AMILCARE Barca

Enciclopedia Italiana (1929)

AMILCARE Barca ('Αμίλκας ὁ Βάρκας Hamilcar Barcas)

Gaetano De Sanctis.

Figlio di Annibale e padre del più famoso degli avversarî di Roma, soprannominato Barca (da baraq "lampo"), compare nella storia il 247 a. C., quando viene destinato dai Cartaginesi a prendere il comando delle loro forze in Sicilia, succedendo ad Aderbale e a Cartalone sullo scorcio della prima guerra punica (v. puniche, guerre). È da ritenere che fosse nato intorno al 290 o non molto dopo; ma la sua identificazione con quell'Amilcare che per molti anni aveva comandato in Sicilia e poi s'era battuto in Africa contro Regolo, già fatta nell'antichità (Cicerone, Dione presso Zonara) e ripetuta da qualche modenno (Ranke), sembra dovuta ad equivoco. La venuta di A. segnò una stasi nei progressi dei Romani in Sicilia. Non già che egli riportasse veri successi. Ma impedì al nemico di riportarne, e soprattutto lo molestò gravemente con una guerriglia fatta di devastazioni e di sorprese. Dopo aver tentato invano di ricuperare l'isola Peliade (Colombara) all'imboccatura del porto di Drepano (Trapani), occupata dai Romani, e dopo aver devastato le coste del Bruzio, si stabilì sull'alto del monte Heirkte (probabilmente, sebbene di recente sia stato messo in dubbio, il monte Pellegrino presso Palermo), e di lì minacciò l'importante città di Panormo, già da qualche tempo in possesso dei Romani, e ne saccheggiò il territorio. Poi, per tenersi più vicino alle due sole posizioni che rimanevano ai Cartaginesi nell'isola, Drepano e Lilibeo (Marsala), e molestare i Romani che bloccavano Drepano, si stabilì nel 244 sul luogo dell'antica città di Erice, fra il tempio di Venere Ericina sulla cima del monte S. Giuliano, occupato dai Romani, e l'accampamento donde più in basso i Romani stringevano Drepano d'assedio. Fra tali avvisaglie la guerra si protrasse fino al 242, quando i Romani, radunata una poderosa flotta, bloccarono anche per mare Drepano e Lilibeo sotto gli ordini del console Gaio Lutazio Catulo. Fallito il tentativo cartaginese per rompere il blocco, e terminato anzi con la rotta delle Egadi (241, 10 marzo secondo il calendario romano), i Cartaginesi si risolvettero a far pace, abbandonando la Sicilia, e diedero ad A. pieni poteri per condurre a termine i negoziati. A., dopo varie e complesse trattative (v. roma: storia, e puniche, guerre), riuscì a concludere la pace, ottenendo di uscire liberamente con gli onori militari per tutte le forze cartaginesi; e concentratele a Lilibeo, donde dovevano essere fatte rimpatriare, depose il comando.

In questa prima parte della vita di A. è rilevata meritatamente dagli storici antichi l'insigne maestria, mercé la quale con forze minori seppe destreggiarsi tra i poderosi eserciti romani, in paese ormai quasi del tutto posseduto dal nemico, e tenerli a bada; ma è difficile non ascrivergli almeno in parte la responsabilità dell'abbandono in cui fu lasciato in questi anni il naviglio da guerra cartaginese, che era stato ancora pochi anni innanzi, sotto Cartalone e sotto Aderbale, un così efficace strumento bellico. Forse, assorto nel suo ludo guerresco dell'Heirkte e poi dell'Erice, aveva finito il valoroso generale con esagerarne egli stesso ai proprî occhi l'importanza, e col dimenticare quanto fosse di maggior momento per la conservazione di Drepano e di Lilibeo il tenere in buon assetto l'armata. L'aver riconosciuto l'inevitabilità della pace, l'essersi piegato a tutte le concessioni necessarie, minacciando però la ripresa della guerra, se quel limite fosse varcato nelle condizioni di pace, l'aver salvaguardato a Cartagine un esercito ottimo che poteva servire per compensare largamente in Africa e in Spagna la perdita della Sicilia, mostrano la sagacia e la versatilità di politico che A. univa alla sua valentia di guerriero.

Ma, comunque, il successo della prima punica non era tale da incoraggiare Cartagine ad una vigorosa politica d'impero né da disporla troppo favorevolmente verso l'esercito e verso il duce, che, sia pure invitti in campo, avevano dovuto cedere di fronte al nemico. La grettezza del govermo cartaginese, che non si risolveva né a pagare i mercenarî di Sicilia né a licenziarli, e insieme il malcontento dei sudditi libici gravati di tributi per la guerra e per la pace, che gioivano dell'umiliazione di Cartagine e credevano venuto il momento di scuoterne il dominio (v. cartagine: storia), fecero scoppiare una vasta ribellione di soldati e d'indigeni, che per un momento mise in pericolo, se non la stessa Cartagine, almeno il suo dominio africano. Il comando della guerra fu sul principio assegnato ad Annone, il quale tentò invano di soccorrere efficacemente Utica e Ippona Diarrito Biserta), assediate dagl'insorti. Allora, stretti dal pericolo, i Cartaginesi affidarono un altro esercito ad A., il quale fino allora si era tenuto o era stato tenuto in disparte. A. doveva ristabilire la comunicazione con l'esercito di Annone e liberare insieme con lui le fortezze assediate. Di fatto egli vinse una battaglia presso il Bagrada, e poi una seconda battaglia, in cui gli fu di grande soccorso il tradimento del numida Narava, che guadagnò alla sua causa; e cercò con la mitezza verso i prigionieri di placare gli animi dei mercenarî ribelli. Ma i duci di questi, temendo appunto che l'antico generale riuscisse nel suo tentativo, li indussero a uccidere nel modo più crudele i prigionieri cartaginesi che avevano nelle mani. Dopo di che la guerra divenne spietata e senza quartiere da entrambe le parti. Frattanto A. si era riunito con Annone; ma, fosse la discordia tra i duci, fosse l'insufficienza delle forze, non si riuscì a riportare successi decisivi. E sebbene il senato cartaginese, impressionato da tale discordia, avesse deliberato di lasciare il comando supremo a quello tra i due che i soldati preferissero, e i soldati avessero prescelto A., lo stato delle cose non mutò. Anzi Utica e Ippona, bloccate per terra da più di un anno, capitolarono, e i mercenarî, posto il campo a Tunisi, bloccarono per terra Cartagine (239). A., lasciando un esercito agli ordini di un ufficiale di nome Annibale fra Tunisi e Cartagine per proteggere la città, con un altro maggiore cercò di bloccare dal di fuori il campo insorto e di sopraffare i ribelli libici separati dal grosso delle forze mercenarie che rimaneva nel campo di Tunisi. I progressi fatti in tal modo da A. furono così notevoli, che dal campo di Tunisi i ribelli dovettero inviare uno dei loro generali, Spendio, con un forte esercito, si dice di 50.000 uomini, per fronteggiare Amilcare. A. riuscì con abili manovre a circondare questo esercito, e poi con punica astuzia, impadronitosi dei generali, lo distrusse in un accanito combattimento. Dopo di che la guerra pareva finita. Ma una sorpresa tentata dall'altro generale insorto Mathos contro Annibale ebbe successo completo. L'esercito di Annibale fu distrutto, il comandante preso e crocifisso, A. costretto ad allontanarsi, abbandonando il blocco del campo avversario. I Cartaginesi fecero per altro uno sforzo disperato, e, radunato un nuovo esercito di cui diedero il comando ad Annone, indussero Annone e A. a pacificarsi e a cooperare in vista del comune terribile pericolo. Rinnovata la guerra, Mathos fu costretto, non sappiamo bene con quali operazioni, a togliere l'assedio a Cartagine, e la guerra, dopo una campagna di cui nulla sappiamo né dal punto di vista tattico né dal punto di vista strategico, terminò con una grande battaglia, di cui non conosciamo che l'esito, il quale fu la completa sconfitta dei ribelli.

In questa guerra è facile vedere che, mentre le notizie della nostra fonte (Polibio) abbondano per tutta la parte in cui la direzione spettò ad A., si fanno scarsissime per la parte in cui il comando fu diviso tra A. e Annone, sebbene quella fosse stata un preludio interessante bensì, ma annullato nei suoi effetti dalla disfatta di Annibale, e questa fosse stata la parte veramente decisiva della campagna. Del resto, nonostante la tendenza favorevolissima ad A. che il racconto pervenutoci rivela, se non può non condividersi il giudizio di Polibio circa la sagacia e la perizia di A. come generale, è chiaro però che la punica astuzia mercé la quale A. chiuse con la cattura di Spendio le trattative che precedettero la distruzione dell'esercito di lui, e la spietatezza dimostrata in tale occasione, resero impossibile di troncare a questo punto la guerra e incorarono Mathos al suo disperato tentativo contro Annibale. Del cui successo non può non darsi in parte la responsabilità ad A., il quale era tenuto ad assegnare posti così difficili ad uomini di cui potesse fidarsi a tutta prova, o ad assicurarsi almeno che si tenessero in guardia in modo tale da evitare sorprese del genere di quella di cui Annibale cadde vittima.

Dopo questa guerra, l'evidenza del pericolo romano e l'irritazione per la perdita della Sardegna, che i Romani occuparono subito dopo, minacciando guerra se i Cartaginesi non l'abbandonavano, indussero ad affidare il comando dell'esercito ad A. e a lasciargli mano libera nella grande impresa che divisava in Ispagna. Non è dubbio infatti (per quanto ne abbiano dubitato taluni critici moderni) che è suo il piano, attuato poi dal figlio Annibale, che egli condusse novenne con sé dopo avergli fatto giurare odio eterno ai Romani, di creare cioè in Spagna una base per invadere poi attraverso le Alpi l'Italia. Passò dunque A. in Spagna (237), e costituì sua base d'operazioni la vecchia colonia fenicia di Cadice. Di lì, consolidando il dominio cartaginese per quel tanto che ancora ne sussisteva nell'estremo mezzogiormo della Penisola, iniziò la sottomissione delle tribù iberiche meridionali e centrali, spingendosi dopo alcune grandi vittorie fino ad Alicante, ove fondò la colonia di Akra Leuke. Ivi presso nel 229, mentre assediava Helike (odierna Elche), sorpreso dal tradimento degli Oretani, cadde combattendo, dopo avere assicurato la salvezza del figlio Annibale. Pochissimo sappiamo della storia di questi otto anni di battaglie, ma ne conosciamo il risultato, che fu di formare un esercito agguerrito e fedele e di preparare, con le ricchezze minerarie della penisola e coi contingenti delle bellicose tribù iberiche chiamate ad affratellarsi sotto le armi coi loro vincitori, gli elementi per la guerra di riscossa contro Roma. Ed è anche qui da ammirare la genialità e tenacità di A., e si deve riconoscere nell'accurata e sagace sua opera di preparazione la ragione dei successi miracolosi riportati dal figlio Annibale. Ma anche qui si vede in germe nell'opera sua quello che sarà il difetto fondamentale della strategia di Annibale, come era stato il difetto fondamentale della strategia dello stesso A. nella guerra di Sicilia: il non aver fatto corrispondere alla preparazione terrestre una adeguata preparazione marittima, l'aver lasciato inconcusso all'avversario il predominio del mare, che esso aveva acquistato nella prima guerra punica, quel predominio in cui sta la causa principalissima della risolutiva vittoria romana nella seconda.

Fonte per la storia di A. è soprattutto Polibio. Qualche cosa si ha inoltre da Diodoro e da Zonara (Dione Cassio), dalla vita di Amilcare di Cornelio Nepote, poco dai rottami della tradizione liviana, che comincia a divenire meno scarsa solo per la guerra spagnola. La tradizione pervenutaci sulla parte dovuta ad A. nella prima punica e nella guerra dei mercenari, è per intero sotto l'influsso di fonti primarie a lui favorevolissime. Per la guerra spagnola è evidente invece la presenza di una doppia corrente di tradizioni: l'una favorevole, l'altra risalente alla fazione antibarcina di Cartagine, che sotto l'influsso della vittoria romana nella seconda punica tende a far apparire l'impresa spagnola al pari della grande guerra con Roma, come imprese più che altro personali dei Barcidi, i quali avrebbero così trascinato i Cartaginesi riluttanti alla rovina. È spiegabile che questa tradizione sorgesse; ma essa è appunto per ciò da respingere in massima come tendenziosa, sebbene possa qua e là conservarci qualche non trascurabile notizia di fatto.

Bibl.: Th. Mommsen, Röm. Geschichte, I, 8ª ed., p. 531 segg., 561 segg.; C. Neumann, Das Zeitalter der punischen Kriege, Breslavia 1883, pp. 148 segg., 171 segg., 240 segg.; O. Meltzer, Geschichte der Karthager, II, Berlino 1896, pp. 338 segg., 377 segg.; A. Holm, Storia della Sicilia nell'antichità, trad. it., Palermo 1896 segg., III, i, p. 53 segg.; J. Kromayer, Antike Schlachtfelder, III, Berlino 1912, 1, p. 3 segg.; ii, p. 422 segg. (ivi larga bibliografia); G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, i, Torino 1907, p. 181 segg.; 387 segg.; S. Gsell, Histoire de l'Afrique du nord, III, Parigi 1918, p. 101 segg.; Lenschau, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., VII, col. 2303 segg.

È noto che la guerra dei mercenarî diede argomento al romanzo di Gustavo Flaubert intitolato Salammbô. Sulle fonti di questo romanzo, sul suo valore artistico e sul valore delle non sempre trascurabili intuizioni storiche del Flaubert, v. L. F. Benedetto, Le origini di Salammbô, Firenze 1920.

TAG

Gaio lutazio catulo

Gustavo flaubert

Cornelio nepote

Grande guerra

Cartagine