Annullamento con o senza rinvio al TAR

Il libro dell anno del diritto 2019 (2019)

Annullamento con o senza rinvio al TAR

Marco Lipari

Con le sentenze nn. 10 e 11 del 30.7.2018, 14 del 6.9.2018 e 15 del 28.9.2018, l Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affermato che le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 c.p.a. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive. Ha aggiunto che costituisce un ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione.

La ricognizione. L’art. 105 del c.p.a.

L’art. 105, co. 1, del codice del processo amministrativo (c.p.a.), rubricato Rimessione al primo giudice, disciplina i casi in cui, all’esito del giudizio di appello, il Consiglio di Stato deve rinviare la causa al giudice di primo grado, anziché decidere la controversia: il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio . La disposizione rappresenta il punto di equilibrio fra due opposte esigenze: l’una volta a garantire la più ampia ed effettiva estensione del principio del doppio grado di giurisdizione, sancito dall’art. 125 Cost.; l altra intesa ad assicurare la rapida definizione del giudizio, in coerenza con il criterio della ragionevole durata del processo, stabilito dall’art. 111 Cost. L art. 35, co. 1, della l. 6.12.1971, n. 1034, cd. legge TAR, per individuare le ipotesi di rinvio al primo giudice, faceva riferimento, più genericamente, al difetto di procedura e al vizio di forma della decisione del TAR. Il successivo co. 2 aggiungeva l ipotesi dell’accoglimento dell’appello avverso la sentenza con la quale il TAR avesse dichiarato la propria incompetenza. Il codice tiene conto degli indirizzi maturati negli anni precedenti, volti a superare alcune imprecisioni della legge TAR, e si avvicina all’impostazione del codice di procedura civile, delineata dagli artt. 353 e 3541. Peraltro, in sede di lavori preparatori del secondo decreto correttivo del c.p.a. (d.lgs. 14.9.2012, n. 160), il Senato, nel proprio parere, aveva proposto, come condizione espressa, di ampliare i casi di annullamento con rinvio al TAR, inserendovi le ipotesi di erronea declaratoria di irricevibilità, improcedibilità, inammissibilità. Lo scopo era di evitare che il Consiglio di Stato, in tali situazioni, si trovasse a decidere, di fatto, come giudice di unico grado di merito. Era stato anche proposto, al fine di accelerare il giudizio di appello avverso le decisioni meramente processuali, un peculiare rito di tipo camerale e a termini dimezzati, sulla falsariga di quello previsto per l’impugnazione delle decisioni del TAR declinatorie della giurisdizione.

Un’analoga proposta, del resto, era già stata elaborata anche dalla commissione speciale del Consiglio di Stato per la redazione del codice, ma all’ultimo momento era stata stralciata dalla bozza trasmessa al Governo, alla luce della vivace opposizione manifestata da alcuni settori della magistratura di primo grado.

Il Governo non ha però recepito l’indicato parere del Senato, per cui le ipotesi di rinvio al primo giudice restano soltanto quelle indicate dall’art. 105, nella sua formulazione originaria.

La tassatività dei casi di rinvio al primo giudice

Per l’art. 105, di regola, il giudice di appello, in caso di accoglimento dell’impugnazione avverso la decisione del TAR, definisce la controversia, mentre rimette la causa al primo giudice «soltanto» nei casi stabiliti.

Tuttavia, le ipotesi non sono tutte individuabili con immediatezza.

Schematicamente, l’art. 105 elenca i seguenti casi:

a) mancanza del contraddittorio;

b) lesione del diritto di difesa di una delle parti;

c) nullità della sentenza;

d) erronea declinatoria della giurisdizione;

e) erronea pronuncia sulla competenza;

f) erronea dichiarazione di estinzione o perenzione del giudizio.

Le ultime tre ipotesi presentano poche incertezze interpretative, nonostante qualche nuovo interrogativo posto dalla formula del cd. diniego di giurisdizione.

Meno chiara, invece, è la portata delle prime tre fattispecie. Intanto, l’ipotesi della nullità della sentenza, a differenza dell’art. 354 del c.p.c., non è circoscritta al caso della mancanza di sottoscrizione del giudice. È quindi plausibile una lettura più ampia del suo perimetro applicativo.

Notevoli incertezze, poi, presentano le formule relative al difetto di contraddittorio ed alla violazione del diritto di difesa.

Per la tesi prevalente, tali dizioni riguardano la sola trasgressione delle regole finalizzate alla tutela delle parti.

Nell’ampia casistica elaborata dalla giurisprudenza, comportano rinvio al primo giudice, a titolo di esempio: il mancato rispetto dei termini di cui agli artt. 71 e 73; l’omesso avviso in ordine alla possibilità di definire la controversia in sede cautelare; la definizione del giudizio sulla base di un profilo rilevato d’ufficio senza preventivo contraddittorio cd. verticale con le parti.

L’erronea declaratoria di inammissibilità, irricevibilità o improcedibilità del ricorso

Secondo l’opinione tradizionale, invece, non costituisce violazione del diritto di difesa l’erronea declaratoria di inammissibilità, di irricevibilità o di improcedibilità del ricorso.

Questa soluzione, però, è stata recentemente sottoposta a motivata critica da parte di alcuni indirizzi interpretativi, sfociati, poi, nella rimessione della questione all’Adunanza Plenaria.

È apparso singolare, fra l’altro, il diverso trattamento riservato alla erronea declaratoria, rispettivamente, della estinzione e perenzione del processo, da un lato, e della inammissibilità e della improcedibilità del ricorso dall’altro: in entrambi i casi, infatti, è pretermesso l’esame del merito della domanda.

Il nuovo orientamento estensivo

Una profonda rimeditazione dell’art. 105 del c.p.a. è proposta da C.g.a. 24.1.2018, n. 33, la quale annulla con rinvio la sentenza del TAR che aveva erroneamente dichiarato irricevibile il ricorso. Il C.g.a. afferma che il codice del 2010 fa riferimento a «categorie generali», come ad esempio proprio la lesione del diritto di difesa, suscettibili di interpretazione più ampia rispetto al passato.

L’art. 105 c.p.a. ha portata diversa e più larga degli art. 353 e 354 c.p.c. Quindi, le soluzioni della giurisprudenza civile non esauriscono le possibilità di annullamento con rinvio nel processo amministrativo.

L’Adunanza Plenaria n. 18/1978 e n. 24/1987 avevano ben chiarito il rapporto tra l’art. 35 legge TAR e le parallele previsioni del c.p.c.:

• l’applicazione analogica delle norme del c.p.c. non opera quando nella disciplina processuale amministrativa si rinviene una norma espressa;

• il legislatore ha adottato tecniche normative diverse; la formula generica della legge TAR lascia all’interprete la possibilità di aggiungere ulteriori ipotesi non nominate dall’art. 354;

• mentre il processo civile si articola in due fasi, quella di merito (in due gradi) e quella di legittimità, il giudizio amministrativo è ben diverso (Cons. St., A.P., 27.10.1987, n. 242).

L’ampliamento dei casi di rinvio al primo giudice troverebbe conferma nella riforma del processo contabile (codice di cui al d.lgs. 26.8.2016, n. 174): per l’art. 199, co. 2, «quando senza conoscere del merito del giudizio, il giudice di primo grado ha definito il processo decidendo soltanto altre questioni pregiudiziali o preliminari, su queste esclusivamente si pronuncia il giudice dell’appello. In caso di accoglimento del gravame proposto, rimette gli atti al primo giudice per la prosecuzione del giudizio sul merito e la pronuncia anche sulle spese del grado d’appello».

L’omesso esame di una domanda

La lettura ampliativa dell’art. 105 è affermata anche da Cons. St., 12.3.2018, n. 1535, che dispone il rinvio al primo giudice per il caso di omesso esame di una domanda da parte del TAR, con i seguenti argomenti: «a) costituisce causa di annullamento con rinvio l’obliterazione non di una censura bensì di una intera domanda (come quella risarcitoria), avente carattere distinto ed autonomo rispetto a quella impugnatoria; b) ai sensi dell’art. 105, la integrale violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato rientra a pieno titolo nei casi in cui il principio devolutivo cede il passo al principio del doppio grado di giudizio stabilito dall’art. 125 Cost.; c) per un verso, si è di fatto declinato l’esercizio di giurisdizione su una delle domande proposte; per altro verso, si è inciso sul diritto di difesa della parte ricorrente; d) non può trovare ingresso l’orientamento secondo cui ‘l’omessa pronuncia su una o più censure proposte non configura un error in procedendo tale da comportare l’annullamento della decisione con contestuale rinvio al giudice di primo grado, ma un vizio che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa’ (Cons. Stato, sez. IV, n. 846 del 2016; sez. v, n. 279 del 2016; sez. IV, n. 376 del 2015; sez. IV, n. 3346 del 2014; sez. IV, 19 giugno 2007, n. 3289)».

Già prima dell’entrata in vigore del codice, Cons. St., 19.11.2009, n. 7235 aveva affermato analogo indirizzo: «nel processo civile l’omessa pronuncia non è fra i casi di rimessione della causa al primo giudice …, nel processo amministrativo … la questione è regolata diversamente, essendo consentita la rimessione al primo giudice più largamente per vizio di forma o di procedura che non è ravvisabile per la mera omessa pronuncia derivante da erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso ma è ravvisabile nel caso di totale omessa pronuncia ossia quando sia stata consumata nel processo una violazione delle regole basilari che lo governano quali il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato».

L’erronea pronuncia di rito basata sul cd. abbaglio dei sensi

Anche la decisione n. 3809/2017 del Consiglio di Stato estende i casi di rinvio al primo giudice, in un caso di erronea declaratoria di irricevibilità, basata su una svista: il giudice aveva dichiarato tardivo il ricorso avverso il riesame di un permesso di costruire, e la decorrenza del termine decadenziale di impugnazione era stata erroneamente collegata alla conoscenza dell’originario permesso e non al successivo atto di autotutela.

Per il Cons. St. «nella fattispecie, non rileva il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale l’accoglimento dell’impugnazione, per violazione dell’art. 112 c.p.c., non conduce all’annullamento della statuizione gravata».

La decisione basata su argomenti non dedotti

Per Cons. St. n. 1781/2008, nel «difetto di procedura» di cui all’art. 35 della legge TAR va inclusa anche l’ipotesi di totale omissione di pronuncia sui motivi dedotti in primo grado: la nozione deve estendersi a tutte le ipotesi di inosservanza dei precetti che presiedono al valido governo del processo.

Nella vicenda il TAR aveva rigettato il ricorso avverso il diniego di un permesso di costruire, perché, nonostante l’accertata infondatezza delle ragioni ostative espresse nell’atto, il comune avrebbe dovuto respingere l’istanza per altri motivi.

Per il Collegio, si tratta di «ipotesi di totale omissione di pronuncia sui motivi dedotti in primo grado» e «la descritta situazione dà luogo ad un difetto di procedura che impone l’annullamento della sentenza ed il rinvio della controversia al giudice di primo grado».

Altra decisione ha ricondotto la «totale omessa pronuncia» alla violazione del principio del giudice naturale e al «diniego di giustizia» (Cons. St., 19.11.2009, n. 7235).

Infine, Cons. St. n. 4914/2013 ha ritenuto la nullità della sentenza completamente priva delle ragioni di fatto e di diritto. Si è ravvisata la violazione del diritto di difesa della parte per essere la stessa impedita dall’articolare adeguate ragioni sostanziali di critica avverso la sentenza impugnata, non essendo possibile ricostruire dalla sentenza la vicenda amministrativa e le ragioni della decisione.

La focalizzazione

Sulla base di questi dubbi quattro pronunce (Cons. St., 5.4.2018, n. 2122; Cons. St., 10.4.2018, n. 2161; Cons. St., 24.4.2018, n. 2472; C.g.a. 17.4.2018, n. 223) hanno rimesso all’Adunanza Plenaria la questione della portata applicativa dell’art. 105.

La rimessione di Cons. St. n. 2122/2018

Per la IV Sezione, la categoria della violazione del diritto di difesa è più ampia rispetto a quella del vizio formale o procedurale e astrattamente idonea a comprendere nel suo campo semantico anche gli errori di giudizio che hanno sostanzialmente privato le parti di un grado di giudizio utile all’esercizio del diritto di difesa, così impedendo il pieno esplicarsi del principio del doppio grado di merito.

La Sezione deferisce alla Plenaria le seguenti questioni:

a) se alle ipotesi di annullamento con rinvio di cui all’art. 105 c.p.a. debba attribuirsi portata tassativa ovvero natura di clausola generale;

a.1) nel primo caso, quali siano le ipotesi di annullamento con rinvio da intendersi come tassative;

a.2) nel secondo caso, quali siano i criteri che devono guidare il giudice nell’attività di interpretazione dei fatti processuali, onde qualificarli come cause di annullamento con rinvio;

b) se, alla luce della nuova nomenclatura contenuta nel vigente art. 105 c.p.a., l’erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse debba (o possa) essere ricompresa nella categoria della lesione dei diritti della difesa, come perdita del (normativamente previsto) doppio grado di giudizio nel merito, con conseguente annullamento della sentenza con rinvio al primo giudice;

c) anche a prescindere da tale ultima soluzione, se ed entro quali limiti e secondo quali criteri possa riconoscersi al giudice di secondo grado il potere di sindacare il contenuto della motivazione dell’impugnata sentenza, al fine di riqualificare il (formale) dispositivo di declaratoria di inammissibilità per carenza di interesse in un (sostanziale) accertamento della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) o dell’obbligo di motivazione (artt. 74 e 88 c.p.a.), intesa ‒ questa ‒ come elemento essenziale della sentenza, rispetto all’oggetto del processo; se dette ultime ipotesi costituiscano (o a quali condizioni possano costituire), rispettivamente, lesione dei diritti della difesa o ipotesi di nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 105, co. 1, c.p.a.

La rimessione di Cons. St. n. 2161/2018

La v Sezione, nella sentenza parziale n. 2161/2018, ritiene che il carattere tassativo delle ipotesi di regressione in primo grado dovrebbe precludere interpretazioni estensive, giustificando una conferma dell’interpretazione tradizionale limitativa delle ipotesi di annullamento con rinvio.

Secondo la pronuncia, «il processo amministrativo è informato al principio del doppio grado di giudizio, che tuttavia non implica che il merito debba essere sempre esaminato in esso, ma casomai che la parte possa chiedere la revisione della decisione di primo grado, conformemente alla natura devolutiva (limitatamente ai punti della sentenza di primo grado impugnati) del mezzo dell’appello».

La rimessione del C.g.a. n. 223/2018

Anche il C.g.a. prende posizione in favore dell’ampliamento dei casi di rinvio al primo giugiudice, deferendo alla Plenaria i seguenti quesiti:

a) se l’annullamento della sentenza di inammissibilità o di improcedibilità, disvelando una ingiusta compressione e dunque lesione del diritto di difesa del ricorrente non determini la necessità di rinviare la causa, ai sensi dell’art. 105 del c.p.a., al giudice di primo grado;

b) se la pronunzia con cui il giudice di primo grado abbia dichiarato l’inammissibilità o l’improcedibilità di una domanda possa essere assimilata ad una ipotesi di declinazione della giurisdizione;

c) se la statuizione con cui il giudice d’appello riformi la sentenza di inammissibilità o di improcedibilità debba essere ritenuta una sentenza di annullamento, assimilata ad una sentenza dichiarativa di nullità, in esito alla quale occorre rinviare la causa al primo giudice, ai sensi dell’art. 105.

Nella vicenda processuale specifica, concernente un giudizio soggetto al rito di cui all’art. 120 c.p.a., il TAR aveva dichiarato inammissibile i motivi aggiunti avverso il provvedimento di autotutela dell’aggiudicazione impugnata con il ricorso originario, in evidente contrasto con la disciplina generale dei motivi aggiunti e con la lettera dell’art. 120, co. 7, del c.p.a., il quale non solo consente, ma addirittura impone i motivi aggiunti per l’impugnazione dei «nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara».

Particolarmente interessante risulta la proposta distinzione tra «decisioni di rito a contenuto certatorio», epilogo di un percorso logico nell’ambito del quale il giudice è entrato nel merito della vicenda, al fine di accertare la sussistenza dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione, e «pronunce di non luogo a procedere», nelle quali manca la valutazione di tali elementi e si prende atto dell’esistenza di una «preclusione di fondo», che impedisce di esaminare la questione. Pronunzie di tal secondo genere non differiscono dalle decisioni «declinatorie della giurisdizione», nelle quali il giudice rifiuta di decidere la causa.

Inoltre, il C.g.a. prospetta il dubbio che la decisione di accoglimento della censura relativa alla errata declaratoria di inammissibilità del ricorso, comporti l’accertamento della nullità della sentenza di primo grado, rientrando nella elencazione tipica di cui all’art. 105.

La rimessione di Cons. St. n. 2472/2018

La III Sezione aderisce alla tesi tradizionale, ma prospetta il dubbio che vada ricondotta all’annullamento con rinvio l’ipotesi dell’omessa pronuncia su una domanda (nella specie risarcitoria).

Fra gli argomenti prospettati si segnala quello secondo cui «la omessa pronuncia ha provocato, nei confronti della parte ricorrente, effetti equivalenti a quelli della ‘pronuncia a sorpresa’, di cui all’art. 73 del c.p.a.; quando il giudice pone a base della propria decisione una questione rilevata d’ufficio, senza prospettarla preventivamente alla dialettica tra le parti, arreca un sicuro pregiudizio al diritto di difesa dell’interessato, impedendogli di manifestare la propria posizione; è plausibile concludere che, quando il giudice disattende del tutto l’azione proposta dal ricorrente, senza spiegarne le ragioni, lede, in modo ancora più vistoso, il diritto di difesa della parte interessata, che si vede privata di ogni possibilità di difesa in ordine ad una pronuncia sfavorevole, adottata al di fuori del prescritto contraddittorio».

In termini dubitativi, poi, Cons. St. n. 2472/2018 evidenzia come «ai fini della decisione della Plenaria, sia opportuno valutare anche la portata dei più recenti indirizzi giurisprudenziali in materia di ‘rifiuto di giurisdizione’, espressi dalle non univoche decisioni delle Sezioni Unite (29 dicembre 2017, n. 41226) e dalla Corte costituzionale (18 gennaio 2018, n. 6)».

Pertanto, la pronuncia deferisce alla Plenaria la questione se, qualora il giudice di primo grado abbia omesso del tutto la pronuncia su una delle domande del ricorrente (nella specie l’azione di risarcimento del danno, conseguente all’annullamento dei provvedimenti impugnati), la controversia debba essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado, in coerenza con l’effetto devolutivo dell’appello e con la regola della tassatività delle ipotesi di rinvio al primo giudice, oppure, in alternativa, se la causa debba essere rimessa al TAR, valorizzando la portata anche sostanziale della nozione di «violazione del diritto di difesa» e il principio costituzionale del doppio grado, anche alla luce della circostanza che la radicale e immotivata omissione di pronuncia avrebbe effetti equivalenti a quelli di una decisione adottata d’ufficio, in violazione del contraddittorio con le parti, stabilito dall’art. 73, co. 3, del c.p.a.

I profili problematici. La soluzione della Plenaria

L’Adunanza Plenaria, con quattro sentenze di analogo contenuto (30.7.2018, nn. 10 e 11, 6.9.2018, n. 14 e 28.9.2018, n. 15) ha definito le questioni, confermando l’indirizzo più risalente:

a) anzitutto, si riafferma che, «in coerenza con il generale principio dell’effetto devolutivo e sostitutivo dell’appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 c.p.a. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive»;

b) ne deriva che anche «l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattitto processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione»;

c) in una prospettiva ampliatrice della portata dell’art. 105 del c.p.a., si afferma che «costituisce un’ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione; esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza della motivazione’, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto del ‘minimo costituzionale’ di cui all’art. 111, comma 5, Cost.»;

d) pur con questa apertura, tuttavia, la Plenaria statuisce che «la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un’ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell’effetto sostitutivo dell’appello, anche in questo caso, ravvisato l’errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado»;

e) da ultimo, la Plenaria afferma che «la disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice d’appello ha natura indisponibile, il che implica che, fermo restando l’onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, nei casi di cui all’art. 105 c.p.a., il giudice d’appello deve

procedere all’annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o chiede espressamente che la causa sia direttamente decisa in secondo grado; viceversa, nei casi in cui non si applica l’art. 105 c.p.a., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domande o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell’art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando, altrimenti, la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse dell’appello proposto senza assolvere all’onere di riproposizione».

La motivazione assente o apparente

L’ipotesi di rinvio al primo giudice in qualche modo “nuova”, enucleata dalla Plenaria, riguarda i casi di motivazione della sentenza di primo grado radicalmente assente, o apparente.

Secondo la Plenaria, l’ipotesi della motivazione viziata, «si differenzia da quella della motivazione radicalmente assente (o meramente apparente)».

Il difetto assoluto di motivazione integra un caso di nullità della sentenza, per il combinato disposto degli artt. 88, co. 2, lett. d) e 105, co. 1, c.p.a. Anche alla luce del principio processuale di cui all’art. 156, co. 2, c.p.c. la motivazione rappresenta un requisito formale (oltre che sostanziale) indispensabile affinché la sentenza raggiunga il suo scopo.

Per la Plenaria, peraltro, «il difetto assoluto di motivazione non si identifica con la motivazione illogica, contraddittoria, errata, incompleta o sintetica» (Cass., S.U., 7.4.2014, n. 8053; Cass., S.U., 3.11.2016, n. 22232; Cass., 22.2.2018, n. 4294).

In quest’ottica, poi «la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione riguarda non solo le sentenze di rito (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), ma anche quelle che recano un dispositivo di merito (accoglimento o rigetto del ricorso) non sorretto da una reale motivazione. Rispetto al difetto assoluto di motivazione, invero, la nullità della sentenza prescinde dalla differenza tra pronunce di rito e pronunce di merito».

L’omesso esame di una singola domanda

Per la Plenaria l’ipotesi della motivazione radicalmente assente si verifica solo quando la carenza riguarda la sentenza «nella sua interezza», senza che siano ipotizzabili valutazioni parcellizzate, riferite a singole questioni dedotte dalle parti.

Secondo le pronunce (la questione è analizzata, in particolare, nella sentenza n. 14/2018), deve, infatti, «essere confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’omesso esame di un motivo o anche di una fra le più domande proposte (così come la mancanza della motivazione rispetto ai singoli motivi o a rispetto a una delle domande proposte) non rientra fra le ipotesi di annullamento con rinvio previste dall’art. 105 Cod. proc. amm.».

Le decisioni non approfondiscono l’esame dei numerosi precedenti del Consiglio di Stato, anche recenti, che distinguono nettamente l’ipotesi di omesso esame di singole censure dalla carenza di valutazione di un’intera domanda.

Non è del tutto chiaro, perché, una volta affermata la nullità della sentenza per totale omissione di motivazione, non vi sia spazio per la nullità parziale della decisione, ferma restando l’intangibilità dei capi non impugnati o confermati in appello. La Plenaria fa leva anche sull’art. 101, co. 2, c.p.a., asserendo che la disposizione «chiaramente esclude che l’omesso esame di una domanda (e a maggior ragione di un motivo) possa determinare una regressione al primo giudice».

L’argomento, tuttavia, non è persuasivo. La disposizione individua le modalità attraverso cui le parti possono ribadire, in appello, le deduzioni difensive articolate in primo grado, senza prevedere le conseguenze dell’eventuale accoglimento delle censure riproposte.

La decisione cd. a sorpresa

La Plenaria sostiene che la trasgressione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato non è equiparabile ad una ipotesi di violazione del diritto di difesa: la parte non lamenta di non essersi potuta difendere nel corso del procedimento, ma prospetta un vizio che attiene al contenuto della decisione, incompleta rispetto ai motivi o alle domande proposte.

Ma anche la motivazione radicalmente assente, a stretto rigore, non implica una lesione del diritto di difesa della parte, incidendo sul contenuto della decisione.

Per la Plenaria, poi, nemmeno l’analogia con l’ipotesi della cd. decisione a sorpresa (adottata in violazione dell’art. 73, co. 3, c.p.a.), risulta convincente.

«Nel caso dell’art. 73, comma 3, infatti, il giudice ha deciso la domanda e la parte lamenta che l’abbia fatto ritenendo dirimente una questione, di rito o di merito, non sottoposta al contraddittorio processuale: il vizio attiene, quindi, al procedimento (la questione non è stata previamente sottoposta al contraddittorio nel corso del processo) non al contenuto della sentenza, che potrebbe essere anche ‘giusta’ nella sua portata decisoria … Nel caso di omesso esame, invece, il vizio risiede esclusivamente nel contenuto (incompleto) della decisione, mentre nel giudizio-procedimento non risulta violata alcuna specifica regola diretta a tutelare il diritto di difesa delle parti».

Rimane però il dubbio che, invece, la muta omissione di pronuncia rappresenti una vera e propria “sorpresa” per la parte, la quale può aspettarsi il rigetto della domanda (totale e parziale), ma non può ragionevolmente ipotizzare un ermetico e silenzioso non liquet, che è sempre illegittimo e viola i basilari principi del diritto di difesa. Sorpresa che può essere totale (in caso di motivazione del tutto assente), o parziale (in caso di omissione relativa ad una sola domanda), senza che sia possibile apprezzare la reale differenza tra i due casi, come, invece, statuito dalla Plenaria.

Senza dire, poi, che l’omissione di pronuncia su una domanda appare fattispecie più grave di una pronuncia che contiene un dispositivo di rigetto, senza enunciarne le ragioni.

La Plenaria aggiunge che «la violazione del diritto di difesa presuppone che una pronuncia sia stata resa senza che siano state rispettate le garanzie difensive previste a favore di una delle parti (e la decisione, pertanto, è invalida per il solo fatto che è stata resa). La violazione del diritto di difesa si traduce, infatti, in un vizio del procedimento che porta alla decisione e presuppone che, alla fine, una decisione vi sia. Nel caso di omesso esame di una domanda la situazione è diametralmente opposta: la parte lamenta che il giudizio-procedimento (di per sé non viziato) si è concluso senza una decisione (su una delle domande), che, invece, avrebbe dovuto essere resa».

Tuttavia, nel caso di omessa pronuncia, non è carente solo la decisione, ma anche l’intero procedimento, con le relative garanzie difensive, conducente a tale esito.

La carenza di pronuncia risulta materialmente come assenza di una decisione; ma, nella sostanza, si tratta di un mancato accoglimento della domanda, incidente sul rapporto giuridico controverso, capace di ledere gli interessi della parte attrice. Tale esito potrebbe essere anche astrattamente giusto, ma, nondimeno, rimane irrimediabilmente viziato il suo antecedente procedimentale e la correlata violazione del diritto di difesa.

Senza dire, poi, che l’argomento della Plenaria prova troppo, perché dovrebbe estendersi anche all’ipotesi della radicale omissione di motivazione sull’intero ricorso.

La Plenaria evidenzia, ancora, che «nei casi di domande proposte in via subordinata o legate da un rapporto di connessione per pregiudizialità-dipendenza, l’omesso esame di una domanda potrebbe essere frutto o di una erronea lettura del nesso di subordinazione (ad esempio, perché, il giudice non rispetta il vincolo di gradazione impresso dal ricorrente), oppure derivare dell’erroneo (nel merito) rigetto della domanda principale, che comporta il naturale assorbimento di quella consequenziale-dipendente (ad esempio, il mancato esame della domanda risarcitoria in seguito al rigetto della domanda di annullamento del provvedimento). In queste ipotesi, si ammette pacificamente che il giudice di appello, riscontrato l’errore (in procedendo o in iudicando) del giudice di primo grado, adotti una pronuncia sostitutiva, esaminando, per la prima volta, la domanda erroneamente assorbita nel giudizio di primo grado».

Nemmeno questa puntualizzazione riesce del tutto convincente. Nei casi indicati, infatti, si è certamente al di fuori della fattispecie, enucleata dall’ordinanza di rinvio di Cons. St. n. 2472/2018, riguardante la totale immotivata assenza di valutazione della autonoma domanda proposta dal ricorrente.

L’erroneo assorbimento (anche implicito) della domanda non costituisce sostanziale assenza di motivazione e, quindi, non potrebbe mai qualificarsi come ipotesi di lesione del diritto di difesa.

Il confronto con l’errore revocatorio

Infine, un ulteriore argomento della Plenaria riguarda il rapporto con la disciplina della revocazione per errore sugli atti processuali (§ 54).

La decisione ricorda che «secondo una pacifica giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1 aprile 2014, n. 1314), l’omesso esame di una delle domande (o di uno o alcuni dei motivi proposti) integra, quando deriva da un svista del giudice nella percezione degli atti processuali, un errore di fatto idoneo a fondare il rimedio della revocazione». La Plenaria sostiene che l’errore di fatto revocatorio non è un error in procedendo che integra una violazione del diritto di difesa, né un’ipotesi di nullità della sentenza, ma un errore che inficia il contenuto della sentenza. E allora, la qualificazione, ai sensi dell’art. 105, di tale situazione come ipotesi di nullità (o come violazione del diritto di difesa delle parti) determinerebbe profili di incoerenza anche rispetto al citato indirizzo giurisprudenziale maturato in materia di revocazione.

«Per tali ragioni, deve allora ritenersi che la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (non importa se riferita a singoli motivi o a singole domande) non determina un’ipotesi di nullità della sentenza, né un caso di violazione del diritto di difesa idoneo a giustificare l’annullamento con rinvio della sentenza appellata».

Anche questo ragionamento non appare determinante.

Anzitutto, l’ipotesi di revocazione ordinaria non assume alcun rilievo rispetto alla sentenza di primo grado, traducendosi, semmai, in motivo di appello.

In secondo luogo, la configurazione strutturale dell’errore revocatorio non è affatto inconciliabile con l’effetto della lesione del diritto di difesa e della sua possibile incidenza sulla nullità della sentenza. A seconda dei casi, infatti, l’errata percezione degli atti processuali potrebbe determinare una violazione del diritto di difesa delle parti, o incidere, direttamente, sul contenuto della sentenza. Pertanto, se tale vizio risulta ritualmente dedotto dell’appello, le conseguenze potrebbero essere quelle del rinvio al primo giudice, qualora riconducibile ad una delle ipotesi di cui all’art. 105. D’altro canto, anche ai fini dell’applicazione dell’art. 105 del c.p.a., rileva il dato oggettivo della omissione di pronuncia, indipendentemente dalla esistenza di un errore di percezione compiuto dal giudice.

Inoltre, proprio la struttura annullatoria della revocazione dovrebbe evidenziare come il vizio di omesso esame di una domanda debba inquadrarsi nelle ipotesi di nullità (parziale) della sentenza. Non sembra, poi, che le peculiari modalità attraverso cui far valere, attraverso il rimedio della revocazione, il vizio della sentenza del Consiglio di Stato che abbia omesso di esaminare una delle domande proposte in appello, possa condizionare la soluzione del diverso problema concernente l’ambito di applicazione dell’art. 105 c.p.a.

Le prospettive aperte dalla Plenaria

L’esito ermeneutico dell’Adunanza Plenaria si pone in sostanziale linea di continuità con la tesi finora dominante in giurisprudenza, respingendo con fermezza le tendenze innovative emerse in alcune pronunce.

La regola espressa dall’art. 105 del c.p.a., ricostruita dalla decisione, risulta delineata con grande chiarezza.

Contrariamente alle aspettative delle pronunce di rimessione alla Plenaria, l’organo nomofilattico finisce, addirittura, per restringere le ipotesi di rinvio al primo giudice. In tal senso, l’omesso e radicale esame di un’autonoma domanda (come quella risarcitoria) era finora stato ricondotto ai casi di rinvio, sebbene la giurisprudenza specificamente dedicata all’argomento non risultasse particolarmente ampia.

L’unica apertura indicata dalla Plenaria riguarda i casi in cui la sentenza di primo grado sia viziata dalla totale assenza di motivazione in ordine alla valutazione dell’intero ricorso, indipendentemente dal contenuto della decisione (processuale, di accoglimento, o di rigetto). Si tratta, però, di casi patologici di estrema gravità, raramente verificabili.

Possono svolgersi riflessioni di ordine generale.

Il processo amministrativo, quello civile, quello contabile e quello tributario individuano con criteri diversi i casi di rinvio al giudice di primo grado. Ma non emergono peculiarità tali da giustificare razionalmente applicazioni così disomogenee del principio del doppio grado di giurisdizione.

La comune esigenza di pronta definizione del processo non dovrebbe impedire di individuare adeguati rimedi volti a garantire, nella sostanza, la possibilità di un secondo giudizio sulla controversia.

È auspicabile, allora, un’attenta delimitazione delle decisioni processuali preclusive dell’esame del merito.

Queste dovrebbero essere sempre accuratamente motivate e, nel dubbio, occorre sempre privilegiare una lettura restrittiva dei casi di irricevibilità, inammissibilità e di improcedibilità, secondo le tendenze interpretative più recenti (in materia di interesse e legittimazione al ricorso), anche valorizzando l’istituto dell’errore scusabile.

Con qualche prudenza, poi, si dovrebbe verificare se l’ordinamento preveda altri rimedi, diversi dal rinvio al primo giudice, volti a prevenire e sanzionare decisioni illegittimamente preclusive dell’esame del merito.

Nei casi più gravi, infatti, potrebbe essere ipotizzabile la responsabilità civile dello Stato, nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, nonché, in estreme eventualità, la colpa disciplinare dei componenti del collegio.

Note

1 Art. 353. Rimessione al primo giudice per ragioni di giurisdizione ‒ «Il giudice d’appello, se riforma la sentenza di primo grado dichiarando che il giudice ordinario ha sulla causa la giurisdizione negata dal primo giudice, pronuncia sentenza con la quale rimanda le parti davanti al primo giudice…». Art. 354. Rimessione al primo giudice per altri motivi ‒ «Fuori dei casi previsti nell’articolo precedente, il giudice di appello non può rimettere la causa al primo giudice, tranne che dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva, oppure riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, ovvero dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell’articolo 161 secondo comma. Il giudice d’appello rimette la causa al primo giudice anche nel caso di riforma della sentenza che ha pronunciato sulla estinzione del processo a norma e nelle forme dell’articolo 308. Nei casi di rimessione al primo giudice previsti nei commi precedenti, si applicano le disposizioni dell’articolo 353. Se il giudice d’appello dichiara la nullità di altri atti compiuti in primo grado, ne ordina, in quanto possibile, la rinnovazione a norma dell’articolo 356».

2 Cons. St., A.P., 27.10.1987, n. 24, in Foro it., 1988, III, 1419 ss.

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