Afrasyab

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

Afrasyab

A. Santoro

Città dell'antica Sogdiana, coincidente con la parte più antica dell'od. Samarcanda (Uzbekistan, U.R.S.S.), situata sul corso del fiume Zarafshān. Il nome A., con cui il sito è comunemente indicato, è attestato per la prima volta in fonti scritte del sec. 17°: esso sarebbe l'esito della trasformazione dell'antico termine tagico Aparsijab, che vuol dire 'ciò che è collocato sul Sijab' (nome del corso d'acqua che delimita a N la città), il quale, per la sua assonanza, venne a identificarsi con quello di A., il mitico eroe turanico dello Shāhnāma.

Insieme con Pendžikent e Varahša, A. è una delle città più importanti nella storia politica e culturale della Sogdiana. I resti archeologici per i quali questo centro è noto appartengono al periodo compreso fra il sec. 6° e l'8° d.C., epoca in cui, sotto il dominio eftalita prima e turco poi, raggiunse uno splendore eccezionale, testimoniato in special modo nella straordinaria produzione pittorica che adornava le abitazioni dei nobili e la residenza dei sovrani.

Ma la nascita di A. come centro urbano risale a tempi ben più remoti. Le campagne di scavo degli ultimi venti anni hanno dimostrato che fin dal primo millennio a.C. all'estremità meridionale di Samarcanda esisteva un ampio insediamento urbano, dotato di fortificazioni (di esse rimane ampia testimonianza nel possente bastione difensivo del settore settentrionale) e fornito di un sistema di distribuzione delle acque. Tracce di questa prima fase sono state trovate sparse in diversi settori. La ricerca archeologica degli strati più antichi è resa assai complicata per il fatto che spesso essi furono violati, se non addirittura distrutti, nelle successive fasi di ampliamento dell'occupazione urbana. È quindi assai difficile ricostruire con esattezza l'estensione e la forma dell'insediamento più antico, ma, alla luce delle conoscenze attuali, è comunque possibile affermare che A. ebbe, come centro urbano, una continuità che va dal primo millennio a.C. al sec. 13° d.C., epoca in cui venne distrutta dalla invasione mongola.Le diverse fasi sono agevolmente seguibili nelle ricostruzioni e nella espansione della cinta muraria, che presenta caratteristiche tecniche diverse nei vari periodi storici.

A partire dal sec. 6° a.C. i dati archeologici sono affiancati da testimonianze storiche riguardanti l'intera Sogdiana e, solo in rari casi, l'antica Samarcanda. È noto così che fra i secc. 6° e 4° a.C. la Sogdiana era una delle satrapie orientali dell'impero achemenide. All'epoca della spedizione di Alessandro Magno verso l'India i Sogdiani, come riferiscono i biografi del grande Macedone, offrirono una strenua opposizione alle truppe greche (329-328 a.C.): Q. Curzio Rufo (Historia Alexandri Magni, VII, 6) parla in particolare di una città, circondata da un'imponente cinta muraria (70 stadi), di nome Maracanda, che secondo molti studiosi sarebbe proprio l'antica Samarcanda. Nel territorio sogdiano si succedettero poi i Seleucidi, il dominio greco-bactriano e alla fine del sec. 2° a.C. il dominio Yüeh-chih. La ricerca archeologica relativa a questo complesso periodo storico ha rivelato che la vita di A. continuò vigorosamente in questi secoli: in molte parti della cinta muraria sono state rinvenute ricostruzioni di fortificazioni in cui è evidente l'influsso ellenistico; in questo periodo venne innalzato il muro che circonda il sobborgo cittadino. Una fase assai incerta archeologicamente è quella del sec. 1° d.C. che, secondo alcuni studiosi, fu un'epoca di grave crisi per la città, mentre, secondo altri, si dovrebbe parlare al massimo di un rallentamento dell'espansione. In tutti questi secoli l'economia di A. fu basata sull'agricoltura, come dimostra l'ampia rete di distribuzione delle acque, e sull'artigianato, testimoniato ampiamente nei centri di produzione ceramica.

A partire dal sec. 1° d.C. la Sogdiana assunse un ruolo di primo piano nella rete commerciale che collegava Iran, India, Asia Centrale ed Estremo Oriente, ruolo conservato sotto l'impero dei Kusāna e destinato a divenire sempre più determinante anche quando, dopo il crollo dei Kusāna, il territorio della Sogdiana vide susseguirsi diversi dominatori. I mercanti sogdiani esercitarono la loro funzione di tramite fra Oriente e Occidente sia al tempo del dominio sasanide, sia sotto gli Eftaliti.

Quando nella seconda metà del sec. 6° sorse l'impero turco d'Occidente, che comprendeva anche la Sogdiana, un'ambasceria turco-sogdiana giunse alla corte di Bisanzio per tentare di stabilire rapporti commerciali diretti con l'Occidente. Con il dominio turco la città di A. raggiunse uno splendore straordinario, anche in conseguenza della sua importanza nei commerci, sostenuti e favoriti dai dominatori stranieri. A. toccò così la sua massima espansione, arricchendosi di palazzi decorati di pitture. Una preziosa testimonianza del fervore di vita nella prima metà del sec. 7° d.C. è fornita dalla descrizione della città che compare nelle pagine del pellegrino cinese Hsüan-tsang (S. Beal, Buddhist Records of the Western World, London 1884, I, pp. 32-33).

Con il crollo dell'impero turco d'Occidente la Sogdiana nel 659 cadde sotto il dominio nominale dei T'ang, ma solo l'invasione araba, avvenuta agli inizi del sec. 8°, determinò un sostanziale cambiamento nella situazione. Fra il 706 e il 712 Samarcanda venne conquistata dall'esercito del generale Qutayba e una gran parte dei cittadini si rifugiò a Pendžikent; sugli eventi di questi anni e fino al 722 molte notizie sono fornite non solo dagli storici arabi, ma anche dai preziosi documenti di Monte Mugh, il castello sogdiano ove si rifugiò l'ultimo sovrano di Pendžikent. La conquista araba non produsse tuttavia l'abbandono del sito, destinato a essere un centro vivace di arti e scienza anche nei secoli successivi, sotto il dominio islamico. Solo l'invasione di Genghiz Khan nel sec. 13° determinò la fine dell'antica città, sulle cui rovine si sarebbe poi sviluppata Samarcanda.Il periodo che va dal sec. 6° agli inizi dell'8° fu un'epoca di straordinario splendore nella vita dell'antica Samarcanda: in questi secoli vanno collocati infatti gli eccezionali resti pittorici per cui A. è nota. Il più antico ritrovamento di pitture parietali nella città risale al 1913, ma si trattava soltanto di frammenti ormai completamente distrutti: di essi rimangono solo disegni acquerellati, per cui è difficile, per non dire impossibile, collocarli cronologicamente.

Negli anni 1965-1968, sotto la direzione dell'archeologo sovietico Šiškin, nella parte centrale della città (settore 23), venne riportato alla luce un gruppo di edifici databili ai secc. 6°-7° nei quali molti studiosi, fra cui Al'baum (1975), hanno proposto di riconoscere la residenza del sovrano di Samarcanda, mentre per altri (Azarpay, Belenitskii, Marshak, Dresden, 1981), essi potrebbero più semplicemente essere le abitazioni dell'aristocrazia locale. Quale che fosse l'esatta destinazione di queste costruzioni, esse costituiscono comunque una scoperta archeologica di importanza capitale. All'interno di una delle sale, indicata dagli studiosi come 'sala 1', sono state rinvenute alcune pitture parietali accompagnate da iscrizioni in sogdiano che forniscono indicazioni preziosissime sia sul significato delle scene raffigurate, sia sulla cronologia delle immagini. A esse Al'baum (1975) dedicò un'intera monografia che costituisce, ancor oggi, un punto di riferimento fondamentale per qualsiasi ricerca.

Prima di esaminare nei dettagli questa produzione pittorica è necessario fornire alcune indicazioni sulla struttura di A. fra il 6° e l'8° secolo.

In quest'epoca la pianta della città presenta una forma grosso modo triangolare, con il vertice orientato a S. I suoi confini a N sono segnati dal fiume Sijab, che costituisce una naturale linea difensiva, e a E dal canale Obi Mašab. A S del Sijab gli archeologi sovietici hanno individuato quattro cinte murarie, diverse per epoca di costruzione o di ricostruzione, per estensione e per disposizione. La prima, che raggiunge una lunghezza di m. 1500, si estende immediatamente a S del fiume, racchiude al suo interno la cittadella ed è databile al 4°-5° secolo. La seconda, che si sviluppa a S della prima con andamento parallelo a essa, è lunga m. 3000 ca., presenta mura in alcuni punti spesse m. 8-10 con torri di rinforzo ed è databile al 6°-7° secolo. Una terza cinta muraria, di dimensioni più piccole e di forma ad anello, con aperture lungo i lati sud e ovest, è collocata immediatamente a S della seconda: essa risalirebbe secondo Al'baum (1975, pp. 9-10) al 7° secolo. La quarta infine, che si sviluppa con forma triangolare a S della seconda per una lunghezza di m. 5000 ca., offre la testimonianza del massimo sviluppo della città, ma presenta problemi di datazione tuttora non completamente risolti. Mentre, infatti, secondo alcuni studiosi essa risalirebbe nella sua prima fase costruttiva al sec. 4° a.C. - coincidendo così con l'ampia cinta di Maracanda di cui parla Q. Curzio Rufo -, per altri sarebbe databile al sec. 1° a.C.; Pačos (1966), avendo sezionato alcuni punti del muro, ritiene che esso sia stato innalzato su terreno vergine nei secc. 8°-9° e poi rinforzato all'epoca della invasione mongola. Al'baum infine pensa che questa cinta, qualunque sia il suo primo momento costruttivo, sia stata ripresa e ricostruita nel sec. 7° o nella prima metà dell'8°, all'epoca della lotta con gli Arabi.

È all'interno della terza cinta di mura, quella ad anello, che si elevano gli edifici adorni di pitture parietali. I resti più importanti occupano la parte settentrionale del settore 23 e costituirebbero, secondo Al'baum e altri, la residenza dei sovrani di Samarcanda all'epoca del dominio turco in Sogdiana. Benché l'impianto d'insieme non sia ancora totalmente studiato, è possibile dire che si trattava di un blocco di costruzioni che comprendeva una serie di ampie sale di forma grosso modo quadrata, affiancate da corridoi o da alloggi di dimensioni più ridotte. In molte sono state identificate chiaramente due fasi costruttive, la prima delle quali risalirebbe al sec. 6°, mentre la seconda viene fatta risalire al sec. 7°: fra la prima e la seconda ricostruzione si colloca un incendio di cui permangono tracce. Nella ricostruzione le vecchie mura non vennero completamente demolite, ma più semplicemente ricoperte dalle nuove, con conseguente riduzione dello spazio interno: è questo il caso delle sale 3 e 9. Altre volte la ricostruzione comportò anche un'alterazione della pianta e della disposizione originaria degli ambienti: è questo il caso della stanza 2, in origine īvān della sala 3 e poi accesso alla sala 1. In entrambe le fasi il materiale usato è costituito da blocchi d'argilla pressata (pahsa), di spessore variabile, che venivano accuratamente ricoperti di uno strato d'intonaco poi imbiancato o preparato, con strati di gesso sempre più sottili, per la decorazione pittorica. Caratteristica comune alle sale più ampie è la presenza di una panca, nello stesso tipo di muratura, che corre lungo tutto il perimetro interno. Nel pavimento e/o lungo le pareti sono stati trovati i fori per l'installazione delle colonne destinate a sostenere la copertura piatta. Molti ambienti presentano resti di decorazione plastica, oltre che pittorica: la sala 5 ha offerto frammenti di statue lignee parzialmente carbonizzati.Le pitture meglio conservate e più importanti sono state rinvenute nelle sale 9 e 1. La sala 9 fu ricostruita due volte: nella seconda, successiva a un incendio, le nuove pareti vennero addossate alle vecchie, con conseguente riduzione dello spazio interno da m. 249 a 39. Le mura vennero imbiancate e decorate con un fregio di cui restano frammenti con immagini di uccelli che affiancano vasi. Sulla parete settentrionale, quella di fronte all'ingresso, rimangono tracce di una coppia con il capo circondato da un nimbo: l'uomo tiene in mano una specie di vassoio sul quale è collocato un cammello. Le condizioni assai povere delle immagini non permettono una lettura precisa: esse sono tuttavia paragonabili a raffigurazioni di coppie provenienti da Pendžikent e da Varahša. La presenza del nimbo induce comunque a ritenere che si sia in presenza di una coppia divina o di una coppia regale deificata.

È molto ben conservata la decorazione pittorica della sala 1, in cui, con ogni probabilità, va riconosciuta la sala delle udienze del palazzo di Vargoman, uno dei sovrani di Samarcanda. Si tratta di un ambiente quadrato che misura m. 11x11, con ingresso sul lato orientale attraverso l'ambiente 2. Lungo tutto il perimetro interno corre una panca in muratura larga m. 1 e alta cm. 50, che, sulla parete occidentale, raggiunge un maggiore aggetto. La sala, costruita nel sec. 7°, continuò a essere usata almeno fino al sec. 10°, come dimostra una fornace per la ceramica collocata nella parte nordoccidentale e risalente appunto a questa data.

La decorazione pittorica ricopre interamente le quattro pareti, con un'altezza residua dalla panca che va da m. 1,50 della parete orientale a m. 2,70 della parete occidentale. In alcuni punti rimangono tracce della fascia decorativa di base, adorna di stilizzazioni fitomorfe. Dal punto di vista puramente iconografico i soggetti raffigurati possono così essere sintetizzati.

Parete meridionale: un lungo corteo di personaggi riccamente abbigliati avanza a piedi o montando cavalli e cammelli. Sul dorso di un elefante rimangono tracce di un baldacchino. Un gruppo di oche (o struzzi) è raffigurato accompagnato da una breve iscrizione. Con tutta probabilità è qui rappresentato il corteo che accompagna la principessa (che doveva essere raffigurata sull'elefante) inviata in sposa al sovrano di Samarcanda.

Parete settentrionale: i resti pittorici, come argomento, sono divisi in due parti. A E un gruppo di cavalieri è rappresentato mentre lotta con carnivori che li assalgono (spesso questa immagine è definita una scena di caccia); a O un fiume, con pesci, uccelli acquatici, fiori di loto, animali fantastici, sul quale avanzano due barche, una delle quali affollata di soli personaggi femminili.

Parete orientale: le condizioni sono estremamente povere e frammentarie. A S è raffigurato un paesaggio marino in cui compaiono uccelli e pesci; tre fanciulli nudi tirano d'arco, un uomo è attaccato alla coda di un bovino. A N rimangono solo due figure assai frammentarie, forse indiani.

Parete occidentale: conservata in buona parte, essa fornisce la chiave interpretativa anche delle altre pitture della sala. Quaranta personaggi, in cui è possibile riconoscere, per i costumi e per i tratti somatici, diversi gruppi etnici, avanzano in corteo da più punti verso la parte centrale della composizione, che doveva essere occupata in origine da un'immagine purtroppo totalmente distrutta. Sulla veste di uno di essi (Al'baum, 1975, tav. 15) compare una lunga iscrizione, costituita da due righe orizzontali di scrittura bactriana corsiva e sedici verticali di corsivo sogdiano. In essa l'ambasciatore del principato di Ciaghānyān (bacino del Surkhān-dāryā) e quello di Čač (regione di Tashkent) parlano al re di Samarcanda, Vargoman. Questo sovrano, noto anche da altre fonti, regnò su Samarcanda e la Sogdiana nella seconda metà del 7° secolo. La complessa situazione storica che si creò in Sogdiana dopo la sua morte impedisce di pensare che le pitture siano state eseguite per commemorarlo e induce quindi a collocare la loro esecuzione durante il suo regno, e più esattamente nel terzo quarto del 7° secolo. Si tratta di una preziosa e precisa indicazione cronologica, utile non solo per la datazione di queste immagini, ma anche per il resto della produzione pittorica della Sogdiana. L'iscrizione è inoltre preziosa anche per l'interpretazione del soggetto. Subito dopo la loro scoperta Šiškin (1966) pensò che le pitture illustrassero storie leggendarie, secondo una tradizione sogdiana attestata per es. anche a Pendžikent, ob'iekt ('costruzione') VI, 41, ove è raffigurato il ciclo di Rustam. La decifrazione delle iscrizioni indusse successivamente a ritenere che esse raffigurassero un soggetto storico e più precisamente l'arrivo a Samarcanda di legazioni provenienti da diversi paesi dell'Asia, due dei quali espressamente menzionati, gli altri ricostruibili grazie alla caratterizzazione etnica e di costume dei vari personaggi rappresentati sulle quattro pareti. Procedendo su questa linea Al'baum (1975) giunse alla conclusione che il soggetto raffigurato sulla parete ovest fosse il cerimoniale di ricevimento degli ambasciatori stranieri presso la corte di Vargoman e che sulle altre pareti fosse narrato il viaggio delle legazioni alla volta di Samarcanda. Confrontando i personaggi delle diverse pareti lo studioso riconobbe nella parete sud il corteo nuziale, proveniente dal principato di Ciaghānyān, e nella parete nord un secondo corteo nuziale, proveniente dalla Cina o dal Turkestan cinese. Quanto agli scarsi resti del muro est, avanzò l'ipotesi che vi fosse rappresentata la legazione indiana. La ricostruzione di Al'baum, che riconduce a un fatto storico e unitario l'intera decorazione della sala delle udienze, si basa anche sull'ipotesi che, al centro della parete occidentale, là dove la pittura è andata distrutta, fosse collocata l'immagine di Vargoman, alla quale viene reso omaggio da un corteo di personaggi. Quanto agli uomini in costume sogdiano e turco essi farebbero parte del seguito del re.

La lettura di Al'baum è stata recentemente messa in discussione da Belenitskii e Marshak (1981). Fondandosi su un'iscrizione molto mal ridotta che identificherebbe con Vargoman un personaggio della parete occidentale e su una nuova interpretazione della lunga iscrizione, i due studiosi hanno avanzato l'ipotesi che, al centro della composizione stessa, fosse raffigurato non il sovrano di Samarcanda, ma l'immagine di una divinità in trono alla quale lo stesso Vargoman e le delegazioni straniere si avvicinano a porgere omaggio e doni.

In base a questa nuova lettura è stata rivista anche l'interpretazione delle altre pareti, confermando l'identificazione del corteo della parete sud come un corteo nuziale, mentre sulle pareti nord ed est sarebbero raffigurate scene di vita di paesi lontani, suscitate, per così dire, nella immaginazione degli artisti dall'arrivo di una sposa e di ambascerie da zone remote.

I dati di cui fino a oggi si dispone impediscono di optare con sicurezza per l'una o l'altra lettura.

Qualunque sia l'esatta interpretazione, il ciclo pittorico della sala 1 di A. rimane un documento di eccezionale valore da più punti di vista. In primo luogo la possibilità di una datazione precisa consente di rivedere la cronologia di altre opere pittoriche sogdiane, la cui datazione, in molti casi, era fin qui fondata solo su criteri stilistici. In secondo luogo la minuziosa attenzione realistica che caratterizza la raffigurazione dei diversi gruppi etnici costituisce un vero e proprio spaccato degli usi e costumi dei popoli dell'Asia nel 7° secolo.

Per usare l'efficace espressione di Al'baum (1975, p. 108) le pitture di A. costituiscono "una sorta di museo etnico", illuminante non solo per l'ideologia e le religioni, ma anche per la cultura materiale. Pitture 'storiche' quindi, nel senso più rigoroso del termine.

Non minore il loro interesse dal punto di vista propriamente figurativo e artistico. I dipinti di A. rappresentano uno splendido esempio di pittura narrativa continua, realizzata mediante un sistema compositivo più facilmente apprezzabile nella parete ovest giunta a noi quasi per intero. Il centro della composizione è costituito, come si è detto, dall'immagine del sovrano o di una divinità, ormai distrutta. Tutto lo spazio rimanente è percorso e scandito dalla ricca figurazione di personaggi che, da varie direzioni, muovono verso il centro. Non esiste alcuna suddivisione interna dello spazio, se non quella risultante dalla varia disposizione dei corpi. In alcuni punti con andamento serpentino si snoda il corteo degli offerenti, rappresentati di faccia, di profilo, di tre quarti o di schiena e sorpresi, a volte, a colloquiare fra loro. In altri, otticamente in secondo piano, ma in realtà in alto, quasi a creare una pausa, compaiono le figure dei sogdiani o dei turchi, raffigurati seduti in doppia fila, quella inferiore di schiena, l'altra di fronte, in una sorta di visione prospettica a 'volo d'uccello'.

L'interesse per la spazialità e il movimento è evidente in più punti. Si pensi per es. alle figure di cavalieri della c.d. scena di caccia (parete nord), in cui si fa uso più volte di immagini in atteggiamenti fortemente dinamici (per es. uno dei cavalli è raffigurato con il corpo totalmente disteso, nello schema ben noto come 'galoppo volante') e si ricorre a riduzioni di proporzioni per indicare il 'lontano'. Soluzioni tutte, quelle indicate, che rivelano capacità e abilità espressiva. Straordinaria è anche la cura minuziosa e attenta del particolare, evidente non solo nell'attenzione con cui vengono raffigurati anche i dettagli dei tessuti, ma anche nella totale mancanza di ripetitività dei vari volti, individualizzati al punto che si può parlare di veri e propri ritratti, capaci di cogliere anche gli elementi emozionali. Tutto rivela una scuola d'arte sensibile ed esperta, tale da far realmente considerare A. uno dei centri, se non addirittura il centro della scuola pittorica di Sogdiana, dove furono ideati soggetti e norme stilistiche destinate a durare nel tempo.

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