ANNIBALE Barca

Enciclopedia Italiana (1929)

ANNIBALE Barca

Vincenzo Costanzi

Secondo la notizia di Polibio, che lo fa quarantacinquenne nel 202 a. C., quando si trattava la pace con Roma, sarebbe nato nel 247. Il padre, venendo in Ispagna, gli avrebbe fatto giurare odio eterno ai Romani. Comandò la cavalleria sotto il cognato Asdrubale, al quale successe nel comando supremo nel 221. La prima spedizione militare che effettuò fu contro gli Olcadi, tribù iberica a SO. di Cartagena, ed in essa espugnò la città di Altea (o Cartala). L'anno seguente, 220, si portò contro i Vaccei, e assalì la città di Elmantica (Salamanca). Nel ritorno fu aggredito dai Vaccei scampati, uniti ai Carpetani e alle reliquie degli Olcadi; ma riuscì vincitore. Ormai quasi tutta l'Iberia era acquistata al dominio di Cartagine; rimaneva Sagunto, la quale aveva stretto alleanza coi Romani già al tempo dell'impero di Asdrubale, e A. non esitò a iniziare le ostilità contro di essa, in cui la parte favorevole ai Cartaginesi era stata oggetto di tenace persecuzione (219). I Romani intimarono di recedere dalle ostilità, prima ad A., poi al governo cartaginese, ma questo fu solidale con A. e la guerra fu dichiarata.

Dopo aver sottomesso alcune tribù nella parte più settentrionale della Catalogna, A. verso la fine di luglio intraprese il valico dei Pirenei conducendo seco, stando alla tradizione, 90.000 uomini, tra fanti e cavalieri, e 37 elefanti. Trovò qualche resistenza in alcune tribù galliche, ma la superò facilmente e, nel settembre, valicò le Alpi, avendo in tutto 26.000 uomini e 37 (?) elefanti, cioè meno della metà dell'esercito con cui si era mosso da Cartagena: il che ci induce a credere che il lavorio della retorica abbia abbastanza esagerato le forze d'A. al principio della marcia e i disagi nel superare gli ostacoli degli uomini e della natura. Per dove A. sia passato non si può determinare con certezza; le probabilità maggiori sono pel monte Matrona (Monginevra) o pel giogo di Cremone (Piccolo S. Bernardo). Il primo si raccomanda per la considerazione che Annibale dalle Alpi scese sul territorio dei Taurini; il secondo per la testimonianza esplicita di Celio Antipatro che avrebbe l'appoggio d'una affermazione di Catone, che i Salassi, tra i quali si discende dal piccolo S. Bernardo, erano una tribù di Taurini.

Frattanto i Romani avevano mandato per mare nella Gallia un esercito consolare guidato da P. Cornelio Scipione, il quale mosse verso settentrione lungo la riva sinistra del Rodano, e si trovò a contatto con la retroguardia d'A., ma prudentemente non attaccò battaglia, ed imbarcatosi scese a Pisa, donde risalì poi nella valle del Po. L'altro console Tiberio Sempronio era stato mandato con l'altro esercito consolare e la flotta in Sicilia, quantunque, data la superiorità navale dei Romani, fosse prevedibile che i Cartaginesi non li avrebbero affrontati col grosso delle forze per via di mare.

A., superata la resistenza dei Taurini, di cui, secondo notizia non disprezzabile di fonte tarda, avrebbe distrutto la città di Taurasia, mosse verso oriente per congiungersi con gl'Insubri; movendo dalla Sesia egli si avviò con un corpo di cavalleria per una ricognizione, e lo stesso fece Scipione. Si scontrarono sul Ticino, e Scipione rimase ferito. Intanto il suo collega Sempronio a grandi marce si era ricongiunto con lui presso Piacenza, e presso la Trebbia A. riportò un più decisivo successo verso la fine dell'anno 218, intorno al solstizio d'inverno. Rimasto A. fino al maggio nel territorio dei Celti, deliberò di portarsi nell'Italia centrale, dove nutriva speranza di sollevare le città italiche contro Roma. Quale via tenesse, non è certissimo; può essersi diretto verso occidente ed essere passato attraverso la Liguria; può invece aver preso la via da Bologna verso Pracchia o la Porretta, ma è certo che, in quest'ultimo caso, deviò poi ad occidente, avendo dovuto attraversare luoghi paludosi per le piene dell'Arno, e si diresse verso Arezzo. Dei due consoli, Flaminio e Servilio, il primo aveva occupato Arezzo, il secondo Rimini. Il timore che A. puntasse contro Roma indusse i consoli nell'errore funesto di non mantenere fra loro il collegamento, poiché Servilio tenne la via Flaminia, per congiungersi, occorrendo, con Flaminio per la via di Foligno. Flaminio seguì A. che piegò nella direzione di Perugia, e, giunto nelle vicinanze del Trasimeno, distribuì l'esercito in modo che i Romani avanzando potessero essere sorpresi nella pianura lungo il lago e incalzati dalla fanteria dei Galli e Baleari, che, appiattati nelle alture, sarebbero piombati loro addosso, mentre la cavalleria, movendo dalla parte occidentale, li avrebbe sgominati, e la fanteria libica a oriente avrebbe compiuto l'opera di assalto e di dispersione. Rimase sul campo lo stesso console Flaminio con più di quindicimila uomini (giugno del 217). Poscia l'esercito cartaginese sorprese Centenio, che veniva da Foligno mandato dal console Servilio con quattromila cavalieri, di cui perirono più della metà. Malgrado la vittoria, A. cominciò a provare le prime delusioni. Egli lasciò liberi i prigionieri italici, dicendo che era venuto a combattere contro Roma, e a liberare dalla sua soggezione gli alleati, ma le città italiche rimasero solidali con Roma, come ebbe a sperimentare A. quando tentò l'assalto di Spoleto. Continuando sulla sua via, attraverso i Pretuzî, i Marrucini, i Frentani, A. giunse in Puglia, ricca di foraggi e di bestiame. Intanto a Roma si era nominato un dittatore, Quinto Fabio, risuscitando questa consuetudine non più praticata da 22 anni, e, poiché uno dei consoli era morto e l'altro era assente, lo si fece eleggere dai comizî centuriati. Fabio, avendo compreso che nessun generale romano sarebbe stato per abilità strategica e fecondità di accorgimenti pari ad A., decise di adottare una tattica logoratrice, evitando di dare battaglia campale; tattica però che aveva il suo rovescio permettendo al nemico di devastare il territorio degli alleati. A., per costringere Fabio a uscire dall'inazione, attraverso il territorio degli Irpini entrò nell'agro Falerno, facendo molto bottino. Forse Fabio gli avrebbe potuto dar battaglia, in condizioni a lui favorevoli, ma A., con lo stratagemma di legare alle corna dei buoi fiaccole accese, deviò l'attenzione del nemico, sicché poté tornare in Puglia carico di preda, e raccolse gli approvvigionamenti nella città di Gereonio.

Fabio fu chiamato a Roma col pretesto di fare dei sacrifici, ma in realtà per render conto del suo piano di guerra, forse in seguito alle rimostranze degli alleati che si vedevano devastare i territorî. Durante l'assenza di Fabio, Minucio, suo magister equitum, ebbe qualche successo di una certa entità, avendo occupato il colle dove A. aveva messo un presidio di milizie leggiere per proteggere le truppe che si sarebbero sparse nei campi a foraggiare, e avendo anche assalito lo stesso campo di A. Quantunque questi successi non fossero decisivi per l'andamento generale della guerra, nondimeno accreditarono le accuse d'inettitudine rivolte contro Fabio. Si giunse così ad una determinazione senza esempio nella tradizione costituzionale romana: si sarebbe, secondo una fonte, equiparato nel potere il maestro della cavalleria al dittatore, secondo un'altra Minucio sarebbe stato eletto dittatore insieme con Fabio. In seguito, una fazione di Minucio un po' troppo ardita, non si tramutò in un disastro solo per l'intervento di Fabio con le sue legioni. Intanto, trascorso il periodo semestrale della dittatura, ambedue i dittatori consegnarono i rispettivi eserciti ai consoli Servilio e Attilio Regolo, eletto in luogo di Flaminio caduto in battaglia.

Annibale continuava ad avvantaggiarsi, tantoché nell'anno seguente (216) era riuscito ad impadronirsi di Canne, dove erano i depositi di viveri dei Romani, sicché i nuovi consoli L. Emilio Paolo e C. Terenzio Varrone, avendo rinforzate le legioni con nuove leve, ritennero opportuno di dare battaglia. Le forze dei Romani non erano doppie di quelle di A., ma certo superiori: tuttavia il genio militare di A. ebbe ragione dei propositi e degli sforzi dei consoli romani; A. inflisse a Canne ai Romani la maggiore disfatta che essi abbiano mai ricevuta, essendo rimasto sul campo lo stesso Paolo Emilio, oltre un gran numero di senatori e di tribuni. La tradizione aristocratica ha riversato sul capo di Varrone tutta la responsabilità della disfatta, rappresentando Emilio come contrario ad attaccare battaglia; ma le dimostrazioni di benevolenza prodigate a Varrone anche dopo l'infelicissimo fatto d'arme e la stessa fiducia in lui riposta affidandogli nel Piceno (215) la difesa del confine gallico, stanno a provare la correttezza della sua condotta e, se mai, la partecipazione a un errore comune, quello di credere cioè che si potesse battere A. senza fare uno sforzo supremo.

Le ripercussioni della battaglia di Canne furono gravi per i Romani. Capua, con la speranza di soppiantare Roma, si ribellò, e A. vi andò a svernare. Si dice che il comandante della cavalleria Maarbale l'avesse spinto a muovere verso Roma, ma che A. abbia resistito alla tentazione. Se anche è vero che Maarbale abbia esortato A. a una marcia contro Roma, certo in nessun modo A. si sarebbe lasciato sedurre da questa prospettiva pericolosa; se avesse infatti voluto attaccare Roma, vi si sarebbe diretto subito dopo la battaglia del Trasimeno. Intanto, tranne Canosa, quasi tutte le città dell'Apulia si erano ribellate a Roma. Magone si era recato nel Bruzio, dove solo le città di Consentia e Petelia erano rimaste fedeli a Roma; Annone, che lo sostituì quand'egli fu inviato a Cartagine per portare la notizia della vittoria, incominciò l'assedio delle due città. Nello stesso anno A. tentò qualche sorpresa contro Napoli, ma non riuscì; similmente accadde nei riguardi di Nola difesa dal pretore Marcello. Non ebbe la stessa fortuna Nuceria che, espugnata da A., fu distrutta dopo che quegli ebbe lasciati liberi gli abitanti di andare dove volessero. In seguito A., che si era impadronito dell'importante posizione di Casilino, dopo aver fatto un altro tentativo su Nola, avendo avuto qualche rinforzo dai Cartaginesi, si decise a ritornare in Puglia e nel 215 svernò ad Arpi. L'alleanza conclusa nel 215 con Filippo di Macedonia fu sterile di effetti politici e militari, poiché la Macedonia non aveva una marina da guerra abbastanza forte per tentare spedizioni oltre l'Adriatico e l'Egeo. Pertanto A. si dovette contentare di condurre innanzi la guerra con le sue sole forze, e nella primavera del 214 ritornò al Monte Tifata, dove aveva posto gli accampamenti. Avendo inutilmente tentato d'impadronirsi di Puteoli, A. si diresse poi, dopo aver devastato il territorio di quella città e di Napoli, verso Nola, mentre Annone attraverso il territorio degl'Irpini con 17.000 fanti lucani e bruzî e 1200 cavalli africani tentava di ricongiungersi con lui. Ma A. non credette prudente di rimanere nella Campania di fronte alle imponenti forze romane, e, attraverso il territorio di Turio e di Eraclea, che devastò, andò in Puglia e svernò nel 214-13 a Salapia. Frattanto i Romani riguadagnavano terreno nella Campania, e i consoli Fabio e Marcello riuscirono a riconquistare di sorpresa Casilino: poscia fu ricuperato dai Romani Arpi e si guadagnò terreno nel Bruzio (213). Nel 212 A. riuscì a impadronirsi di Taranto, ma i Romani riuscirono a mantenere la rocca, togliendo dei presidi a Metaponto, che si ribellò e il suo esempio fu seguito da Eraclea e Turio. Intanto i Romani ricominciarono nella primavera del 212 l'assedio di Capua, interrotto poi nell'autunno perché A. tornò in Campania; poi egli prese la via di Taranto nella speranza di espugnare la rocca, e in Lucania sconfisse con molta strage il centurione M. Centenio Penula, mentre Magone poco prima aveva sconfitto l'esercito di Tiberio Sempronio Gracco. I Romani solo in autunno poterono iniziare l'opera di circonvallazione di Capua. A primavera A. fece il tentativo di far togliere l'assedio, intraprendendo una marcia verso Roma e giunse sino a porta Collina, ma vedendo che la città era munita di difensori, si dovette limitare a mettere a ferro e a fuoco i campi e le ville circostanti. Tornato dopo qualche favorevole avvisaglia contro Sulpicio, nel Bruzio, penetrò nel territorio di Reggio che era rimasto fedele a Roma, devastando il territorio e prendendo prigionieri (211).

Nello stesso anno Capua, abbandonata dai Cartaginesi, si arrese ai Romani. A. non credette prudente di trattenersi nel Bruzio: mentre Marcello, reduce dalla Sicilia, operava nel Sannio e il proconsole Fulvio ricuperava Salapia e poneva l'assedio a Erdonea (Ordona), al generale cartaginese riuscì di sorprendere Fulvio e costringerlo a una battaglia, dove perì lo stesso proconsole con parecchie migliaia di soldati; quindi A. ritornò nei suoi quartieri dopo aver messo a ferro e a fuoco Erdonea (210). Nel 209 A., uscito dai quartieri d'inverno, cercò di incitare Canosa alla ribellione, ma, dopo qualche scaramuccia con Marcello, credette opportuno abbandonare questa posizione, senza curarsi del fatto che Marcello avrebbe potuto attribuirsi la vittoria. Poscia A. si recò a Caulonia per liberarla dall'assedio che vi avevano posto i predoni di Agatirno (città della Sicilia) e, liberatala, seppe che Taranto era stata ricuperata dai Romani. Nulla poté fare A. per riparare questo nuovo disastro. Nella primavera dell'anno seguente (208), invece di portarsi a difendere Locri, l'assedio della quale era stato tentato dal console Crispino, si portò verso Venosa, dove aveva preso posizione l'altro console Marcello. Crispino si congiunse a Marcello, e A. riuscì a dare battaglia ad ambedue riportando completa vittoria presso Venosa: Crispino rimase ferito, e cadde in battaglia l'altro console Marcello, al quale Annibale rese solenni onoranze.

Malgrado quest'ultimo successo, A. non poteva più illudersi di fiaccare la potenza romana. Arresasi Capua nel 211, caduta nel 210 Siracusa, sollevatasi contro i Romani alla morte di Ierone (214 o 213), A. perdeva terreno nelle Puglie e, senza speranza di aver rinforzi dalla patria, non poteva confidare in altro che nella sua immensa superiorità strategica e tattica sui comandanti romani; ma questa non era tale da pareggiare i vantaggi dell'organizzazione dei Romani e della loro tenacia. Egli fece inutilmente il tentativo di ricuperare Salapia, e poco gli valse la vittoria contro Q. Flaminio che s'era incamminato da Taranto, da lui presidiata, verso Petelia. L'unica speranza che rimanesse ad A. era quella che il fratello Asdrubale, lasciata la Spagna (dove fin dal 218 si eran recati i Romani sotto i due fratelli Publio e Gneo Scipione, e, morti costoro, aveva preso il comando il figlio di Publio, omonimo del padre, che fu poi l'Africano), venisse in Italia e si ricongiungesse con lui. Ma, pur essendo giunto felicemente in Italia, Asdrubale, che dopo la sconfitta di Becula in Spagna, varcati i Pirenei e le Alpi, da Piacenza s'era diretto verso l'Adriatico, essendo stata intercettata una lettera di lui al fratello, si vide venire incontro Claudio Nerone e l'altro console Livio Salinatore. Asdrubale si scontrò con i due consoli presso il Metauro, dove cadde sconfitto sul campo prima che con lui potesse ricongiungersi A., che era giunto appena, quando avvenne la battaglia, nel territorio dei Frentani. A. perdette ormai ogni speranza di prendere l'offensiva, specialmente dopo che fallì in Liguria il tentativo dell'altro suo fratello Magone, che vi fu ferito e morì in seguito alla ferita nel ritorno in patria, dove fu richiamato nel 203 insieme con A. Questi non poté far di meglio che ritirarsi nel Bruzio, e più propriamente presso Crotone. Un convoglio di viveri con rinforzo di truppe mandato ad A. fu catturato dai Romani (205). Intanto P. Scipione figlio di Publio, che aveva felicemente terminata la guerra di Spagna, meditò di passare in Africa come già avevano fatto Attilio Regolo ed Agatocle e aveva tentato di fare Pirro; e nella primavera del 204 sbarcò presso Utica. I Romani andavano ricuperando ad una ad una le terre bruzie, e una sortita che fece A. da Crotone non ebbe nessun effetto, anche se a torto i Romani si ascrissero la vittoria. Quando Scipione fu sbarcato ad Utica, pur trovando resistenza, le sorti di Cartagine volgevano in peggio, onde furono richiamati A. e Magone. Magone, come abbiam detto, morì della sua ferita: A., certo a malincuore, si decise ad abbandonare l'Italia, ma comprese che era inevitabile. Prima d'imbarcarsi dedicò un'ara a Era Lacinia in cui descrisse tutta la storia della spedizione in lingua punica e in lingua greca. Sbarcò a Leptis Minor nell'autunno del 203, quando il comandante cartaginese Asdrubale era stato sconfitto nei campi Magni, Siface, re dei Numidi che si era alleato con i Cartaginesi, era caduto prigioniero, e Cirta era stata occupata da Lelio e Massinissa, altro regolo dei Numidi, alleatosi con Roma. Nell'inverno del 203-2 A. svernò in Adrumeto; nella primavera si accampò presso Zama Regia. Un colloquio con Scipione per concludere la pace non ebbe alcun effetto e convenne decidere le sorti sul campo. A Naraggara l'esercito cartaginese fu sconfitto, e A., dopo tante vittorie sugli eserciti romani, dovette egli stesso raccomandare la pace, per dure che fossero le condizioni, sperando nella riscossa in un tempo non lontano con l'aiuto di qualche monarchia ellenistica.

Dopo la guerra A. spese efficacemente l'opera sua a rigenerare la sua patria. Nominato suffeta, esercitò un'azione energica contro i dilapidatori del pubblico denaro: siccome i membri del Collegio dei giudici avevano questa carica a vita e ne abusavano stabilendo una rete di reciproca complicità, A. fece votare una legge per la quale la durata dell'ufficio era ridotta ad un anno; quindi seguì una politica finanziaria severa, tanto che Cartagine poté pagare a Roma senza dilazione le rate di tributo, e nel 191 poté estinguere il suo debito. Era naturale che la sua austerità ferisse molti interessi, e, come sempre nelle sventure nazionali non mancano mai i vili ossequenti verso l'oppressore, anche a Cartagine i corruttori e i corrotti profittarono dell'attitudine di sospetto dei Romani verso A. per istigarli sempre di più contro di lui. Vennero legati da Roma, a fare rimostranze contro A., accusandolo di aver segrete intelligenze col re di Siria Antioco (196 o 195).

A., per non esporre la patria ad un'umiliazione, l'abbandonò, e per la via d'Adrumeto dove era sbarcato dall'Italia, si portò a Tiro. Quindi giunse ad Efeso presso il re Antioco, che già aveva in animo di muovere guerra ai Romani.

Si attribuisce ad A. il consiglio di tentare una spedizione della flotta seleucidica contro l'Italia, e si dice che Antioco, malamente disposto verso A. da suoi gelosi consiglieri, ripudiò questo piano. Se così fosse stato, Antioco avrebbe avuto piena ragione, ma A., da quello stratego consumato che era, non poteva consigliare un piano così insensato. Il consiglio di A. deve essere stato, come attesta la tradizione, di far comprendere a Filippo che la salute della Macedonia e della Grecia consisteva nel superare l'avversione contro gli Etoli, formare un blocco di tutte le potenze elleniche ed ellenistiche di qualche conto e opporre così una muraglia infrangibile contro la strapotenza romana. Ottenuto questo scopo, forse si poteva pensare a portar la guerra in territorio romano, contando anche sull'alleanza degl'Istri e delle altre popolazioni ostili ai Romani, in luoghi dove gli sbocchi alpini erano più facili e praticabili che ad occidente. Di ripetere un'invasione in grande stile, tanto da percorrere tutta la penisola come dopo la battaglia del Trasimeno, non sperava né forse credeva opportuno, ma sarebbe bastato estendere la sfera d'azione dalla Macedonia e dall'Illiria in Italia per rintuzzare la prepotenza romana. Sennonché A. non trovò un sovrano tanto lungimirante e forse non poteva trovarlo. Durante la guerra A. ebbe il comando di una flotta che combatté infelicemente contro i Rodî comandati da Eudamo presso Side. Dopo la disfatta di Antioco presso Magnesia al Sipilo (190), nelle trattative di pace era contemplata la consegna d'A., onde egli fuggì e si ricoverò presso Prusia re di Bitinia. Quivi indicò al re il luogo dove fondare la nuova città di Prusiade, la moderna Brussa, e dovette esser largo di consigli in una lotta di lui con Pergamo. Ma i Romani, sempre temendo di A., ne pretesero da Prusia l'estradizione, e A., per non cadere in mano dei nemici, preferi finir la vita col veleno nell'anno 183, anno in cui secondo una tradizione sarebbero morti anche Scipione Africano e Filopemene, il personaggio più in vista della lega acaica.

Annibale, come stratego e come tattico non ha avuto pari nell'antichità. Non è improbabile, anzi è quasi certo, che la sua educazione militare fatta sui campi di battaglia sia stata integrata da uno studio attento e profondo dell'arte militare dei grandi capitani greci. Si sono trovate delle significanti analogie tra lo svolgimento della battaglia di Gaugamela e la battaglia di Canne, specialmente nell'uso della cavalleria che fu adoperata efficacemente a sostenere la fanteria negli assalti di fianco. A. seppe adoperare le riserve in modo da riempire opportunamente i vuoti fattisi ai primi attacchi e seppe condurre a perfezione la manovra d'aggiramento. È stato paragonato a Napoleone; è questo forse il generale che a lui più somiglia per le audacie geniali e per la rapidità di dislocamenti di truppe. Inoltre A., come Napoleone, ha meditato nel riposo forzato sulle gesta compiute da lui, e se non è attestato ch'egli abbia scritto le sue memorie, ciò può doversi a una lacuna della nostra tradizione, quantunque dalle parole di un tardo scrittore, secondo il quale A. si sarebbe nutrito di cultura punica e greca, si potrebbe argomentare che varî scritti avesse pubblicati nell'una e nell'altra lingua. È poi esplicitamente attestato che egli descrisse in greco la marcia di Manlio Vulsone nella Galazia, e da quest'opera certamente attinse Tito Livio, giacché presso lo storico romano questa marcia è descritta con molto maggior copia di particolari che tutti gli altri avvenimenti.

La tradizione romana attribuisce a lui un'efferratezza barbara, ma la stessa tradizione offre gli elementi per essere confutata; fu generoso verso i nemici prodi, e seppe rendere omaggio al valore sfortunato, come provano le onoranze rese alla salma del generale nemico M. Claudio Marcello. Certamente avrà talvolta applicato il diritto di guerra forse eccessivamente, ma con notevole mitezza in confronto delle carneficine compiute dai generali romani, come Paolo Emilio che mise a ferro e a fuoco l'Epiro dopo aver debellato Perseo. A. fu una personalità completa: fu dotato di genio militare, perizia amministrativa, come prova la restaurazione da lui compiuta delle finanze cartaginesi, altezza morale come pochi altri nell'antichità e nei tempi moderni. Se il suo fato può paragonarsi a quello di Napoleone, egli ha su Napoleone il vantaggio che non fu acciecato come lui dalla cupidigia di gloria sino a dimenticare gli interessi veri della patria e dei popoli attratti nel suo impero, ma tenne sempre teso lo sguardo all'opera d'incremento prima, di restaurazione e di rinascita poi, della sua patria, e col sacrificio della propria persona risparmiò ad essa, almeno pel momento, l'umiliazione e i pericoli da parte della grande rivale.

Fonti Livio, dal libro XXI a tutto il XXX; XXXIII, 45-49; XXXIV, 60; XXXV, 14; XXXVI, 7; XXXVII, 23-24;. XXXIX, 51; Appiano, Iber., 6, 8 segg.; 14; 17; 18, 28; 56; Hannib., 9 segg.; Pun., 2, 6, 7; 9, 15; 23; 31 segg.; Maced.,1; Syr., 4, 7 segg. Mithrid., 109; Bell. civ., I, 109, 112, Dione Cassio, fr. 54. Vedi anche gli storici minori come Floro, Eutropio e Zonara.

Bibl.: Th. Mommsen, Römische Geschichte, I, 8ª ed., Berlino 1882-1894, pp. 556-625, 637-652; K. Lehmann, Die Angriffe der Barkiden, Lipsia 1905, pp. 143-185, 251 (per tutta la letteratura anteriore al 1905, pp. viii-x); L. Pareti, Contributi per la storia della guerra annibalica (218-217), in Rivista di Filologia, XL (1912), pp. 246-271; 385-410; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i, Torino 1916, pp. 322, 405-431; ii, pp. 10-474; IV, pp. 114 segg., 143 segg., 205 segg.; E. Pais, Storia di Roma durante le guerre puniche, Roma 1927, I, pp. 197-283; II, pp. 46-230, 347-376; J. Kromayer, Antike Schlachtfelder, III, Berlino 1912, passim; III, ii, p. 599 seg.; id., in Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, XIX (1907), pp. 681-699; E. Groag, Hannibal als Politiker, Vienna 1929.

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