Archeometria e restauro

Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (2008)

Archeometria e restauro

Paolo Marconi

Nel 1880 Thomas H. Huxley (che si faceva chiamare il bulldog di Darwin) rivolse la sua attenzione all’educazione in Scienza e cultura, contrapponendo alla superiorità fino ad allora riconosciuta alle discipline umanistiche quella delle materie scientifiche, allo scopo di modernizzare gli studi classici. Nel 1882 Matthew Arnold, professore di poesia a Oxford, affermò in Letteratura e scienza che tale contrapposizione non esisteva in quanto la scienza inglobava tutta la conoscenza, dal linguaggio alla storia; egli aveva tuttavia previsto che la scienza avrebbe acquisito sempre maggior peso negli studi classici, riconoscendo sostanzialmente l’inadeguatezza della cultura umanistica ad affrontare la modernità.

Nel 1959 Charles P. Snow riprese la discussione inLe due culture, coniando con ciò un’espressione che divenne di uso comune negli anni Sessanta. Snow riteneva che fosse opportuna una sostanziale rettifica in direzione tecnico-scientifica dell’atteggiamento romantico della cultura letteraria, seguendo peraltro lo sviluppo della ricerca scientifica, la quale già obbligava gli intellettuali e i letterati a un’infarinatura di fisica atomica, relatività, cosmologia, chimica, etologia, antropologia, genetica, biologia, neuroscienze, scienze cognitive, complessità, caos, calcolatori, intelligenza e vita artificiali, reti e realtà virtuale, per non parlare dei minimi strumenti matematici necessari per orientarsi. La letteratura più recente è infatti rappresentata non solo da umanisti di formazione classica, ma anche dall’ingegnere Carlo Emilio Gadda (con un’inclinazione per i ‘vernacoli’ analoga a quella di Pier Paolo Pasolini e dell’ingegnere Gustavo Giovannoni), dal chimico Primo Levi, dal logico Bertrand Russel, dal geometra Salvatore Quasimodo, dai matematici Alexandr Solzhenitsyn e John M. Coetzee, oltre che da autori con studi scientifici alle spalle quali Robert Musil, Hermann Broch, Friedrich Dürrenmatt, Thomas R. Pinchon, José Saramago, per non parlare d’autori d’ispirazione matematica come Raymond Queneau, Georges Perec e Italo Calvino. In quanto alla filosofia, fu inevitabile che le implicazioni dei concetti di relatività e di meccanica quantistica con la visione del mondo si diffondessero, discendendo da personaggi come Albert Einstein, Niels Bohr, Werner Heisenberg ed Erwin Schrodinger, i quali unirono genio scientifico e interessi filosofici.

In Italia, tuttavia, l’eredità crociana rese difficoltosa fino a tutti gli anni Trenta la diffusione di una mentalità favorevole al pensiero scientifico (Benedetto Croce aveva scritto: «La scienza è un libro di ricette di cucina») e solo il libro di Snow indusse – dagli anni Sessanta in poi – gli storici dell’arte italiani a occuparsi di archeometria nel campo del restauro. Vent’anni prima – quando si varò la legge di tutela dei beni artistici italiana – essi furono chiamati a fondare le Soprintendenze statali e l’Istituto Centrale per il Restauro (ICR) pur essendo impreparati alle nozze tra le due culture, corrispondendo all’idea totalitaria (coltivata da Giuseppe Bottai, Ministro dell’educazione nazionale dal 1936 al 1943) di una tutela centralizzata del patrimonio storico-artistico. Ciò avvenne con le leggi n° 1089 del 1 giugno 1939 (sui monumenti e gli oggetti d’arte) e n° 1497 del 29 giugno 1939 (sull’architettura e il paesaggio), che istituirono anche le rispettive Soprintendenze statali e furono varate in meno di un mese grazie, tra gli altri, a giuristi come Santi Romano e Leonardo Severi, a giovani storici dell’arte d’ispirazione crociana quali Giulio Carlo Argan (formatosi nella Facoltà di Lettere) e Cesare Brandi (formatosi nella Facoltà di Giurisprudenza e poi in quella di Lettere), a un pittore tradizionalista quale Orazio Amato, all’architetto Marcello Piacentini e all’ingegnere Giovannoni. Quest’ultimo è un insigne storico dell’architettura, fondatore, con Piacentini e altri artisti e architetti, della Facoltà di Architettura di Roma tra il 1919 e il 1921 e restauratore di monumenti à l’identique, oltre che cultore – con i suoi allievi e assistenti – del vernacolo architettonico nella progettazione di edilizia economica e popolare e di chiese.

Argan e Brandi, in quanto prevalentemente storici e critici d’arte figurativa moderna e contemporanea, ebbero a cuore tuttavia la preparazione dei restauratori di oggetti d’arte mobili piuttosto che dei restauratori di architettura, dal momento che la tutela delle opere d’arte mobili era insidiata da secoli dalla disinvoltura del mercato d’arte e d’antiquariato. Infatti i restauratori al servizio di tale mercato si dedicavano spesso alla falsificazione dolosa dei capolavori antichi e moderni alle dipendenze di spregiudicati mercanti d’arte e d’antiquariato: la Scuola d’arte di Siena, per esempio, era diretta in quel periodo da un falsificatore abilissimo come Icilio F. Joni, il quale trafficava con mercanti d’arte internazionali della taglia di Bernard Berenson.

Bottai invitò Giovannoni e Piacentini assieme ad Argan e Brandi, prevalentemente storici dell’arte ed ermeneuti di pittura; il divario di età e di formazione con l’ingegnere Giovannoni e con l’architetto Piacentini impedì tuttavia una buona integrazione tra loro, e anzi Argane Brandi si dichiararono «contrarissimi all’istituzione di Soprintendenze architettoniche […] per il fatto abnorme che l’architetto di una Soprintendenza è un tecnico più che uno storico […]. Chi si impose perché ci fossero Soprintendenze speciali per i monumenti fu Giovannoni […] e il suo punto di vista prevalse» (Bossaglia 1992). Il problema della formazione dei restauratori d’oggetti d’arte mobili era inoltre complicato dal pregiudizio corrente che essi non potessero neppure aspirare – data la loro estrazione sociale e culturale – al livello degli ‘impiegati di concetto’.

Secondo Argan, infatti, «I restauratori allora erano artisti o artigiani, spesso abili ed esperti, ma sempre empirici […]. Fu proprio per questo che con il Brandi, con cui eravamo fraternamente amici dal giugno del 1932 quando ci incontrammo per la prima volta a Siena, decidemmo di promuovere la trasposizione del restauro dal piano artistico-artigianale al piano scientifico. […] Abbiamo pensato che sarebbe stato opportuno […] creare un istituto pilota, che avrebbe dovuto servire anche a formare restauratori disposti ad accettare la collaborazione scientifica o addirittura a impostare il restauro su un piano metodologico prettamente scientifico. […] Fu difficile, non volevano assolutamente ammettere i restauratori tra gli impiegati di concetto, dicevano che non c’è differenza tra un restauratore di quadri e un calzolaio […] e a questo punto mi fu offerta la direzione. Non vi rinunciai per l’amicizia che mi legava a Brandi, ma semplicemente perché io avevo un’impostazione di lavoro e di ricerca prevalentemente teorica. […] Brandi invece era uno straordinario lettore interprete dei testi pittorici, un ermeneuta di qualità eccezionale. […] Brandi mi volle, con Toesca e Longhi, nel consiglio tecnico dell’Istituto […]» (Bossaglia 1992).

Ne derivò un piano scientifico in cui non soltanto covava ancora il dissidio tra la cultura tecnico-scientifica e quella storico-artistica, ma era evidente che nel Paese dei giubilei e del Grand tour, battuto dai musei del mondo in caccia di capolavori, l’ossessione contro i falsari fosse la principale preoccupazione nella tutela degli oggetti d’arte mobile. Allo scopo di non ingannare il pubblico e gli stessi specialisti, dunque, la metodologia e la didattica del restauro degli oggetti d’arte (in assenza di un’archeometria affermata: quella per esempio che ha recentemente certificato l’autenticità del papiro di Artemidoro) vennero incentrate sull’integrazione delle lacune ‘per differenza’ anziché ‘per analogia’, rifacendosi alla tematica emersa negli anni Venti dell’Ottocento con le reintegrazioni sommarie dell’Arco di Tito, ripresa da Camillo Boito nel 1883.

Va tuttavia aggiunto (a testimoniare come fino ad allora il restauro degli oggetti d’arte fosse inteso more philologico) che uno dei primi docenti dell’ICR fu Antonio Donghi per il settore delle tecniche pittoriche tradizionali: il pittore verista del cosiddetto realismo magico. La metodologia didattica di Brandi, che consisteva nel reintegrare le lacune degli oggetti d’arte con le tecniche dell’abbassamento cromatico e del tratteggio, era ispirataalla tecnica pittorica divisionista risalente al terzo de-cennio dell’Ottocento. Tale metodologia era fondatapurtroppo su un lapsus interpretativo di Brandi: egli era sì convinto che il restauratore di pittura dovesse comportarsi come il filologo su un testo letterario antico, ma sul corpo autentico dell’opera d’arte, piuttosto che sul suo cartone (ovvero sul suo disegno preparatorio, sulla sua minuta). Non teneva dunque conto che una cosa è la preparazione in minuta del testo da emendare «come se noi intercalassimo in corsivo le parole, le congiunzioni, gli avverbi, gli aggettivi mancanti» (Rubiu 1997); altra cosa è modificare direttamente il testo autentico coi propri pennelli ai fini della sua resa pittorica, equivalente all’interpretazione vocale o mentale’ dei testi scritti, contribuendo così alla sua ulteriore corruzione. Tale equivoco oggi può essere evitato (nel caso della pittura su pannelli mobili) grazie a repliche informatiche di grande finezza tecnico-scientifica (quale quella recente delle Nozze di Cana del Veronese in San Giorgio Maggiore a Venezia), in cui vengano interpolate nelle eventuali lacune (con sistemi informatici e manuali e su supporti mobili) le immagini ‘divinate’ da parte di restauratori che siano in grado di interpretare l’iconografia del testo (operazione difficilissima poiché richiede una grande preparazione storica e culturale, oltre che qualità pittoriche eccezionali) e di renderne il ductus pittorico, confrontandosi con la qualità artistica dell’autore. Carlo Maratti, grande pittore settecentesco e restauratore di Raffaello nella Farnesina Chigi, o il grande restauratore/ermeneuta Pico Cellini sono tra i migliori esempi di tali modalità d’intervento.

Nel caso degli affreschi, purtroppo, il destino dell’originale è segnato da quello del muro che li supporta, ma li si può comunque riprodurre per tempo ed esporre su pannelli mobili in appositi contenitori, anche a grande distanza.

Comunque, per emendare un testo occorre essere non solo filologi, ma anche poeti (come diceva il grande filologo Giorgio Pasquali), e la preparazione dei restauratori attuali non sempre è in grado di garantire una qualità artistica che fronteggi quella dell’autore. Di qui la scelta, fatta nel 1939, di un metodo tecnico-scientifico piuttosto che ‘artistico’ – meramente burocratico, tuttavia, nella sua applicazione pratica – per il restauro degli oggetti pittorici, e la sua pronta diffusione nel mondo dei restauratori, sempre a spese del supporto originale.

Tale pretesa metodologica ha alimentato il dissidio, tuttora esistente, tra i restauratori di oggetti d’arte e i restauratori di architettura, i quali vantavano fino agli anni Cinquanta del Novecento una preparazione memore di Viollet le Duc e di Alfredo D’Andrade (il restauratore-costruttore del Castello del Valentino a Torino) e si formavano alla scuola di Giovannoni. La pubblicazione nel 1963 della Teoria del restauro di Brandi (avvenuta nel momento della cosiddetta rivoluzione culturale mondiale, da Mao a Marcuse) incoraggiò tuttavia l’abbandono della tendenza filologica degli stessi restauratori architetti, risalente alla cultura illuminista. Un abbandono ulteriormente incoraggiato dalla Carta del restauro architettonico di Venezia del 1964 (parafrasi quasi testuale della Teoria di Brandi), che proclamò l’avvento della conservazione in luogo del restauro.

I precetti ‘rivoluzionari’ di Brandi nella menzionata Teoria sulla metodologia del restauro architettonico («la problematica che la riguarda è comune a quella delle opere d’arte», nonché «la ricostruzione, il ripristino, la copia, non possono neppure trattarsi in tema di restauro, da cui naturalmente esorbitano») vennero accolti letteralmente non solo dalla Carta del 1964, ma anche dalla Carta italiana del restauro del 1972.

Ancora oggi molti restauratori italiani propugnano la necessità di conservare piuttosto che restaurare l’architettura considerando ciò un’espressione di modernità, e affidano alla chimica e all’ingegneria strutturale (occultata all’interno del corpo murario) il compito di ‘mummificare le rovine’. Sostenuti non a caso dagli ingegneri e dagli architetti modernisti (privi di una buona cultura storico/artistica), nonché dai critici e storici dell’arte di formazione puro-visibilista, regredendo in tal modo alla poetica romantica dei vedutisti e del Piranesi.

Tuttavia la tendenza conservativa voltò pagina per più di un decennio, quando Giovanni Urbani successe a Brandi alla direzione dell’ICR dal 1973 al 1983. Diplomato nello stesso Istituto ma anche laureato in Lettere e storia dell’arte, Urbani aveva metabolizzato la rivoluzione delle due culture in bella sintonia con Marcello Paribeni, direttore del Centro per lo studio delle cause di deperimento e dei metodi di conservazione delle opere d’arte del Consiglio Nazionale delle Ricerche dal 1971 al 1982.

Il periodo 1971-1983 fu importante anche per lo sviluppo della ricerca applicata nel campo delle opere d’arte e dell’architettura. I due direttori menzionati, in sintonia con lo storico delle tecniche artistiche Corrado Maltese, il chimico industriale Giorgio Torraca, con gli ingegneri strutturisti Carlo Cestelli Guidi e Antonino Giuffré e con lo storico dell’architettura e restauratore Paolo Marconi, privilegiarono la ricerca archeometrica nel campo del restauro architettonico anche grazie al supporto dell’ICCROM (International Center for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property), pur non essendo sedotti dai precetti brandiani, e anzi contrastandoli. Urbani e Marconi in particolare erano favorevoli a una «metodologia d’indagine che riferisca dello stato attuale della cosa da conservare come di un’entità misurabile, a partire dalla quale siano oggettivamente deducibili le tecniche appropriate per rallentarne al massimo la continua evoluzione» (Urbani 1986; Zanardi 2000); ma erano anche convinti del fatto che «consolidare lo stato di fatto significa solo porre le premesse di un progresso di danno sempre più grave e complesso [...] pretendere di bloccare il rudere allo stato di fatto è un’operazione praticamente impossibile. Ovvero possibile, ma solo se si accetta di ottenere inevitabilmente dei risultati di assai breve durata, al termine dei quali non c’è da aspettarsi che la ripresa ogni volta più devastante dei fenomeni di degrado. […] E dunque è ormai possibile solo un’alternativa: o proteggere i ruderi con strutture di copertura, anche provvisorie, ad essi esterne, oppure ricostruire, parzialmente o completamente, quelle strutture [...]» (Urbani 2000).

Urbani e Marconi erano altresì convinti che s’imponesse il problema del recupero filologico degli edifici di valore storico-artistico danneggiati o distrutti dalla guerra, dai terremoti e dagli eventi atmosferici (per es., le ricostruzioni postbelliche di Dresda, del Ponte di Mostar, del Palazzo Bianco a Genova, della Basilica di San Lorenzo a Roma, dell’Abbazia di Montecassino, dei ponti di Verona e Firenze ecc.) e in tali casi estremi riconoscevano il ruolo del metodo filologico nella manutenzione ordinaria delle architetture (come avveniva e avviene ancora nella Città del Vaticano), anche per non interrompere la formazione permanente delle maestranze. Nacque da tali considerazioni il loro interesse per la ricerca intesa a documentare come l’architettura tradizionale fosse stata fabbricata, ricerca svolta in quel periodo da Marconi e dalla sua scuola nella Facoltà di Architettura di Roma con i Manuali del Recupero da lui diretti in sintonia con la scuola di architettura del principe Carlo d’Inghilterra (INTBAU, International Network for Traditional Building, Architecture & Urbanism).

Paribeni era un fisico tecnico proveniente da studi classici e apparteneva a una famiglia di archeologi e di musicisti; il suo approccio all’archeometria avvenne dirigendo importanti laboratori di ricerca e il suo impegno, assieme a quello di Torraca, di Urbani e degli altri già menzionati, fece sì che la ricerca archeometrica e quella chimico/fisica si coniugassero su problemi di architettura anche a scala urbana.

L’archeometria nacque – nel periodo di massima focalizzazione del problema delle due culture – dagli studi di William F. Libby sulla misura del tempo intercorso dalla comparsa di un essere vivente o dalla produzione di un manufatto (1947). Il grande interesse generato dalle ricerche sulle datazioni portò alla nascita di gruppi o laboratori che si occupavano di ricerca sperimentale in supporto a quella archeologica. Particolare rilievo ebbe il laboratorio di Oxford, nato alla fine degli anni Cinquanta, che nel 1958 promosse la prima rivista di archeometria,“Archaeometry”, e il Simposio internazionale di archeometria biennale, tenuto ogni volta in una nazione diversa. L’impostazione del convegno ripercorre lo sviluppo della ricerca archeometrica, con sezioni dedicate alle tecniche di datazione, ai diversi materiali (tra i quali metalli, ceramiche, vetri, pietre e marmi), o alle tecniche di produzione (per es., dipinti, affreschi). Esso privilegia, inoltre, sia gli aspetti riguardanti l’impiego di metodi scientifici per una migliore e più precisa conoscenza dei manufatti, sia la risposta a tipici quesiti della ricerca storico-archeologica – come la provenienza, i traffici commerciali, l’origine delle tecnologie – che possano richiedere lo studio dei materiali con metodi mutuati dalle scienze esatte.

Nello stesso periodo negli Stati Uniti ci furono analoghi sviluppi, e in particolare il primo nucleo di ricerca del Brookhaven National Laboratory che sviluppò tecniche, quali l’analisi per attivazione neutronica. In Francia e in Inghilterra, dove era forte la tradizione della scienza paleontologica, si ebbero significative interazioni tra archeometri e paleontologi.

Il primo laboratorio italiano per la datazione con radiocarbonio venne creato nel 1955 presso l’Università di Roma con la collaborazione tra fisici nucleari e geochimici: coevo, dunque, al laboratorio di Oxford ma assai meno finanziato. Intanto Libby vinse nel 1960 il premio Nobel per la chimica per lo sviluppo del metodo del radiocarbonio; questo fu il primo riconoscimento ufficiale della ricerca archeometrica nel mondo. Negli anni Settanta, inoltre, si svilupparono forti interazioni tra la ricerca archeometrica e i diversi settori delle scienze della Terra.

Data significativa per l’archeometria italiana è il 1973: si tenne infatti a Roma e Venezia il primo Congresso internazionale sulle applicazioni dei metodi nucleari nel campo delle opere d’arte, punto di svolta della ricerca archeometrica anche a livello internazionale. Nello stesso periodo si sviluppò una forte interazione tra la ricerca archeometrica e la scienza della conservazione e del restauro, a seguito dell’alluvione di Firenze del 1966. Nacque inoltre la prestigiosa rivista “Science in conservation, e iniziarono, nel 1947, i convegni triennali dell’ICOM (International Council of Museums), che diedero avvio a una serie di spettacolarizzazioni della scienza archeometrica, sviluppando negli anni Settanta utili tecniche di imaging e aprendo la strada a un massiccio sviluppo di tecnologie informatiche.

Nel 1983 le prove non distruttive, i metodi microanalitici e le indagini ambientali nell’arte dettero il via a studi e a conferenze internazionali – promosse dall’ICR, dal Centro di studio delle cause di deperimento e dei metodi di conservazione delle opere d’arte, e dall’Associazione italiana prove non distruttive – che contribuirono alla diffusione di metodi non distruttivi per lo studio sia della macrostruttura dei manufatti (per es., radiografia, termografia, ultrasuoni) sia della microstruttrura (per es., SEM, Scanning electron microscope, e vari tipi di microscopie). Quasi contemporaneamente si svilupparono anche le tecniche di prospezione geofisica come il georadar e alcuni dei principali metodi per lo studio del paleoambiente, della geoarcheologia e della paleopatologia.

La diagnostica per la conservazione ha avuto un considerevole sviluppo negli anni Ottanta e Novanta, per la crescente disponibilità di tecniche d’immagine e di mezzi di calcolo, impiegate soprattutto per il rilievo e la ricostruzione grafica di manufatti. Ciò grazie anche alla parallela evoluzione di altri settori della scienza, quali l’astrofisica, la fisica dell’atmosfera e le scienze dell’ambiente, in collaborazione con molti settori dell’ingegneria e della medicina nei quali i metodi diagnostici si sono sviluppati enormemente dal punto di vista sia strumentale sia metodologico.

L’approccio diagnostico, in presenza di conoscenze teoriche come quelle sui materiali, ha prodotto un numero significativo di osservazioni che permettono di identificare materiali o tecnologie grazie all’impiego d’indagini analitiche. Tale evoluzione è propria anche della cosiddetta scienza dei materiali, che ha sviluppato significativi approcci diagnostici. Si prenda, per esempio, il caso della XRF (X-Ray fluorescence): un’analisi in cui la radiazione ionizzante provoca l’emissione della fluorescenza costituita da raggi X. Essa è stata costantemente impiegata in archeometria negli ultimi cinquant’anni come tecnica analitica, ma successivamente è stata usata come tecnica diagnostica, soprattutto in quanto ha sviluppato sistemi portatili che permettono studi in situ.

Anche i metodi matematico/statistici hanno avuto un ruolo importante in archeometria per l’identificazione dei sottoinsiemi (clusters) di elementi in un gruppo di oggetti esaminati. Con tali metodi si è inizialmente cercato di dare una risposta a problemi archeologici di provenienza geografica dei materiali o degli oggetti, anche se successivamente i metodi derivanti dall’informatica (soprattutto l’analisi delle immagini) hanno preso il sopravvento. In particolare, ora si studiano le tipologie dei manufatti utilizzando tecniche di pattern recognition o di image understanding, e si analizzano gli stili artistici utilizzando tecniche avanzate di analisi delle immagini.

L’archeometria è dunque una vasta area di ricerca che rappresenta la parte tecnico/sperimentale dell’indagine storica, archeologica e storico-artistica, in quanto settore di sviluppo di nuovi metodi, ma non dovrebbe dettar legge in materia di metodologia della conservazione/restauro: si tratta, infatti, di un territorio culturalmente complesso, dove dovrebbe dominare una considerazione globale delle interazioni tra scienza e cultura umanistica, senza eccedere in tecnicismo. Può avvenire, infatti, che la mentalità tecnico-scientifica influenzi troppo la ricerca applicata agli oggetti d’arte, e che alcuni scienziati sopravvalutino tuttora la Teoria del restauro di Brandi nel passaggio che afferma: «Per questa consistenza materiale dovranno farsi tutti gli sforzi possibili e le ricerche perché possa durare più a lungo possibile. […] Donde si chiarisce il primo assioma: si restaura solo la materia dell’opera d’arte». Un assioma elevato a dogma, nel saggio introduttivo di Giovanni E. Gigante (Origine e significato dell’archeometria e delle scienze applicate alla conservazione), e che influenzò soprattutto chi avesse una fonte di sussistenza nella ricerca applicata, compresi anche i restauratori formati presso l’ICR. Succubi della perentorietà di questo principio, essi non distinguevano ciò che era il frutto di una rivoluzione culturale di breve periodo – quella che aveva portato negli anni Sessanta alla criminalizzazione delle falsificazioni con relativa ‘autocritica’ degli errori già commessi – dal frutto di un più pacato esame delle necessità e dei limiti della conservazione e del restauro degli oggetti d’architettura rispetto a quelli degli oggetti d’arte mobili. Brandi infatti voleva centralizzare il metodo della tutela in un solo istituto statale (come Urbani talvolta ricordava), seguendo l’intenzione totalitaria di Bottai.

In realtà gli oggetti d’architettura sono il frutto di processi produttivi ben diversi da quelli degli oggetti d’arte mobili. I primi nascono infatti da interpretazioni sovente approssimate e spesso posticipate (per motivi storici, tecnici ed economici) di disegni architettonici non sempre esaurienti, eseguite da imprenditori e maestranze di cultura diversa da quella dell’autore dei disegni medesimi. Inoltre, si trovano all’aperto e dunque sono soggetti alla scarsa durabilità dovuta all’invecchiamento delle strutture murarie esposte ai sismi, agli incendi, alle intemperie, all’inquinamento atmosferico, alle guerre, al terrorismo e al degrado antropico. Restauri e interventi di mantenimento sono quindi quanto mai essenziali e frequenti, tanto da far perdere ben presto ai monumenti il loro ‘valore di autenticità’, sempre che tale valore sia fondamentale come appariva ai tempi di Walter Benjamin.

Dal brano di Urbani del 1984 sopra citato è tuttavia evidente come nel periodo 1971-1983 l’ICR avesse fatto un enorme passo in avanti rispetto alla Teoria di Brandi; passo annullato dalla prematura liquidazione dello stesso Urbani dal ruolo di Direttore dell’istituto da parte del Ministero ai Beni Culturali, avvenuta nel 1983. Un Ministero che stentò e stenta ad assimilare le ragioni della manutenzione programmata e del ripristino basate sulle raffinate considerazioni storiche e critiche che scaturivano dalla sinergia tra Urbani e Paribeni. Oltre tutto Urbani ammetteva apertamente: «Che l’obiettivo conservativo non debba essere perseguito in una consimile prospettiva di mummificazione dei segni del degrado è chiaramente dimostrabile: […] la preferenza accordata alle tecniche tradizionali di consolidamento […] si giustifica con la reversibilità e con la ripetibilità dei mezzi impiegati a tali fini; requisiti di cui invece sono totalmente sprovviste le armature a inserimento e anche i consolidanti chimici» (Urbani 2000). Tali asserzioni preoccupavano chi temeva il riassemblaggio delle rovine poiché suscettibile di errori d’interpretazione, specie se archeologo o storico dell’arte. Il favore di Urbani per le tecniche tradizionali crebbe assieme ai lavori per il Manuale del recupero del Comune di Roma il cui intento era quello di studiare e mostrare come era stata realizzata l’architettura originale allo scopo di ripristinarne le fattezze – se necessario – con l’uso di tecniche tradizionali aggiornate con l’impiego di strumentazioni moderne, previo uno studio archeometrico fatto da architetti conoscitori dell’antico grazie allo studio storico delle tecniche costruttive, e non da meri conservatori delle rovine.

Al momento, la volontà dei conservazionisti (così li chiamava Urbani) privi di nozioni di storia tecnica delle strutture premoderne – una volontà consistente nel consolidare le rovine dell’architettura grazie alla chimica e alle strutture nascoste nelle strutture – fa sì che siano vive le polemiche tra costoro e quanti invece quelle strutture tradizionali conoscono e ammirano fino a ripristinarle, ma è solo questione di tempo.

La sostenibilità ecologica già riconosciuta a quelle tecniche da Urbani e la loro disponibilità (esse impiegano risorse riproducibili come il legno o largamente disponibili in natura come la pietra e l’argilla) fanno sì che esse si stiano di nuovo imponendo, in concorso con le scuole del restauro di Paesi come l’America, la Francia, la Germania, la Grecia, l’Inghilterra, la Russia, la Spagna e l’India di oggi. L’Indian National Trust for Art and Cultural Heritage ha emesso anzi l’Intach Charter (New Dehli, 2004) in cui si esprimono ammirabili concetti di sostenibilità e di ecologia con suggerimenti derivanti da una mentalità favorevole alla conservazione del living heritage e della indianess di quel grande territorio – in contrasto con gli effetti negativi della globalizzazione – oltre all’importantissima cura per la sopravvivenza dei mestieri tradizionali connessi all’edilizia.

Mestieri altrettanto significativi di quello dei restauratori di oggetti d’arte votati agli interventi scientifici differenziati morfologicamente dal contesto quali i restauratori italiani, che tuttavia potrebbero ancora convertirsi in personale adatto al restauro delle strutture architettoniche (comprendendo anche le loro decorazioni scultoree, gli stucchi, gli affreschi, i mosaici, le dipinture), grazie a un’opportuna didattica cui dovrebbero contribuire le Facoltà di Architettura. Oltre, beninteso, al restauro degli oggetti d’arte contenuti e protetti da quelle architetture, salvo i dipinti mobili che sono ormai destinati se necessario a repliche informatiche come quelle delle Nozze di Cana a Venezia, anche allo scopo di rimediare agli espropri di stampo colonialista degli ultimi due secoli. La reintegrazione, dove necessaria, prevede sistemi che ne dichiarino la non autenticità senza la necessità di performance personali dei restauratori, ma ne rendano possibile una successiva emendazione da parte di restauratori ancora più esperti, come avviene nel caso delle manutenzioni dell’architettura. Sempre che quei restauratori, beninteso, siano meritevoli del titolo di ‘artista’, e sempre che la tendenza favorevole a una conservazione ottenuta grazie al restauro torni a influenzare le scuole dei restauratori come nel periodo 1971-1983 in cui tale tendenza era indirizzata da personalità che avevano armoniosamente integrato la cultura umanistica con la cultura tecnico-scientifica e dunque la ricerca archeometrica con il restauro.

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Mazzoni 2004: Falsi d’autore. Icilio Federico Joni e la cultura del falso tra Otto e Novecento, a cura di Gianni Mazzoni, Siena, 2004.

Rubiu 1997: Rubiu, Vittorio, I viaggi di Cesare Brandi, “Arte e critica”, 5, 1997.

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