Abruzzo

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

Abruzzo

M. Andaloro
M. Righetti Tosti-Croce

(lat. Aprutium)

INQUADRAMENTO STORICO-ARTISTICO

di M. Andaloro

Cerniera fra il Mezzogiorno e le regioni centrosettentrionali d'Italia, l'A. matura nel corso del Medioevo una facies artistica caratterizzata dall'elaborazione - spesso vivace e talora originale - di spunti, apporti e scambi con altre aree, specie limitrofe, secondo un asse che privilegia la direzione S-N piuttosto che O-E.

L'estensione e i confini della regione attuale coincidono, tranne modeste varianti, con quelli assunti verso la metà del sec. 12°, all'epoca dell'annessione al regno normanno di Sicilia. In concomitanza, all'antico nome di Paese dei Marsi si sostituiva il toponimo che ancora la designa.

Precedentemente, il profilo storico-amministrativo-territoriale appare segnato da situazioni piuttosto frastagliate. Se poi si assume come quadro di riferimento la configurazione dell'A. attuale, esso appare all'interno mutevole e diversificato, specie fra parte occidentale e orientale. Tale diversificazione, perdurante fino al sec. 10°, affonda le proprie radici nell'assetto territoriale-amministrativo di epoca romana. Nella divisione augustea, infatti, l'A. è parte della IV Regione (Sabina-Samnium); l'area fra il Tronto e il Tavo, abitata dai Pretuzii, donde il nome A., rientra invece nella V Regione (Picenum); dopo la riforma di Diocleziano, l'A. coincide con la provincia Valeria, che comprendeva pure lembi della Sabina e del Latium Vetus, mentre la fascia costiera risulta ripartita fra il Piceno a N del fiume Pescara e il Sannio a S. Al tempo di Ariolfo II (fine del sec. 6°), l'A. venne annesso al ducato di Spoleto, a esclusione dell'area fra il Pescara e il Trigno che invece gravitò poi sul ducato di Benevento fino all'801 - quando con Pipino si unì al ducato di Spoleto - e del teramano appartenente alla marca di Camerino.

Nell'843 si distaccò da Spoleto, dando vita alla contea dei Marsi, articolata in sette gastaldati (Rieti, Amiterno, Forcona, Marsica, Valva, Penne, Chieti), trasformati nel tempo in comitati e ben presto in comitati ereditari. A Ugo di Provenza nel 926 non restò che sancire la spartizione del Paese dei Marsi in due domini autonomi retti da due conti: Berardo, che ottenne i comitati di Amiterno, Forcona, Marsica, Valva; e Attone, signore della parte orientale comprendente Penne, Chieti e successivamente Teramo.

Con la spartizione dei comitati fra i vari discendenti, il territorio si frantumò in unità sempre più piccole. Di conseguenza fu destinato a indebolirsi e a divenire oggetto delle mire espansionistiche dei Normanni di Capua e di Puglia.

Nel 1076 Roberto di Loritello conquistò il comitato teatino; il suo capitano Ugo Malmozzetto si impossessò del comitato di Penne e di gran parte del comitato di Valva; nel secolo successivo Ruggero II riuscì ad annettere man mano tutti gli altri territori al suo regno.

Con il concordato di Benevento (1156) il papa Alessandro IV rinnovò a Guglielmo I l'investitura del regno di Sicilia con l'aggiunta del Paese dei Marsi, designato da ora in poi in finibus Abrutii. Il Paese dei Marsi, l'A., che era stato l'estremo baluardo meridionale dell'impero, diventò così, con i Normanni, l'estremo confine settentrionale del regno di Sicilia. Entrato nell'orbita della storia politica del Mezzogiorno, ne seguì le sorti fino all'unità d'Italia, passando - per l'arco cronologico che qui interessa - dalla dominazione normanna, alla sveva (1194), all'angioina (1266).

Nei riguardi della dimensione territoriale, elementi dinamici ma di grande stabilità sull'arco della lunga durata sono da una parte la maglia delle diocesi, dall'altra la catena delle fondazioni monastiche.In base agli atti delle sinodi, delle lettere dei papi e dei Dialoghi di Gregorio Magno possono ritenersi quindici circa le sedi vescovili impiantate nei secc. 5° e 6° (Lanzoni, 1927; Monachino, 1968); il numero diminuì dopo le prime invasioni longobarde (571-574) apportatrici, oltre che di distruzioni, anche di sconvolgimenti radicali nella vita e nell'organizzazione ecclesiastica. Alcune diocesi scomparvero definitivamente (Amiterno, Pitino, Ofena, Sulmona, Alfedena), altre scomparvero per riapparire in altra sede, per es. Aveia si trasferì a Forcona (Monachino, 1968).

Nel corso dell'Alto Medioevo, si verificò una saldatura perfetta fra assetto diocesano e assetto amministrativo. Ai sette gastaldati della contea dei Marsi corrispondono, infatti, altrettante diocesi, coincidenti nell'estensione e nei confini. In seguito mentre il rapporto fra ordinamento politico-amministrativo e territorio fu soggetto a modifiche e variazioni, la maglia delle diocesi rimase immutata fin oltre l'annessione dell'A. al regno di Sicilia (Floridi, 1976). Strutturato in modo meno vincolante, ma incidente in forma forse più capillare e profonda nelle realtà anche socio-economiche della regione, il fenomeno monastico benedettino, innestatosi in origine sulle esperienze di vita cenobitica (Cecchelli Trinci, 1982), può ben dirsi che ne costituisca per certi versi la spina dorsale.

La rete delle fondazioni è fitta; di vario genere le dinamiche generate attorno all'Ordine benedettino. Basti pensare, per es., da una parte al fatto che alcuni monasteri sono titolari di vastissimi possedimenti dentro e fuori l'A. (S. Clemente a Casauria), dall'altra che non sono poche le dipendenze e i possedimenti abruzzesi da parte dei potenti monasteri di Farfa, Montecassino, San Vincenzo al Volturno. Tutto ciò, attivando circolazioni di uomini, idee, forze, non fu alieno, anzi fu trainante per ciò che attiene alle cose dell'arte tramite soprattutto i canali della committenza e del peso della trasmissione iconografica da precisi prototipi (Andaloro, 1990). Fra le eredità più durature trasmesse dal mondo romano al Medioevo, insieme all'impronta data all'assetto territoriale, deve annoverarsi la perdurante vitalità della rete viaria così organizzata: lungo la fascia costiera, la Traiana; all'interno, la Claudia nuova, che scendeva dalla Salaria per continuare nella Numicia, assi ambedue lungo la direzione N-S; mentre da O a E si muovono la Claudia-Valeria - continuazione della Tiburtina fino all'Adriatico - e più a N la Cecilia, collegante Amiterno, Teramo e il mare (Floridi, 1976; Paratore, 1976). Lo sviluppo delle strade secondarie, da ritenere assai modesto data anche la limitata frequenza dei centri urbani di rilievo (Floridi, 1976) è poi dubbio se sia un tracciato risalente all'Alto Medioevo o alla Tarda Antichità (Paratore, 1976).

Con gli Angioini e il passaggio della capitale del regno da Palermo a Napoli, l'A. diventa passaggio obbligato tra Napoli e il Nord d'Italia, tanto che si definisce una "via degli Abruzzi" (Gasparinetti, 1964-1966), ricalcante le principali direttrici abruzzesi dell'età romana (Paratore, 1976). Da S si sale lungo la Numicia sino a Corfinio, per deviare o lungo la Claudia-Valeria fino al mare e proseguire lungo la Traiana o continuare per la Claudia nuova verso l'Alto Lazio, l'Umbria, la Toscana, Firenze.

A eccezione forse della chiesa di S. Maria a Vico presso Sant'Omero, della quale permangono le fasi costruttive per alcuni studiosi risalenti ad anni prossimi al Mille (Pani Ermini, 1980), datate da altri al sec. 12° (Matthiae, 1963), prima del sec. 11° inoltrato l'assenza di organismi architettonici è totale. Una volta che gli scavi in corso saranno compiuti, potranno mitigarla la migliore conoscenza di S. Maria Aprutiensis, l'antica cattedrale di Teramo, e del complesso (chiesa e monastero) di S. Stefano in Rivomare presso Casalbordino (Lehmann-Brockhaus, 1983), dove ricerche recenti hanno consentito il ritrovamento di interessanti mosaici pavimentali (Santa Maria Scrinari, 1978). Non mancano, però, testimonianze su edifici eretti in epoca altomedievale, specie in epoca tardolongobarda e franca.

Fra le più significative, la 'longobarda' S. Pietro ad Oratorium "a rege Desiderio fundata", come si legge sull'iscrizione dell'architrave della nuova fabbrica datata all'anno 1100; la 'carolingia' S. Clemente a Casauria voluta da Ludovico II nell'871; S. Angelo in Barreggio a Villetta Barrea, dipendente da Montecassino alla quale era stata donata dallo stesso Ludovico II (Lehmann-Brockhaus, 1983; Bloch, 1986), e molte altre: S. Maria di Propezzano a Campovalano (Lehmann-Brockhaus, 1983; Aceto, 1986b); S. Michele Arcangelo a Città Sant'Angelo, Santo Spirito a Maiella, S. Agata a Chieti.

Perciò allo stato attuale, può dirsi che il filo della continuità fra Tardo Antico e maturo Medioevo è tuttora assicurato dalla presenza di numerose sculture; e che in senso più generale la massa di informazioni desumibili dalle testimonianze monumentali e visive in A. è maggiore e destinata a infoltirsi rispetto al quadro offerto dalle fonti di altra natura.

In proposito appare significativo l'apporto delle testimonianze archeologiche al problema della diffusione del cristianesimo. Se in base alle sole fonti la presenza delle comunità cristiane non può farsi risalire anteriormente al sec. 5°, in base alle evidenze offerte dai cimiteri, dalle catacombe (Monachino, 1968) e dalle iscrizioni (Silvagni, 1933), essa può invece fissarsi già nell'ambito del 4° secolo.

Tralasciando i cimiteri dubbi (Forcona, Priferno, S. Clemente in Fratta), si ricordano le catacombe di S. Vittorino ad Amiterno (de Angelis D'Ossat, 1950), di S. Giusta a Bazzano e infine di Castelvecchio Subequo.

La catacomba di Castelvecchio, scoperta casualmente nel 1943, per il fatto che la sua parabola si conclude all'interno del sec. 4° (Ferrua, 1950) finisce per rappresentare la più antica testimonianza certa del cristianesimo in A. (Monachino, 1968).

Non depone a favore, se non di una fattura locale assai improbabile, quantomeno di un'importazione precoce da Roma, la presenza di due sarcofagi, l'uno usato come altare in S. Clemente a Casauria, l'altro affisso alla parete della navatella sinistra nella chiesa di S. Pietro a Campovalano, ambedue non più tardi della prima metà del sec. 4° (Wilpert, 1929-1936; Pani Ermini, 1976). Il primo infatti fu utilizzato per accogliere le reliquie di S. Clemente, concesse nell'872 da Adriano II a Ludovico II oppure (Falla Castelfranchi, 1990) al tempo dell'abate Leonate (1151-1182); il secondo, di Aurelio Andronico marmorum negotiator, è assai improbabile possa essere giunto in epoca anteriore alla fondazione altomedievale della chiesa di S. Pietro.

Sono databili al sec. 5° le sculture che oggi compongono il monumento eretto sulla tomba del maestro Vittorino nella catacomba di Amiterno, e sono fra le prime testimonianze figurative addebitabili all'operosità di una bottega locale fortemente influenzata dalla produzione romana (Pani Ermini, 1975; 1976).

Sarcofagi e fronti di sarcofagi più tardi - in S. Pietro ad Alba Fucente (sec. 6°), del vescovo Albino già nella cattedrale di Forcona (sec. 7°), i frammenti di una lastra a Civita di Bagno, a poca distanza dalla cattedrale forconese (secc. 7° e 8°; Pani Ermini, 1976) - attestano il diramarsi di una produzione plastica di radice locale ma informata a livello di scelte tipologiche, iconografiche, formali sì da immetterla in una circolazione a vasto raggio.

Non diversamente, un esemplare di tutt'altro genere - il sarcofago a cassa di tipo antropomorfo - rinvenuto, con altri, negli scavi condotti fra Ottocento e Novecento nel piazzale antistante la cattedrale di Valva nell'immediato suburbio di Corfinio, con il suo dispositivo 'a loggette', condivide la morfologia caratterizzante un gruppo di sepolture barbariche diffuse in Italia, nel bacino del Mediterraneo, lungo l'arco alpino (Giuntella, 1989).

Un raro esempio di manufatto 'laico' è l'elmo ostrogoto a fasce del tipo Bandenhelm, ritrovato alla fine del sec. 19° nel 'ripostiglio' di Montepagano e ora a Berlino (Mus. für Deutsche Geschichte). Di bronzo dorato e ferro, decorato nel frontale e nei sei ovali con una serie di rappresentazioni figurate e ricorrenti elementi dell'imagerie cristiana, l'elmo, che si lascia facilmente immaginare di proprietà di qualche personaggio di alto lignaggio, è opera di una bottega romano-barbarica fra la fine del sec. 5° e l'inizio del 6° (Franchi dell'Orto, 1986).

Perduti gli edifici precedenti il Mille, sopravvivono invece non pochi nuclei di sculture d'epoca altomedievale, fra i quali numerosi quelli databili all'8° e al 9° secolo.Sono frammenti collegabili ora alla decorazione architettonica, ora e più massicciamente alla suppellettile liturgica; il repertorio decorativo, tranne rare eccezioni (Mattiocco, 1968), è come di consueto aniconico.

All'interno del primo gruppo costituisce un unicum lo stipite monolitico del portale dell'antica cattedrale di Forcona, scandito in tre pannelli con rilievi raffiguranti un grifo, un leone, forse una leonessa, dall'intrigante ma criptica formulazione plastica, non facilmente databile (Pani Ermini, 1980). Non mancano transenne di finestre: dalla chiesa di S. Pietro a Campovalano (oggi all'Aquila, Mus. Naz. d'Abruzzo), accostabili ad analoghi prodotti romani del sec. 9°, ma traforate secondo un disegno e un gusto dei pieni e dei vuoti diverso e meno convenzionale.

Reimpiegate in parte negli stessi edifici d'origine - dove sono visibili, incastonate nelle murature posteriori o variamente riutilizzate per es. nei portali, o dove giacciono erratiche - in parte raccolte all'Aquila nel Mus. Naz. d'Abruzzo, le ben più numerose sculture provenienti dagli arredi liturgici sono riconoscibili talora come elementi di recinzioni presbiteriali - S. Giustino a Paganica, S. Maria Aprutiensis a Teramo, S. Pietro ad Alba Fucente, S. Pietro ad Oratorium (Decorazione scultoreo-architettonica, 1972; Pani Ermini, 1976), S. Giovanni in Venere a Fossacesia (Episcopo, 1980), S. Massimo a Penne (D'Emilio Ferroni, 1985), S. Maria di Propezzano (Aceto, 1986b) -; talora quali resti di ciborio (S. Giustino a Paganica, San Vittorino); talora quali davanzali di ambone (collegiata di S. Michele a Città Sant'Angelo, San Vittorino); talora quali fronti di altare come probabilmente quella in S. Angelo a Vittorino, che reca la rara firma del suo artefice Ursu (Pani Ermini, 1976). Una volta che il materiale noto, poco noto e inedito, come il nucleo di sculture altomedievali nella cattedrale valvense (Giuntella, 1989), sarà confluito nell'annunziato corpus della scultura altomedievale delle diocesi d'A., insieme a una capillare e più completa conoscenza del quadro complessivo sarà consentito chiarire altri punti quali per es. l'individuazione o meno di aree omogenee, appurare le dinamiche dell'accoglienza dei motivi e delle elaborazioni stilistiche da altri centri, da Spoleto (Pani Ermini, 1976) all'area lombarda (Aceto, 1986a; 1986b).

Architettura. - L'affiorare di quella parabola artistica che con ritmi diversi ma senza sostanziali eclissi si dispiegò nella regione per tutto il Medioevo ha il suo atto di nascita nell'avanzato 11° secolo. I suoi tratti iniziali si identificano con un risveglio intenso e vivace dell'attività costruttiva, di stampo religioso, del tutto privo di segni civili, in sintonia con il volto dell'A., caratterizzato da una flebile realtà urbana. In ombra fino all'avanzato Duecento quando ebbe modo di emergere, non senza il supporto di alcune punte nuove e forti, quali la fondazione sveva della città dell'Aquila e l'elezione in anni immediatamente precedenti di Sulmona a capitale dello Iustitieratus Aprutii. L'inizio di quella parabola coincide con la costruzione, che può dirsi coeva, di tre complessi destinati a segnare, talora con l'auctoritas di un modello, il percorso della futura architettura. Essi sono il complesso della cattedrale valvense di S. Pelino a Corfinio, e in particolare l'oratorio di S. Alessandro del 1075 (Fucinese, 1968; 1969), la coeva cattedrale di S. Panfilo a Sulmona (Gavini, 1927-1928; Carbonara, 1979) e infine la chiesa monastica di S. Liberatore alla Maiella del 1080 ca. (Matthiae, 1963; Carbonara, 1979). Nel giro di alcuni decenni segue a ruota il compimento di una nutrita serie di edifici, fondati ex novo o su altri preesistenti: S. Maria di Bominaco (post 1093-1130; Gavini, 1927-1928); S. Pietro ad Oratorium presso Capestrano del 1100 (Gavini, 1927-1928); S. Clemente al Vomano del 1108 (Aceto, 1986a); S. Maria in Valle Porclaneta presso Rosciolo della fine del sec. 11° (Gavini, 1927-1928); S. Pietro in Albe del 1123-1126 (Delogu, 1969).

Alla base dell'esplosione di tanta vitalità costruttiva, dietro la presenza di così numerosi cantieri - prescindendo dai singoli committenti, dei quali spesso si conoscono i connotati (il vescovo Trasmondo, che rivestì pure la carica di abate di S. Clemente a Casauria, fu il costruttore delle cattedrali di Sulmona e Valva; il preposto Adenulfo per S. Liberatore alla Maiella; probabilmente Oderisio II, abate di Montecassino, per S. Pietro in Albe) - s'intravede un nodo di ben più vaste e complesse articolazioni. Il tratto che con sfumature diverse appare ugualmente incisivo per la vicina Campania va riconoscendosi principalmente nell'impulso provocato dalla ridefinizione e dall'ampliamento dell'assetto diocesano e delle sedi monastiche, non senza il concorso della nobiltà normanna in cerca di legittimazione e consenso (Lehmann-Brockhaus, 1983; Aceto, 1986a; 1986b).

Abati, vescovi e preposti, con l'amalgama socio-politico conferito al Meridione dai Normanni, furono indotti dunque a sollecitare e a portare a compimento la massiccia campagna di riedificazione della quale s'è detto, proprio in quanto si trattava di convertire in testimonianze visibili il disegno volto a ristrutturare il territorio in maglie nuove e più fitte.

L'evento che sul piano dei fatti artistici assurge a un'importanza capitale è la fondazione desideriana dell'abbazia di Montecassino, il portato più consapevole nell'ambito della strategia dei segni architettonici e figurativi della riforma gregoriana (Kitzinger, 1972; Gandolfo, 1989).

In ambito abruzzese, poi, fra i due versanti architettonici promossi dalla sfera ecclesiastica e da quella monastica, domina quest'ultima, sostenuta com'è da una parte da una ricchezza di insediamenti benedettini di lunga data, dall'altra dal fatto che, nel corso dei secc. 11° e 12°, i vincoli con la Montecassino desideriana e post-desideriana si infittirono sì da giustificare una coloritura di certi esiti artistici dell'A. che a buon diritto può dirsi cassinese. In questa prospettiva - che necessariamente coinvolge, al di là della prassi architettonica, altri generi artistici e piani interpretativi - occorre ricordare la rara iconostasi di S. Maria in Valle Porclaneta a Rosciolo. Monumento sicuramente composito, ma il cui architrave ligneo è da riconoscere come il residuo di quello originario, affine all'iconostasi dell'abbazia desideriana (Hahnloser, 1965; Bloch, 1986; Andaloro, in corso di stampa a). Vanno rammentate, poi, le ante lignee di S. Pietro in Albe, in cui le scelte iconografiche sono piegate a sancire visivamente un'operazione di conversione della proprietà della chiesa dalla gerarchia ecclesiastica all'Ordine benedettino (Andaloro, in corso di stampa a; b) e infine le ante lignee di S. Maria in Cellis (Andaloro, in corso di stampa b) dove forse si ripropongono quelle impaginazioni approntate nelle raffigurazioni dei cicli dell'atrio cassinese.

Trait d'union nella trasmissione degli apporti cassinesi nella realtà dell'A. è una serie di circostanze raccolte principalmente attorno allo scambio di personalità d'origine abruzzese e impegnate nella vita dell'abbazia di Montecassino: Leone Marsicano, Giovanni Marsicano, Giovanni scriptor (Newton, 1979; Bloch, 1986; Andaloro, 1990), Oderisio II.

Il bandolo di tutta questa matassa risiede nella costruzione di S. Liberatore alla Maiella, la chiesa che un passo del Chronicon di Pietro Diacono relativo all'anno 1080 riferisce rinnovata per opera del preposto Adenulfo iussu Desiderii (Fobelli, 1990). Dopo i non felici restauri degli anni Sessanta (Pace, 1971), la fabbrica ha recuperato un aspetto prossimo all'originario. La chiesa è una struttura a tre navate, senza transetto, con copertura lignea a capriate. All'esterno, sulla destra, ma più avanzato rispetto al filo della facciata, si erge il campanile mentre è scomparso il portico iniziato, se non compiuto, in epoca medievale (Pace, 1971; Fobelli, 1990).

Distinguere nell'architettura di S. Liberatore gli etimi di varia estrazione culturale che l'attraversano (quelli campani a proposito dell'impianto basilicale; i lombardi nell'impaginazione delle membrature e delle superfici all'esterno; la radice bizantina, rielaborata in chiave locale nei rilievi degli stipiti e degli archivolti dei tre portali; la matrice classica nella c.d. cornice benedettina, ottenuta estrapolando dal codice antico i singoli elementi come dentelli, ovoli, fuseruole, tortiglioni) non vuol dire, però, inficiare il giudizio sull'originalità degli esiti che le compete.

Aderente ai principi di una regia sapiente e lucida, che procede organizzando l'interno per aggregazione di spazi prismatici, cubici e semisferici di tersa intelaiatura, esaltati dall'uso del pilastro (Carbonara, 1979), invece che della più plastica e materica colonna, chiusi entro una griglia metrica di perspicua prensilità visiva - la lunghezza dell'edificio è pari al doppio della larghezza e il medesimo rapporto è riproposto fra l'ampiezza della navata centrale e le laterali (Matthiae, 1963) - l'invaso spaziale di S. Liberatore raggiunge, infatti, la qualità di un pensiero architettonico singolare seppur ricco di addentellati sul piano della trafila paradigmatica dei singoli elementi, tra l'altro profondamente assimilati. Cosicché, pur con tangenze significative, S. Liberatore è difforme anche nei riguardi del modello desideriano - specie per l'uso del pilastro che invita ad accostarlo a soluzioni campane alternative come la chiesa di S. Maria della Libera ad Aquino e S. Domenico a Isola Liri - ma attivando probabilmente una radice ottoniana non di seconda mano (Carbonara, 1979).

Quando si passa a considerare le costruzioni che ripropongono l'impianto della chiesa di S. Liberatore - da S. Pietro ad Oratorium a S. Clemente al Vomano - è proprio la purezza stereometrica dei volumi e delle masse a risultare appannata e quasi spenta. In esse, invece, gli elementi del repertorio della plastica architettonica e la sua modulazione secondo una visione bidimensionale e disegnativa, appaiono ripresi e imitati con fedeltà maggiore. La compatta affinità di queste filiazioni, le quali restano appannaggio delle fondazioni benedettine - S. Maria di Bominaco, S. Pietro ad Oratorium, S. Clemente al Vomano - senza che se ne attui mai il travaso in quelle vescovili (Fobelli, 1990), induce ragionevolmente a ipotizzare che la loro diffusione sia il frutto dell'operosità di artefici itineranti, con ogni probabilità monaci benedettini (Aceto, 1986a; 1986b).È stato affermato che il tipo di architettura elaborata in A. appartenga all'orizzonte artistico dell'Italia meridionale (Lehmann-Brockhaus, 1983). Ciò senza disconoscere gli apporti settentrionali lombardi - in parte riconoscibili nella planimetria della cripta del duomo di Sulmona, nell'impianto architettonico del S. Pelino, caratterizzato dall'alto tiburio e dal raro transetto absidato (Bertaux, 1903) - che successivamente incidono nelle strutture e negli alzati delle chiese di Moscufo, Pianella, Civitaquana, tutte del sec. 12° (Toesca, 1927), ma affidando il ruolo di loro cassa di risonanza al Meridione (Lehmann-Brockhaus, 1983).

D'altra parte il Meridione rimane di fatto interlocutore privilegiato. S. Maria di Ronzano a Castel Castagna per il motivo delle absidi celate al di là di una muratura continua, decorata da arcate addossate che procedono anche lungo le pareti del transetto, è debitrice di soluzioni che hanno nell'area pugliese il loro punto di irradiazione dal S. Nicola al duomo di Bari (Bertaux, 1903; Gavini, 1927-1928; Bologna, 1983; Lehmann-Brockhaus, 1983). Sempre alla Puglia rimanda una particolare soluzione di S. Clemente a Casauria attuata nell'ambito dell'intervento promosso dall'abate Leonate fra il 1176 e il 1182. L'atrio antistante il portale sovrastato da una cappella, aperta a sua volta grazie a un loggiato verso la navata centrale, pur rimandando infatti a modelli borgognoni, trova il suo corrispondente nel Santo Sepolcro di Barletta (Bertaux, 1903; Gandolfo, 1988, p. 341). Rimanda invece a modelli campano-siculi, e in particolare al grandioso esempio tardo-normanno di Monreale, la soluzione adottata nelle absidi dell'abbazia di S. Giovanni in Venere (1180-1190), ornate da archi e dischi colorati negli spazi di risulta (Pace, 1980; Bologna, 1983; Fobelli, 1990).Nella configurazione dell'architettura medievale in A. prima che giungano i nuovi fermenti 'cistercensi' si attua, pur con varianti ed esemplificazioni, una proliferazione a catena dai prototipi apparsi fra la fine dell'11° e gli inizi del 12° secolo.Un caso che sfugge è offerto dalla ricostruzione di S. Pietro ad Alba Fucente, sull'area di un tempio pagano, riutilizzando materiale di spoglio. L'esempio - isolato se rapportato a un'ottica regionale - è al contrario perfettamente valutabile all'interno dell'orizzonte metaregionale di radice cassinese, sulla scia del consapevole riuso delle spoglie classiche da parte di Desiderio (Leone Marsicano, Chronicon; Bertaux, 1903; Demus, 1949; Gandolfo, 1988). Diventa, inoltre, una operazione strettamente cassinese se si condivide con Delogu (1969) l'identificazione dell'abas Oderisius, citato nel corso di un'iscrizione custodita nella chiesa, con l'omonimo abate Oderisio II di Montecassino.

Scultura. - Sono molteplici le occasioni, le tipologie, le materie, le modalità tecnico-formali con le quali in A. si manifesta la produzione plastica.

Accanto alle sculture in funzione architettonica, espresse sia in forme decorative aniconiche sia, più tardi, a rilievo e figurate, nel corso del sec. 12° s'impose un nucleo di opere il cui interesse consiste anche nell'essere vestigia di una tipologia di arredi liturgici altrove scomparsi e scarsamente rappresentati. Si vogliono ricordare le rare ante lignee di S. Pietro ad Alba Fucente (1123-1126) e di S. Maria in Cellis a Carsoli (1132), ora ambedue all'Aquila (Mus. Naz. d'Abruzzo), unici esemplari in ambito italiano del gruppo di porte con raffigurazioni iconiche (Andaloro, in corso di stampa a); la non meno rara iconostasi nella chiesa di S. Maria in Valle Porclaneta, risalente nelle parti più antiche - plutei di calcare e trabeazione lignea - alla prima metà del sec. 12° (Bloch, 1986; Andaloro, 1990); il gruppo degli amboni, databili in fitta sequenza tra il 1132 - che è la data sostenuta ragionevolmente a proposito dell'ambone di S. Maria in Cellis da Lehmann-Brockhaus (1983) - e il 1267 (anno dell'ambone di Corcumello), che è gruppo di gran lunga più folto che nelle regioni dell'Italia settentrionale e con esemplari più antichi rispetto al pur precoce nucleo campano. In quest'ottica può essere utile richiamare alla memoria che testimonianze di questo arredo liturgico le fornisce singolarmente anche l'epoca altomedievale con gli esempi di San Vittorino presso Amiterno e della collegiata a Città Sant'Angelo, senza voler suggerire però una linea evoluzionistica interna alla classe (Lehmann-Brockhaus, 1968). Infine, è da aggiungere la serie dei cibori, da quello di S. Pietro ad Oratorium a quello tardo di S. Clemente a Casauria, ricordando, intorno alla metà del secolo, anche la coppia rappresentata dal ciborio di S. Clemente al Vomano e di S. Maria in Valle Porclaneta.

In uno con la rarità, sotto il profilo tipologico e funzionale i manufatti menzionati via via e altri ancora si distinguono per alcune peculiarità derivanti dall'uso di materiali poco comuni o dall'essere oggi poco documentati. In quest'ultima categoria rientrano gli intagli lignei delle ante di Albe e di Carsoli, una volta rivestiti dall'incamottatura di gesso e dipinti (Fogolari, 1903; Andaloro, in corso di stampa a), secondo una prassi che può essere considerata la norma per l'epoca medievale, ma della quale per l'epoca in questione e nell'area italiana non rimangono molti altri esempi. Così non è consueta la materia degli amboni e dei cibori del sodalizio di Ruggiero, Roberto e Nicodemo, materia dura, compatta, rosata, composta di un conglomerato di pietrisco, calce e gesso (Albertini, 1968; Bologna, 1986a).

Sono di bronzo le ante della porta di S. Clemente a Casauria e risalgono con ogni probabilità agli anni dell'abate Ioele (fine del sec. 12°). A decenni di distanza emulano, nell'ordito figurale strutturato sull'immagine-segno dei castelli a indicare i possedimenti dell'abbazia, la porta della chiesa abbaziale di Montecassino nella redazione voluta dall'abate Oderisio II (Bloch, 1986).

Trattando di S. Liberatore alla Maiella e degli altri edifici benedettini a esso collegati, si è avuto modo di accennare alla presenza in essi di una plastica architettonica i cui caratteri sono toccati da un'accentuata aria di famiglia. Dispiegata in massiccia parte su stipiti e archivolti di portali (oltre a S. Liberatore, stipiti e archivolto di S. Pietro ad Oratorium, portale di S. Clemente al Vomano) essa modula con garbo esigui spunti compositivi tratti di preferenza dal campionario vegetale, secondo una visione bidimensionale e un tratto squisitamente disegnativo. Sono ancora un riflesso di questa maniera i rilievi dell'ambone di marmo e i rilievi dei portali - dei quali uno è stato reimpiegato nella chiesa di S. Maria della Vittoria - in S. Maria in Cellis a Carsoli. Riflessi che appaiono ormai fuori tempo a confronto con i coevi intagli delle ante, datate 1132 (Lehmann-Brockhaus, 1983).

Nei rilievi lignei è dato identificare il ciclo cristologico più antico dell'A. (Andaloro, 1984; in corso di stampa b). La sua impaginazione iconografica dipende dal corso delle elaborazioni praticate nella Montecassino desideriana; quanto al piano formale, nonostante lo stato di corrosione dei rilievi, è possibile seguire i tratti di una modulazione plastica di impianto sicuro o ben calibrato.

Meno canoniche e più estrose per invenzione, le raffigurazioni campite nei riquadri delle ante di S. Pietro ad Alba Fucente (1123-1126; Delogu, 1969; Pace, 1978; Lehmann-Brockhaus, 1983; Andaloro, in corso di stampa b) sono scandite molto efficacemente, chiuse in masse semplificate e larghi piani; i rapporti proporzionali fra testa e resto della figura nelle immagini stanti risultano sbilanciati. A queste sono da accostare, per quanto siano connotate da maggiore semplificazione e rozzezza, le parti figurate della trabeazione lignea dell'iconostasi di S. Maria in Valle Porclaneta (Andaloro, 1990).

Avulsa dalla linea che accomuna la serie degli amboni lungo tutto il loro svolgimento (1132-1267; Lehmann-Brockhaus, 1968), l'esperienza singolarissima di Ruggiero, Roberto e Nicodemo pare invece radicata nell'orizzonte artistico del Mezzogiorno. Le loro opere, tutte in territorio abruzzese, sono intense e riconoscibilissime: il ciborio di S. Clemente al Vomano, firmato da Roberto e Ruggiero ed eseguito in anni precedenti il 1150 (Bologna, 1986a) piuttosto che dopo il 1159 (Delogu, 1969; Pace, 1978); l'ambone di S. Maria in Valle Porclaneta del 1150 di Roberto e Nicodemo; il ciborio nella stessa chiesa; l'ambone di S. Maria del Lago a Moscufo del solo Nicodemo, del 1159, e infine l'ambone gemello di Cugnoli del 1166 che si ha ragione di attribuire a Nicodemo (Lehmann-Brockhaus, 1942-1944; Bologna, 1986a).

Legati da vincoli di parentela (Bologna, 1986a), i tre artisti formano un sodalizio compatto attorno al fuoco della loro cultura improntata in modo inequivocabile alla temperie islamica espressa da elementi di codice - come l'uso dell'arco a ferro di cavallo e la predilezione esclusiva per una materia come lo stucco - ma soprattutto attraverso la resa formale. I loro esiti risultano perciò affini agli intagli lignei di piena fattura islamica (Bertaux, 1903; Scerrato, 1979; Bologna, 1986a). La lettura attenta delle opere porta a identificare in Ruggiero il patriarca del sodalizio, e non solo perché padre di Roberto. In quelle parti che nel ciborio di S. Clemente al Vomano possono essergli attribuite, appare legato a uno stadio inventivo fervido, arcaico e in sintonia con le venature islamizzanti delle ante lignee di Carsoli, dove ricorre lo stesso motivo della galleria ad archetti allungati e a ferro di cavallo presente nell'arredo di S. Clemente (Bologna, 1986a). Vale la pena indicare un altro precedente nelle ante delle porte di S. Pietro in Albe, dove accanto alla formulazione pienamente romanico-occidentale delle figure (simboli degli evangelisti, s. Benedetto e monaci benedettini) ricorre una pura citazione islamica nell'arco accentuatamente a ferro di cavallo, oltre che nel gusto degli ornati (Andaloro, in corso di stampa a; b). A conclusione del problema dell'incidenza di questo episodio così singolare, si può affermare che, mentre si riscontrano innesti islamici seppure parziali e timidi in opere 'miste', anteriori alle opere sicure del sodalizio, più compatte e nitide, non è dato cogliere alcun'eco successiva alla loro produzione. Quanto alle scelte di campo inerenti alla cultura di Ruggiero, Roberto e Nicodemo, indizi di qualsivoglia natura, interni alle opere, legati al piano iconografico, e persino di natura onomastica (Lehmann-Brockhaus, 1968; Bologna, 1986a; 1986b) portano univocamente a riconoscerle nel Meridione. Dal punto di vista politico-culturale esso si configura limpidamente nella nuova situazione espressa dal regno normanno di re Ruggero; nel senso artistico il vasto orizzonte di esperienze islamiche (Bologna, 1986a), una volta riconosciute passanti prevalentemente per il tramite della Puglia o della Campania, sembra convergere convincentemente verso il crogiolo della Sicilia arabo-normanna. Assurge a cartina di tornasole di questa traccia siciliana, anzi palermitana, il raro e raffinatissimo altare di S. Clemente al Vomano la cui fronte ha il campo decorato da un traforo a bassissimo rilievo di marmo cipollino contro il fondo di cocciopesto rosso. Il tutto corre sul filo di una straordinaria eleganza; e assai seducente appare il confronto con le fibbie del manto di Ruggero II del 1133-1134 (Bologna, 1986b).

Paradossalmente, quindi, le opere della bottega itinerante di Ruggiero, Roberto e Nicodemo, che sono un episodio di punta della cultura islamizzante in ambito mediterraneo, maturano invero nella regione geograficamente più lontana, laddove, tra l'altro, colpisce che l'architettura permeata di esperienze maturate nel Mezzogiorno d'Italia eluda proprio quelle di matrice islamica (Lehmann-Brockhaus, 1983).Quando intorno al 1180 la produzione degli amboni raggiunge in A. il suo apice - con gli esemplari di S. Maria a Bominaco, della cattedrale valvense e di S. Clemente a Casauria - un nuovo capitolo si aggiunge alla storia dell'ornamento: "un ornamento che nasce sotto il segno del dialogo con l'antichità" (Lehmann-Brockhaus, 1968). Nelle opere dei secc. 12° e 13° tutto ciò ebbe modo di svilupparsi secondo una sensibilità inconsueta altrove. Appare esemplare in quest'ottica la decorazione del portale principale della cattedrale di S. Pelino a Corfinio, gemmata dal frammento classico murato nell'attiguo oratorio di S. Alessandro. Per Lehmann-Brockhaus (1983) quest'attitudine a confrontarsi con l'antico germogliò direttamente dal confronto, condotto senza mediazione alcuna, con i monumenti classici. Disposte con intelligente asimmetria, conferendo qualità e intensità ai vuoti, giocate sulla variatio, le forme decorative - si pensi alle grandi superbe rose degli amboni prima citati - conquistano una consapevolezza di immagine che non è subordinata, ma parallela, rispetto alle raffigurazioni iconiche (Lehmann-Brockhaus, 1968). D'altra parte, l'immissione della scultura architettonica abruzzese nel giro più ampio delle esperienze crociate (Buschhausen, 1978) sembra trovare sempre più clamorosa conferma. Il portale di S. Salvatore di Paterno, oggi nella chiesa di S. Maria del Carmine di Celano; il c.d. 'portale delle donne', ovvero la porta occidentale dei Ss. Rufino e Cesidio a Trasacco, e le parti reimpiegate nella stessa chiesa, restituiti all'inizio della seconda metà del sec. 12°, offrono il confronto più convincente per situare l'architrave orientale del doppio portale dei Crociati nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme (Kühnel, 1987). Tutto ciò è ancora visibile nel rilievo con il simbolo di s. Luca del maestro Petrus Amabilis, ora a New York (Metropolitan Mus. of Art) che fa coppia con l'altro raffigurante l'angelo di s. Matteo, conservato all'Aquila, parti l'uno e l'altro dell'ambone già in S. Maria della Consolazione a San Vittorino (Castelnuovo Tedesco, 1985).

Episodio di grande qualità e avulso dal quadro della plastica abruzzese sono i rilievi disposti in quattro riquadri su due registri lungo il portale occidentale della chiesa di S. Giovanni in Venere. Essi, che risalgono al nucleo dei lavori promossi dall'abbaziato di Oderisio e narrano l'infanzia e la prima maturità di Giovanni Battista, attestano un insolito quanto innegabile legame con la formulazione stilistica espressa da Niccolò e Guglielmo nelle lastre da loro scolpite per la facciata di S. Zeno a Verona (1140 ca.; Fobelli, 1990), mentre alla Puglia e in particolare a uno dei cantieri della Capitanata è da ricondurre la formazione di Alessandro, impegnato, insieme alla sua équipe, nella plastica dei portali settentrionale e meridionale della stessa fabbrica in anni che si identificano con quelli dell'abbaziato di Odone (1204-1225).

Nel corso del Duecento fa la sua apparizione la statuaria lignea a tutto tondo, genere che godette di particolare fortuna in area abruzzese e che nell'ambito della prima metà del Trecento raggiunse l'apice. Aprono la serie degli esempi di portata non locale la Madonna con Bambino di Castelli, di straordinario impatto e freschezza nella resa dei volti e delle acconciature, quanto toccata da un 'nodo' di cultura aggiornata sulle grandi esperienze europee (Bologna, 1983), e il prezioso Cristo deposto di Penne, della metà del secolo, che la sensibile e sdutta qualità della sua plastica induce a collegare agli esempi romani dipendenti dal grande prototipo della Deposizione di Tivoli (Andaloro, 1987).

La prima opera certamente datata (1262) è la Madonna con Bambino in trono proveniente da Bugnara, ora al Mus. Naz. d'Abruzzo all'Aquila, il cui orizzonte è comune ad altri esemplari dell'arte umbro-toscana, dalla Madonna di S. Antimo a Montalcino a quella di Poggioprimocase presso Cascia (Bagnoli, 1987).

La tendenza all'assimilazione più profonda di un giro di esperienze extraregionali appare fra Duecento e prima metà del Trecento ravvivata da una serie di opere assai note: il gruppo di S. Maria della Vittoria a Scurcola Marsicana, la statua di S. Giusta nell'omonima chiesa a Bazzano, le Madonne di S. Silvestro e di S. Maria già a Fossa, S. Bartolomeo, S. Balbina, S. Caterina, collocate nel Mus. Naz. d'Abruzzo all'Aquila (Carli, 1941), S. Michele Arcangelo nella collegiata di Città Sant'Angelo (Andaloro, in corso di stampa c). In queste statue con varietà e sottigliezza di modulazioni ricorre una linea gotica pervasa da un timbro squisitamente francese-angioino. Insieme al riconoscimento della specifica estrazione culturale e stilistica, occorre inoltre segnalare che per via della definizione delle loro superfici in termini propriamente pittorici esse assurgono fra gli esemplari di scultura dipinta maggiormente godibili. Il dialogo continuo fra le due dimensioni pittorica e plastica non viene mai a essere così serrato come in quelle 'macchine' plastico-pittoriche per eccellenza che sono gli organismi già in S. Maria a Fossa - del quale si è già menzionato il contestuale gruppo ligneo - e l'altro di S. Caterina, composto dalla statua della santa e dagli sportelli che illustrano le storie della sua vita.

Per successive conversioni passanti da Siena all'Umbria (Previtali, 1965), si è giunti a riconoscere la personalità del Maestro della c.d. S. Caterina Gualino, lungo un percorso che parte dal teramano per estendersi nel territorio coincidente in parte con l'area spoletino-aquilana occupata da maestri, scultori e pittori, quali il Maestro di Fossa e il Maestro della S. Caterina (Previtali, 1984; Andaloro, in corso di stampa c).

Pittura. - Poiché i dipinti murali di S. Pietro ad Oratorium appartengono alla stessa campagna che comprende la figura campita nella lunetta, a sua volta solidale con l'iscrizione che data l'edificio (Andaloro, 1990), essi non sono dell'avanzato sec. 12° (Pace, 1978) ma, come ritennero Bertaux (1903) e Matthiae (1969), dell'anno 1100.

Così il corso della pittura in A. si inaugura con un'opera palesemente cassinese, affiliata - seppure con vistosi effetti riduttivi nell'impianto compositivo e nello statuto cromatico - a quella cassa di risonanza del mondo desideriano che fu l'impresa di S. Angelo in Formis.

Parallelamente alla linea cassinese, emergente in A. al di là dei fatti specificatamente pittorici, non mancano i riverberi di un orizzonte dai tratti bizantineggianti ancora una volta di radice campana; si pensi al poco noto affresco del castello di Ocre (Andaloro, 1990) e all'incantevole brano con la Madonna Regina e l'Arcangelo Michele dalla chiesa dei Ss. Crisante e Daria presso Assergi, ora all'Aquila (Mus. Naz. d'Abruzzo); pittura sottile, aristocratica nei ricchi particolari e molto solida compositivamente (Andaloro, 1990). Alla base degli esagitati panneggi come pure nella contrapposizione violenta tra piani e lumeggiature nelle figure di Pianella, databili alla fine del sec. 12°, sembra ancora ragionevole riconoscere codici di lontane ascendenze tardo-comnene.

A considerare per grandi linee la pittura del sec. 12°, essa appare segnata da una pluralità di tendenze; risulta quantitativamente contenuta; priva di cicli narrativi, se si prescinde dagli affreschi di S. Maria di Ronzano presso Castel Castagna, affreschi di non univoca definizione cronologica: 1181 (Bologna, 1983) o 1281 (Pace, 1978). La pittura del sec. 12° è aliena da attardamenti vistosi come da isolamenti culturali spinti. È tuttavia priva di ogni benché minimo denominatore comune, di un qualsiasi segno di parentela figurativa. L'affresco absidale della chiesa di S. Maria di Cartignano presso Bussi, conservato dopo il suo distacco all'Aquila (Mus. Naz. d'Abruzzo), fu dipinto da Armanino da Modena nel 1237. Esso sancisce, più di qualsiasi altro documento pittorico, la situazione passivamente centripeta dell'A. fino alla metà del Duecento.Occorre giungere agli affreschi dell'oratorio di S. Pellegrino a Bominaco (1263) perché inizi una nuova vicenda pittorica, per la quale la varietà dei singoli episodi non significa azzeramento di ogni vincolo di continuità e di memoria.

L'affascinante complesso offre buoni spunti per intercettare le dinamiche connesse al cantiere che vi operò; per seguire le modalità che presiedono all'organizzazione e distribuzione dei soggetti nonché alla stesura del sistema decorativo in rapporto all'invaso spaziale e alle superfici di base; per individuare, attraverso i vari raggruppamenti stilistici, le unità operative del cantiere (Andaloro, 1990).

Il cantiere di S. Pellegrino appare, alla fine, una struttura particolarmente composita, data per aggregazioni di gruppi diversi, ciascuno dei quali, dotato di un bagaglio figurativo assai differenziato, matura degli esiti la cui eterogeneità non si tenta di alleggerire in alcun modo.

A Bominaco convivono l'uno accanto all'altro diversi maestri. I pittori dell'Infanzia di Cristo sono caratterizzati da una cultura arcaica, dediti a impaginazioni di tipo tradizionale con residui di elaborazioni iconografiche di ascendenza cassinese (Andaloro, in corso di stampa b); i pittori della Passione sono propensi all'essenzialità, mettono in scena una gestualità esasperata e sono fondamentalmente di cultura moderna. Eleganti, aggiornati e colti appaiono i maestri del Calendario (Matthiae, 1969). Convivono tratti, citazioni, fermenti diversi: coloriture umbre e punte di cultura sveva. In questo senso Bominaco è un crogiuolo molto vivace e magmatico. L'affresco dei Tre vivi e tre morti nella cattedrale di Atri, che a tutt'oggi rappresenta la pittura monumentale più consapevole dell'orizzonte figurativo manfrediano non solo nella regione, appare tangente ad alcuni affreschi dell'oratorio sia nella scelta di alcuni motivi decorativi, sia nella predilezione per un tipo di profilo che a Bominaco appare legato alla figura di Giuda. Le pitture dell'oratorio diventano, per lo svolgimento della pittura nei decenni successivi, una riserva, un serbatoio. La stessa funzione svolsero, di lì a qualche lustro, gli affreschi di S. Maria ad Cryptas a Fossa (fra il 1263 e il 1283) nei riguardi di altre pitture come i Patriarchi in S. Maria di Ronzano e i dipinti nella chiesa di S. Tommaso a Caramanico.

Proprio alla fine del secolo, tuttavia, la compattezza della linea appena delineata, che a buon diritto può finalmente riconoscersi come abruzzese, si sfalda. Nel coro di S. Francesco a Castelvecchio Subequo lavorarono intorno al 1290-1295 due gruppi di pittori, ambedue dal punto di vista stilistico collegati con l'orizzonte campano. In particolare, il Maestro della Dormitio Virginis suggerisce un legame di continuità con il Maestro del Calendario nell'oratorio di S. Pellegrino oltre che di corrispondenza totale con i modi stilistici della tavola di Montereale, pure essa campana. Finora, invece, rimane senza confronti specifici con opere presenti in terra abruzzese il Maestro della Crocifissione. Tuttavia, i pittori 'campani' risultano al servizio di un programma iconografico, di un piano generale, di un'impaginazione decorativa in strettissimo contatto con l'orizzonte figurativo e culturale gravitante (Andaloro, 1990) attorno alla figura del papa francescano Niccolò IV (1288-1292).

Un'altra isola romana, questa volta in rapporto con le soluzioni espresse dai pittori impegnati a dipingere accanto al Cavallini nella chiesa di S. Cecilia in Trastevere, è riconoscibile nella facies degli affreschi campiti nelle absidi della cripta di S. Giovanni in Venere presso Fossacesia. Intermediario di questo insolito travaso di cultura artistica romana nella zona adriatica dell'A. fu Tommaso di Ocre, abate commendatario dell'abbazia abruzzese e cardinale proprio della basilica romana di S. Cecilia dal 1294, morto nel 1300 (Andaloro, 1984).

Con il nuovo secolo mutano anche in A. le caratteristiche delle strutture artistiche. Nel Duecento la pittura era assurta al ruolo di genere-guida, ruolo che nel secolo precedente era stato dell'architettura e della plastica. Nel Trecento, accanto a un rallentarsi dell'attività edilizia e al rarefarsi delle estese campagne pittoriche, si assiste al sorgere della pluralità dei generi artistici declinati secondo una medesima inflessione stilistica. Inoltre si delinea una nuova mappa territoriale a confronto di quanto accade nella sfera dell'arte. Mentre finora asse privilegiato era stata la direzione S-N, che aveva legato l'A. a Montecassino, alla Campania e a tutto il Meridione, con il Trecento si configura un'area omogenea che resistette poi almeno per alcuni decenni nel territorio compreso fra Spoleto e Aquila. Qui nella prima metà del Trecento operano di persona il Maestro della c.d. S. Caterina Gualino e una serie di pittori quali il Maestro del dittico Cini, il Maestro di Fossa, il Maestro del Crocifisso d'argento, il Maestro della S. Caterina. I frammenti affrescati nella chiesa di S. Francesco a Fontecchio con storie di s. Agnese si pongono nel bel mezzo di questa congiuntura, fra i modi del Maestro della S. Caterina Gualino e l'orizzonte del Maestro del dittico Cini (Andaloro, in corso di stampa c).

Ancora una cultura aquilana-spoletina attestano gli affreschi tardo-trecenteschi con storie di s. Francesco nella chiesa di S. Francesco a Castelvecchio Subequo. Due, infatti, sono le tendenze che vi si manifestano: l'una apre verso il Maestro di Beffi, l'altra converge verso il linguaggio diffuso nell'Umbria meridionale e invita ad accostarle alle Storie della Maddalena nella chiesa di S. Domenico a Spoleto (Andaloro, in corso di stampa c).

Appunto la cultura del Maestro di Beffi e/o Maestro di S. Silvestro pervade lo straordinario Messale Romano di Guardiagrele, custodito presso il Seminario Arcivescovile di Chieti: probabile committente Napoleone Orsini, probabile data di esecuzione l'anno 1400 (Andaloro, in corso di stampa c).

Oreficeria. - Al pari della scultura lignea, anche l'oreficeria è un genere che vanta in A. una non comune linea di continuità dalla metà del Duecento al Quattrocento, allorquando si afferma la personalità di Nicola da Guardiagrele la cui prima opera, l'ostensorio di Francavilla a Mare, è da considerare fra gli episodi perfetti del Gotico italiano (Ragghianti, 1946). Dopo inizi modesti, legati a una serie di croci astili in metallo (Mattiocco, 1968; Pace, 1972), Sulmona nel corso del Trecento rafforzò il suo ruolo di centro egemone della regione. Non sono pochi i nomi noti degli artefici, da Barbato a Ciccarello di Francesco, al figlio Masio, al notevole Nicolò Piczulo, che firma e data nel 1403 la bella croce nel Mus. del convento di S. Francesco a Castelvecchio Subequo, dove è pure custodita la ben nota Pasquarella, un gruppo in microplastica - raffigurante la Madonna con Bambino e angeli - in argento, datato 1412, dove si compongono in molteplici sfaccettature apporti diversi, specialmente napoletani (Pace, 1972); orafi sulmonesi risultano al lavoro anche in altre città, come per es. all'Aquila (Pace, 1972).Fra tutte le oreficerie trecentesche, la croce Orsini (Romano, 1988), del 1334, proveniente da Rosciolo e ora a Roma (Mus. del Palazzo di Venezia), insieme con le altre che ne dipendono, rimane un'opera i cui connotati stilistici non si sciolgono se si prova ad ancorarli a esperienze figurative diverse da quelle abruzzesi (Pace, 1972; Romano, 1988), mentre non si può dubitare dell'origine allogena degli smalti (Romano, 1988).

Bibliografia

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ARCHITETTURA CISTERCENSE

di M. Righetti Tosti-Croce

Solo relativamente tardi rispetto ad altre regioni italiane, e precisamente sul finire del sec. 12°, l'Ordine cistercense si estese anche in A., ma ciò nonostante in pochi anni esso riuscì a costituirsi come polo culturale ed economico di fondamentale importanza per la storia della regione. Intorno al 1191 o al 1195 (Bedini, 1966) o al 1197 (Monaci, 1894) monaci provenienti dall'abbazia romana delle Tre Fontane si istallarono nei territori donati da Berardo e Maria (o Margherita) conti di Loreto e Conversano sul versante adriatico dei rilievi del Gran Sasso d'Italia, dando vita all'abbazia di Casanova; già nel 1201, a testimoniare il suo rapido sviluppo, l'abbazia era in grado di dare vita a una nuova fondazione, quella di Ripalta sul Gargano in Puglia e, poco dopo, nel 1218, a quella dell'abbazia di S. Pastore a Contigliano presso Rieti.

Dell'abbazia di Casanova rimangono solo ruderi di difficile lettura; quelli della chiesa consentono tuttavia di individuare un edificio a tre navate scandite in cinque campate da pilastri rettangolari, con transetto, coro a terminazione rettilinea affiancato da due cappelle per lato; la copertura era a volte a botte acuta sia sul coro, sia sulla navata centrale. Un edificio dunque totalmente nuovo nel panorama architettonico regionale, ma con ampi precedenti in ambito cistercense e i cui echi appaiono evidenti nell'adozione di formulari architettonici di origine prima borgognona, chiaramente mediati dai cantieri-scuola cistercensi, nell'architettura di edifici cronologicamente e territorialmente vicini. È il caso, per fare solo un esempio, della chiesa di S. Bartolomeo di Carpineto della Nora, fondata nel 962, ma ricostruita alla metà del sec. 13° in forme di chiara impronta cistercense.

Il tema proposto a Casanova della copertura a volte a botte acuta - è tuttavia difficile stabilire se essa fu ovunque integralmente costruita oppure rimase soltanto accennata in alcune parti, così come avviene nella navata centrale dell'abbazia madre delle Tre Fontane, dove una copertura lignea si imposta sull'attacco della volta a botte interrotta, ma peraltro chiaramente avviata dalla curvatura della parte alta delle pareti - appare come uno dei più interessanti sviluppati nel corso del Duecento dall'architettura regionale, anche se in un ambito strettamente legato all'architettura cistercense.

Una soluzione simile a quella delle Tre Fontane venne messa in opera nella navata unica del Santo Spirito d'Ocre, dove però un disastroso restauro, ignorando il problema storico, ha messo in opera una volta a botte acuta; l'edificio strettamente connesso a Casanova costituisce un testo di raro interesse e le sue murature testimoniano meglio di qualsiasi altro documento la storia della fondazione. Il blocco cubico di una sala capitolare appare infatti inserito a forza nelle strutture di un edificio a due piani costituito da spazi rettangolari indifferenziati, appartenente alla prima fase storica della costruzione quando è ricordata come grangia dipendente da Casanova; in seguito, verso la metà del sec. 13°, la fondazione è ricordata come abbazia e a quel momento va datato l'intervento che calò, quasi come un blocco prefabbricato, il blocco modulare della sala capitolare all'interno delle strutture precedenti (Righetti Tosti-Croce, 1983; 1987).

Analoga soluzione di copertura è presente anche nella cappella di S. Maria ad Cryptas presso Fossa, dipendente come grangia dall'abbazia di Santo Spirito d'Ocre; la ricca decorazione pittorica che copre le pareti e che si dispone anche sul muro incurvato di imposta della volta a botte attesta che la soluzione di copertura era prevista fin dall'inizio in queste forme (Righetti Tosti-Croce, 1983; 1987).

Un'altra interessante grangia dipendente da Casanova, quella di S. Maria del Monte presso Campo Imperatore (Righetti Tosti-Croce, 1983; 1987) mostra una distribuzione degli spazi interni analoga a quella di Santo Spirito d'Ocre; l'edificio testimonia anche dell'importante ruolo economico svolto dalla pastorizia e dalla transumanza verso la Puglia nell'economia delle abbazie cistercensi abruzzesi.

L'abbazia delle Tre Fontane diede vita intorno al 1208 anche alla seconda delle fondazioni cistercensi in A., S. Maria in Arabona, presso Manoppello. L'edificio appare oggi in una versione 'ridotta', per quanto riguarda sia la chiesa, sia gli edifici abbaziali; la chiesa, impostata a tre navate con ampio coro rettangolare e due cappelle per lato aperte sul transetto, rimase infatti interrotta all'altezza della prima campata e mostra nelle sue forme architettoniche e plastiche tributi all'architettura di Fossanova e Casamari, ignorati invece dagli edifici di Casanova. Il protrarsi dei lavori lungo tutto l'arco del sec. 13° è provato anche dalla ricca scultura architettonica dell'edificio, tributaria di forme di indubbia matrice borgognona, ma anche sicuramente federiciana, filtrate però attraverso la cultura e la tecnica scultorea degli scalpellini locali.

L'influsso della cultura federiciana appare evidente anche nella S. Maria Maggiore di Lanciano, datata al 1227 da un documento probabilmente falso (Righetti Tosti-Croce, 1978), ma costruita quasi certamente nel settimo decennio del secolo, che propone la soluzione di uno spazio a tre navate confluente nello spazio centrale di un ottagono. È questa una delle idee di più radicale novità nell'architettura italiana gotica proposta sia nel duomo di Siena, sia nella arnolfiana S. Maria del Fiore a Firenze, ma anche in Inghilterra nella cattedrale di Ely. In ambito più locale è da segnalare la soluzione pressoché analoga di uno spazio a navata unica connesso a un ottagono realizzata a Loreto Aprutino verso il 1280.

Dopo la battaglia di Tagliacozzo del 23 agosto 1268, per celebrare la sua vittoria contro Corradino, l'ultimo degli Svevi, Carlo d'Angiò decise di celebrare il suo trionfo fondando nella pianura teatro della battaglia un'abbazia che venne affidata a monaci provenienti da Le Loroux nell'Angiò; nel 1273 venne così decisa la fondazione di S. Maria della Vittoria, costruita a partire dal 1274 in parallelo con l'altra abbazia di committenza angioina, quella di S. Maria di Realvalle presso Scafati in Campania. La costruzione dell'edificio, affidata in un primo tempo a Pierre de Chaule e poi a Henri d'Asson, è documentata passo per passo dai documenti raccolti nei registri angioini fino al 1282-1283.

Anche di questa abbazia rimangono ora soltanto ruderi, spesso di problematica lettura. Se gli scavi promossi nel 1900 hanno portato a una parziale conoscenza dell'impianto della chiesa - a tre navate e coro rettilineo sviluppato in profondità per due campate e della stessa larghezza del corpo longitudinale, con una soluzione analoga a quella del famoso disegno di una pianta di abbazia cistercense del Taccuino di Villard de Honnecourt, impianto oggi peraltro non più riconoscibile - ulteriori indagini di scavo effettuate nel 1986 da Righetti Tosti-Croce hanno messo in luce alcuni ambienti del lato orientale, con elementi architettonici, come la base delle colonnine di un portale, di grande interesse per il loro linguaggio squisitamente transalpino.

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