nemico. Per l'uso dei remi lo scafo era poco alto sul mare e aveva forme molto affinate (rapporto da 1/7 a I/10 fra larghezza e lunghezza); la pescagione, ossia la dimensione verticale della parte immersa, era limitata per consentire l'accesso in acque poco profonde e per poter facilmente tirare le navi a secco sulla spiaggia. In conseguenza le navi avevano dimensioni assai modeste; alle triere, che formarono le flotte durante le guerre greco-persiane, si attribuisce un dislocamento poco superiore a 200 tonnellate; le quinquiremi cartaginesi e romane erano navi di circa 500 tonnellate con 300 vogatori e 120 uomini d'arme. In relazione al numero di uomini difettava lo spazio per soddisfare alle più elementari norme igieniche, ed erano assai limitate le provviste di acqua e di viveri. Le navi avevano poca attitudine a sostenere il cattivo tempo; e quindi potevano navigare soltanto nella buona stagione. I naufragi erano frequenti; le navi erano fragili e affondavano rapidamente appena urtate. Da tutto ciò derivava la necessità di navigare lungo le coste, e di seguire il minimo percorso da una costa all'altra; la vicinanza di costa era indispensabile per avere: 1. facilità di navigazione (l'uso della bussola cominciò a essere introdotto nel sec. X); 2. facilità di rifornimenti; 3. facilità di rifugio delle navi e di salvezza del personale, in modo che questo potesse raggiungere la spiaggia a nuoto nel caso di affondamento.

Per il carattere delle flotte remiche, nelle grandi guerre dell'antichità la guerra marittima si svolse in stretta correlazione con quella terrestre; il compito delle forze navali consisté nel contrastare le spedizioni marittime del nemico, nel trasportare le truppe e nel proteggere le navi che portavano gl'impedimenti e i rifornimenti degli eserciti. Al trasporto dei quadrupedi, delle macchine da guerra e in genere dei carichi voluminosi e pesanti erano adibite navi sussidiarie, aventi come propulsore principale la vela; queste navi avevano il rapporto di circa 1/4 fra larghezza e lunghezza, venendo perciò denominate navi tonde: con calma di vento o con vento contrario esse venivano rimorchiate. Oltre alle navi da battaglia e alle navi sussidiarie, si avevano anche navi sottili, particolarmente adatte ai compiti di esplorazione e al mantenimento del contatto.

La necessità della navigazione litoranea rendeva frequenti gli scontri tra le forze navali dei belligeranti. Le vie marittime costituivano per i movimenti degli eserciti un'ampliazione delle vie terrestri; la facilità di spostare il teatro delle operazioni per via di mare derivava dal fatto che il mezzo di trasporto era anche mezzo di sbarco.

La flotta del difensore poteva sbarrare la strada all'invasione marittima aspettando quella nemica nei passaggi obbligati; se l'invasione avveniva contemporaneamente per terra e per mare, l'azione della flotta poteva proteggere un'ala dell'esercito. Per contrastare l'avanzata degli eserciti di Serse la flotta greca fiancheggiò i difensori delle Termopile; e, quando queste furono perdute, corse a proteggere l'istmo (battaglia di Salamina).

Gli assedî erano lunghi; una piazza assediata aveva poco da temere se rimanevano libere le vie del mare. Durante la guerra del Peloponneso, prevedendo l'invasione dell'Attica, Pericle consigliò agli Ateniesi di rinunziare a contrastarla con le operazioni terrestri; suggerì di ritirare le truppe nella cinta fortificata d'Atene e di fare assegnamento sulle triere per portare l'offensiva sulle coste nemiche.

L'esito delle spedizioni oltremare era subordinato alla sicurezza delle comunicazioni marittime delle truppe sbarcate. Un esempio tipico per le sue alterne vicende è quello della spedizione intrapresa da Atene contro Siracusa nel 415 a. C.; gli Ateniesi ritrassero, in un primo tempo, i vantaggi della incontrastata libertà delle vie marittime. Ma da quando i Siracusani impiegarono la loro flotta, i convogli nemici non poterono arrivare senza essere attaccati; la flotta degli assedianti, obbligata a mantenersi in uno stato di continuo allarme, subì un progressivo logoramento materiale e morale, fino a che per la sua sconfitta la spedizione si risolse in un disastro.

L'evoluzione del materiale nel periodo remico non poté essere sensibile al punto da produrre né frequenti né profondi cambiamenti nei caratteri della guerra. La prima quinquireme fu costruita a Siracusa nel 399 a. C.; con il passaggio dalle triere alle quinquiremi le navi da battaglia divennero meno agili; fu meno facile tirarle in secco, divennero più numerosi i naufragi, ma i combattimenti riuscirono più decisivi.

Nella prima guerra punica, alla vittoria romana nelle acque di Milazzo, il corvo, la cui invenzione è ascritta a G. Duilio, contribuì non per la sua novità, ma perché quel ponte levatoio munito di rampone, mutando la battaglia navale in battaglia terrestre, consentì di utilizzare pienamente le virtù guerriere dei Romani, e di compensare la minore manovrabilità delle loro navi, che erano più pesanti di quelle avversarie.

Caratteristica delle battaglie navali del periodo remico fu la grandiosità degli effettivi, sia per numero di navi che per numero di combattenti; questa grandiosità raggiunse il massimo nella battaglia combattuta nel 257 a. C. in vista di Ecnomo (v.; Monte di Licata) tra la flotta romana, che mirava allo sbarco in Africa e la flotta cartaginese accorsa da Libero (Marsala) per contrastare l'avanzata. A questa battaglia parteciparono, si dice, più di 300.000 fra vogatori e combattenti; la vittoria aprì ai Romani la via per l'invasione.

Sotto ogni aspetto la guerra marittima era una guerra di eserciti imbarcati; il principio dell'unità della guerra terrestre e marittima ebbe nel periodo remico la più chiara applicazione.

Le grandi battaglie navali ebbero capitale importanza per le sorti del mondo. Il destino di Roma fu deciso sul mare, quando le flotte di Ottavio e di Antonio si affrontarono nella giornata di Azio (31 a. C.), in quelle acque orientali dello Ionio dove nel 1571 la vittoria cristiana di Lepanto (v.), doveva segnar la fine della supremazia marittima dei Turchi. La battaglia di Lepanto, a cui parteciparono 172.000 combattenti, fu l'ultima del periodo remico.

Una stretta interdipendenza esisteva fra la marina da guerra e il commercio marittimo. Tra le navi remiche mercantili e quelle militari erano lievi le differenze, cosicché risultava facile la trasformazione dall'uno all'altro compito; uno stato che aveva numeroso naviglio da commercio poteva rapidamente accrescere la flotta militare, e reciprocamente le navi da guerra erano usate nel tempo di pace anche a scopi mercantili. Gl'interessi commerciali furono parte importante degli scopi di guerra, spingendo a eliminare i concorrenti, a occupare territorî per monopolizzare il commercio e la pesca. Minore importanza ebbe il commercio marittimo come obiettivo di operazioni; infatti solo eccezionalmente l'attacco al commercio poteva compromettere la capacità di resistenza dei paesi belligeranti, perché i traffici marittimi si limitavano ai passeggieri e alle merci ricche; l'importazione di derrate alimentari per mare raramente costituiva un'assoluta necessità. Ma Roma (come già Atene) aveva bisogno d'importare grano; e due volte fu minacciata di carestia essendo interdetti i rifornimenti marittimi (sviluppo della pirateria dopo le guerre mitridatiche nel 67 a. C. e ribellione di Sesto figlio di Pompeo, governatore di Sicilia e Sardegna, nel 36 a. C.).

Gl'interessi marittimi divennero fattori predominanti dell'attività bellica delle popolazioni litoranee quando i grandi organismi politici si frazionarono. Nel Medioevo furono frequenti le guerre di carattere marittimo; e come in terra esistevano le compagnie di ventura, così gli stati feudali e i comuni concludevano trattati con famiglie d'armatori o compagnie che fornivano galee armate.

Le galee avevano un solo ordine di remi; su esse la vela costituiva ancora un propulsore ausiliario del remo; però lo sviluppo della velatura aveva un'importanza maggiore che sui precedenti tipi di navi. Si delineava quindi il passaggio dalla marina remica a quella velica; le navi tonde, cioè le navi veliche, già adoperate come sussidiarie di quelle remiche, costituivano nel Medioevo il grosso delle forze marittime degli stati oceanici; allo sviluppo velico del Mediterraneo contribuirono le crociate, perché richiesero trasporti di numerose truppe a lunga distanza.

Periodo della vela. - Con il progredire dell'arte della navigazione le navi veliche si spinsero alla ricerca di nuove terre; e in seguito alla scoperta del Nuovo Mondo acquistarono grande importanza militare per la difesa e per l'attacco del commercio sulle vie oceaniche. La loro importanza militare crebbe anche nei mari interni con i progressi delle artiglierie, che sulle navi veliche potevano essere sistemate convenientemente e in largo numero sui fianchi. Le navi remiche vennero così a trovarsi a mal partito nell'attacco di navi a vela, perché queste ultime, per l'altezza dello scafo, erano in condizioni vantaggiose anche se le navi a remi riuscivano ad arrivare all'abbordaggio; a ciò si aggiunsero, per le condizioni sociali, le difficoltà di reclutamento dei vogatori. Per tutte queste ragioni il naviglio velico ebbe l'assoluto predominio nel sec. XVII, quando i criterî scientifici di costruzione sostituirono le regole empiriche; per conseguire la massima potenza unitaria si costruirono navi grandi sino ai limiti conciliabili con le qualità manovriere, cioè i vascelli, che formarono il grosso delle flotte; queste navi furono anche denominate navi di linea per l'importanza tattica della formazione in linea di fila (v. tattica navale).

Il tipo più generalizzato nel sec. XVIII fu il vascello a due ponti di 80 o 74 cannoni con dislocamento di circa 5000 tonnellate, perché aveva maneggevolezza superiore a quella dei vascelli a tre ponti (che ebbero fino a 120 e anche 130 cannoni). Il vascello fu la nave da battaglia, inquantoché poteva essere affrontato soltanto da unità similari. Le navi minori (fregate, corvette, ecc.) servivano per l'esplorazione, per la trasmissione di ordini, per rimorchiare vascelli disalberati e per dare caccia alle navi da commercio. In circostanze eccezionali era possibile attaccare i vascelli abbordandoli con mezzi di sorpresa, cioè con i brulotti (v.), che erano navi di piccole dimensioni cariche di materie incendiarie; ma tali mezzi ebbero secondaria importanza.

Le navi da guerra si differenziarono in modo assai sensibile da quelle mercantili, perché su esse tutto il peso e lo spazio disponibile si assegnava alle artiglierie e al relativo munizionamento; mentre sulle riavi mercantili occorreva essenzialmente la capacità di carico, rinunciando a ogni qualità militare. Gli stati che avevano interessi marittimi furono quindi obbligati a mantenere anche nel tempo di pace una marina militare, non potendo improvvisarla come nel periodo remico.

I caratteri della guerra navale si trasformarono: con il passaggio dal remo alla vela il campo di lotta si trasportò al largo; assunsero grande importanza gli obiettivi coloniali e il commercio marittimo. La forza motrice indipendente dalla volontà dell'uomo rese aleatoria la diretta correlazione fra la guerra navale e quella terrestre; quindi la correlazione dové essere concepita in forma indiretta, per la grande autonomia d'impiego che dové essere lasciata alle flotte.

Le modalità per assicurare il libero uso del mare consisterono nel sistema della protezione diretta dei trasporti mediante la scorta e nel sistema della loro protezione indiretta mediante il blocco della flotta nemica. L'imbarco di truppe di passaggio su navi da guerra sarebbe stato un ingombro dannoso nel caso di combattimento navale; perciò i trasporti di truppe furono eseguiti da navi mercantili, ammassate in convogli sotto scorta di navi da guerra. Analogamente le forze navali furono impiegate per proteggere, nel transito attraverso le zone più minacciate, convogli di navi cariche di merci. Mantenendosi sopravento al convoglio, la squadra di scorta, nel caso di incontro con il nemico, poteva frapporsi fra il convoglio e le forze attaccanti, per obbligarle al combattimento prima che il convoglio fosse raggiunto. Mentre la scorta aveva carattere puramente difensivo, il sistema del blocco conseguiva anche lo scopo che il traffico nemico fosse impedito o mancasse di protezione; la condotta della guerra marittima nel periodo velico consisté quindi principalmente nel blocco e nei tentativi per contrastarlo.

Le navi veliche, a differenza di quelle remiche, potevano tenere il mare in qualsiasi stagione, ed erano capaci di rimanere lontane dalle loro basi per lunghissimo tempo. La marina più forte poteva perciò mantenere le sue squadre in crociera in vicinanza delle basi in cui si trovavano forze avversarie; quando era consentito dalle condizioni geografiche la squadra bloccante poteva rimanere in un ancoraggio opportunamente scelto, stando pronta a prendere il mare appena i movimenti dell'avversario fossero segnalati dalle sue navi esploratrici in servizio di vigilanza presso la base nemica (squadra di Nelson dislocata nell'estuario della Maddalena mentre le sue fregate sorvegliavano Tolone). Così, durante le guerre napoleoniche, le forze navali inglesi costituivano la prima linea per la difesa del territorio contro le possibilità dell'invasione e per assicurare alle proprie navi il libero uso del mare, necessario a mantenere il traffico commerciale e ad appoggiare gli alleati continentali. "Quei vascelli, tormentati dalle tempeste, che la Grande Armée mai vide, si ergevano fra essa e il dominio del mondo" (A. T. Mahan, The influence of sea power upon history, 1793-1812, II, Londra 1890, p. 118).

La nave a vela non può risalire contro vento; quindi la squadra bloccata, allorché il vento spirava dalla parte di terra, poteva talvolta prendere il largo. Quando era perduto il contatto la ricerca della forza navale avversaria riusciva lunga e difficile, se il nemico aveva la possibilità di scelta fra diversi obiettivi lontani fra loro o egualmente importanti. Classici esempî delle difficoltà di ricerca offrono le campagne di Nelson (1798 e 1805), contro le squadre di Brueys e di Villeneuve, concluse con le battaglie di Abukir e Trafalgar.

Per le difficoltà di ricerca risultava molto importante il numero delle fregate; ed è per questo che Nelson si lamentava della loro scarsità. Il naviglio minore costituiva un fattore di successo, non perché potesse sostituirsi al naviglio maggiore, ma perché il suo ausilio era indispensabile affinché le forze da battaglia potessero raggiungere l'obiettivo. La quasi indipendenza dai rifornimenti consentiva alle squadre un campo d'azione illimitato; ciò offriva prospettive di successo al belligerante che aveva squadre separate e inferiori nel loro insieme alla totalità di forze dell'avversario; se una di tali squadre riusciva a violare il blocco sorgeva la possibilità di liberare altre squadre dalla vigilanza o dal blocco; le squadre così riunite potevano cogliere occasioni propizie per dare battaglia, realizzando la sorpresa, e conquistare la libertà di uso del mare mediante la temporanea prevalenza in uno scacchiere di operazioni. A questi concetti fu ispirata nel 1799 la crociera della flotta francese al comando dell'ammiraglio Brueys dall'Atlantico al Mediterraneo, e nel 1805 quella della flotta di Villeneuve dal Mediterraneo all'Atlantico, secondo il piano napoleonico di cooperazione con la Grande Armée per lo sbarco in Inghilterra. La subordinazione dei movimenti alle condizioni del vento rendeva difficile contrastare l'azione delle forze bloccanti; però la maggior causa degl'insuccessi fu la mancanza di spirito aggressivo e di coraggio delle responsabilità nei comandanti delle flotte bloccate.

Navi isolate o gruppi di navi potevano facilmente violare il blocco e agire al largo per lungo tempo; perciò il sistema della protezione indiretta dei convogli non escludeva in modo assoluto la necessità della scorta, ma permetteva di ridurla al minimo. L'attacco al largo contro il commercio (guerra di corsa) poteva quindi essere esercitato da navi isolate o da divisioni di crociera, con possibilità di riportare successi per la debolezza delle forze di scorta.

La Francia, per la sua posizione geografica e per i suoi possedimenti coloniali, era in situazione propizia all'attacco delle comunicazioni marittime britanniche; perciò, durante le guerre della Rivoluzione, come già aveva fatto dopo la sconfitta di La Hogue (1692), essa abbandonò la guerra di squadre, stimando che la guerra di corsa potesse costituire una forma d'azione principale, per trionfare sull'Inghilterra, la cui capacità di resistenza era subordinata alle importazioni marittime. Per effetto della guerra di corsa, negli anni dal 1793 al 1797 il commercio inglese subì perdite considerevoli; però queste non raggiunsero l'entità che sarebbe stata necessaria per influire sensibilmente sull'esito del conflitto; la mancanza delle squadre francesi rese disponibili le forze britanniche per la diretta protezione del commercio, così da rinforzare potentemente le scorte dei convogli e dare caccia ai corsari; inoltre le navi inglesi che proteggevano il loro commercio attaccavano quello francese, che venne quasi annientato per mancanza di protezione. Il tentativo fu ripetuto e con analoghi risultati dopo che le flotte franco-spagnole subirono la sconfitta di Trafalgar (1805); però Napoleone considerò la guerra di corsa come ripiego di carattere transitorio ordinando la ricostruzione dei vascelli.

L'arte della guerra marittima nel periodo velico fu quindi caratterizzata dall'aggressività della flotta che aveva la superiorità di navi da battaglia e dalle alternative nei criterî d'impiego della flotta inferiore; questi oscillarono fra i tentativi d'azione delle squadre per conquistare la libertà di uso del mare e la rinunzia alla guerra di squadre per dare il massimo impulso alla guerra di corsa. I risultati dimostrarono che la guerra di corsa era importante, ma come forma d'azione secondaria; le squadre da battaglia si confermarono indispensabili per molteplici ragioni, fra cui la necessità di costituire il sostegno indiretto del naviglio minore destinato alla guerra di corsa, vincolando le forze principali dell'avversario.

Nel 1807 cominciarono a essere costruiti i primi vapori a ruote; ma per le condizioni dell'industria e per la vulnerabilità del propulsore a ruote questo non fu esteso in modo da trasformare le flotte; nel 1827 alla battaglia di Navarino le flotte cristiane (francese, inglese e russa) e quella turca, erano formate interamente da navi a vela. Dopo il 1830 i vapori a ruote furono impiegati come mezzi sussidiarî per servire da avvisi e da rimorchiatori; il tramonto delle flotte a vela fu determinato dal propulsore a elica.

Periodo dell'elica. - Verso il 1850 cominciarono a entrare in servizio vascelli e fregate a elica, cioè navi miste a vela e a vapore. Al tempo della guerra di Crimea (1855-56) quasi tutte le navi da battaglia erano ancora a vela; però le navi a elica e quelle sussidiarie a ruote davano alle flotte la facilità di eseguire operazioni combinate con gli eserciti. All'attacco di Kimburn (1855) furono impiegate con pieno successo le batterie galleggianti corazzate costruite dalla marina francese. La guerra di secessione americana (1861-65) portò innovazioni radicali: fu riconosciuta la necessità di corazzare le navi e di munirle di rostro. Il risorgere del rostro faceva limitare la grandezza delle navi per avere scioltezza di manovra, e perciò la fregata sostituiva il vascello; all'epoca della guerra italo-austriaca del 1866 le forze da battaglia erano costituite da fregate-corazzate, a fianco delle quali rimaneva in servizio numeroso naviglio in legno. I caratteri della guerra marittima in quel tempo derivarono da situazioni eccezionali: nella guerra di secessione le operazioni marittime dei federali consisterono nel blocco e negli attacchi costieri, azioni fluviali, forzamenti di passi, imprese combinate fra esercito e marina; ma queste operazioni si svolsero senza contrasto navale. I confederati si limitarono ad attaccare il commercio, perché non furono in grado di affrontare la lotta contro le forze navali, cioè quella necessaria per conquistare la libertà di uso del mare, per le difficoltà di comunicazioni terrestri fra gli stati del Sud. La guerra di corsa fu eseguita da navi a vapore, che ebbero successi facili perché il traffico degli stati del Nord era in gran parte disimpegnato da navi a vela. Nella guerra del 1866 la flotta italiana tentò un attacco costiero senza preoccuparsi della flotta nemica e si lasciò sorprendere; nel rapido scontro il rostro ebbe un successo dovuto a cause fortuite (v. lissa).

La costruzione metallica, la corazzatura, il progresso degli apparati motori, delle artiglierie e del munizionamento, l'invenzione delle armi subacquee, produssero una rapida evoluzione dei mezzi di guerra marittima. La nave da battaglia fu armata con cannoni di grosso calibro e protetta con grosse corazze. Nel 1872 Benedetto Brin disegnò i piani della Duilio, la prima corazzata a torri con quattro cannoni del calibro di 450 mm.

Mentre la nave da battaglia per aumentare di potenza cresceva di dimensioni, la sua capacità d'azione costiera cominciava a essere minacciata per l'importanza che andavano assumendo le armi subacquee. L'impiego delle mine (o torpedini) era già cominciato nella guerra di secessione combinando l'azione di queste armi con quella delle batterie costiere. L'invenzione del siluro, cioè della torpedine semovente, fece risorgere il brulotto sotto nuova forma; per l'impiego del siluro furono costruite le torpediniere, navicelle di elevata velocità e di piccole dimensioni per avere la massima attitudine alla sorpresa notturna. Per le loro scarse qualità nautiche le torpediniere avevano ristrette possibilità d'azione, costituendo una minaccia contro navi operanti di nottetempo nelle vicinanze di coste nemiche; il sorgere delle torpediniere non giustificava quindi le infatuazioni che dal 1885 furono diffuse in Francia da una schiera di scrittori (Jeune école), sostenendosi la necessità di rinunziare alle grandi navi per fare esclusivo affidamento sui mezzi minuscoli e sulla guerra di corsa. Le torpediniere iniziarono tuttavia un'era nuova, perché la nave da battaglia, a differenza di quanto avveniva nel periodo velico, non ebbe più la sicurezza di predominare in qualunque circostanza sulle altre specie di unità navali. Il raggio di azione delle siluranti si estese con la costruzione dei cacciatorpediniere, categoria affine alle torpediniere, ma ad esse superiore per automomia, qualità marine, armamento e velocità, così da poter attaccare le torpediniere con il cannone e le grandi navi con il siluro.

Per respingere gli attacchi delle siluranti le navi da battaglia furono munite di un numeroso armamento di cannoni di grande maneggevolezza e celerità di tiro; l'importanza dell'armamento di medio calibro fu accresciuta dalla possibilità di lanciare granate ad alto esplosivo capaci di smantellare le parti indifese; le navi da battaglia ebbero quindi un triplice armamento, costituito da cannoni di grosso, medio e piccolo calibro. Nella guerra cino-giapponese (1894-95) la battaglia navale dello Yalu fu una lotta a distanza in cui il cannone dimostrò capacità risolutiva; si delinearono così nuovi caratteri della battaglia navale e nuove forme di manovra (v. tattica navale).

Tra le navi maggiori e quelle minuscole furono create diverse categorie di unità navali per l'attacco e per la difesa delle comunicazioni marittime e per i servizî di esplorazione (grandi e piccoli incrociatori). Si ebbe una grande varietà di tipi di navi per la molteplicità degli scopi e per la possibilità di tentare numerose soluzioni circa il compromesso fra i requisiti di offesa, protezione, velocità e autonomia; la costituzione delle flotte acquistò una complessità ben più accentuata di quella del periodo velico.

L'evoluzione dell'arte della guerra marittima in conseguenza dell'evoluzione dei mezzi emerse dalla guerra fra Russia e Giappone (1904-1905). Nella notte sul 9 febbraio 1904 i cacciatorpediniere giapponesi, prima della dichiarazione di guerra, sorpresero la flotta russa ancorata davanti a Port-Arthur, mettendo tre navi fuori combattimento. Quel successo fu dovuto a speciali circostanze così da non essere facilmente ripetibile; tuttavia fu la pratica sanzione dell'importanza dei nuovi mezzi insidiosi; tale importanza sarebbe potuta riuscire pericolosa specialmente per la flotta bloccante, se questa non si fosse resa conto della necessità d'impiegare le navi da battaglia con maggiori cautele che nel passato. Nella guerra ispano-americana (1898) la squadra degli Stati Uniti aveva potuto strettamente bloccare quella spagnola a Santiago di Cuba; allora il blocco serrato o blocco tattico era stato possibile perché la squadra spagnola aveva deficienza di naviglio silurante. I Giapponesi per paralizzare la squadra russa di Port-Arthur dovettero invece mantenere il grosso delle forze navali allo stato potenziale, in una base improvvisata alle isole Elliot, distanti da Port-Arthur circa 70 miglia, mentre i cacciatorpediniere, sostenuti al largo da incrociatori, vigilavano da vicino il nemico; si delineava così l'evoluzione verso il sistema del blocco a distanza. Ciò nonostante i Giapponesi seppero attuare un'energica condotta di guerra, favorita dalle condizioni geografiche dello scacchiere di operazioni; fin dall'inizio delle ostilità, benché le forze navali russe di Port-Arthur e di Vladivostok fossero efficienti, i Giapponesi cominciarono i trasporti di truppe e gli sbarchi in Corea, poiché le loro forze navali erano in posizioni di copertura, così da garantire la libertà di uso del mare. Questa libertà divenne sempre più effettiva consentendo nuovi sbarchi e l'assedio terrestre e marittimo della fortezza di Port-Arthur, che fu obbligata ad arrendersi. Dopo l'annientamento della flotta russa del Pacifico, la nuova flotta russa inviata dal Baltico in Estremo oriente fu sconfitta nella battaglia di Tsushima; ciò si aggiunse alla gravità delle condizioni interne dell'impero, determinando la Russia alla pace, benché disponesse di un grande esercito per continuare la lotta.

Nella guerra russo-giapponese i mezzi marittimi insidiosi ebbero parte rilevante; però le corazzate di linea ebbero il compito principale, facendo costantemente sentire il loro peso, a sostegno delle altre specie di mezzi, e combattendo battaglie decisive. L'esperienza di quella guerra confermò dunque l'importanza della nave da battaglia quale spina dorsale delle flotte; perciò nel 1905 la gara anglo-tedesca negli armamenti navali portò l'Inghilterra a ricercare la superiorità qualitativa, costruendo un tipo di corazzata e un tipo di grande incrociatore con decisiva preponderanza di capacità offensiva e di protezione rispetto ai tipi già esistenti e con superiore velocità, per poter imporre la forma dell'azione tattica. Da questi concetti derivarono le grandi navi che ebbero per capostipite la Dreadnought (armamento principale della prima dreadnought 10 cannoni da 305 mm.; grande estensione di corazzatura; velocità di 21 nodi, mentre la velocità di 18 nodi fino a quel tempo era stimata sufficiente per le navi di linea). La nuova specie d'incrociatori fu quella degli incrociatori da battaglia, con armamento dello stesso grosso calibro delle navi di linea costruite contemporaneamente, ma con minor numero di cannoni, maggiore velocità e minore protezione. L'armamento omogeneo di grosso calibro e i progressi nei sistemi di direzione del tiro fecero aumentare la distanza di tiro efficace; le nuove corazzate e gl'incrociatori da battaglia svalutarono le navi già esistenti; perciò le altre marine imitarono quella inglese nel nuovo indirizzo delle costruzioni navali.

Mentre la fisionomia delle flotte veniva così modificata, le mine acquistavano la possibilità di essere ancorate in fondali sempre maggiori (all'inizio della guerra mondiale la profondità di ancoramento aveva raggiunto 90 metri). Il siluro progrediva aumentando il suo percorso, cosicché si verificava la possibilità dell'attacco di cacciatorpediniere, durante la lotta di artiglierie fra le navi da battaglia. Ai mezzi di guerra marittima si aggiungeva la silurante subacquea, cioè il sommergibile, che durante la guerra russo-giapponese era ancora nell'infanzia. Con il sommergibile si realizzava il mezzo per la sorpresa diurna, con grande probabilità di successo, perché la possibilità d'immergersi consentiva di avvicinarsi alla nave nemica in modo da lanciare il siluro a breve distanza. I primi sommergibili, per deficienza di autonomia e di qualità marine, erano atti soltanto alla difesa costiera; ma i progressi furono rapidi e si costruirono sommergibili d'alto mare. La loro capacità operativa non poteva essere valutata con sicuro fondamento finché non fossero provati in guerra; perciò i sommergibili d'alto mare prima della guerra mondiale furono costruiti in piccolo numero; non fu preparata contro di essi la difesa delle basi navali e non furono concretate armi nuove per poterli combattere. Al compito contro i sommergibili erano atte le piccole unità di superficie per la loro maneggevolezza e per la poca pescagione; però esse potevano soltanto impiegare il cannone o il siluro, o cercare di affondare il sommergibile con l'urto: armi tutte inadeguate.

Per la crescente possibilità di offese subacquee nelle navi tipo dreadnought furono realizzati progressi nelle strutture protettive della parte immersa dello scafo, allo scopo di assicurare la galleggiabilità nel caso che la carena fosse squarciata. Tale difesa fu sviluppata in modo da costituire un grande pregio delle nuove corazzate e degl'incrociatori da battaglia. Sotto questo riguardo, insieme con le caratteristiche di armamento e velocità, venne a stabilirsi la differenza fra le navi antiquate (predreadnoughts), molto vulnerabili alle offese subacquee, e le navi da battaglia moderne che formavano l'elemento essenziale di efficienza delle flotte; ma nella guerra mondiale i mezzi insidiosi assunsero un'importanza imprevista, e sembrò che fosse avvenuta una rivoluzione nell'arte della guerra. Per apprezzare la portata degli avvenimenti occorre rilevarne i caratteri generali, che emergono dal confronto delle forme particolari assunte dalla guerra marittima nei varî scacchieri e nelle diverse fasi del conflitto.

Principali aspetti della guerra marittima nella guerra mondiale. - Forme del contrasto marittimo. - I nuovi caratteri della guerra marittima nel conflitto mondiale furono essenzialmente determinati dalla continua minaccia subacquea. La flotta inferiore nelle navi da battaglia poté cercare un compenso all'inferiorità mediante la guerriglia; così la flotta tedesca nel Mar del Nord, la flotta russa nel Baltico e la flotta austriaca nell'Adriatico.

L'affidamento sui risultati conseguibili con la guerriglia si rafforzò dopo la memorabile giornata in cui un sommergibile tedesco affondò tre incrociatori inglesi (22 settembre 1914), ma quel successo avvenne contro navi antiquate e in situazione eccezionale, mentre i sommergibili non ottennero risultati contro le navi moderne che componevano la Grand Fleet. Nell'autunno e nell'inverno del 1914-15 la Grand Fleet traversò una crisi dovuta principalmente al logorio che aveva subito per essere stata quasi continuamente in crociera, perché la difesa delle basi navali inglesi contro il sommergibile non era ancora organizzata; così il sommergibile influì indirettamente determinando all'incirca il pareggio tra le forze disponibili della Grand Fleet e la flotta d'alto mare tedesca. Ma tale situazione fu transitoria; le probabilità di successo della guerriglia vennero a diminuire quando la sistemazione delle basi navali inglesi fu efficientemente assicurata e la superiorità della Grand Fleet divenne vieppiù rilevante per l'entrata in servizio di nuove corazzate e d'incrociatori da battaglia. L'impiego della flotta tedesca, in modo risoluto ad affrontare la battaglia, fu ritardato fino al 1916, quando ormai le condizioni di relatività navale erano assai vantaggiose per la Grand Fleet. L'assegnamento sulla guerriglia ebbe dunque per effetto di far perdere alla flotta tedesca il momento propizio per la sua azione.

A causa del pericolo dei sommergibili il blocco mantenuto dalla Grand Fleet dové ridursi alla vigilanza, ma con modalità assai variabili secondo le circostanze. Infatti la vigilanza ebbe caratteri prossimi al blocco ravvicinato nei giorni di più intenso passaggio di truppe attraverso la Manica; la vigilanza divenne invece larghissima nella seconda metà di ottobre 1914, quando la Grand Fleet dové dislocarsi in Irlanda per l'impreparazione delle sue basi nel Mare del Nord. Dal novembre 1914, alla quasi continua attività del primo tempo subentrò il sistema consistente nel mantenere normiìalmente le forze navali allo stato potenziale, in base efficacemente difese contro i mezzi insidiosi; ma questa restrizione di attività non impedì alle forze bloccanti di mantenere la loro capacità operativa. I sommergibili in servizio di vigilanza ravvicinata presso le basi avversarie, la radiotelegrafia, il servizio d'informazioni e la rapidità dei movimenti compensarono l'allontanamento del grosso della flotta bloccante e la riduzione delle crociere, dando il modo di contrastare tempestivamente l'azione della flotta avversaria. Così avvenne che i movimenti delle flotte nel Mare del Nord portarono all'avvicinamento il 16 dicembre 1914, il 24 gennaio 1915 (battaglia del Dogger Bank), il 24 aprile 1916, il 31 maggio 1916 (battaglia dello Jütland) e il 19 agosto 1916.

Analogamente nel Baltico la guerriglia non impedì alla flotta prevalente, ossia alla flotta tedesca, di conseguire i suoi obiettivi. In quel mare, per le condizioni geografiche la flotta tedesca non aveva bisogno di stabilire il blocco sul tipo di quello mantenuto dalla Grand Fleet nel Mare del Nord; essa operò normalmente con forze assai esigue, però queste furono impiegate in modo da dare al nemico l'impressione di una minaccia continua. Le corazzate russe si limitarono a compiti strettamente difensivi, per la grande preponderanza navale di cui la Germania poteva disporre. La ristrettezza dello scacchiere era assai propizia all'impiego dei sommergibili; i bassi fondali consentivano il largo uso di mine; tuttavia le operazioni navali assunsero il carattere di guerra costiera, in concorso alla guerra terrestre. Alle importanti operazioni eseguite nel golfo di Riga - forzamento del golfo nell'agosto 1915 e occupazione delle isole fortificate di Ösel (Saaremaa) e Moon (Muhu) nell'ottobre 1917 - parteciparono navi da battaglia della flotta d'alto mare, che conseguirono il successo senza subire perdite di navi, benché i Russi avessero l'aiuto di sommergibili inglesi brillantemente impiegati.

L'Adriatico, per la sua ristrettezza e per le condizioni della costa orientale, offriva campo particolarmente propizio all'azione dei mezzi insidiosi; le operazioni nell'interno di questo mare dovevano necessariamente assumere il carattere di "guerra a colpi di spillo". Le forze principali dell'Italia e dell'Intesa si mantennero allo sbocco dell'Adriatico, pronte ad agire qualora le forze nemiche di superficie cercassero di compromettere la libertà di uso del mare nel Mediterraneo; e quindi, rispetto alla guerra nell'Adriatico le forze da battaglia sembrarono estranee; il carattere particolare che ebbe la guerra in questo scacchiere fu dovuto alle speciali condizioni geografiche e al contegno passivo della flotta inferiore, virtualmente paralizzata dalla prevalenza di forze da battaglia di cui disponeva l'Intesa.

Nel Mar Nero la disparità tra le forze navali belligeranti era assai accentuata; la flotta russa disponeva di unità navali di ogni specie, dai sommergibili alle corazzate; invece la flotta turca era costituita sostanzialmente dalle due navi ex-tedesche, che nell'agosto 1914 si erano rifugiate nei Dardanelli, cioè dall'incrociatore da battaglia Goeben e dall'incrociatore leggiero Breslau. La Turchia mercé il possesso degli stretti tagliava le comunicazioni fra la Russia e il Mediterraneo; ma la capacità di resistenza era subordinata alla libertà di uso del mare lungo le sue coste nel Mar Nero, e questa libertà fu attivamente contrastata dalla flotta russa.

Fino al settembre 1915 i sommergibili tedeschi non operarono nel Mar Nero. L'azione della flotta turca ebbe carattere di energica difensiva attiva, mediante l'impiego coordinato di tutti i mezzi di superficie; questa difensiva fu condotta con altissimo spirito aggressivo; il Goeben operò in modo da vincolare la flotta nemica, affrontando ripetutamente l'azione tattica contro forze preponderanti, senza tuttavia impegnare l'azione decisiva, a causa dell'inferiorità di forze. Il compenso a tale sproporzione fu costituito dall'iniziativa, dalla grande attività e dai requisiti di efficienza del Goeben, fra i quali primeggiò per importanza la valida protezione contro le offese subacquee. La situazione marittima divenne critica per la Turchia durante i primi tre mesi del 1915, allorché il Goeben venne a mancare per aver urtato in due mine; però la ripresa di attività del Goeben, per quanto la sua riparazione fosse incompleta ed eseguita con mezzi di fortuna, fu sufficiente per obbligare i Russi a rinunziare al trasporto di truppe e allo sbarco che avevano progettato per attaccare il Bosforo. In effetti la libertà d'azione di una nave potente e arditamente impiegata bastava a costituire una minaccia di cui la flotta prevalente era obbligata a tener conto, più che se la flotta turca invece del Goeben avesse avuto a disposizione numeroso naviglio sottile e sommergibili.

Da quanto precede risulta che i caratteri dell'arte della guerra marittima nel conflitto mondiale possono essere differentemente apprezzati con visione unilaterale, perché il contrasto marittimo assunse forme notevolmente diverse nei varî scacchieri; insieme con tali forme è interessante ricordare la condotta che era stata prestabilita per il Mediterraneo, qualora la Triplice alleanza avesse mantenuto la sua integrità. Nel piano della Triplice era preordinata una rapida ed energica offensiva contro le forze navali franco-inglesi e contro i trasporti di truppe dell'Algeria in Francia. Anche la marina francese, per difendere il passaggio delle truppe, aveva il proposito di cominciare la guerra con una pronta e risoluta offensiva contro la flotta italiana; e quindi le tendenze concordavano a rendere probabile fino dai primi giorni una battaglia navale.

Per la neutralità dell'Italia, per il contegno passivo della flotta austriaca e per il successivo intervento dell'Italia contro le Potenze centrali, la libertà d'uso del mare nel Mediterraneo rimase all'Intesa, che assai largamente se ne valse; anche quando l'uso del mare fu contrastato dai sommergibili, poterono essere eseguite grandi spedizioni marittime, scortando i trasporti. Le mine e i sommergibili ebbero parte cospicua nel determinare il fallimento dell'impresa dei Dardanelli per le perdite inflitte alle navi che tentarono il forzamento e che operarono a protezione degli sbarchi; però le corazzate che andarono perdute erano di tipo antiquato, ossia molto vulnerabili alle offese subacquee. A questo proposito il Groos fa notare che alle operazioni per la conquista delle isole baltiche la flotta tedesca destinò le sue migliori navi da battaglia: non solo per la loro maggiore efficienza bellica, ma soprattutto per il maggiore grado di galleggiabilità di fronte ai pericoli delle offese subacquee". Gli avvenimenti dimostrarono quanto fosse stata opportuna la decisione di scegliere le navi più moderne, invece di quelle antiquate.

Durante la guerra fu comunemente diffusa l'opinione che si stesse avverando quanto dal 1885 aveva sostenuto la jeune école, cioè la fine delle navi da battaglia per la loro impotenza contro i mezzi minuscoli; la facilità con cui affondavano le predreadnoughts colpite da mine o da siluri, e la mancanza di grandi battaglie navali decisive, poterono far credere che le corazzate dovessero rimanere immobilizzate, o altrimenti si esponessero a sicura perdita. La rassegna delle forme assunte dal contrasto marittimo nei varî scacchieri dimostra invece come le navi moderne avessero la piena capacità operativa, pur dovendo adattare la loro condotta all'accresciuta entità dei rischi. Nonostante la sua attività, la flotta inglese perse soltanto una dreadnought (l'Audacious) a causa delle mine (in acque non dragate) e nessuna a causa di siluri; delle dreadnoughts e incrociatori da battaglia tedeschi parecchie navi furono offese da armi subacquee ma tuttavia riuscirono a rientrare in porto. Anche la dreadnought francese Jean Bart, silurata nell'Adriatico, riuscì a salvarsi. L'affondamento delle due dreadnoughts austriache Szent Istvan e Viribus Unitis avvenne rispettivamente per opera di siluro e di mine, però nelle navi austriache la capacità di resistenza alle offese subacquee era inferiore a quella delle altre navi similari contemporanee.

Il contrasto marittimo assunse forme del tutto nuove per carattere e per importanza quando l'arma sottomarina si rivolse contro il commercio; fu questa forma di contrasto che sembrò produrre una rivoluzione nell'arte della guerra.

I vecchi principî ebbero piena conferma nei fatti finché la guerra di corsa fu eseguita con i vecchi sistemi, ossia con navi di superficie. Il vantaggio ottenuto dalla squadra di crociera tedesca con la vittoria di Coronel non fu seguito da nessun tentativo per appoggiarla inviando in Atlantico incrociatori da battaglia, né la flotta d'alto mare svolse attività per impedire che navi della Grand Fleet fossero mandate a combattere la squadra oceanica, o per trarre profitto dall'indebolimento della Grand Fleet in conseguenza delle forze distaccate. Perciò alla fine del 1914 l'Intesa ebbe il dominio degli oceani.

Il sommergibile offrì alla guerra di corsa possibilità senza riscontro con le situazioni verificatesi nel passato, essendo anche più vantaggiose di quelle che nella guerra di secessione americana avevano avuto i corsari a vapore contro il traffico esercitato da navi a vela. "Ecco per la prima volta un corsaro - scrive l'ammiraglio Castex - che può manovrare sulla terza dimensione. L'invisibilità gli consente che la preda si avvicini fiduciosa fino all'istante in cui esso la distruggerà col cannone o col siluro. Alla fuga, problema frequente e fondamentale della guerra di corsa, provvede l'immersione. Non ha bisogno di preoccuparsi della lotta con gl'incrociatori nemici. Il problema del rifornimento, che ha tanto preoccupato i corsari a vapore, è risolto dal minimo consumo, con i motori a combustione interna, e la possibilità di immergersi permette il ritorno alle basi anche in difficili condizioni geografiche".

L'impiego del sommergibile come corsaro presentava però anche un altro aspetto, di carattere politico-militare.

Il mare è via comune a belligeranti e neutrali; per effetto di tale comunanza, e per l'importanza del traffico che si svolge sul mare, la guerra marittima più di quella terrestre ha ripercussioni politiche.

Il sommergibile non aveva la possibilità di garantire la salvezza degli equipaggi e dei passeggeri delle navi affondate. Per accertare il carattere delle navi incontrate e quello del loro carico, cioè per esercitare il diritto di visita analogamente alla nave corsara di superficie, il sommergibile doveva esporsi a gravi rischi, essendo molto vulnerabile nell'azione in superficie (dal minimo danno derivando l'impossibilità d'immergersi). Per evitare i rischi il sommergibile dové praticare la guerra di corsa in un modo che inevitabilmente produsse incidenti con i neutri. D'altra parte, quando furono prescritte limitazioni, diminuì l'efficacia del nuovo sistema di guerra di corsa, cosicché s'impose il dilemma: o rinunziarvi completamente o impiegare i sommergibili senza restrizioni, cioè affondando senza preavviso tutte le navi incontrate. La guerra sottomarina divenne quindi spietata; ma più che contro i sentimenti umanitarî l'azione dei sommergibili urtava contro gl'interessi dei neutri.

Nel 1915 il tentativo di blocco sottomarino dell'Inghilterra fu un fallimento; perché alla scarsità dei mezzi difensivi corrispose la deficienza dei mezzi d'attacco, essendo troppo piccolo il numero dei sommergibili; la Germania venne in contrasto con i neutri senza poter conseguire un vantaggio corrispettivo. In detto anno e nel seguente, per le ripercussioni politiche, la campagna sottomarina fu intralciata dalle incertezze diplomatiche senza evitare l'intervento degli Stati Uniti. Secondo un'opinione molto diffusa in Germania la guerra sottomarina senza restrizioni avrebbe potuto decidere l'esito del conflitto, se anziché nel febbraio 1917 fosse stata iniziata nella primavera del 1916, come i capi militari avevano proposto. Quantunque la Germania disponesse allora di un minor numero di sommergibili, il successo era stimato possibile, perché fino al 1916 i mezzi contro i sommergibili e le disposizioni adottate dall'Intesa per difendere il traffico con il sistema delle rotte pattugliate avevano poco valore; inoltre era ancora arretrata la preparazione guerresca degli Stati Uniti. Ma non si può apprezzare quali sarebbero state le conseguenze se la offensiva sottomarina fosse stata anticipata; le previsioni tedesche sul tonnellaggio distruggibile in un determinato tempo non tenevano conto che all'intensità dell'attacco potesse corrispondere un incremento della reazione difensiva. L'efficacia dei provvedimenti adottati dall'Intesa nel 1917 principalmente consisté nel ritorno al vecchio sistema dei convogli; è logicamente presumibile che la sua necessità sarebbe stata riconosciuta nel 1916, se la guerra senza restrizioni avesse avuto inizio in quel tempo, perché il sistema dei convogli non era stato adottato dubitando che producesse inconvenienti, ma la gravità del pericolo fece comprendere come quei dubbî fossero trascurabili. La protezione del traffico con il sistema delle rotte pattugliate era una difesa a cordone che portava a disseminare inutilmente i mezzi antisommergibili, mentre i convogli scortati permettevano la concentrazione dei mezzi e quindi il loro rendimento. Per debellare la minaccia, che sembrava annullare i vecchi principî, la protezione del traffico ritornò agli antichi metodi, cioè ai convogli e all'attacco delle basi dei corsari (attacchi di Zeebrugge e di Ostenda).

Complessità del contrasto marittimo. - Nella guerra mondiale la lotta sul mare assunse le forme più svariate: guerriglia, blocco militare e commerciale, trasporti di truppe, azioni costiere, operazioni combinate fra esercito e marina per imprese di sbarco, guerra contro il commercio con navi di superficie e con sommergibili. Questa varietà di forme poté determinare apprezzamenti unilaterali dell'influenza che esercitarono le diverse specie di mezzi; per riconoscerne l'importanza relativa, cioè per rendersi conto se veramente avvenne una rivoluzione nell'arte della guerra, conviene riferirsi alla fase del conflitto in cui le forze navali da battaglia maggiormente poterono sembrare spettatrici passive, cioè alla fase acuta della guerra sottomarina al traffico. Come fa notare il Castex, si produsse una situazione che si può così compendiare:

Da parte delle Potenze centrali v'era una massa corazzata C che si tenne inerte, lasciando alla massa S dei sommergibili il compito attivo. Da parte dell'Intesa vi era una massa corazzata C′ che si manteneva nelle sue basi in posizione d'attesa, pronta a sostenere la massa A delle unità antisommergibili di varia specie, che proteggevano direttamente il traffico e combattevano i sommergibili S.

In tali condizioni, mentre S e A agivano, le masse C e C′ si potevano credere inutili; ma se le forze nemiche di superficie C fossero state libere di agire, oltre l'azione che il nemico avrebbe con esse potuto esplicare contro il traffico, sarebbe crollato il sistema A di protezione antisommergibile. Reciprocamente l'esistenza della massa S limitava le possibilità d'azione di C e obbligava C′ a mantenersi in efficienza vincolando navi leggiere e flottiglie, il che produceva un indebolimento della massa A. In brevi termini si produsse una situazione sostanzialmente analoga a quella che si verificava nel periodo velico, quando le flotte costituivano il sostegno indiretto delle navi destinate all'attacco o alla protezione del commercio. "La nostra flotta fu l'impugnatura dell'arma il cui taglio affilato era costituito dai sommergibili": così l'ammiraglio Scheer.

Furono combattute importanti battaglie navali (Coronel, Falkland, Dogger Bank, Jütland); mancò la battaglia navale decisiva nel teatro di guerra principale, ma ambedue i belligeranti ebbero a pentirsi di non aver profittato dell'occasione vantaggiosa che a ciascuno si era presentata: ossia i Tedeschi troppo tardi riconobbero l'errore commesso per non aver affrontato la battaglia navale nell'inverno del 1914-15; per gl'Inglesi l'occasione vantaggiosa si presentò nella battaglia dello Jütland, ma la Grand Fleet fu impiegata con troppa cautela. Quella battaglia, pur essendo grandiosa per l'entità delle forze in contrasto, e pur costituendo un parziale successo tattico da parte tedesca, non modificò la situazione relativa delle flotte belligeranti; i criterî di cautela potevano essere logici nel 1914, ma non erano giustificati dalla superiorità inglese che esisteva nel 1916. Ne conseguì che la situazione inglese risultò assai critica nel 1917, cioè durante la guerra dei sommergibili senza restrizioni, perché l'efficienza della flotta tedesca d'alto mare obbligava la Grand Fleet a tenersi pronta, mentre aveva scarsità di combustibile; per la necessità dei compiti contro i sommergibili il naviglio sottile aggregato alla Grand Fleet era stato ridotto al minimo; una parte era necessariamente in turno di lavoro, e molte di tali unità erano sempre impiegate per la protezione del traffico e per la caccia dei sommergibili nelle acque settentrionali, senza poter fare assegnamento che arrivassero in tempo, per accompagnare la Grand Fleet se questa avesse dovuto prendere il mare nel caso di attività della flotta nemica. Quindi la situazione inglese avrebbe potuto divenire anche più critica se la flotta d'alto mare avesse iniziato un periodo d'attività obbligando la Grand Fleet a muoversi, sì che le sue riserve di combustibile si esaurissero; i Tedeschi avrebbero così potuto acquistare la libertà d'azione delle loro forze di superficie, che sommandosi all'azione dei sommergibili contro il traffico avrebbe potuto determinare la sconfitta dell'Intesa.

La parte limitata che ebbero le forze da battaglia non deve considerarsi dunque come un nuovo carattere della guerra; essa fu soltanto una forma contingente. Non si può affermare che la guerra mondiale abbia escluso l'importanza delle forze navali da battaglia, ma si deve constatare come sia divenuta essenziale anche l'importanza di altri mezzi di guerra marittima, cioè come sia cresciuta la complessità del contrasto marittimo. L'opera della marina non deve giudicarsi in modo limitato alle battaglie, bensì all'influenza esercitata dall'azione marittima sull'andamento generale del conflitto, cioè sulla guerra terrestre e sulla situazione economica.

Correlazione terrestre e marittima. - All'inizio delle ostilità lo Stato Maggiore tedesco attribuiva poca importanza al trasporto in Francia del corpo di spedizione inglese, così da non richiedere che, per contrastarlo, la flotta si esponesse contro forze preponderanti. Il governo tedesco, facendo assegnamento su vittorie terrestri rapidamente risolutive, riteneva che il loro effetto politico non dovesse essere menomato dal rischio di una sconfitta navale, mentre stimava che la Germania, quando avesse deciso la guerrra sul continente, disponendo di una flotta intatta, potesse costituire una minaccia tanto grave per l'Inghilterra da indurla ad accettare la pace. Per queste ragioni la Germania inizialmente considerò la guerra soltanto come un conflitto su due fronti, ricercando la decisione unicamente nel campo terrestre; il preconcetto politico gravò sulla condotta della guerra marittima. Anche quando la guerra terrestre non si dimostrò prontamente decisiva, l'importanza della correlazione terrestre e marittima fu scarsamente considerata; rimasero vane le richieste di Tirpitz, il quale sosteneva che la Germania per vincere dovesse principalmente combattere l'Inghilterra. Tale necessità non fu compresa se non quando la Germania fu costretta a ricorrere all'arma della disperazione, cioè alla guerra dei sommergibili contro il commercio. Tutta la condotta della guerra da parte tedesca, eccettuate le operazioni di carattere secondario, nel Baltico, si svolse senza che esercito e marina coordinassero la loro azione.

A riassumere l'importanza che ebbe l'uso delle vie marittime per gli scopi militari basta elencare i principali aspetti della correlazione terrestre e marittima nella condotta guerresca dell'Intesa, cioè: 1. Trasporto in Francia delle truppe dall'Inghilterra e dall'Algeria, che contribuì a determinare il fallimento del piano iniziale tedesco. La libertà di movimenti di truppe e dei rifornimenti inglesi e francesi per via di mare facilità in misura notevole la controffensiva degli Alleati sulla Marna. 2. Stabilizzazione delle fronti terrestri e conseguente possibilità per l'Intesa di accrescere le sue forze sulla fronte occidentale e di portare la guerra su nuovi teatri d'operazioni, facendo affluire truppe e risorse da ogni parte del mondo. Grandi trasporti marittimi nel Mediterraneo (impresa contro i Dardanelli, spedizione di Salonicco, ritirata dai Dardanelli, salvamento dell'esercito serbo, spedizione d'Albania, difesa dell'Egitto, conquista della Palestina). 3. Difesa del traffico marittimo contro la guerra dei sommergibili. Trasporto dell'esercito americano in Europa.

Pressione economica. - Nel Mare del Nord e nel Mediterraneo il blocco militare contro le flotte delle potenze centrali costituiva il sostegno del blocco commerciale, che al pari dell'altro, per il pericolo dei sommergibili, non poteva essere mantenuto in vicinanza dei porti avversarî, e perciò veniva esercitato nei tratti di mare ristretti, attraversati dalle linee di comunicazione del nemico; gli effetti di questa pressione silenziosa divennero sempre più sentiti con l'inasprimento della politica di blocco e con il prolungarsi del conflitto.

Carattere altrettanto grave ebbe la ritorsione tedesca; mantenendo in crociera un numero di unità il cui tonnellaggio complessivo all'incirca equivaleva a quello di un paio di moderne corazzate, i sommergibili, mediante l'attacco al traffico, riuscirono a vincolare immense risorse dell'Intesa, le cui sorti furono inserio pericolo. Il tonnellaggio mercantile mondiale prima della guerra era valutato in circa 48 milioni degli Alleati e neutri e 8 milioni delle potenze centrali. In confronto a queste cifre si deve considerare che circa 13 milioni di tonnellate furono distrutte complessivamente per varie cause (sommergibili, mine, corsari di superficie); tenendo conto della poca entità delle perdite derivanti dall'azione dei corsari di superficie (243.000 tonn.), appare come sia stata gigantesca l'opera dei sommergibili. Ma si deve tener presente che all'azione dei sommergibili fu tolto ogni limite senza preoccuparsi dei neutri, ciò che sarebbe da escludere in una guerra che non avesse carattere mondiale. Inoltre la ritorsione tedesca non pose le parti belligeranti in condizioni equivalenti, avendo soltanto effetto distruttivo, e perciò le Potenze centrali furono condannate all'esaurimento; invece le disposizioni dell'Intesa per tagliare le comunicazioni marittime degli avversarî raggiungevano anche lo scopo di proteggere il traffico, che, nonostante le gravissime difficoltà, poté mantenersi in misura sufficiente per assicurare la capacità di resistenza fino alla vittoria.

"Gli stati continentali europei sono diventati sempre più sensibili alla pressione economica del potere marittimo, in conseguenza dei legami che i loro interessi commerciali, economici e finanziari hanno con l'economia mondiale; essi dipendono oggi dal traffico marittimo quasi quanto l'Inghilterra": così il Groos. A questo proposito conviene ricordare come nella guerra mondiale fu particolarmente critica la situazione dell'Italia, per la mancanza di carbon fossile, per la deficienza di grano, per la mancanza di materie prime, e per l'impossibilità di far giungere i rifornimenti per via terrestre, data la scarsa capacità delle comunicazioni di frontiera. Per quanto le ferrovie facessero il massimo sforzo, il tonnellaggio delle merci importate dal mare rappresentò una media del 75% del totale per un complesso di 40 milioni di tonnellate nei tre anni di guerra.

Per l'accresciuta dipendenza delle comunicazioni marittime la lotta sul mare esercitò sull'esito del conflitto un'influenza assai più grande che nelle guerre del passato. La Germania dové capitolare prima che i suoi eserciti e le sue forze navali fossero distrutte e che fosse occupato il suo territorio. La decisione della guerra mondiale fu conseguenza di cause complesse fra cui ebbero grandissima parte le vicende marittime, dimostrando come il grado di libertà di cui gli stati belligeranti dispongono nei riguardi delle comunicazioni marittime possa influire sulla loro capacità di resistenza.

Le nuove condizioni. - Come i caratteri della guerra marittima nel conflitto mondiale furono essenzialmente determinati dalla minaccia subacquea, ci troviamo ora in un'analoga condizione per i mezzi aerei, che nella guerra mondiale erano nell'infanzia.

Il mare favorisce la sorpresa aerea, consentendo agli aerei di giungere sulle località costiere senza essere preavvisati, contrariamente a quanto avviene allorché gli aerei devono passare su territorio nemico prima di giungere all'obiettivo. Da questo risulta che un paese è tanto più esposto all'offesa aerea quanto maggiore è l'estensione delle sue coste e quanto più importanti sono i centri demografici industriali sul suo litorale. Mentre, fino alla guerra recente, una forza navale, che si trovasse in una base potentemente difesa, era in relativa sicurezza, le condizioni del futuro saranno sensibilmente diverse, essendo accresciute le possibilità di attacco in porto.

Contro una forza navale che si trovi in un porto ravvicinato al territorio nemico si scatenerà un'energica offensiva dall'aria; questa possibilità dovrà quindi influire sulla dislocazione delle forze navali quando saranno mantenute in attitudine di attesa.

Nella condotta della guerra marittima i velivoli saranno mezzi importantissimi per l'esplorazione, per la difesa e per l'attacco.

Una forza navale priva di esplorazione aerea, contro un'altra che la possiede, agisce ciecamente; è esposta alle sorprese, mentre non può trovare l'avversario se quello vuole evitare il contatto.

Le navi moderne dispongono di artiglierie controaeree e l'attacco aereo contro navi in movimento ha probabilità di successo assai minore dell'attacco contro obiettivi immobili. Tuttavia il più valido elemento di difesa è costituito dalla difesa attiva, cioè dai velivoli da caccia. Nonostante i progressi delle comumicazioni radiotelegrafiche, la grande velocità dei velivoli e il loro crescente raggio d'azione, una forza navale operante al largo delle sue basi non può fare assegnamento che i suoi velivoli provenienti da stazioni costiere arrivino con la necessaria tempestività per difenderla contro gli attacchi aerei né per partecipare al combattimento navale. Per queste ragioni, nonché per la continuità del servizio di scoperta e di attacco dei sommergibili davanti alla forza navale, risulta indispensabile che la tempestiva cooperazione aerea sia assicurata mediante i velivoli di navi portaerei, cosicché occorre che la forza navale li abbia a disposizione immediata. Le navi portaerei, ossia quelle che hanno il ponte di volo per la partenza e il ritorno a bordo dei velivoli, sono divenute un indispensabile elemento di efficienza delle flotte; esse costituiscono la più importante fra le novità che il dopoguerra ha apportato nell'evoluzione del materiale navale.

La difesa e l'attacco al commercio, problema fondamentale della guerra marittima, si presentano oggi sotto aspetti notevolmente diversi da quelli verificatisi nella guerra mondiale. L'azione dei sommergibili contro le navi da commerci0 è vincolata dal trattato concluso a Washington (1922) e dalla Conferenza di Londra (1930). Per proteggere i neutri e i non combattenti, a evitare il ripetersi della guerra al traffico senza restrizioni, come quella eseguita dai Tedeschi, è stabilito che un sommergibile, non potendo catturare una nave da commercio, seguendo le norme delle navi di superficie, cioè facendo la regolare visita, debba lasciare che la nave continui la rotta senza molestie. Le Potenze firmatarie sono andate anche più oltre, vincolandosi con il dichiarare praticamente impossibile di utilizzare il sommergibile alla distruzione del commercio, e convenendo (ma con qualche riserva da parte della Francia) di considerarsi come ormai legate da questa interdizione Pur se questi accordi saranno osservati nel mod0 più rigido, l'importanza del sommergibile contro il traffico non potrà ritenersi annullata; ma è prevedibile che essa sarà ridotta, mentre la guerra di corsa con navi di superficie potrà assumere un'importanza assai maggiore, per le possibilità consentite dal grande raggio d'azione che hanno le navi moderne, con motori a combustione interna.

Nell'attacco al commercio, gli aerei, per agire senza la cooperazione navale, si troverebbero in condizioni più sfavorevoli di quelle del sommergibile. Pur supponendo che gli aerei potessero affondare tutte le navi mercantili incontrate, per far questo dovrebbero applicare il sistema della guerra senza restrizioni; non potrebbero assicurarsi della nazionalità delle navi ed esercitare il diritto di visita. Conviene ricordare che ciò fu possibile ai sommergibili perché le bandiere delle Potenze centrali erano scomparse dai mari. Anche la possibilità di deviazione di rotta, cioè l'ordine alle navi incontrate di recarsi in un porto per la visita, sarà subordinata - come fa notare il Castex - "alle condizioni politiche e geografiche del conflitto. Potranno esservi neutri potenti che non tollereranno queste deviazioni, che erano imposte nella guerra mondiale perché le maggiori potenze marittime erano fra i belligeranti. Infine l'ordine della deviazione di rotta, dato dal velivolo, cessa di aver valore quando questo, a corto di benzina, raggiunge la sua base, o quando sopravviene la notte. La nave mercantile può riprendere allora la sua rotta primitiva".

Gli aerei non potranno evidentemente sostituirsi alla marina mercantile per portare le ingenti quantità di materiali occorrenti alla vita nazionale; e non potranno sostituirsi alla marina militare nella complessità dei compiti che essa dovrà svolgere. Un mezzo offensivo non è sufficiente a produrre la condanna di un altro, per quanto possa renderne pericoloso l'impiego, e imporre ad esso di trasformarsi, ove il mezzo preesistente risponda a una funzione di carattere diverso dal mezzo nuovo; la pratica conferma di questo assioma sta nel fatto che il progredire delle siluranti sopracquee e subacquee e delle mine non ha segnato la condanna della corazzata. La condotta della guerra sul mare dovrà armonizzare l'impiego delle varie specie di mezzi e dovrà essere intimamente coordinata alla concezione d'insieme della condotta generale della guerra.

Bibl.: G. Sechi, Elementi di arte militare marittima, voll. 2, Livorno 1903-1906; A. T. Mahan, Naval Strategy, Londra 1912; J. S. Corbett, Some principles of maritime strategy, Londra [1918]: R. Bernotti, La guerra marittima, Firenze 1923; R. Castex, Théories stratégiques, Parigi 1929-31; O. Groos, Seekriegslehren im Lichte des Weltkrieges, Berlino 1929, tradotto in italiano dall'Ufficio Storico della R. Marina.

Guerra aerea.

Il carattere della guerra subisce un cambiamento radicale con la comparsa dell'aviazione. Le armi di superficie di terra e di mare hanno dato la misura delle loro possibilità; l'arma dello spazio non ha ancora potuto offrire, neanche in scala ridotta, l'indice della sua potenza e delle sue caratteristiche.

Qualche studioso ha affermato che di fronte alla nuova arma, l'esercito e la marina sono rese pressoché inutili: queste sono esagerazioni, che tuttavia è bene ribattere perché danneggiano l'aviazione anziché giovarle. Tutte le forze armate concorrono allo stesso fine di sterminare l'avversario, ma mentre la guerra di terra, con il progresso raggiunto dalle armi a tiro rapido, sembra destinata a ridursi fatalmente a un logoramento con la guerra di posizione, la guerra aerea ristabilisce, per la sua stessa natura e per la sua enorme efficacia, il movimento. Per "guerra aerea" s'intende la lotta autonoma con obiettivi proprî delle forze aeree, ma collegata alle azioni e alle funzioni delle altre forze.

Nella guerra mondiale l'aviazione, per il suo sviluppo primordiale, non poteva in alcun modo dar luogo ad azioni come oggi vengono concepite, e perciò nessun insegnamento si può trarre in questo campo dall'esperienza del passato. Se l'aviazione avesse avuto durante la guerra mondiale lo sviluppo che ha assunto ora, non c'è dubbio che il grande conflitto avrebbe avuto un diverso epilogo evitando il lungo logorio della guerra di trincea.

Tuttavia alla fine della guerra gli Alleati avevano concepito delle azioni aeree indipendenti, che poi non poterono attuare. Ma la concezione della guerra aerea totalitaria mediante l'armata del cielo è una concezione nuova, prettamente italiana, che ha avuto nel gen. Giulio Douhet un antesignano, le cui teorie sono ormai note e discusse in tutto il mondo. Naturalmente non tutte le singole deduzioni del generale italiano sono da prendere alla lettera, perché l'evoluzione degli aeroplani e le nuove esperienze sono state così rapide da superare ogni previsione.

Non c'è dubbio che se nelle guerre future intervenissero le sole forze di terra e di mare con aviazioni ausiliarie, si ripeterebbe né più né meno la guerra statica del 1914-18 e non sarebbero certamente i fattori militari quelli decisivi. Divenuto il carattere della guerra fra i popoli preponderantemente sociale, economico, finanziario e morale, cede la nazione o il gruppo di nazioni il cui morale venga fiaccato. Gli eserciti e le flotte non costituiscono più le sole forze di resistenza per cui battuto l'esercito è battuta la nazione; è la vitalità interna delle nazioni quella che conta.

Se le guerre future venissero condotte con i medesimi criterî delle guerre passate non darebbero luogo a novità. Ma come è concepibile che un nuovo mezzo così potente come l'aviazione non determini un radicale mutamento nella condotta della guerra?

L'aviazione non conosce frontiere e non conosce trincee. Il raggio d'azione comprende quasi tutti i punti sensibili e vitali del popolo avversario. Le risorse materiali e morali del nemico vengono a trovarsi sotto una minaccia paralizzante dal cielo: di fronte a questa realtà è evidente che l'arma aerea è l'unica idonea a provocare la demolizione morale del nemico. Bombe di ogni peso e di ogni potenza di penetrazione e d'esplosione, irrorazioni chimiche d'effetto materiale e morale terrificante, bombe incendiarie leggerissime e di alto rendimento, sono mezzi bellici che non lasciano alcun dubbio sulla capacità offensiva e risolutiva dell'aviazione.

La guerra mondiale non offre elementi per valutare l'impiego dell'aviazione nella guerra futura. Lo studio dei progressi tecnici, dei progressi organizzativi e degli ultimi esperimenti militari può solo fornire degl'indici induttivi di quella che sarà realmente l'efficacia della forza aerea in conflitto. Le forme d'impiego a massa, propugnate e sperimentate dall'aviazione militare italiana in regime fascista, hanno messo in evidenza queste possibilità.

Non bisogna dimenticare che l'offensiva è la dominatrice della guerra. Ora, mentre le possibilità offensive sono illimitate per il mezzo aereo, non lo sono altrettanto per le forze di superficie. È quindi necessario che i compiti spettanti a ciascuna forza armata, secondo le diverse caratteristiche e possibilità, vengano ripartiti dando la prevalenza a quella forza armata che per la sua prontezza, mobilità e capacità di concentrazione è in grado di portare l'offesa sui bersagli sensibili non soltanto della fronte ma di tutto il territorio nemico, dove risiede l'origine della resistenza materiale e morale. Da questo concetto derivano gli elementi della dottrina della guerra aerea, secondo cui si deve esercitare una forte pressione difensiva sulla superficie, mentre l'offesa è recata dal cielo.

Questo concetto corrisponde del resto alle caratteristiche delle tre forze armate, alla facilità con la quale l'esercito e la marina possono assumere un contegno difensivo a preferenza di quello offensivo. che richiede mezzi e sacrifici di gran lunga superiori, e alla preferenza che l'arma aerea può e deve dare all'offensiva secondo le sue speciali caratteristiche, che le concedono una grande libertà d'azione.

Fra gli scopi iniziali vi sarà quello di annullare o ridurre la potenza aerea nemica colpendola alle radici, mirando cioè alla distruzione dei centri di produzione e di raccolta del materiale, ai centri di preparazione del personale, agli organismi aeronautici. La sua azione sarà altresì diretta alle fonti d'alimentazione delle altre forze armate, alle industrie di guerra, ai depositi di materiali bellici.

La ricerca della flotta aerea nemica per demolirla con il combattimento è di massima sconsigliabile, potendosi facilmente tradurre in una dannosa perdita di tempo con conseguente logoramento della propria efficienza. Si può soltanto dire che di fronte a formazioni più deboli che ostacolino la marcia, conviene accettare battaglia, come conviene evitarla di fronte a masse aeree più potenti.

A nessuno dei belligeranti conviene dunque ricercare la battaglia con il solo scopo di distruggere le forze aeree nemiche. Ciò si potrà fare a scopo dimostrativo o quando si abbia l'interesse di impegnare il nemico per conferire maggior libertà d'azione ad altre masse amiche operanti distintamente sulla stessa zona o altrove, o quando particolari ragioni militari o politiche consiglino, nel particolare istante, di ostacolare con il combattimento, a costo di qualunque sacrificio, l'irruzione di masse aeree nemiche sul territorio nazionale.

Non sono dunque da applicare di massima per la guerra aerea i concetti informatori della guerra terrestre, dove la distruzione dell'esercito nemico costituisce il diretto e più efficace sistema per aver ragione dell'avversario. E ciò ben si comprende pensando che nella guerra terrestre si tratta di occupare il territorio materialmente sbarrato dalle truppe nemiche, mentre la guerra aerea è regolata da concetti d'azione diversi nei riguardi delle forze aeree nemiche.

Dato che lo scopo della guerra è quello di spezzare la volontà di resistenza della nazione nemica costringendola alla resa, ove gli organismi aeronautici fossero di poca entità o scarsamente vulnerabili converrà dirigere l'offesa contro obiettivi più sensibili e di maggior rendimento, senza escludere l'eventualità d'intervenire a concorso delle operazioni delle altre forze armate, ma sempre a scopo prevalentemente offensivo e aggressivo, tendente alla demolizione morale dell'avversario.

Spetta all'armata aerea impegnarsi risolutamente tentando di conseguire fin dall'inizio delle ostilità la netta superiorità sul nemico. Per riuscire in tale intento occorre che l'armata aerea sia prevalentemente costituita di velivoli da offesa. Ciò non vuol dire che l'aviazione da caccia debba ridursi ai minimi termini; un buon armamento difensivo al riguardo, costituito dalla difesa attiva esercitata con veloci apparecchi ben armati, capaci di assicurare la supremazia aerea sul territorio nazionale e di raggiungere con partenza su allarme in brevi istanti i velivoli attaccanti, rappresenterà un ostacolo non del tutto disprezzabile alla riuscita delle operazioni nemiche da bombardamento. Ma non si deve fare molto affidamento su questo mezzo di difesa, perché troppo dispendioso sarebbe dover affidare la integrale difesa del territorio ai velivoli da caccia. E allora? Si può contare sulle difese contraeree a base di cannoni e sulle difese passive a base di materiali ostruzioni aeree?

Il cannone contraereo può essere utile per determinare sbarramenti in qualche punto particolarmente importante, ma non è destinato a impedire all'aviazione nemica di portare l'offesa al momento opportuno ove più le conviene. Le reti e i palloni di sbarramento possono riuscire a limitare il grado di libertà dell'attacco a bassa quota, ma non costituiscono serio ostacolo all'azione di un'armata aerea ben attrezzata e ben impiegata. Per difendersi non v'è che un solo sistema: attaccare; ma non nel classico significato della cavalleria, caricando cioè i cavalieri avversarî; non ostinandosi nella ricerca della massa aerea nemica in volo; bensì attaccando decisamente bersagli a terra ove si produce e si raccoglie il materiale di volo, ove risiede e si alimenta la potenza produttiva del paese nemico, ovunque esistono elementi di resistenza materiale e morale che permettano all'avversario di continuare la guerra.

Nessuna rinuncia, quindi, alla capacità offensiva dell'arma aerea; l'atteggiamento difensivo di qualche sua aliquota deve intendersi limitato al puro indispensabile, senza intaccare le caratteristiche offensive della gran massa di questa nuova forza armata, la cui ragione d'essere risiede solo nella formidabile capacità offensiva.

Un buon impiego dell'aliquota da caccia può essere quello di spingerla a incrociare su zone particolarmente delicate del cielo nemico ove s'intenda esercitare immediatamente azione da bombardamento, allo scopo di creare alle unità da bombardamento condizioni favorevoli di marcia verso gli obiettivi, facilitando così il compimento della loro missione. In tal caso la caccia non soltanto si limiterà ad attaccare decisamente velivoli e formazioni nemiche incrocianti sulla zona, ma ricercherá l'aviazione da caccia nemica nelle sue stesse basi, dalle quali si presume possa spiccare il volo per opporsi alla massa da bombardamento. Una conveniente aliquota da caccia potrà accompagnare elasticamente le masse da bombardamento, costituendo nella prossimità del bersaglio una crociera protettiva ad alta quota, pronta a piombare sugli eventuali cacciatori nemici diretti a rintuzzare il bombardamento. Reparti da caccia o reparti d'assalto possono a volo rasente neutralizzare le difese controaeree o battere altri obiettivi stimati importanti.

Il principio della massa deve guidare ogni concetto d'azione dell'aviazione d'offesa, se dall'offesa si vogliono trarre effetti decisivi; ma con la massa si deve curare un altro elemento indispensabile al buon esito delle incursioni, la sorpresa.

Le manovre aeree italiane del 1931, compiute con circa 900 velivoli, con bombardamento e caccia quasi a parità numerica, hanno messo in luce molte possibilità d'impiego fino allora negate da scettici e profani. Non è da escludere che i progressi della tecnica consentano in avvenire di rinunciare all'ausilio della caccia per lo svolgimento delle azioni di bombardamento e determinino in genere nuove e più profonde trasformazioni e applicazioni.

L'arte della guerra è soggetta a mutare perché i suoi canoni sono in continua evoluzione. L'aviazione costituisce l'elemento nuovo che rivoluziona le concezioni del passato.

Etnografia.

Nei primi albori della civiltà umana, le famiglie, isolate o raggruppate, non dovevano essere fra loro né in guerra né in pace: vivevano a sé evitando le dispute, combattendosi in caso d'incontro fortuito o di competizione economica. La famiglia diede origine, specie nelle regioni di pastura, alla grande famiglia, in altre regioni al clan; le grandi famiglie o i clan riuniti portarono alla tribù; le tribù ai popoli e i popoli organizzati alle nazioni. Ma per la maggior parte dei clan e anche delle tribù, la guerra rimase un fatto mal definito e, anche quando divenne un processo organizzato e determinato fra gruppo e gruppo, conservò la sua indeterminatezza nei conflitti interni, fra gl'individui o i clan. Nei primi gruppi organizzati l'esercito, strumento della guerra, era formato da tutti gli uomini in grado di portare le armi. Ciò tuttavia non significava che tutto avessero sempre l'obbligo di prender parte alla guerra; mentre a una lotta di difesa doveva partecipare ogni individuo, l'obbligo veniva spesso a mancare in caso di spedizioni aggressive: a queste partecipava chi voleva. Così pure, allorché le popolazioni si diedero all'agricoltura, la necessità di non abbandonare le coltivazioni completamente in mano alle donne fece trattenere a casa parte degli uomini atti alla guerra. Va qui ricordata la tribù indiana degli Osage, dell'America del Nord, in passato divisa equamente in guerrieri e pacifici. Questi ultimi dovevano fornire il nutrimento vegetale necessario per tutta la tribù, mentre i guerrieri dovevano procurare quello animale. Oppure, come presso alcune tribù germaniche dell'epoca romana (Svevi), l'uomo si dedicava alla guerra per un certo tempo, un anno p. es., quindi attendeva per un eguale periodo alle proprie coltivazioni, alternando così i due compiti. Infine, i lavori dei campi potevano essere andati agli schiavi. Lo stabilirsi della schiavitù, la quale manca agli stadî culturali più primitivi, porta infatti il primo notevole impulso all'organizzazione sociale della guerra, permettendo di dividere la popolazione in lavoratori e guerrieri. È vero che alcuni popoli (specialmente tribù negre dell'Africa) fanno combattere gli schiavi, ma la cosa è del tutto eccezionale. Il combattente s'identifica allora, più o meno, con il possidente e soprattutto con il proprietario fondiario. In seguito, con l'aumento della ricchezza mobiliare, si diffonde l'idea della sostituzione e del riscatto dell'individuo dall'obbligo militare. Questa crescente specializzazione di una classe militare era favorevole a un rendimento maggiore e più regolare della produzione, ma la concentrazione della potenza nelle mani di un gruppo gerarchicamente organizzato e condotto da un capo al quale non era difficile sostituirsi al governo stabile, costituiva un grave pericolo per l'organizzazione e la stabilità dello stato. Durante i periodi di pace i guerrieri erano in parte addetti alla guardia dei forti, in parte divenivano soldati-coloni con diritti e doveri speciali, pronti a riprendere le armi in caso di necessità. Così i Romani. Ancora di recente esistevano soldati-coloni in Svezia e in Russia (Cosacchi).

Una forma specializzata di guerra è il duello guerresco, dal quale dipendeva la sorte dei due combattenti e quella delle parti da essi rappresentate (v. duello) e che non s'incontra né fra le popolazioni assolutamente primitive né presso le nazioni più progredite.

La tecnica guerresca non presenta, ben inteso, forme speciali per i diversi cicli culturali (v. culturali, cicli). Alcune delle sue manifestazioni sono il prodotto spontaneo dello spirito umano nel corso della sua evoluzione e anche l'ambiente geografico vi ha una parte importante.

Le culture più primitive attuali e preistoriche hanno come mezzi di combattimento rozze armi da colpo e da getto (v. armi); solo i Pigmei, dei quali è stata affermata più volte la natura essenzialmente pacifica, possiedono ora un piccolo arco. I Tasmaniani usavano in guerra una tattica di astuzie e imboscate come per la caccia, ma può darsi che tale tattica si fosse sviluppata in seguito all'esperienza dei contatti con i Bianchi. Un secondo ciclo culturale da collegarsi alle culture primitive possiede come arma il bumerang (v.). In relazione a questo ciclo dobbiamo considerare specialmente le tribù indigene dell'Australia: presso di esse le unità politiche sono rappresentate da piccoli gruppi (clan) formati da 25 a 200 individui; in caso di guerra, anche se più clan combattono per la stessa causa, ognuno la fa separatamente senza alcun comando centrale. L'organizzazione militare dei Fuegini era egualmente primitiva non avendo essi nemmeno dei capi. Un terzo ciclo culturale, nell'Oceania (Australia e alcune isole della Papuasia), è caratterizzato dalle armi a punta e, come difesa, da una cintura larga, primo accenno della corazza; un quarto ciclo (Australia e Papuasia orientale) si distingue invece per le clave a testa grossa e per la fionda, e, come difesa, per lo scudo largo. Tutti questi cicli formano un primo periodo, caratterizzato da un armamento assai semplice e dalla mancanza dell'arco da guerra, imperfettamente sostituito, nel terzo ciclo, dal giavellotto gettato con il propulsore.

Alla fine del Paleolitico, nella preistoria europea, e nel quinto ciclo culturale (Papuasia, e alcune regioni dell'Insulindia) compare il grande arc0 da guerra che costituisce la caratteristica del secondo periodo sebbene l'arma da colpo rimanga decisiva nel combattimento. Per l'umanità presa nel suo insieme questo secondo periodo si stende fino al principio dei tempi storici, quantunque l'arco sia usato tutt'oggi. Le popolazioni della Nuova Guinea, sempre in guerra fra loro, sono dedite a delle vere spedizioni guerresche assalendo di sorpresa il nemico all'alba e rientrando subito con il bottino. Per queste spedizioni il capo dispone dei suoi parenti, dei domestici e di mercenarî. Gli uomini di alcune tribù relativamente primitive, quali i Punan di Borneo e gli Orang-Laut del distretto di Malacca, sono particolarmente ricercati come mercenarî dai capi malesi per le loro spedizioni marittime. Spesso le donne prendono parte al combattimento porgendo le armi (frecce) e portando via i morti. Nell'area delle culture papuasiche si costruiscono intorno agli abitati delle palizzate: nella Melanesia, nell'Insulindia e nell'India meridionale la dimora viene costruita per sicurezza sugli alberi. Nell'Africa negra troviamo elementi simili. L'organizzazione sociale, divenuta più estesa, fa sentire la sua influenza anche sul meccanismo della guerra. L'unità politica è qui la tribù, e, sotto l'impulso della guerra, si formano anche vere e proprie confederazioni di tribù. Nell'Africa, se in qualche caso incontriamo procedimenti tecnici che impacciano notevolmente il guerriero (p. es., le maschere portate nel combattimento dagli Ababua, o le lance munite di campanelle usate da alcune tribù della foresta congolese), riscontriamo d'altra parte organizzazioni militari solidissime come quella degli Zulu, i cui guerrieri, reclutati per arruolamento forzato o per ratto di fanciulli, non potevano ammogliarsi prima dei 40 anni. Tra le popolazioni americane, uno sviluppo analogo dell'arte militare fu dimostrato dagli Araucani del Chile, che possedevano eserciti ben dîsciplinati e capi assai esperti nella tattica guerresca. Così pure, fra le tribù della foresta brasiliana, l'organizzazione militare dei Tupi Mundrukù del Rio Tapajoz, detti gl'Irochesi del sud comprendeva la coscrizione, marce ordinate e un regolare sistema di avamposti e di segnali (tamburi di legno). È nota poi la parte avuta, presso gl'Irochesi dell'America del Nord, dalla loro confederazione di 6 tribù nelle lotte sostenute contro altre tribù indiane e contro i Bianchi; tanto più notevole, per la nostra mentalità, in quanto le tribù erano sotto reggimento matriarcale ed erano le matrone, in sostanza, che dovevano decidere dell'entrata in guerra e di altre misure militari. Gl'Indiani delle praterie disponevano, come organo di polizia militare, di società maschili incaricate dell'organizzazione e della sorveglianza delle colonne marcianti. Sebbene la tattica degl'Indiani consistesse principalmente in imboscate, essi non scendevano generalmente in campo se non dopo una formale dichiarazione di guerra; così pure in molti luoghi della Melanesia il combattimento è annunziato al nemico. Le differenze sociali fra i componenti di una tribù indiana erano determinate specialmente dal valore dimostrato in guerra. Per quel che riguarda la guerra marittima, si aveva una tecnica navale assai sviluppata nelle Antille (v. navigazione); ma fu soprattutto la cultura polinesiana che costruì le imbarcazioni da guerra più perfezionate. A un antico stadio della stessa cultura si devono le fortificazioni in pietra delle quali si vedono ancora le rovine nella Micronesia e nell'isola di Pasqua. La cultura del Sudan, che si tende a considerare parallela a quella della Polinesia, è pure notevole per i castelli di terra battuta. Rovine di fortificazioni imponenti si trovano poi nella Rhodesia, fra il Limpopo e lo Zambesi, intorno alla celebre cittadella di Zimbabwe (v. fortificazione). Strutture ancor più grandiose hanno lasciato gl'Inca. In guerra, gl'Inca, a differenza delle popolazioni meno progredite del Brasile, non usavano l'arco ma il propulsore. Nel combattimento i guerrieri erano divisi in 4 scaglioni: 1. gli uomini armati di fionda e protetti da scudi e corazze imbottite; 2. quelli muniti di clave e asce; 3. quelli con propulsore e giavellotto; 4. gli armati di lance.

Un terzo periodo nella tecnica guerresca comincia con l'introduzione del cavallo, importato in Egitto verso il 2300 a. C. dai pastori Hyksos. La sua addomesticazione è dovuta certamente al ciclo pastorale. Vennero allora in uso i carri da combattimento tirati da due cavalli, che si diffusero poi oltre i confini dell'Egitto. Più tardi, sotto la dinastia Chou, anche in Cina erano usati carri a due cavalli montati da tre uomini, un guidatore, un arciere e un lanciere. Certo in tutto l'Oriente questi carri esistevano prima che sorgesse la cavalleria. Grande importanza acquistò il cavallo fra gl'Indiani delle praterie dell'America del Nord e quelli delle Pampas, che l'adottarono rapidamente anche per la guerra, dopo l'introduzione avvenuta all'epoca della conquista spagnola. A loro volta i paesi montagnosi si arricchivano di torri e di forti, e la Cina, sotto la dinastia Ts'in (III sec. a. C.), si circondava della sua famosa muraglia lunga 4000 km.. Il quarto periodo s'inizia nel sec. XIV con l'introduzione delle armi da fuoco.

In origine gl'individui e i gruppi in lotta avevano facoltà di sterminarsi senza alcuna limitazione. Un primo progresso verso l'umanizzazione della guerra coincide con lo stabilirsi della schiavitù: il nemico vinto diviene lo schiavo, sebbene tale istituzione sia stata creata per interesse e non per umanitarismo. Una nuova fase cominciò con il subentrare all'idea di espropriazione del nemico quella di dominazione. Uno speciale movente di dominio è quello originato dall'idea di proselitismo: un caso curioso di guerre successive originate da proselitismo è fornito dalle lotte sostenute dagl'Inca del Perù contro i loro vicini per convertirli al culto del sole.

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