Arte contesa

Il Libro dell'Anno 2003

Antonio Paolucci

Arte contesa

Clariora artificum excellentium

opera ad exteros avecta…

Diritto di provenienza' e universalità del museo

di Antonio Paolucci

8 dicembre 2002

I direttori di 18 fra le più importanti istituzioni museali del mondo, dal Louvre all'Hermitage al British Museum, sottoscrivono un documento nel quale vengono dichiarate inattuabili le richieste, avanzate da più parti, di riportare nei loro luoghi di origine i tesori artistici raccolti nel tempo. Nel documento si sottolineano il ruolo universale dei musei e la loro insostituibile funzione di conservazione e informazione.

Un esempio emblematico: la vendita di Dresda

Nel 1739 Charles de Brosses, uno dei viaggiatori più intelligenti ed esigenti che abbiano mai percorso l'Italia, si ferma a Modena dove visita la celebre Galleria del duca Francesco III d'Este. Questo è il commento a caldo dell'illustre ospite francese, così come lo troviamo registrato nelle Lettere familiari: "è la più bella galleria che ci sia in Italia, non che sia la più numerosa, ma è la meglio tenuta, la meglio distribuita e la meglio ornata. Non è per niente quel guazzabuglio di dipinti l'uno sopra l'altro, mescolati senz'ordine, senza gusto, senza incorniciature e senza intervallo; cosa che stordisce la vista senza soddisfarla […] qui tutto è di prima scelta; i quadri sono di piccolo numero entro ogni stanza, magnificamente incorniciati e disposti senza confusione sopra una tappezzeria di damasco che li fa emergere bene; sono distribuiti in gradazione, in maniera che a misura che si avanza in una stanza, ci si trovano opere più belle che nella precedente". L'allestimento che il difficile de Brosses descrive con tanto entusiasmo, il duca Francesco, uomo colto e di ottimo gusto, lo aveva voluto, finanziato e vigilato di persona, affidandone l'esecuzione al suo pittore di corte Antonio Consetti. Purtroppo il sovrano di Modena, come molti principi italiani in quell'epoca, aveva ambizioni e stile di vita superiori alle sue possibilità economiche. Il suo ruolo di comandante in capo dell'armata spagnola in Italia (erano gli anni durante i quali si combatteva la guerra di Successione austriaca) lo obbligava a spese di rappresentanza pesanti. Fu così che, sei anni dopo la visita modenese di de Brosses, il duca, in ristrettezze finanziarie e angustiato dai debiti, si risolse alla 'vendita di Dresda'. Il contratto è del 14 luglio 1745. Per 100.000 zecchini d'oro il re di Polonia e principe elettore di Sassonia Augusto III acquistava i cento quadri più belli della Galleria Estense: quattro Correggio, tre Velázquez, sei Veronese, tre Tiziano e poi ancora Tintoretto, Parmigianino, Rubens, Annibale Carracci, Guido Reni, Guercino, Andrea Del Sarto, Giulio Romano, i due Dosso ecc. In quell'estate del 1745 il fiore della grande arte italiana ed europea del 16° e 17° secolo lasciava per sempre Modena per diventare l'attrazione principale del museo di Dresda, come ben sa chi abbia visitato, anche da semplice turista, quella bellissima città.

Se la capitale della Sassonia si è guadagnata il titolo di 'Firenze della Germania', se conserva ancora oggi intatta, nonostante le orrende devastazioni dell'ultima guerra, la sua aura di città simbolo delle arti e della cultura, non c'è dubbio che un ruolo decisivo nella costruzione di questa immagine, lo hanno giocato il mecenatismo lungimirante di Augusto III e l'acquisto della Galleria Estense. Quando nel 1754 ai capolavori provenienti da Modena si aggiunse la celeberrima Madonna Sistina di Raffaello, acquistata dal convento di San Sisto a Piacenza, si poté legittimamente affermare che non esisteva a nord delle Alpi un'antologia altrettanto splendida di dipinti dei grandi maestri italiani. L'importanza per la storia della cultura europea della pittura italiana presente nella Galleria di Dresda è stata storicamente così rilevante che possiamo far coincidere le origini della moderna scienza storico-artistica con le prime pubblicazioni in lingua tedesca dei quadri acquistati a Modena. La prima opera a stampa di Johann Joachim Winckelmann, il padre della archeologia classica e il massimo arbitro del gusto nell'Europa fra Illuminismo e Romanticismo, è dedicata (1753) alla Galleria di Dresda. Mentre nel 1799 August Wilhelm Schlegel celebra, in un sonetto famoso e spesso citato, la Santa Notte del Correggio.

Se ho parlato diffusamente della vendita di Dresda del 1745 è perché quell'episodio è in certo senso esemplare. Proviamo a esaminarlo nei suoi vari aspetti. C'è, prima di tutto, quello del depauperamento oggettivo e grave del patrimonio artistico nazionale. Naturalmente quando parlo di 'depauperamento del patrimonio artistico nazionale' uso un'espressione politica e giuridica moderna per riferirmi a una realtà patrimoniale e normativa premoderna e quindi incompatibile con i nostri criteri di giudizio. C'è da dire infatti che la vendita in sé era perfettamente legittima. Francesco III d'Este era proprietario pleno iure dei cento quadri ceduti per 100.000 zecchini all'Elettore di Sassonia. Gli appartenevano e quindi poteva venderli. Così come il duca Vincenzo II Gonzaga, oppresso anche lui da problemi finanziari, aveva potuto legittimamente vendere alla corona d'Inghilterra più di un secolo prima (1627) gli sterminati tesori del Palazzo Ducale di Mantova: fra gli altri i Trionfi di Cesare di Mantegna, oggi a Hampton Court, e le tele del Camerino di Isabella finite al Louvre.

Naturalmente, quando si verificavano episodi del genere, gli intellettuali si indignavano e l'opinione pubblica protestava. Accadde per la vendita della Collezione Gonzaga nel 1627. Accadde, un secolo dopo, per la cessione della quadreria estense e per l'esportazione della Madonna Sistina di Raffaello. Anche perché c'erano, negli stessi anni, principi italiani che si comportavano ben diversamente. Nel 1737, Anna Maria Luisa de' Medici, ultima erede di una dinastia destinata a estinguersi con lei, obbligava i subentranti Granduchi di Lorena a un 'Patto di Famiglia' giustamente celebre e rigorosamente vincolante. Con quel documento l'ultima granduchessa di Toscana subordinava il suo assenso, formalmente necessario al passaggio delle consegne ai nuovi sovrani, all'obbligo di mantenere in perpetuo a Firenze, offrendoli al pubblico godimento, i beni artistici appartenenti alla corona. Se i Botticelli e i Caravaggio degli Uffizi, i Tiziano e i Rubens della Galleria Palatina, i reliquiari della Basilica di San Lorenzo e i codici miniati della Biblioteca Laurenziana si trovano ancora a Firenze e non sono finiti a Vienna oppure a Praga, lo dobbiamo alla provvidenziale determinazione dell'ultima donna di casa Medici.

Non c'è dubbio dunque che la vendita di Dresda (ancorché giuridicamente legittima e legalmente inoppugnabile) ha significato la perdita di una serie di capolavori assoluti che sono da considerare documenti fondamentali per la storia dell'arte italiana. Questo è vero. Ma è altrettanto vero che quel trasferimento

- da Modena alla capitale della Sassonia - è stato molto importante per la cultura tedesca, per gli studi di storia dell'arte, per il successo dell'immagine dell'Italia oltre le Alpi e nel mondo. Quanto deve il mito del Rinascimento italiano (nella letteratura, nella musica, nel turismo colto) alla Madonna Sistina di Raffaello e alla Santa Notte di Correggio? Sicuramente molto. A conti fatti - posto che si possa tenere una contabilità di eventi così squisitamente immateriali - credo si possa dire che la perdita patrimoniale (i Raffaello e i Correggio, i Tiziano e i Veronese che oggi potrebbero essere appesi al chiodo di un museo italiano e invece stanno all'estero) sia stata largamente compensata dall'universale fruttuosa ricaduta culturale che quel trasferimento di quasi tre secoli fa nel cuore della Germania ha consentito.

Il prodotto della Storia

Una considerazione analoga potremmo fare a proposito dei marmi del Partenone che Lord Elgin, ambasciatore inglese a Istanbul dal 1798 al 1803, portò a Londra all'inizio del 19° secolo e che costituiscono una delle attrazioni principali del British Museum. Non c'è dubbio che il Partenone è il documento supremo della civiltà greca. Il suo apparato scultoreo, realizzato fra il 437 e il 432 a.C. sotto la direzione di Fidia, sta alle origini dell'arte d'Occidente. Si capisce dunque perché il governo greco chieda insistentemente e ripetutamente la restituzione ad Atene delle sculture che Lord Elgin prelevò, con tanto di 'firmano' sultaniale di autorizzazione, quando la città era amministrata dall'Impero Ottomano.

Sono evidenti le ragioni di orgoglio identitario e di nazionalismo culturale che vorrebbero i sublimi rilievi con la Processione delle Panatenaiche dentro il Museo dell'Acropoli, nella luce di Apollo, e non fra le nebbie di Londra.

Tutto questo è comprensibile e può essere politicamente giustificato, nel senso che validi argomenti 'politici' stanno dietro alle pressanti richieste greche per la restituzione dei marmi del Partenone. L'archeologo e lo storico dell'arte non possono dimenticare tuttavia che il trasferimento dei rilievi di Fidia a Londra è stato provvidenziale per la conoscenza e lo studio dell'antichità classica. Il mito dell'Ellade serena "dove la pietra è luce e figlio dell'aere il pensiero", per usare le parole di D'Annunzio, ha uno dei suoi fondamenti iconografici essenziali nei rilievi londinesi subito moltiplicati e fatti conoscere, attraverso le incisioni e i calchi, in tutte le biblioteche, le università e le accademie d'arte del mondo. C'è da chiedersi quale sarebbe oggi la nostra percezione dell'arte classica, così come ha preso forma nella letteratura del 19° e 20° secolo, se Lord Elgin non avesse portato a Londra i marmi del Partenone. Oppure se l'altare di Zeus, rinvenuto in Asia Minore presso la collina di Pergamo negli anni fra il 1878 e il 1886, non fosse stato trasferito a Berlino, dove gli architetti Alfred Messel e Ludwig Hoffmann edificarono, per ospitarlo, il contenitore grandiosamente analogico che ancora oggi stupisce e intimidisce i visitatori. Mi sto gradualmente avvicinando al cuore del problema. Sto raccogliendo argomenti per poter rispondere a quella che è la domanda cruciale: se sia lecito restituire alle nazioni di origine le opere d'arte conservate nei vari musei del mondo. Prima di rispondere occorre riflettere su quanto ho detto e cercato di esemplificare finora. L'opera d'arte figurativa (a differenza dei prodotti della musica, della poesia, della letteratura) è unica. Ha un significato simbolico esclusivo e un conseguente valore economico che la rendono appetibile in quanto 'cosa'. Al contrario, la Divina Commedia di Dante o il Don Giovanni di Mozart di per sé non valgono nulla perché sono beni immateriali, moltiplicabili ovunque senza diminuzione e godibili all'infinito. Questo evidentemente non vale per i marmi del Partenone o per la Madonna Sistina di Raffaello. La loro identità 'è' la loro unicità. La loro unicità giustifica il valore economico e il desiderio di possesso. D'altra parte la singola opera d'arte non è 'indifferente' rispetto al luogo della sua collocazione. Lo abbiamo visto nel caso dei quadri di Modena finiti a Dresda o dei marmi del Partenone ospitati al British. Nei musei storici il capolavoro di pittura o di scultura finisce con il diventare parte integrante del sistema simbolico e di informazione all'interno del quale si trova inserito.

Le celebri collezioni egizie del Louvre - per citare un esempio a tutti noto - sono una concentrazione unica al mondo di capolavori d'arte e di reperti scientifici, ma sono anche la spedizione di Napoleone in Egitto, la battaglia delle Piramidi, la moda esotica che dilagò in Francia fra l'ultimo Direttorio e il primo Impero; sono gli studi e la varia letteratura che quelle scoperte archeologiche e quelle esibizioni museali hanno fomentato prima a Parigi e poi in tutto il mondo in conseguenza del fatto che gli oggetti erano conservati lì e non altrove. Restituire alla nazione di origine le collezioni egizie, mentre nulla aggiungerebbe alle 'cose' in quanto tali, significherebbe dissolvere tutto il sistema di relazioni, di informazioni, di evocazioni storiche che la loro presenza a Parigi ha raccolto e costruito nel tempo.

Non si può quindi che concordare con la risoluzione presa dai direttori delle più importanti istituzioni museali del mondo; risoluzione decisamente contraria, in linea di principio, a ogni ipotesi di messa in discussione della consistenza e della rappresentatività delle collezioni storiche sulla base di un presunto 'diritto di provenienza'. È una posizione culturale e giuridica che nasce dal senso della Storia (la quale Storia non può essere manomessa e ricostruita ex post) e si fonda, allo stesso tempo, sulla concretezza del buon senso. Aprire infatti il capitolo delle restituzioni possibili scatenerebbe un contenzioso infinito con effetti incontrollabili e devastanti.

Se noi consideriamo il patrimonio conservato nei grandi musei dal punto di vista delle vicende collezionistiche e delle provenienze dei singoli pezzi ci imbattiamo continuamente nelle 'ingiustizie' della Storia. La Pala di Brera di Piero della Francesca dovrebbe stare a Urbino nella chiesa di San Bernardino, il mausoleo dinastico dei Montefeltro dove rimase collocata fino al 1811. La sua presenza a Milano è la conseguenza della politica di Napoleone che fondò la Pinacoteca di Brera scremando dalle chiese italiane le opere d'arte ritenute più significative. Nel Palazzo di Urbino dovremmo incontrare il Dittico dei Duchi, anch'esso capolavoro di Piero della Francesca, perché quella è la sua casa di origine. Si trova invece agli Uffizi perché a Firenze fu trasferito nel 1635, insieme alla quadreria dei della Rovere, quale dote di Vittoria, l'ultima discendente che andava sposa al Granduca di Toscana Ferdinando II. I tesori di Ferrara, spogliata dai legati pontifici a seguito della devoluzione di quel Ducato alla Chiesa (1598), sono oggi il vanto della Galleria Borghese di Roma. Se poi volessimo mettere insieme il celebre studiolo di Alfonso d'Este decorato con i Tiziano più belli del mondo e smembrato dal Cardinal legato Aldobrandini, dovremmo rivolgerci alla National Gallery di Londra (Bacco e Arianna) e al Museo del Prado (Offerta a Venere, Il Baccanale). Il fatto che i palazzi delle dinastie dove fiorì nelle sue affascinanti varianti la civiltà del Rinascimento siano oggi gusci vuoti (a Ferrara come a Mantova, a Camerino come a Urbino e come a Rimini) sicuramente può dispiacere, ma pretendere di ricostruire le collezioni dissolte sarebbe ingenuo quanto pretendere di rimandare indietro la ruota della Storia.

E che dire di quella suprema 'ingiustizia' rappresentata dalle demanializzazioni forzose? Opere d'arte che erano state realizzate per raccogliere le preghiere dei fedeli nelle chiese della cristianità sono oggi conservate nei pubblici musei. L'aura sacra all'interno della quale erano vissute per secoli si è dissolta per sempre. Hanno mutato di segno e di significato. Erano state pensate per trasmettere messaggi religiosi. Nella logica didattica e documentaria del museo sono ora obbligate a svolgere una funzione storica e documentaria.

Possiamo comprendere le ragioni affettive di quelle comunità civiche e religiose che vorrebbero restituiti al loro luogo di origine i capolavori che l'atto autocratico di regimi laici e anticlericali in tempi ormai remoti ha trasferito al museo. Deve essere chiaro tuttavia che attuare restituzioni di questo tipo significherebbe disarticolare e distruggere in gran parte i musei d'Italia e d'Europa i quali si sono formati, storicamente, aggregando alle collezioni dinastiche e private le opere d'arte incamerate dallo Stato a seguito delle soppressioni e delle nazionalizzazioni del 18° e 19° secolo.

Uno dei luoghi più suggestivi degli Uffizi, capolavoro del razionalismo museografico del Novecento, è la sala detta dei Primitivi. In un ambiente che all'inizio degli anni Cinquanta dello scorso secolo gli architetti Giovanni Michelucci, Carlo Scarpa e Ignazio Gardella concepirono in poetica analogia con le misure e la luce dello spazio sacro medievale, si trovano collocate le opere supreme della pittura delle origini. Sono le Maestà di Cimabue, di Duccio e di Giotto. Sono le 'tavole' della pittura. Stanno alla storia dell'arte moderna come le 'tavole' di Mosè stanno alla storia della religione. Guardandole l'una dopo l'altra si avverte visibilmente il 'greco' della tradizione bizantina trascolorare nel 'latino' dell'idioma d'Occidente e Giotto inaugurare, nella scoperta del vero e nella certezza dello spazio misurabile, la lingua figurativa degli italiani; quella che, dopo di lui, arriverà a Masaccio ("Giotto rinato" secondo la definizione di Bernard Berenson) a Raffaello, a Tiziano, a Caravaggio. Se dovessimo restituire le Maestà degli Uffizi alle chiese di provenienza (a Santa Trinita Cimabue, a Santa Maria Novella Duccio, a Ognissanti Giotto) avremmo distrutto in un colpo solo lo spazio museografico didatticamente più esemplare d'Italia.

I grandi musei del mondo sono il risultato del sagace collezionismo e dei munifici lasciti di colti e lungimiranti sovrani (i Medici a Firenze, gli Asburgo a Vienna, i Romanov a San Pietroburgo, i Papi a Roma ecc.). Sono la conseguenza della liberalità privata (il Poldi Pezzoli a Milano, lo Jacquemart André a Parigi, l'Isabella Gardner a Boston ecc.) perché il museo è il sogno ultimo del collezionista e l'approdo naturale della sua studiosa passione.

Soprattutto le grandi collezioni pubbliche del mondo sono il prodotto della Storia, la quale è spesso ingiusta. La Storia significa la forza irresistibile del denaro (ieri la quadreria di Modena finita a Dresda, oggi gli acquisti plurimiliardari dei musei americani); significa la brutalità della politica (il Palazzo Ducale di Ferrara svuotato dai legati pontifici, la collezione di Rodolfo II a Praga incamerata da Cristina di Svezia); significa la volontà di conoscenza e quindi di possesso esercitata dalle culture egemoni (i marmi del Partenone portati a Londra da Lord Elgin; i tesori dell'antico Egitto trasferiti al Louvre da Napoleone e dai suoi intellettuali); significa l'autoritarismo dei pubblici poteri (i beni artistici della Chiesa nazionalizzati per decreto fra 18° e 19° secolo). Tutto questo per dire che il museo storico, così come è arrivato fino a noi, è il risultato di complesse vicende fra di loro intrecciate e coesistenti. Cercare di distinguere e di reinterpretare oggi, utilizzando i principi morali e i criteri giuridici del nostro tempo, significherebbe manipolare la Storia e quindi dissolvere il museo stesso che della Storia è specchio e testimonianza.

Il termine post quem non

C'è un punto fermo tuttavia che l'età moderna ha stabilito e che deve essere vincolante per tutti. Quel termine e quella condizione post quem non sono stati fissati, una volta per tutte e per sempre, dal Congresso di Vienna all'indomani della sconfitta di Napoleone. Con Bonaparte il sogno imperiale e illuministico

del 'museo universale' sembrò trovare concreta realizzazione. L'immensa rapina compiuta da Napoleone in Italia, in Belgio e in mezza Europa diede forma per un quindicennio a un museo sterminato e mostruoso che a Parigi assunse il nome dell'Imperatore. Dopo Waterloo il Congresso di Vienna decise lo smantellamento del Musée Napoléon e la restituzione ai paesi d'origine delle opere d'arte deportate. Fu una deliberazione di grande e provvidenziale importanza quella assunta a Vienna dai plenipotenziari europei. Per la prima volta entrava nel diritto internazionale, per non uscirne mai più, il principio che i beni culturali di una nazione non possono, per nessun motivo, essere oggetto di acquisizione bellica o di risarcimento. Fu così che Antonio Canova ispettore generale delle Antichità e Belle Arti del Governo Pontificio (Monsieur l'emballeur lo chiamava con fredda ironia e con malcelato disappunto il cinico Talleyrand) poté riportare in Italia la Venere Medicea e i Cavalli di San Marco, insieme ai clamorosi tesori dei Musei Vaticani.

L'idea del 'museo universale', trofeo di vittoria e 'riposo' del guerriero, riaffiora per l'ultima volta nell'Europa nazista. Il 'Reich dei mille anni' intendeva glorificare l'immancabile vittoria finale con un museo destinato a raccogliere, nel nome di Hitler, i tesori d'arte selezionati sia nell'Occidente pacificato sia nell'Oriente slavo conquistato. Per il progetto del museo di Hitler (Hitlerzentrum) a Linz fu creato un centro apposito. I funzionari nazisti incaricati dell'operazione saccheggiarono in tempo di pace e poi in tempo di guerra tutta l'Europa. La collezione del barone Louis von Rothschild di Vienna fu distrutta e divisa perché era considerata una spoglia della campagna antiebraica. I castelli e i musei dell'Est europeo furono derubati dei loro capolavori. Poi toccò al Belgio, infine all'Italia e, dal 1941, all'Unione Sovietica. Contemporaneamente, in quel clima di ricatti e di terrore, opere d'arte celebri venivano comprate a bassissimo prezzo con la complicità di antiquari compiacenti e di funzionari minacciati o corrotti. L'incubo della rapina hitleriana si concluse nella primavera del 1945 con la Pala dell'Agnello Mistico dei fratelli Van Eyck e la Madonna di Bruges di Michelangelo recuperate nelle miniere di sale di Altausee in Sassonia e i tesori dei musei italiani ritrovati intatti in Alto Adige nei depositi nazisti di San Leonardo e di Campo Tures.

Le vicende dell'ultima guerra hanno riaffermato e consolidato - posto che ce ne fosse bisogno - il principio sancito dai plenipotenziari europei al Congresso di Vienna. Ai nostri giorni non è moralmente giustificabile né politicamente ammissibile il pubblico possesso di beni culturali che siano frutto di preda bellica. Sulla base di questo principio i paesi che, come l'Italia, sono stati vittime di occupazioni militari straniere hanno potuto esigere (e in gran parte ottenere) la restituzione dei beni illegittimamente sottratti. Ed è ancora in forza di questo principio che il nostro paese si è impegnato a riconsegnare all'Etiopia l'obelisco di Axum portato a Roma, come preda bellica, a conclusione della vittoriosa campagna coloniale del 1937.

Se la rinuncia all'acquisizione di beni culturali sulla base dello ius belli è criterio giuridico ormai normato da due secoli e acquisito dal comune sentire, assai più difficile è accettare (e soprattutto far rispettare) il concetto dell'inammissibilità del possesso (e quindi dell'obbligatorietà della restituzione) quando si tratti di opere d'arte che hanno lasciato la patria di origine a seguito di transazioni commerciali occulte e di esportazioni clandestine. In questo caso entrano in conflitto la formidabile capacità attrattiva dei paesi ricchi e la debolezza di vaste parti del mondo povere di risorse economiche e ricche di beni culturali appetibili. Se oggi le più cospicue collezioni di reperti archeologici artistici ed etnografici dell'Est asiatico o dell'Africa Nera si trovano negli Stati Uniti d'America piuttosto che nei paesi di origine, le ragioni vanno ricercate in uno squilibrio economico-politico che invano protocolli internazionali e provvedimenti di polizia cercano di sanare.

Vale tuttavia una regola ormai universalmente acquisita. Oggi nessun direttore di museo al mondo negozierebbe alla luce del sole l'acquisto di un oggetto sapendolo di provenienza illecita. Lo stesso direttore accetterebbe di restituirlo qualora l'illegittimità del possesso venisse inconfutabilmente dimostrata. È accaduto di recente nel caso di contenziosi aperti con musei americani. Si tratta di passi avanti assai significativi rispetto all'epoca (era ieri) in cui il commercio internazionale delle opere d'arte non conosceva né limiti né controlli.

Voglio concludere riaffermando un concetto e formulando un augurio. Il concetto è semplice. Il Museo è la Storia che si è fatta cose e aggregazione di cose. Non è smembrabile quindi e non ha senso procedere a restituzioni secondo il criterio del 'diritto di provenienza'. Gli unici oggetti che devono essere restituiti - lo impongono il diritto internazionale e la coscienza comune - sono quelli di cui è possibile certificare la provenienza illecita in età recente.

L'augurio è insito nel ruolo e nel destino stesso del Museo che sempre di più deve essere inteso e vissuto sotto l'aspetto della 'universalità' del possesso intellettuale e della fruizione. Giorno verrà - questo almeno è l'obiettivo al quale dobbiamo puntare - in cui ogni cittadino del mondo sentirà 'suoi', indipendentemente dall'appartenenza nazionale e dall'ubicazione, i Dürer e i Raffaello, i Rembrandt e i Picasso, le giade cinesi e le maschere africane, i rilievi gotici e i reperti aztechi che i musei, ovunque distribuiti, conservano.

repertorio

L'origine delle raccolte museali

Una pratica antica: le razzie di guerra

La razzia di opere d'arte come bottino di guerra è una pratica antica che si è perpetuata nel tempo fino ai conflitti più recenti. In origine, il trafugamento di oggetti d'arte ebbe moventi di ordine magico-religioso in base alla credenza che impadronirsi di manufatti legati alla sfera sacra e ai valori delle comunità vinte significasse sottometterne le divinità tutelari amplificando la forza del vincitore. Più avanti si aggiunsero anche ragioni economiche o estetiche connesse alla qualità materiale e ornamentale dell'oggetto. Il re assiro Assurbanipal lasciò memoria della sua presa di Susa, capitale degli elamiti (640 a.C.), facendo incidere su bassorilievi e tavole cuneiformi il dettagliato resoconto del bottino di guerra portato a Ninive. Il furto di opere d'arte è poi attestato da Erodoto a proposito della spoliazione del tempio di Babilonia e della rimozione della statua d'oro del dio Baal compiute dal persiano Serse I (5° secolo a.C.). L'espansionismo romano nel Mediterraneo e in Oriente (3°-1° secolo a.C.), con la conquista delle città della Magna Grecia, il saccheggio di Corinto e di Atene, la riduzione a provincia della Macedonia, andò di pari passo con il trasferimento a Roma su vasta scala di oggetti d'arte, e in particolare di sculture in bronzo e marmo, tra cui quelle di Prassitele, Policleto, Fidia, Mirone, Scopas. L'arte divenne la manifestazione esterna del dominio dei romani e non vi fu domus di cittadini abbienti che non esibisse opere di artisti greci o orientali. L'importazione forzosa di opere d'arte si intensificò durante l'Impero. Fra i tanti esempi si possono ricordare i tre obelischi trasferiti a Roma da Ottaviano dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), i manufatti di grande pregio (fra cui la Fanciulla di Anzio, la Sibilla, il Galata morente di scuola pergamena, l'Apollo del Belvedere, un Apollo di Scopas) con cui Nerone decorò la Domus Aurea e la sua villa di Anzio, il ricco bottino portato nell'Urbe da Tito nel 70 d.C., dopo aver domato la rivolta giudaica di Gerusalemme. Nel 4° secolo Costantino volle che Costantinopoli, la capitale orientale dell'Impero da lui fondata, eguagliasse in fasto Roma. Gli edifici pubblici, l'ippodromo, le vie, il foro di Costantino furono ornati di statue depredate nelle regioni a ridosso dell'Egeo, come l'Era di Samo, la Pallade Atena di Rodi, le Muse dell'Elicona, l'Apollo Pizio, lo Zeus di Olimpia e quello di Dodona e innumerevoli altre. A queste si aggiunse uno degli esempi più mirabili d'età classica, la scultura in bronzo di Atena Promachos di Fidia. L'Atena Promachos fu distrutta nel 1204 dai cavalieri della quarta Crociata. In quell'evento la città subì le spoliazioni delle milizie germaniche, francesi e veneziane guidate da Baldovino di Fiandra, Bonifacio di Monferrato, Enrico Dandolo. Del bottino facevano parte fra l'altro i quattro cavalli bronzei d'epoca classica che i veneziani posero come trofei sulla facciata della Basilica di San Marco, così come i Tetrarchi bizantini in porfido all'ingresso di Palazzo Ducale. Dopo quella drammatica di Costantinopoli, altre razzie si verificarono nelle lotte dinastico-territoriali tra principi e signori rinascimentali, nelle campagne in Italia di Carlo VIII e Luigi XII, nelle imprese condotte nel Nuovo Mondo dai conquistadores Hernán Cortes e Francisco Pizarro - che sottomisero aztechi e incas (1519-22) depredandone i tesori -, nelle spedizioni dei lanzichenecchi di Carlo V - i quali assediarono e saccheggiarono Roma - e di tutti gli eserciti impegnati nelle guerre che tra Seicento e Settecento sconvolsero l'Europa. Tuttavia, almeno nel continente europeo, le razzie di opere d'arte nel corso dei vari conflitti divennero generalmente meno significative sia per l'influsso della Chiesa cattolica, che considerava i furti di opere d'arte sacra una profanazione, sia per la nascita, nel 14°-15° secolo, di un diffuso collezionismo in senso moderno, per il quale i beni d'arte venivano acquistati sul mercato oppure ricevuti in dono o tramite legati testamentari.

Collezionismo e mercato antiquario

Nel 14° e 15° secolo, sotto la spinta dell'Umanesimo, si costituirono nei centri toscani e veneti le prime importanti collezioni antiquarie, delle quali nel 15° e 16° secolo divenne il centro propulsore Roma. Nel 1471 venne creata nel Palazzo dei Conservatori la prima raccolta pubblica, con la donazione di Sisto IV al popolo romano del gruppo di bronzi antichi lateranensi, cui seguì agli inizi del Cinquecento l'istituzione di un altro museo rivale: il Belvedere Vaticano a opera di Giulio II della Rovere. Tuttavia in quel periodo si affermò specialmente il collezionismo privato: fregi, fronti di sarcofagi, statue acefale, busti, torsi mutili affollavano i cortili dei palazzi patrizi, come si ritrova nei disegni del tempo.

Da Roma la moda collezionistica si diffuse in tutta la penisola: in Veneto si distinsero i Contarini, i Vendramin, i Bevilacqua; a Torino i Savoia acquistarono sculture per la Galleria di Palazzo Reale (1570 circa); a Genova le famiglie Imperiale e Durazzo arredarono con reperti antichi le residenze suburbane e i palazzi; a Firenze Cosimo I de' Medici ricorse al mercato romano per la prima raccolta di statue e altre collezioni che, accresciute dai suoi discendenti e poi dai Lorena, furono sistemate nella Galleria degli Uffizi, in Palazzo Pitti, nelle ville granducali fuori città. Nel Seicento continuarono a formarsi collezioni notevoli, come manifestazione del potere economico di alcuni casati principeschi (Aldobrandini, Borghese, Barberini, Ludovisi, Pamphili), attraverso vendite, smembramenti e dispersioni di raccolte precedenti; diversamente, nel Settecento molte famiglie patrizie, per collassi economici, dovettero mettere in vendita i loro beni, fenomeno che favorì la formazione di collezioni private estere. La consistente emigrazione di opere fu in non poche occasioni conseguenza di operazioni di sottomercato, spoliazioni e furti. Intanto il gran numero di scavi aperti a Roma e dintorni, in Etruria, a Ercolano e Pompei portava alla luce nuove tipologie di materiali (pitture, ceramiche, oreficerie, oggetti di uso domestico), che influirono sul gusto dell'epoca e mutarono l'aspetto delle collezioni d'arte. Nel 18° secolo le collezioni ricevettero una prima organizzazione espositiva (in Italia, il Museum Veronense, il Taurinense dei Savoia, i Musei Borbonici di Portici e Capodimonte; all'estero il British Museum a Londra e il Louvre a Parigi), mentre alla fine del 19° apparvero le prime iniziative pubbliche formate con il materiale sfuggito alla spoliazione delle grandi raccolte storiche, o anche donato da privati e acquistato sul mercato antiquario (Museo Nazionale di Taranto, Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma, Museo Nazionale Romano, Galleria Borghese, Museo di Palazzo Barberini).

Il recupero delle antichità classiche e il desiderio delle grandi famiglie di legittimare il loro legame con il passato, dalle prime avvisaglie del 14°-15° secolo alle manifestazioni imponenti del periodo successivo, aveva contribuito al sorgere del commercio antiquario, promuovendo al contempo gli scavi archeologici e i viaggi in Oriente. Il flusso di sculture e frammenti architettonici che spogliava la città aveva spinto Paolo III a istituire nel 1553 la carica di commissario alle antichità, addetto al controllo delle esportazioni. Tuttavia, con la concessione delle licentiae o patentes extrahendi si consentiva di portare oggetti fuori da Roma. L'enorme patrimonio di antichità che emergeva dal suolo in più siti divenne una fonte di guadagno attorno a cui ruotavano figure di 'cavatori', mediatori, esperti e restauratori. Per incrementare le loro raccolte molte corti utilizzavano come intermediari cardinali, ambasciatori e artisti che gravitavano nell'ambiente romano. Alla fine del Seicento il commercio d'arte si concentrò ad Anversa, poi anche a Parigi, Venezia e Amburgo. Il mercato romano, alimentato dallo smembramento di collezioni storiche e dalla febbrile attività di scavo condotta nei dintorni della città, fu di continuo investito da trattative che portarono un'enorme quantità di materiale all'estero. Alla dispersione di antichità le autorità pontificie cercarono di far fronte con una serie di editti, che culminarono con quello emanato dal cardinale Pacca il 7 aprile 1820, e con la costituzione delle Commissioni ausiliarie di Antichità e Belle Arti.

La Rivoluzione Francese e Napoleone

Le guerre dell'armata rivoluzionaria contro le monarchie assolute europee e le campagne napoleoniche negli anni 1794-1813 portarono a una massiccia ripresa della pratica delle razzie di opere d'arte. All'inizio della Rivoluzione la confisca del patrimonio reale, le requisizioni dei beni del clero e degli émigrés (gli aristocratici che di fronte alle sollevazioni popolari avevano lasciato la Francia) furono accompagnate da furia distruttiva e da saccheggi contro i simboli dell'Ancien Régime: i tesori d'arte sequestrati nei castelli, nelle residenze urbane o di caccia, nelle chiese e nei conventi, con i loro corredi di sculture, statue lignee, manoscritti miniati, andarono distrutti o dispersi. All'esplosione popolare e al fanatismo iconoclasta che caratterizzarono la prima fase della Rivoluzione, causando la più grave perdita di opere d'arte mai subita dalla Francia, seguì poi una nuova politica dello Stato francese: si affermò il principio che i beni artistici, appartenendo al patrimonio nazionale, andavano conservati per il vantaggio della comunità. Fu così deciso che le opere d'arte già di proprietà reali o requisite agli aristocratici emigrati o condannati alla ghigliottina fossero raccolte in un museo centrale aperto al pubblico e per lo scopo venne prescelto il palazzo del Louvre, che originariamente era destinato a pinacoteca reale. Il primo catalogo a stampa, uscito nel 1793, registrava 537 quadri per lo più derivanti dalle collezioni reali, il resto da fondi ecclesiastici, cui doveva ancora aggiungersi la maggior parte dei dipinti confiscati agli émigrés. A incrementare il Louvre provvide l'armata rivoluzionaria nella guerra contro le forze della coalizione (Austria, Prussia e Inghilterra), mettendo in atto un vasto piano di requisizioni d'opere d'arte nei territori conquistati. Da Anversa, Bruges, Bruxelles, Malines, Lovanio furono asportati materiali preziosi in oro e argento, e dipinti di Rubens e dei maestri fiamminghi. Le razzie proseguirono poi nei Paesi Bassi e in Germania. Il culmine fu tuttavia raggiunto durante le campagne napoleoniche. Pur non dotato di una grande preparazione artistica, Napoleone comprendeva bene il valore in termini di propaganda e di prestigio delle arti e delle scienze per un regime politico, per di più 'illegittimo' in quanto nato dalla Rivoluzione, e concepì il progetto di un grande museo che rappresentasse il segno tangibile della potenza imperiale. In quest'ottica promosse uno dei più grandi saccheggi artistico-culturali della storia, a discapito delle nazioni attraversate dai suoi eserciti, in primis l'Italia. L'antichità del patrimonio artistico italiano conferiva alle requisizioni un significato speciale e Napoleone stabilì che le confische rientrassero tra le clausole degli armistizi e dei trattati di pace, e perfino tra i contributi di guerra per la liberazione degli Stati italiani dai vecchi regimi assolutistici. Alla fine del giugno 1796, quando la spoliazione delle città invase era ben lontana dal culmine, Bonaparte in una lettera al Direttorio già poteva affermare: "I commissari-artisti che voi avete inviato si comportano benissimo e sono assidui nel loro incarico. Hanno preso 15 quadri a Parma, 30 a Modena, 25 a Milano, 40 a Bologna, 10 a Ferrara […]. Siamo molto imbarazzati per tutto ciò che ci deve dare Roma, tutte le statue non possono essere trasportate che per mare". Fra l'altro a Milano furono requisiti il disegno preparatorio di Raffaello per la Scuola di Atene, il Codice atlantico di Leonardo, il manoscritto delle Bucoliche di Virgilio illustrato con miniature di Simone Martini, l'Incoronazione di spine di Tiziano. Da Modena e Ferrara giunsero in Francia dipinti del Guercino, dei Carracci, di Dossi e Reni; da Parma opere di Correggio; da Bologna quadri di Raffaello, Reni, Domenichino, Carracci, insieme a mosaici, sculture, manoscritti. Altri capolavori furono raccolti in Veneto e attraversando i territori dello Stato della Chiesa (fra questi lo Sposalizio della Vergine di Perugino e la Madonna di Foligno di Raffaello). Nel febbraio 1797 gli emissari pontifici firmarono il Trattato di pace di Tolentino, con cui si stabiliva che la nazione francese diventava proprietaria a tutti gli effetti delle opere requisite. Gli accordi di Tolentino assicurarono opere d'arte che per numero e importanza costituirono una 'pietra miliare' nella storia del Louvre, e servirono da modello per le conquiste successive. A Venezia, benché le clausole parlassero solo di quadri, venne rimosso anche il leone di bronzo, simbolo della città, che fin dal Medioevo dominava piazza San Marco, e così pure i quattro cavalli di bronzo sulla facciata della basilica che i veneziani avevano portato da Costantinopoli nel 1204. Nel febbraio 1798 i francesi entrarono in Roma, che fu considerata a tutti gli effetti territorio occupato. Furono confiscate le antichità più ammirate delle gallerie vaticane e capitoline (il Laocoonte, l'Apollo e il Torso del Belvedere, il Fanciullo che strozza l'oca, Amore e Psiche, il Discobolo di Mirone, il Galata morente, le statue colossali del Nilo e del Tevere) e stessa sorte ebbero i quadri di Raffaello (Trasfigurazione, Ascensione), Caravaggio (Deposizione), Giulio Romano (Sacra famiglia) e dei maestri del barocco seicentesco (Reni, Carracci ecc.). Le biblioteche diedero un bottino di incalcolabile valore in stampe antiche e codici miniati. Le antichità provenienti da Roma furono esposte nel nuovo Musée Napoléon I, come fu intitolato il Louvre, inaugurato nel 1803 e illustrato dal catalogo di Ennio Quirino Visconti. Altra ricca messe fruttarono le campagne napoleoniche successive, da quella egiziana (le numerose opere d'arte raccolte nei due anni di occupazione passarono però agli inglesi dopo la resa del corpo di spedizione francese, finendo a Londra invece che a Parigi) a quelle di Prussia e di Spagna. A Berlino passarono in mano francese una raccolta di 12.363 monete e collezioni pittoriche e sculture distribuite in vari castelli: in totale, 123 dipinti, 28 statue, 56 busti e rilievi, 500 gemme. Dalla Spagna furono inviate a Parigi una Venere di Tiziano, cinque dipinti attribuiti a Raffaello, la Madonna col pappagallo di Murillo e altre opere, ma con la capitolazione francese nei pressi dei Pirenei (1812), il grosso del carico finì agli inglesi: 250 dipinti, disegni e incisioni che il duca di Wellington inviò in Inghilterra. Con la disfatta di Waterloo e la fine dell'epopea napoleonica, l'accordo internazionale raggiunto con il Trattato di Parigi del 1815 consentì una restituzione almeno parziale delle opere trafugate nei vari paesi. Pio VII inviò a Parigi in qualità di ispettore per il recupero Antonio Canova. La sua missione, seppure efficace, fu ostacolata dai rifiuti dei francesi, che ritenevano 'patrimonio nazionale' le opere trafugate, riuscendo a impedire, in un clima di studiata confusione, la restituzione di quadri occultati nei sotterranei del Louvre. Si creò poi un giro di acquisti attorno a opere che pur restituite non rientrarono in Italia, come l'importante raccolta Albani comprata da Luigi I di Baviera, che nel 1812 era riuscito ad assicurarsi anche i frontoni di Egina. Per l'abile azione diplomatica svolta, Pio VII conferì a Canova il titolo di Marchese d'Ischia, con un vitalizio di 3000 scudi.

Le razzie di Hitler

Dell'ultimo grande esempio di raccolta predatoria di opere d'arte è responsabile la Germania nazista. Giunto al potere nel 1933, Hitler avviò un piano di acquisizioni di opere d'arte per realizzare un grande museo a Linz, sua città natale, e lanciare una politica culturale di 'raffinata civilizzazione' consona al prestigio del III Reich. La passione collezionistica contagiò tutta l'élite della gerarchia nazista, a cominciare da Hermann Göring, che concepì l'ambizione di crearsi la più grande raccolta privata a livello mondiale, quasi volesse essere la 'reincarnazione teutonica' di un signore del Rinascimento. Con l'inizio della guerra e l'avanzata delle truppe del Wehrmacht, alle operazioni mercantili si sommarono le rapine metodiche dei beni dei territori occupati e le spoliazioni di collezioni pubbliche e private, attraverso unità specializzate delle SS. I beni sequestrati alle famiglie di origine ebraica furono incamerati o impiegati per scambi o messi in vendita come 'arte degradata' tramite l'intermediazione svizzera. In Italia, maggiore serbatoio di opere e luogo ideale per le transazioni, dati gli 'indissolubili legami' dell'Asse Roma-Berlino, nel 1940-41 si intensificarono la presenza degli acquirenti e la fuoriuscita di opere d'arte, nonostante le resistenze del ministro Giuseppe Bottai che in una circolare vietava qualsiasi esportazione di opere d'arte per tutta la durata del conflitto. Ben prima dell'armistizio dell'8 settembre 1943, con cui ebbe inizio l'occupazione tedesca in Italia, fu permesso di trasferire molte opere oltralpe. Fra l'altro, per compiacere Göring e i gerarchi nazisti furono portati oltre il confine il Discobolo di Mirone e l'altare Multscher di Vipiteno. L'armistizio dell'8 settembre fornì il pretesto per l'abbandono di ogni remora. Fu istituita la Kunstschutz, commissione speciale nazional-socialista per la protezione della cultura italiana, con lo scopo di trasferire in luogo sicuro, dopo averli censiti, i quadri, le statue, gli antichi documenti storici italiani a mano a mano che avanzavano le forze alleate e venivano liberati i luoghi dove erano custoditi. Le opere d'arte furono caricate su automezzi, portate in depositi provvisori, selezionate da esperti di Berlino, e spedite in Trentino-Alto Adige o in Germania. La città più colpita fu Firenze; i capolavori degli Uffizi, pressoché svuotati, furono portati a S. Leonardo di Passiria (i quadri) e in un vecchio convento di Campo Tures (le sculture). La reazione delle potenze alleate ai saccheggi nazisti si espresse nella Dichiarazione di Londra (gennaio 1943): essa si riferiva non solo al bottino di guerra, che doveva essere reso ai paesi d'origine, ma anche alle opere comprate dai tedeschi nei territori occupati. La giustificazione morale e giuridica trovava fondamento nei metodi usati dai nazisti, in particolare nelle pressioni e nel contesto in cui avvenivano anche le transazioni apparentemente legali, e nel valore del tutto arbitrario attribuito alla valuta impiegata per gli acquisti. Penetrate nel territorio tedesco, le truppe alleate trovarono più di mille depositi in cui i tesori - pubblici e privati, di antica origine locale o di recente acquisizione, provenienti da operazioni sul mercato oppure da spoliazioni belliche - erano stati ammassati. I beni furono riuniti in collecting points: Monaco e Wiesbaden per pittura e scultura, Offenbach per il materiale librario e archivistico. L'Italia aderì ai principi della Dichiarazione di Londra e chiese la restituzione delle opere a suo tempo vendute o ritrovate in Germania. Con il Decreto luogotenenziale dell'aprile 1946 fu creata la Delegazione per le restituzioni, guidata da Rodolfo Siviero, che negli anni successivi si sarebbe dedicato a rintracciare, con indagini di tipo poliziesco, le opere 'in fuga', riportandone in Italia 141, tra le quali il Discobolo, da sempre conteso. Con la sconfitta della Germania le potenze occupanti (Francia, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Stati Uniti) assunsero poteri sovrani sul territorio tedesco, ciascuna per la sua zona di competenza. L'Armata Rossa si impossessò di un cospicuo bottino, in particolare del 'tesoro di Priamo', 259 pezzi in oro, argento, pietre preziose scoperti nel 1870 da Heinrich Schliemann nella collina di Issarlik sotto le rovine di Troia e conservato nel Museo nazionale di Berlino. Il tesoro, rimasto in un deposito sotterraneo del Museo Puskin di Mosca, è stato esposto al pubblico solo nel 1996. La Germania lo ha rivendicato insieme a una raccolta di 74 opere di impressionisti e post-impressionisti, ugualmente trasferite dall'Armata Rossa, ma una legge della Duma del 1999 ha disposto la nazionalizzazione di tutte queste opere portate in Russia dall'Armata Rossa, come risarcimento per i danni morali e materiali apportati dal Terzo Reich.

Dopo la Seconda guerra mondiale

I principi della dichiarazione di Londra trovarono applicazione nei vari trattati di pace. Nel Trattato di Parigi del 1947 con l'Italia venne sancito l'obbligo di restituire quanto prelevato nei territori delle colonie (l'art. 75 è alla base della rivendicazione dell'obelisco di Axum da parte dello Stato etiopico), e al contempo si formalizzava il diritto italiano alla restituzione di quanto reperito in Germania. Il tema fu discusso in una serie di incontri bilaterali dal 1953 al 1974, a partire dagli accordi Adenauer-De Gasperi. Nel 1987 la Delegazione per le restituzioni, che dopo la scomparsa di Siviero (1983) si era limitata alla gestione dell'archivio, fu chiusa. Il problema si riaprì con il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e la riunificazione della Germania che consentì di estendere la ricerca ai paesi dell'Est. A seguito di una convenzione con le istituzioni tedesche fu restituita nel 1991 la statua del Dioniso barbato, trasferita nel 1944 dal Museo Nazionale Romano a Weimar presso il Nietzsche Archiv per fondare il culto di Nietzsche-Dionysos, e poi conservata nel Pergamonmuseum di Berlino. Nel nuovo contesto politico, fu istituita nel 1995 la Commissione interministeriale per il recupero delle opere d'arte, presieduta da Mario Bondioli Osio, e pubblicata L'opera da ritrovare, repertorio dei beni dispersi durante la guerra curato da Siviero e poi integrato da Luciano Bellosi e Antonio Paolucci. Gli interventi diplomatico-culturali della Commissione hanno portato al recupero di tre statue di epoca romana, tra cui la Venere di Leptis Magna, restituita poi al Museo di Tripoli da dove proveniva, del dipinto seicentesco La battaglia di Costantino di Johannes Lingelbach, ritrovato in un museo di provincia della Bassa Sassonia, della Betsabea al bagno di Jacopo Zucchi, di due disegni di Antonio Dosio di pertinenza degli Uffizi, di uno scudo da parata ageminato d'oro, del 1531, dei Musei civici di Bologna, di un Erote dormiente dei Musei Capitolini. A livello internazionale una soluzione giuridica e diplomatica alla questione della restituzione delle opere trafugate, cercata anche nel 1994 quando si riunirono i rappresentanti di 70 paesi, non si è mai trovata, nonostante vi siano state spesso formulazioni d'intenti e dichiarazioni di principio. Essendo mancato un unico tavolo per le trattative, ogni nazione mantiene i propri ordinamenti ed è difficile rivendicare la proprietà di un oggetto, anche quando provenga da una transazione illegale, o da atti legittimi ma contestati. Il caso più famoso è quello dei marmi del Partenone, asportati ai primi dell'Ottocento dagli inglesi durante l'occupazione turca della Grecia, in virtù di accordi politici con il Sultano, e collocati al British Museum, dove tuttora risiedono nonostante le pressanti richieste dal mondo accademico, politico e culturale che fa capo al British Committee for the restitution of the Partenon marbles. La constatazione dei danni provocati dalle vicende belliche e da fenomeni di dilagante mercificazione delle opere d'arte, unita al diffondersi di una generalizzata sensibilità verso il patrimonio culturale, ha tuttavia portato a misure protettive internazionali. Fra le convenzioni relative alla salvaguardia dei beni approvate dall'UNESCO figurano la Convenzione dell'Aia del 1954 per la restituzione alle comunità di pertinenza dei beni sottratti nei conflitti armati; la Convenzione di Parigi del 1970 intesa a debellare l'esportazione, l'importazione e il trasferimento illeciti di beni; la Convenzione di Parigi del 1972 per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale. Nella Conferenza della NATO svoltasi a Cracovia nel 1996 (Partnership for peace) è stato ripreso e rinforzato il testo della Convenzione dell'Aia sulla difesa del patrimonio d'arte in situazioni di guerra o in stato di emergenza: ogni distruzione di beni culturali e ogni danno effettuato durante operazioni militari, in violazione della Convenzione dell'Aia, vengono riconosciuti come crimini di guerra, soggetti ai tribunali internazionali. Il tema del recupero delle opere disperse negli eventi bellici è stato trattato ancora nelle Conferenza di Washington del 1998 e nel Forum di Vilnius del 2000.

Nonostante ciò nei conflitti più recenti sensibili perdite del patrimonio hanno subito la Bosnia-Erzegovina, il Kosovo e l'Iraq nella prima Guerra del Golfo del 1991 (circa 1500 pezzi mancanti, distrutti o trafugati per essere venduti clandestinamente a mercanti d'arte). Il saccheggio si è ripetuto nella seconda guerra in Iraq (aprile 2003), con l'assalto al Museo Archeologico di Bagdad, ricco di testimonianze delle culture che si sono avvicendate in Mesopotamia, dalla preistoria alle civiltà di sumeri, accadi, babilonesi, assiri e a quella araba degli hatra.

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